L’intervento pubblico nell’economia per lo sviluppo delle comunità.

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Il ruolo dello Stato in economia non è solo quello di curare i “fallimenti di mercato”

di Gianfranco Sabattini

In Italia, dopo lo scoppio della recente crisi, il dibattito sul ruolo dello Stato in Economia, a parere di Mariana Mazzucato, ha focalizzato la riflessione quasi esclusivamente sull’impegno prioritario del settore pubblico per ridurre i debiti, quello corrente e quello consolidato; ciò, perché, si sostiene, la riduzione dei debiti è la condizione primaria per rilanciare la crescita. Questa tesi, sostiene la Mazzucato in “Lo Stato innovatore”, è però fuorviante, in quanto la crescita di un Paese non avviene in funzione dei tagli della spesa corrente, ma in funzione degli investimenti pubblici realizzati in aree strategiche, quali quelle dell’istruzione, della sanità e della ricerca per il progresso scientifici e tecnologico. Anzi, può dirsi che gli investimenti costituiscano solo un aspetto dell’intervento pubblico, collocato dal lato dell’offerta di servizi destinati ad aumentare la produttività dei fattori produttivi impiegati nel sistema economico; da soli, però, potrebbero mancare di produrre gli effetti sperati, o quantomeno ritardare il loro manifestarsi, se mancassero d’essere “sorretti” anche da interventi dello Stato, destinati a promuovere l’aumento della domanda aggregata del sistema economico.
L’enfasi posta sulla necessità prioritaria di ridurre il debito (corrente e consolidato), ai fini di un rilancio della crescita, è inoltre fuorviante, perché la riduzione della spesa pubblica, realizzata unicamente, come è avvenuto in Italia, attraverso l’austerità, con tagli indiscriminati della spesa dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali, trascura il fatto, sottolineato dalla Mazzucato, che conta la qualità del debito, non la quantità, se si vuole promuovere, in una prospettiva di medio-lungo periodo, la crescita di un sistema economico. Ciò è quanto l’esperienza ha sinora costantemente evidenziato, ovvero che il settore privato, molto più avverso al rischio di quello pubblico, si è espanso quando quest’ultimo ha operato dal lato dell’offerta, effettuando investimenti in settori strategici del sistema produttivo. Porre l’accento sulla funzione propulsiva degli investimenti pubblici – afferma la Mazzucato – non significa, però, contrapporre pubblico e privato, bensì capire come “ricontestualizzare”, in Paesi come l’Italia, “il dibattito del ruolo dello Stato in economia, lasciandosi alle spalle l’ideologia e andando nella direzione di un ragionamento pratico”, idoneo a consentire di affrontare le sfide economiche, sociali e tecnologiche sollevate dallo stato presente.
In Italia, il dibattito sul ruolo del settore pubblico in economia avviene tra due opposti schieramenti: uno conservatore e l’altro riformatore (denominato anche “progressista” dal punto di vista ideologico). I conservatori, ispirandosi all’ideologia dello “Stato minimo” o dello “Stato guardiano notturno”, sostengono l’opportunità di una spesa pubblica limitata e, quindi, un intervento pubblico nel funzionamento dell’economia assai contenuto; per contro, i riformisti chiedono che lo Stato, in un’economia di mercato, non si limiti a fare osservare le leggi per garantire lo stabile svolgimento dell’attività economica, ma espanda la sua attività, sino ad effettuare una spesa anti-recessiva e a sostegno della domanda del sistema economico.
Ciò, ricorda la Mazzucato, è in linea con quanto sosteneva John Maynard Keynes negli anni Trenta del secolo scorso; ovvero, che “se i governi tagliano la spesa ordinaria durante una fase di contrazione dell’economia, una recessione di breve durata può diventare una depressione a tutto tondo”; è quanto è accaduto in Europa dopo l’inizio della Grande Recessione del 2007/2008, allorché per contrastarne gli effetti negativi, si è scelta la via dell’austerità e della contrazione della spesa pubblica ordinaria. Tale indirizzo di politica economica è risultato ancor più negativo per quei Paesi, come l’Italia, la cui crisi non era di natura congiunturale (cioè, dovuta alla fase negativa del ciclo economico), ma alla bassa produttività dei fattori produttivi impiegati; per cui il contrasto della recessione avrebbe richiesto, non tanto il contenimento della spesa pubblica ordinaria, quanto una sua espansione qualitativamente orientata.
All’affermazione del ruolo creativo dello Stato rispetto ai sistemi economici moderni, ricorda ancora la Mazzucato, non ha concorso solo Keynes negli anni Trenta, ma anche Karl Polany, economista ungherese, negli anni Quaranta; mentre Keynes sottolineava che l’intervento dello Stato in economia non doveva avere solo una funzione anti-ciclica, ma anche una funzione più attiva e propositiva, Polany sosteneva che i presunti “liberi mercati” non erano nati spontaneamente, ma erano una creazione dello Stato e risultavano strumentali al funzionamento dei moderni sistemi economici grazie soprattutto all’azione pubblica.
L’idea dello “Stato minimo” è il risultato dell’eredità storica di una concezione della scienza economica dominante nel primo liberalismo, affermatasi sulla base del pensiero “laissezfairista”. Successivamente si è consolidata l’idea che lo Stato dovesse intervenire solo in caso di “fallimenti di mercato”; per cui, quando alla fine degli anni Settanta del secolo scorso è divenuta dominante l’ideologia neoliberista, sono stati dimenticati i contributi di Keynes e Polany, radicandosi il convincimento che, allorché “gli Stati intervengono in modi che travalicano il mandato che li impegna a correggere i fallimenti di mercato”, originano delle distorsioni nel corretto funzionamento dei mercati, a danno del settore privato.
Tale convincimento non è stato privo di conseguenza; infatti, nel corso degli anni Ottanta, nell’ambito della teoria della scelta pubblica, si è affermato l’indirizzo di pensiero del “New Public Mangement” (NPM), che ha teorizzato l’idea che i responsabili della conduzione del settore pubblico dovessero “prendersi meno spazio possibile”, sulla base del timore – sostiene la Mazzucato – che i fallimenti dello Stato potessero “produrre risultati ancora peggiori dei fallimenti del mercato”; la conclusione è stata che i responsabili delle scelte pubbliche dovessero astenersi dall’intervenire nel libero svolgersi del processo economico.
Il NPM ha messo in discussione l’esistenza di forme di gestione specifiche del settore pubblico, sostenendo la necessità che fossero adattate ai principi e alle tecniche del management privato. In tal modo, l’”aziendalizzazione” del settore pubblico ha favorito lo sviluppo di una governence dell’attività dello Stato ispirata ai principi privatistici di efficacia, efficienza, coerenza e trasparenza.
Tuttavia, a partire dal 2000, sulla base di un altro indirizzo della teoria della scelta pubblica, quello della Public Value Theory (PVT), il NPM è stato criticato, anche a fronte della riorganizzazione del settore pubblico resasi necessaria dopo l’approfondimento della globalizzazione. Secondo i sostenitori della PVT, nelle decisioni del settore pubblico, oltre a quelli strettamente economici, è necessario considerare anche altri aspetti, nel senso che accanto al benessere quantitativo deve essere considerato anche lo sviluppo qualitativo della comunità.
La critica del NPM da parte della PVT ha potuto imporsi, non solo perché le decisioni assunte dal settore pubblico sulla base del primo non hanno portato, secondo la Mazzucato, “ad un aumento della qualità e dell’efficienza”, ma anche perché hanno concorso a minare la fiducia dei cittadini sulla capacità delle istituzioni pubbliche ad affrontare le sfide del mondo contemporaneo. L’intervento pubblico nell’economia, quindi, non deve limitarsi ad integrare le insufficienze delle attività del settore privato; sulla base di forme collaborative, esso deve anche poter influenzare, sia il ritmo che la crescita e lo sviluppo del sistema sociale. Per indirizzare la crescita in modo che risulti conforme alle esigenze delle società moderne, occorre che la collaborazione del settore pubblico con quello privato non si limiti alla “correzione” delle insufficienze del mercato e che i due settori sperimentino ed esplorino nuove modalità di produzione e nuove forme di distribuzione del prodotto sociale.
I Paesi che avevano mancato di sviluppare una collaborazione tra il settore pubblico e quello privato, mancando per decenni di effettuare investimenti pubblici nei settori strategici a supporto della crescita economica, sono quelli che hanno subito le peggiori conseguenze allo scoppio della crisi, registrando successivamente ulteriori difficoltà, quando la crisi finanziaria ha investito i comparti produttivi reali, soprattutto nel caso di Paesi che, come l’Italia, accusavano un alto debito pubblico consolidato.
Per allentare del difficoltà complessive della crisi, i Paesi ad alto debito pubblico consolidato, oltre a ricorrere all’attuazione di una politica di austerità, per contenere la spesa pubblica corrente, hanno anche inaugurato una politica di riforme strutturali, non sempre rispondente alla necessità che il loro impatto sul settore privato risultasse compatibile con il rilancio di una crescita socialmente condivisa del sistema produttivo. Le riforme strutturali, combinate con la politica di austerità, e senza investimenti pubblici nei settori strategici, sono valse a peggiorare la situazione; penalizzando la domanda aggregata per consumi, esse hanno scoraggiato la propensione del settore privato ad investire, con conseguenti effetti negativi sull’incidenza del debito pubblico consolidato rispetto al PIL.
I Paesi (tra i quali l’Italia) appartenenti all’area-euro e caratterizzati da un basso tasso di crescita e da un’insufficiente disponibilità di risorse, piuttosto che continuare a sottostare ai vincoli sinora imposti dai Paesi forti dell’area valutaria comune, dovrebbero agire perché sia inaugurata una politica europea di crescita unitaria, fondata su un’azione congiunta del settore pubblico con quello privato e inquadrata all’interno di un’architettura istituzionale europea che consenta – sottolinea la Mazzucato – “collegamenti dinamici” tra l’uno e l’altro settore.
A tal fine, l’azione congiunta decisa a livello europeo dovrebbe essere supportata dalla possibilità, riconosciuta a ciascuno dei Paesi membri dell’area-euro, di trattare la spesa nei settori strategici “come investimenti in conto capitale”, e quindi liberata, a differenza della spesa ordinaria, dal rispetto dei vincoli degli accordi di Maastricht. Ciò perché gli investimenti in istruzione, formazione del capitale umano, conservazione dello stato di salute dei cittadini e sviluppo scientifico e tecnologico costituiscono il necessario presupposto di ogni azione pubblico-privata finalizzata al rilancio della crescita.
Un’altra esigenza connessa al settore pubblico che intenda andare ben al di là degli interventi utili a porre rimedio solo ai fallimenti del mercato è quella di elaborare una “nuova visione del settore pubblico”, che consenta di considerarlo, non solo come strumento di supporto dell’innovazione, ma anche come insieme di strutture organizzative dotate di competenze avanzate, idonee a rendere possibile l’esercizio di un monitoraggio efficace dell’attività del settore pubblico, a livello sia centrale che territoriale.
In conclusione, a parere della Mazzucato, per il rilancio della crescita dei Paesi europei, sarebbe necessario che l’Unione Europea rivedesse le regole di governance sin qui seguite, fondando la politica comunitaria futura sulla necessità di un ulteriore avanzamento del processo di unificazione politica, tenendo conto soprattutto del fatto che i Paesi in maggiore difficoltà sono quelli che più necessitano di solidarietà sul piano della disponibilità di adeguate risorse finanziarie; questa solidarietà non può limitarsi a misure di finanza creativa, sul tipo di quelle attuate negli ultimi anni dalla Banca Centrale Europea; queste misure sono servite a contrastare la speculazione, ma non a promuovere la spesa per investimenti, sia del settore pubblico che di quello privato.
Oggi, secondo la Mazzucato, la crescita di tutti i Paesi europei potrà essere supportata solo se alla Banca Centrale Europea sarà concesso di intervenire nell’area dell’Unione per svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza e quando sarà possibile “guardare in modo nuovo alla dimensione pubblica delle collaborazioni pubblico-privato”, oggi necessarie per guidare una crescita trainata dall’innovazione, socialmente inclusiva ed ecologicamente sostenibile.
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