Lavoro

buco
Gli effetti del decreto dignità

di Roberta Carlini, su Rocca

Nella divisione dei compiti che si sono dati i due partiti di governo, il tema del lavoro è terreno prevalente del Movimento Cinque Stelle. Non solo perché il ministro del lavoro Luigi Di Maio è il capo di quel partito, ma anche perché sono legate al lavoro le due misure-bandiera sulle quali il più giovane e primo partito italiano ha puntato nella prima esperienza di governo nazionale: prima, il cosiddetto «decreto dignità», che nel luglio scorso ha cambiato le regole del mercato del lavoro disincentivando i contratti a tempo determinato; poi, il cosiddetto «reddito di cittadinanza» introdotto con la legge di stabilità e che in questi giorni vede la sua luce. La seconda misura in realtà ha a che fare più con l’assistenza ai poveri che con il lavoro; ma poiché vincola il mantenimento del reddito alla disponibilità a lavorare – per quelli che possono farlo –, sarà interessante vedere anche i suoi effetti sull’occupazione: c’è chi enfatizza i possibili impatti positivi, confidando nelle politiche attive del lavoro affidate ai sottodimensionati Centri per l’impiego e ai loro nuovi «navigator»; chi teme gli effetti negativi di disincentivo al lavoro da parte di coloro che, potendo godere di qualche centinaio di euro al mese, se ne resterebbero a casa «sul divano». Servirà un po’ di tempo per vedere in pratica l’effetto del reddito di cittadinanza – non certo solo l’impatto del primo mese, che per i 5 Stelle è invece cruciale ai fini del consenso, visto che i primi soldi arriveranno alla vigilia del voto per le Europee. Mentre già ora, grazie ai dati che sono arrivati sia dall’Istat che dall’Inps e dagli uffici del Lavoro, possiamo tracciare un bilancio degli effetti del «decreto dignità».

effetto Di Maio
Quando a fine febbraio l’Osservatorio dell’Inps sul precariato, che diffonde periodicamente i dati sui contratti, ha reso noti i dati del mese di dicembre 2018, il ministro del lavoro ha cantato vittoria. Anche se il suo decreto era stato approvato a luglio, per motivi tecnici gli effetti non si potevano vedere se non qualche mese dopo. E infatti così è stato. Nell’ultima parte dell’anno sono cresciuti i contratti a tempo permanente e sono crollati quelli a tempo determinato. Nel bilancio 2018, questa inversione di rotta ha portato a un aumento complessivo delle assunzioni (più 5,1%), e al loro interno sia di quelle a tempo indeterminato (più 7,9%) che quelle a tempo determinato (più 4,5%). Ma soprattutto si è assistito a un boom delle «trasformazioni», ossia dei contratti a termine trasformati in permanenti: più 76,2%. Tutto bene, quindi?
Non proprio. I numeri finora elencati – sui quali si è soffermata e fermata l’attenzione politica – raccontano una parte della storia. E fanno capire che molte imprese, non potendo rinnovare tutti i contratti a tempo determinato man mano che scadevano, visto che la legge glielo impediva, hanno optato per la trasformazione. Persone che prima lavoravano con un contratto a termine, hanno ottenuto un contratto stabile: ed è una buona notizia. Nello stesso periodo però si sono ridotte le «attivazioni», ossia l’avvio di nuovi rapporti di lavoro; ed è negativo anche il saldo tra attivazioni e cessazioni: infatti per valutare i numeri dell’Osservatorio non bisogna guardare solo a quanti contratti nascono, ma anche a quanti muoiono. Dunque, pare che di fronte al nuovo quadro normativo le imprese hanno scelto di stabilizzare una parte di quelli che avevano già dentro, a scapito dei nuovi. Un piccolo aggiustamento nei flussi della forza lavoro, dato che il numero complessivo di «posti» più o meno è quello, e non si aumenta per decreto. In un’analisi dei dati dell’Osservatorio, il sito reforming.it mette in guardia contro «fattori di persistente debolezza», notando che se si allunga lo sguardo agli ultimi anni le attivazioni nette a tempo indeterminato (ossia la differenza tra contratti nuovi e contratti chiusi) presentano un trend negativo, dopo la fiammata che si era avuta ai tempi del jobs act e delle decontribuzioni per le assunzioni, volute dal governo Renzi.

il lungo periodo
Per capire perché, e individuare i limiti di quello che la legge può fare, dobbiamo andare a un altro testo, il Rapporto sul mercato del lavoro dell’Istat, che mette insieme i dati amministrativi, ossia quelli sui contratti registrati nei dipartimenti del lavoro, e quelli statistici dell’Istituto. È importante vedere questi dati, poiché i contratti non sono «persone»: per capirsi, una stessa persona può avere quattro contratti in un anno, questo non vuol dire che l’occupazione è cresciuta di 4 unità, è sempre la stessa persona occupata. Il Rapporto mette in evidenza il fatto che da dieci trimestri – ossia più di due anni – sale il tempo determinato, che nel 2018 ha raggiunto il suo massimo storico. L’ultimo trimestre è stabile, ma nel complesso siamo arrivati a 3,1 milioni di contratti a termine, il massimo storico in Italia. E questo perché, oltre al diritto, dobbiamo prendere in considerazione l’economia. La struttura produttiva si è spostata sempre più verso i servizi, caratterizzati da lavoro più flessibile e precario: per es. nel commercio e nel turismo. Quindi la struttura dell’occupazione riflette anche quella dell’economia, e incentivi e disincentivi, come le decontribuzioni di Renzi e il decreto dignità di Di Maio, possono avere effetti transitori che poi svaniscono, oppure sono superati da nuovi aggiustamenti resi possibili da altre forme contrattuali.
Allora, guardiamo cosa è successo all’occupazione nel lungo periodo. Nel 2018 la crisi economica ha «compiuto» dieci anni. Rispetto al 2008, siamo tornati più o meno allo stesso livello di occupazione, come numero di persone al lavoro: 23,3 milioni. Il tasso di occupazione è al 58,8%, in salita. Ma è aumentato anche il tasso di disoccupazione, di quasi 4 punti percentuali rispetto al 2008 – perché più persone vogliono lavorare. Non solo. Questa nuova occupazione è, per usare le parole dell’Istat, «a bassa intensità lavorativa»: con meno ore. L’uso dei contratti a termine e di quelli part time fa sì che ci siano «buchi» nella vita lavorativa delle persone, nel corso della settimana, del mese o dell’anno. Rispetto al 2008, abbiamo perso quasi 1 milione e 800mila ore di lavoro. Se l’occupazione è a bassa intensità, lo sono anche gli stipendi: il che spiega perché non si sente traccia, nell’umore delle persone e nella tenuta sociale, di quel benessere che il «boom» dei contratti dovrebbe aver portato.
La fragilità del lavoro deriva dalla fragilità dell’economia, che non si inverte per decreto, ma con un insieme di politiche – economiche, industriali, infrastrutturali – che diano stimolo a una crescita orientata all’occupazione. Si può misurare con la distanza dell’Italia dall’Europa: la tendenza alla diffusione dei lavori brevi, a termine, part time caratterizza tutta l’Unione, ma noi partiamo da un tasso di occupazione storicamente più basso. Se avessimo lo stesso tasso di occupazione della media europea, calcola l’Istat, sarebbero al lavoro quasi 4 milioni di persone in più.

Roberta Carlini

ROCCA 15 MARZO 2019
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