Che cosa ci sta succedendo? Τί εμοί καί σοί, γύναί?

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IL MESSIA CHE RIMANE
16 APRILE 2019 / EDITORE / CONVEGNI E ASSEMBLEE / su chiesadituttichiesadeipoveri

logo76La parola ed il grido. Che cosa ci può salvare? L’intera famiglia umana è il soggetto portatore delle promesse e speranze messianiche, non nella astrazione rarefatta del concetto, ma come una vera comunità politica capace di instaurare un nuovo ordine mondiale

di Raniero La Valle

Intervento introduttivo all’Assemblea di Chiesa di Tutti Chiesa dei poveri del 6 aprile 2019.

Ringraziamo quanti sono venuti, in tanti e da tutte le parti, a questa assemblea, e soprattutto diamo il benvenuto ai giovani, che questa volta sono così numerosi, e prenderanno la parola, secondo l’impegno che ci eravamo dati: mai più un’assemblea senza i giovani. E tanto meno questa può essere senza giovani perché non è un’assemblea come tutte le altre. Essa non è su un tema da svolgere con delle belle relazioni e una tranquilla conclusione da trarre, ma è convocata su una domanda. E la domanda è: che cosa ci sta succedendo?

E non è una domanda qualsiasi, è la madre di tutte le domande. Perché a questa domanda è appeso il futuro, il nostro futuro, o se si vuole, il destino.

Che cosa ci sta succedendo? Τί εμοί καί σοί, γύναί? È la domanda che si legge nella Bibbia, al versetto 4 del 2° capitolo di Giovanni, è la domanda che Gesù fa alla madre alle nozze di Cana, che le nostre Bibbie traducono: “Donna, che vuoi da me?”, ma che letteralmente vuol dire: “Che cosa sta succedendo a me e a te, donna?”

È a partire da questa domanda che cambia tutto. Cambia la condizione della Madre, non più solo la fidanzata, sposa e mamma della oleografia mariana, cambia la condizione del Figlio, che esce allo scoperto, è venuta la sua ora; e cambia l’epoca, cambia la storia, perché Dio ci entra dentro, entra nella storia, da quella piccola porta, in Cana di Galilea.

Quella domanda è di nuovo cruciale: che cosa sta succedendo a me e a voi, oggi? Che cosa ci succede, quando ci sembra di non riconoscere più il mondo in cui abbiamo vissuto, quando la bontà, detta buonismo, viene punita come reato, e allora, come dice Alberto Melloni, tutta la Conferenza episcopale dovrebbe costituirsi? Che cosa ci sta succedendo quando i figli non ci capiscono, non si battezzano, e nemmeno più ci conoscono, anche nelle scelte che sono state dirimenti nella nostra vita? Che cosa ci sta succedendo quando il naufrago finalmente avvista la terra, ma la terra lo respinge, gli dice: “hai voluto prendere il mare, affogaci”? E proprio ieri all’oltraggio si è unita la beffa, si è aggiunto il dileggio: “Andate a Berlino! Sbarcate a Berlino!” Che cosa ci succede quando una donna non può partorire perché sul barcone non c’è spazio per allargare le gambe? O quando gli evasi dai campi di tortura vi vengono riportati a forza per un accordo tra governi? Che cosa ci sta succedendo quando il mondo è finalmente unito, globale, basta un clic per entrare nella Borsa di Tokio, le due Americhe hanno le stesse scuole di polizia, le stesse centrali dove si organizzano colpi di Stato e governi, si riapre la via della seta e merci e commerci fioriranno, quando insomma tutto si unisce nel mondo globale, ma mai i popoli sono stati più frantumati e divisi, carne spezzata per il sacrificio ma senza alcun miraggio di una comunione? Che cosa ci sta succedendo quando si costruiscono muri perfino a separare le corsie, per arabi ed ebrei, sulle autostrade in Palestina? Che succede se si alzano muri sui confini, e li si concepiscono più alti della torre di Babele, ma con la stessa ottusa arroganza? Che ci succede quando un ricco ha metà di tutte le ricchezze della terra e i poveri, come ai tempi di Amos profeta, sono venduti per un paio di sandali, anzi di infradito? E quando per un euro di salario che prende un operaio, il suo capo azienda ne prende 400? Che ci succede quando invece di fermare le catastrofi del clima, come orma ci chiedono perfino i ragazzini, si investe denaro per conviverci, per competere ed aumentare il PIL con le catastrofi? Che cosa ci sta succedendo quando creiamo un’intelligenza artificiale che non sente, non ama, non piange, non ride, non si cura di essere uomo o donna, però è un’intelligenza sterminata, non ha il nostro limite, e perciò le permettiamo tutto, la deleghiamo a tutto, le chiediamo di fare tutto?

Che cosa sta succedendo. Quello che sta accadendo è un cambio d’epoca. Cambia lo scenario, come quando si scoprì la lente convessa, e col telescopio scoprimmo l’infinitamente grande, e col microscopio l’infinitamente piccolo, ed ora col digitale scopriamo l’infinitamente complesso; però questo complesso non lo possiamo dominare; abbiamo sì la scienza dell’infinitamente calcolabile, però le resta estraneo il calcolo della vita, della libertà, della grazia, del dono.

Noi siamo sulla porta da cui passa questo cambiamento. Ne vediamo i pericoli, ma che cosa possiamo fare? Non abbiamo partiti, né leader, né dottrine politiche, né economie alternative; abbiamo invece al governo, sparsi nel mondo, degli apprendisti stregoni, e qualche dottor Stranamore.

Che cosa allora ci può salvare? Non siamo i primi a chiedercelo.

Quando già si profilava la crisi di questo passaggio d’epoca, a tre quarti del 900, un grande filosofo tedesco affermò, non in una lezione universitaria ma in un’intervista destinata al grande pubblico, sullo Spiegel, che ormai solo un Dio ci poteva salvare. “Ormai”. Ormai voleva dire per lui che l’uomo era sotto scacco da parte della tecnica, la quale “nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare”, e che non può stare nelle regole di alcun sistema politico. La tecnocrazia è diventata così potente che nessun sistema politico conosciuto le può rispondere, le può dare una regola, la può ricondurre a una norma. E di fronte a un mondo e a una società determinati dalla strapotenza planetaria della tecnica, disse, né la filosofia né alcun altra mera impresa umana potrà produrre alcuna modificazione dello stato attuale del mondo, ma lo potrà fare solo l’eccedenza della poesia, dell’inedito, del non ancora pensato; e perciò concludeva, l’unica possibilità era di predisporsi all’apparizione oppure alla “contumacia” di Dio.

Più tardi, quando si profilava la fine del comunismo e il mondo sprofondava sempre più in un sistema di dominio e di guerra, un grande intellettuale nostro, Claudio Napoleoni, percepiva che un’uscita per via puramente politica dalla crisi era impossibile, e poneva la domanda se non fosse valida quella sentenza di Heidegger, che ormai solo un Dio ci può salvare.

Questa domanda, nel senso in cui egli la poneva, non voleva dire volgersi all’attesa di un miracolo, ma significava che per rovesciare tutto un corso storico giunto a questi esiti distruttivi, occorrevano “degli atti, delle operazioni di apertura verso la divinità, di eccezionale fervore nei confronti degli altri, degli atti, insomma, che non sono degli atti politici normali, sono degli straordinari atti di amore e di sacrificio, all’infuori dei quali da questa situazione storica non si viene fuori”.

Questo rovello che la cultura ha piantato nel cuore del corso storico alla vigilia del III millennio, in cui siamo entrati, precipita qui ora nella nostra assemblea, e legittima la questione che in essa viene posta, se non debba darsi una lettura messianica della crisi. Perché i beni che abbiamo perduto o che non riusciamo a conseguire sono così importanti per noi che fin dalle profondità della storia furono considerati beni messianici – la pace, la giustizia, l’unità umana – e furono oggetto di promesse messianiche. Oggi però sono finiti i messianismi ideologici e politici del Novecento, e questo nuovo messianismo del capitalismo realizzato sta spiantando la terra. E non ci sono da aspettarsi altri Messia.

Che fare dunque? Se davvero scopriamo le carte, noi possiamo dire che c’è un messia che rimane. Non è vero che non c’è. È l’intera famiglia umana questo soggetto messianico, ma non nella astrazione rarefatta del concetto, bensì nella sua concretezza come una vera comunità politica; l’unità umana come un ordinamento; non è il populismo, è il sovrano popolo di Dio che nello stesso tempo è anche una comunità ministeriale e profetica, come il cristianesimo l’ha svelato, l’ha annunziato.

Tuttavia, come il vero Messia, noi, l’umanità istituita, siamo un messia disarmato. Però una risorsa l’abbiamo. Abbiamo la parola.

La parola è coeva al mondo, è nata con lui, stava in principio, l’ha tenuto in vita, l’ha raccontato nella sua evoluzione. Con la parola abbiamo dato nome alle cose, cioè le abbiamo fatte esistere per noi. Con la parola ci siamo promessi fedeltà, come sposi, ma anche come popoli che si sono dati un patto, hanno scritto Costituzioni e leggi.

La parola è potente, governa, ci può perdere con i suoi editti, ma anche salvare.

Voglio farvi una confidenza, soprattutto ai più giovani. Io mi sono chiesto più volte che cosa ha salvato la mia vita, che cosa l’ha resa così lunga e benedetta. Fino a ieri io rispondevo: sono state le due vestali, le due forze della mia vita: il lavoro e l’amore. Dall’inizio e fino ad ora. Ma ora mi sono accorto che è stata la parola. Ho lottato perché non mi fosse tolta la parola. Ho vissuto per ascoltare, per dire, per scrivere la parola. Ho capito che quello che salva, che crea, che mantiene in vita, è la parola. È perché si abbia la parola che la vita è data, è quando si toglie la parola che la vita è tolta. Don Milani aveva capito che doveva dare la parola a quelli che non l’avevano, perché fossero uomini, fossero cittadini; e quando noi neghiamo la parola alle donne nella chiesa, o non gliela facciamo scrivere, sull’ “Osservatore Romano”, noi neghiamo il loro esserci per sé, e pretendiamo che esse siano solo per noi, per servire, “ratione servitutis”, come fu la motivazione della loro esclusione dai ministeri.

La parola si è fatta mettere in croce pur di non tacere, non solo quel giorno sul Golgota, ma fino ad oggi. La parola è quella che non solo descrive le cose, ma le decifra, e se le decifra, le salva.

È questo che facciamo oggi, mettiamo in campo la parola. perché non si perda la speranza.

Eppure sentiamo quanto la nostra parola sia debole, quanto sia inascoltata.

Però questa parola non resta sola. La parola si incontra col grido. Col grido dei popoli, col grido dei poveri, col grido della terra, col grido dell’immagine di Dio che si scolora sul volto della donna e dell’uomo, col grido delle vittime di tutte le armi, di tutte le guerre, il grido di tutte le madri che, come cantava Quasimodo, vanno ”incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo”.

Ebbene, noi sappiamo che questo grido è efficace. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta», come dice il Salmo (34,7), ripreso dal papa nel suo messaggio per la “giornata mondiale dei poveri”. Se fu la parola creatrice a far nascere i mondi, a separare la luce dalle tenebre, a porre dei luminari nel cielo e a mettere il chiavistello al mare, perché fino a quel punto giungesse e li infrangesse per sempre l’orgoglio delle sue onde (come dice il libro di Giobbe, 38, 10) è stato invece il grido dei poveri, il grido degli oppressi che ha avuto il potere di tirare giù Dio dal cielo, di fargli dire chi fosse, di far manifestare al mondo il Sé di Dio, e con il Sé di Dio il “Me” di ogni umana creatura,

Infatti, come racconta il libro dell’Esodo, all’udire il grido del suo popolo prigioniero in Egitto, Dio non solo mandò Mosè, il balbuziente, a liberarlo, ma fece ben di più, rivelò se stesso agli uomini. Perché gli uomini fossero liberati Dio si chiamò per nome, disse l’ “Io sono”, e così farà Gesù nel Vangelo di Giovanni, fondando, come dicono i filosofi[1], “l’Ipseità assoluta del soggetto”, cioè l’insuperabilità di ogni persona umana, irriducibile al mondo, ma ciascuno cercando il volto dell’Altro, dimorando l’uno nell’altro, amando e vivendo nell’altro.

Tale è la potenza del grido. Ascoltando questo grido, assumendolo nella potenza della parola, perfino delle nostre parole, forse oggi possiamo dire che la salvezza è più vicina di quanto mai possiamo pensare. I dominatori di questo mondo hanno la Tecnica, hanno il Denaro. Noi abbiamo la parola. La parola muove le montagne. Nella lunga notte, come nella lotta di Giacobbe con l’Angelo, è la Parola che vince. La speranza è vicina. L’oggetto di questa speranza può sembrare iperbolico; eppure è il nucleo stesso del messaggio cristiano. È la soluzione messianica della crisi. È il papa in Campidoglio, non i voltagabbana vestiti da guerrieri.

Raniero La Valle

[1] François Jullien, Risorse del cristianesimo, Ponte alle Grazie 2019.
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