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Editoriali
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27 gennaio “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”
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Il 1° novembre 2005 nella ricorrenza dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito la “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”, ogni anno, il 27 gennaio.
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Il Presidente nazionale ANPI, Gianfranco Pagliarulo, sul Giorno della Memoria: “Il 27 gennaio non sia solo una celebrazione, non si banalizzi una tragedia che ha segnato l’umanità”
“Il 27 gennaio il Paese si raccoglierà intorno a volti e vicende che hanno segnato tragicamente la storia del ‘900. L’ANPI auspica fortemente che questo giorno non si esaurisca in una pur necessaria celebrazione, in una banalizzazione di un evento mostruoso per l’umanità, bensì sia un momento di riflessione coinvolgente, la base di un messaggio di civiltà, antifascismo, e democrazia che proviene dal sangue dei campi di concentramento. La chiamiamo memoria attiva, perché il ricordo non ha senso se non si esercita la sua portata educativa nel presente. Ogni giorno, ogni incontro, ogni impegno, ogni battaglia. È un dovere, oltreché l’unico omaggio possibile, perché tangibile e duraturo, alle vittime della deportazione e ai combattenti per la libertà”.
Gianfranco Pagliarulo – Presidente nazionale ANPI
25 gennaio 2021
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MEMORIA ATTIVA
27 gennaio, Giorno della Memoria: il manifesto dell’ANPI.
Iniziative in tutta Italia promosse e co-promosse dai Comitati provinciali e dalle Sezioni dell’ANPI.
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—-Oggi succede anche questo—-
I negazionisti compiono un nuovo olocausto
di Carla Maria CasulaIl 15,6% degli Italiani nega l’esistenza dell’olocausto. È quanto emerge dal rapporto Eurispes 2020. Una percentuale che desta allarme e nella giornata dedicata alla Memoria risuona come blasfema.
Oltre alle motivazioni che attingono linfa dall’humus politico, oltre all’ignoranza (intesa come “non conoscenza” della tematica, della storia e del contesto politico), amplificata dalle notizie false o manipolate che circolano nella Rete, ci si domanda che cosa possa indurre un numero allarmante di individui a negare una delle pagine più vergognose e strazianti della storia dell’umanità.
Rispetto a coloro, per lo più appartenenti a frange di estrema destra, che a rischio di provvedimenti penali celebrano gli orrori della Shoah, inneggiando alla follia nazista che ha progettato la “soluzione finale”, i negazionisti (che scelgono questa condizione per convenienza, giacché, molti di essi, in realtà, aderiscono alle ideologie filonaziste) sono più subdoli, perché di fatto negano l’argomento della disputa, quindi non si espongono. E, restando in quel limbo artefatto, non si assumono la responsabilità del proprio pensiero, dunque quella posizione, scelta con oculatezza, li rende esenti da critiche, rimproveri e meritata indignazione.
Ma non si creda che negare l’olocausto sia meno grave che condividerlo. Oltre all’esecranda condivisione e glorificazione dello sterminio di milioni di Ebrei, anche il negazionismo concorre a rinnovare quell’orrore. Perché negare equivale a disconoscere l’inferno dei lager, a calpestare la disperazione dei martiri uccisi per un cognome ebreo, a infangare l’atrocità delle torture, della fame, della sete, del sonno abortito in quei pancacci dei dormitori, simili a loculi sporchi e sovraffollati. Perché negare significa oltraggiare il pianto dei bambini e delle gestanti, vittime degli esperimenti medici senza anestesia, significa dileggiare le urla disperate di coloro che non superavano la selezione, in quanto ritenuti inabili, e venivano condotti nelle camere a gas.
Ed è naturale chiedersi come sia possibile negare quegli eventi storici di cui abbiamo testimonianze fotografiche, diaristiche, architettoniche. Il campo di concentramento di Auschwitz I, rimasto intatto (compresi i forni crematori, le camere a gas, il blocco 10 degli esperimenti, il muro della morte), oggi adibito a museo della Shoah, racconta la catalogazione meticolosa, effettuata dai Nazisti, di fotografie, in particolare di bambini, sottoposti a esperimenti medici, la raccolta di montagne di capelli dei deportati, la catasta di scarpe e di altri oggetti personali appartenuti agli internati. Abbiamo gli scritti di Primo Levi e di altri sopravvissuti, i resoconti lucidi, dettagliati, convergenti dei superstiti, tra cui Samuel Modiano e Liliana Segre.
Date le succitate prove concrete e inoppugnabili, sembra impossibile che individui, dotati di funzioni cognitive integre, possano negare ciò che risulta palesemente innegabile. Eppure accade, nei contesti pubblici e nel privato. Ed è evidente che ciò che per gli altri è logico, per i negazionisti non lo sia: gli accadimenti storici, definiti appunto “storici” in quanto suffragati da prove e testimonianze, non possono essere sposati o meno, a seconda della fede politica e religiosa, della formazione culturale, della mentalità, del tornaconto personale. Non è ammissibile poter scegliere se credere e accettare, oppure disconoscere. La verità storica non consente questa seconda opzione.
E se le lodevoli iniziative organizzate nell’ambito della Giornata della Memoria, volte a sensibilizzare nei confronti di questa immane tragedia storica, possono sortire effetti positivi tra i più giovani, si rivelano pressoché inutili verso i negazionisti incalliti, ciechi e sordi persino di fronte all’orrore tatuato con cifre di morte sull’avambraccio dei deportati.
Uno dei cavalli di battaglia dei negazionisti è rappresentato dalla dimostrazione di falsità del diario di Anna Frank. L’obiettivo è quello di negare, muovendo dalla non autenticità di alcune parti dell’opera, l’esistenza storica della ragazzina, la deportazione, il suo inferno, prima nel lager di Auschwitz–Birkenau, poi di Bergen-Belsen e, infine, sconfessare l’olocausto. In pratica, non potendo smentire in nessun altro modo la granitica verità storica, ci si appiglia ad alcuni dettagli, strumentalizzandoli, e utilizzando il subdolo argomento “Falsus in uno, falsus in omnibus”, per negare la Shoah.
Otto Frank, dopo la morte della figlia, revisionò l’opera, omettendo alcuni aneddoti personali della giovane, modificò alcune parti e ne aggiunse delle altre. Ma questo intervento, atto a preservare l’intimità di Anna e a rendere gli scritti della ragazzina più fruibili in vista della pubblicazione, nulla toglie all’autenticità generale del diario, al suo valore come testimonianza diretta prima della cattura e non inficia in alcun modo l’esistenza storica della giovane, né la sua deportazione nei campi di concentramento, né la veridicità dell’olocausto. Eppure c’è chi getta discredito nei confronti della figura dell’adolescente ebrea, negando la sua esistenza, o definendola mistificatrice. Sottraendola, di nuovo, ai suoi anni migliori e uccidendola per la seconda volta.
Nell’immaginario collettivo i numeri sono effimeri, ma ci sono cifre che pesano come macigni.
Quel 15,6% di Italiani che nega l’olocausto ha rimesso in moto i vagoni-bestiame, sigillati e dotati esclusivamente di prese d’aria, che trasportavano i deportati verso l’inferno, con temperature rigidissime o al caldo asfissiante, senza cibo, né acqua e senza la possibilità di usufruire di servizi igienici, utilizzando un secchio nel quale espletare i bisogni fisiologici. Quel 15,6% che nega l’olocausto ha riacceso l’agonia per la selezione e ha fatto riecheggiare le urla di chi è stato dichiarato inabile e condotto nelle camere a gas. Quel 15,6% ha compiuto un nuovo olocausto.Carla Maria Casula
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