Che succede oltre il cortile?

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SALVINI TRUMP E L’EUROPA
varie partite in gioco

di Andrea Gaiardoni, su Rocca

Il leader della Lega Matteo Salvini è volato a Washington il 17 giugno scorso, per una serie d’incontri formali con i vertici del governo degli Stati Uniti. Non ha incontrato il presidente Trump, anche se era proprio quello il bersaglio grosso, il «bingo» mediatico da riportare in Italia e da esibire come un trofeo: sarebbe bastata una stretta di mano, un incrocio fugace, anche senza troppe chiacchiere o cerimonie, una pacca sulla spalla, un flash e via. Ma niente da fare: gli strateghi leghisti non sono riusciti nell’impresa. Almeno per questa volta, in futuro si vedrà, dipende da molte variabili. Salvini è stato tuttavia ricevuto da due pezzi da novanta della casa Bianca: Mike Pompeo, Segretario di Stato, e Mike Pence, Vicepresidente degli Stati Uniti. E non è risultato da poco per un personaggio politico che in patria ha acquisito con estrema rapidità un carisma insperabile fino a pochi anni fa, grazie alla sua capacità di dialogare con la pancia dell’elettorato e abile anche a sfruttare la pochezza in campo dei suoi competitor. Ma che a livello internazionale ha ancora la credibilità di uno studentello in gita, con tutto da imparare e molto da promettere e rassicurare.

un esame di maturità per il leader leghista
Ma perché Salvini è andato a Washington? Quale urgenza aveva? E soprattutto, quale risultato ha portato a casa? Tutte domande a risposta multipla. Con due capisaldi da tenere bene a mente. Il primo: non puoi diventare premier in Italia se non sei conosciuto, analizzato, «pesato» e soprattutto approvato dalla Casa Bianca. Serve quel placet, obbligatoriamente. Soprattutto se il tuo spessore internazionale è prossimo allo zero. E nonostante tu sia lanciato verso la conquista di Palazzo Chigi (cosa che gli americani hanno capito bene). Secondo: i politici italiani con incarichi di governo, storicamente, volano a Washington per «ascoltare preziosi consigli» dall’alleato per eccellenza: da De Gasperi a Andreotti, da Craxi a Berlusconi, con differenti gradi di prestigio e di acume (sempre politico): nessuno è riuscito a sottrarsi al passaggio, a quella sorta d’inchino. C’è chi la chiama lealtà, chi invece lo definisce servilismo. E di solito (quasi sempre) da quei viaggi i nostri politici tornano con un compitino nella borsa, da eseguire senza sbavature, senza sporcare d’inchiostro il quaderno. Salvini non fa eccezione: anzi stavolta torna a casa con un esercizio un po’ diverso da eseguire: una sorta di pre-esame di ammissione all’università della politica, una valutazione di affidabilità. Se supererà tutte le prudenze e le diffidenze (compresa quell’amicizia così ostentata con Putin), magari in un prossimo futuro riuscirà perfino ad ottenere un incontro con Trump, a favore di fotografi.

partita su più tavoli
Questo se il viaggio lo si osserva dal versante americano. Ma il capo della Lega sta giocando, con abilità tutte ancora da dimostrare, diverse partite su più tavoli. Anzitutto quella interna: fin quando si accontenterà di avere un ruolo defilato nel governo, in compagnia di quel Movimento 5 Stelle assai appannato dai risultati elettorali e da capi incapaci di brillare? Arriverà un giorno in cui il leader della Lega staccherà la spina al governo, prendendo a pretesto uno dei mille e mille motivi di attrito che l’hanno portato fin qui, in questi anni di coabitazione forzata. E sono in molti, all’interno della stessa Lega (ma anche delle altre formazioni di centrodestra che tanto vorrebbero tornare a presidiare un governo, anche se a guida leghista), a spingere affinché questo scenario diventi realtà in fretta, prima possibile tanto da consentire il voto in autunno. L’onda delle elezioni dovrebbe premiarlo con numeri incontrovertibili. Ma sarebbe come passare dalla guida automatica ai comandi manuali, e l’Italia è un paese dove le turbolenze non sono rare. Bisogna saperlo fare, altrimenti il rischio di bruciarsi diventa alto.
Il secondo tavolo, collegato a doppio filo al primo, è l’Europa. Un tavolo di enorme importanza. Qui Salvini ha provato a giocare una partita da protagonista, ma finora i risultati sono stati deludenti. Ha annunciato la formazione di un gruppo sovranista e si è ritrovato praticamente in compagnia della sola Marine Le Pen, un’altra che vince in patria e conta assai poco sulla scena internazionale, più altre formazioni di contorno, dopo aver incassato tra gli altri i pesanti no di Orban (Ungheria), Kaczynski (Polonia), Farage (Gb). Il risultato è che la Lega e in generale il governo italiano si ritrova escluso da tutti i tavoli che contano, nonostante gli affanni del premier Conte e gli sforzi del presidente Mattarella, l’unico al momento in grado di mantenere una statura spendibile a livello internazionale (e l’unico interlocutore scelto dai più influenti leader europei per tentare di salvare la situazione). Quindi, cosa fare con quell’Europa che insiste con la procedura d’infrazione per il caos dei nostri conti, con il debito pubblico oramai fuori controllo? Il messaggio del leghista, al rientro dal viaggio americano, è stato chiaro: «In questo momento di fragilità delle istituzioni europee, l’Italia punta ad essere il più valido, credibile e coerente interlocutore degli Stati Uniti». Ma non solo. Ha parlato di tasse, dei vincoli europei e dell’esempio americano: «L’Italia ha un governo stabile che ha come obiettivo prioritario l’abbassamento delle tasse. Se ce lo permettono nel rispetto dei vincoli siamo felici, se no le tasse le abbassiamo comunque». Per poi buttare in pasto ai media il solito slogan da masticare nei titoli: «Al pari di America first, per me c’è Italia first. Se ci lasciano fare l’Italia, non abbiamo paura di niente e di nessuno e quindi contiamo nel buon senso di Bruxelles. Pensiamo di avere un buon alleato negli Usa». Un messaggio inequivocabilmente inviato a Bruxelles: l’Unione è fragile, gli Stati Uniti sono ancora il nostro ombrello, qualunque temporale arrivi. Non siamo soli. Siate cauti con le vostre procedure d’infrazione. Abbiamo tutti da perdere da uno scontro frontale. Se Salvini romperà con l’Europa, con tutte le conseguenze che una scelta del genere comporterà per il paese, costruirà la sua prossima campagna elettorale (ormai permanente) proprio su questa frattura. Mentre Trump potrebbe solo esultare di fronte a un’Unione Europea più debole.

la questione cinese
Ma ci sono altri compiti nel pacchetto che l’amministrazione Trump ha consegnato al leader leghista. C’è la questione Cina, ad esempio. Altra questione estremamente delicata. La Casa Bianca chiede di alzare un argine a protezione dei mercati, nel tentativo di frenare l’avanzata impetuosa dei colossi dell’hi-tech cinesi, Huawei e Zte, nell’esportazione della tecnologia 5G, la quinta generazione della connessione per dispositivi mobili. L’estate scorsa Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Giappone hanno vietato alle aziende cinesi di intervenire nella realizzazione della rete 5G, per motivi di tutela della sicurezza nazionale. Mentre l’Italia, pochi mesi fa, firmava un

memorandum commerciale con la Cina a sostegno della «Nuova via della Seta» («È un grande progetto, una grande opportu- nità», dichiarava il premier Conte), salvo poi fissare paletti e puntelli proprio sulla questione 5G. La posizione italiana è stata criticata sia dall’Unione Europea («No a trattative bilaterali, serve una posizione condivisa») sia dagli Stati Uniti, che sono passati direttamente al pressing sulle amministrazioni dei paesi amici affinché prendano analoghe posizioni d’intransigenza verso l’espansione cinese.
All’annuncio dell’accordo sul memorandum, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giorgetta, era stato ricevuto (convocato?) dall’ambasciatore Usa in Italia Lewis Eisenberg. Un incontro che era esplicitamente servito per «tranquillizzare l’Amministrazione Trump» in vista dell’accordo che il governo italiano stava per firmare con la Cina. E questo ha fatto ribadire l’altro giorno Trump a Salvini, in maniera molto chiara e diretta: sul 5G e sulla realizzazione delle reti tlc di nuova generazione non devono essere utilizzate tecnologie progettate e sviluppate da Huawei e Zte. «Un conto sono i memorandum sull’agroalimentare, che non danno fastidio a nessuno, un altro le compartecipazioni strategiche», si è affrettato a dichiarare Salvini, mentre ancora calpestava il suolo americano. «Quando c’è di mezzo la sicurezza nazionale il business si deve anche fermare. Accompagnare la crescita delle aziende italiane nel mondo è un nostro diritto e dovere, ma controllare che non ci siano intromissioni di Paesi non democratici in infrastrutture fondamentali come la tecnologia, le tlc e l’energia è indispensabile». Parole accolte subito con favore dai media americani, convinti che Salvini sia «il leader europeo che più somiglia a Trump». Mentre il Washington Post scrive: «È la testimonianza che il modo migliore per avere buoni rapporti con l’Amministrazione Trump è di essere un po’ come il presidente stesso». Come dire: obbedisci, fai come me e saremo amici.
Venezuela, i caccia F35 e la solita gaffe
L’allineamento della Lega sul binario trumpista non finisce qui. Perché per avere il sostegno americano e conquistare quella benedetta stretta di mano, c’è un prezzo da pagare. Situazioni da risolvere, orientando le soluzioni sul binario che più aggrada all’alleato Stelle e Strisce. E servono fatti, non bastano le chiacchiere. La questione dei caccia F35 ad esempio, ordinati, osteggiati (dai 5Stelle) e peraltro non ancora pagati. («Gli accordi sottoscritti non si possono rimangiare. Investire in ricerca coinvolgendo il lavoro italiano è utile e sano», ha dichiarato Salvini al proposito).
Ma c’è anche l’agenda internazionale: la questione Venezuela (ha promesso il riconoscimento immediato di Guaidò, o comunque l’impegno a convincere gli alleati: «Se fosse stato per me il riconoscimento ci sarebbe già stato»); l’Iran («Sono contento che l’Italia già da tempo abbia allentato le relazioni economiche con Teheran perché continuo a dire che nel 2019 un paese che vuole cancellare l’esistenza di un altro paese, cioè Israele, non ha diritto di parola»); la Libia («Spero si possa trovare una soluzione pacifica che coinvolga tutte le parti»). Poi la richiesta di adesione al negazionismo ambientale di cui Trump si sta facendo portavoce, di fatto infischiandosene di tutti gli allarmi e chiedendo all’Italia di portarsi su posizioni analoghe (anche queste potrebbero portare a una collisione con l’Unione Europea). Tra gli argomenti che la Lega non farà fatica a sposare è la diffidenza, chiamiamola così, verso le migrazioni, da osteggiare e bloccare a qualsiasi costo. «È stato un incontro positivo, concreto, diretto», ha commentato infine il leader della Lega. Condito dalla solita gaffe che non manca mai nel repertorio salviniano. «Una volta a Washington andammo alla scalinata di Rocky», ha raccontato l’aspirante premier durante la visita al Lincoln Memorial, subito corretto dall’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Armando Varricchio: «Sì, certo, ma a Philadelphia». Comunque sia, la verifica di questo primo esame sarà in autunno, quando Salvini ha invitato in Italia il Segretario di Stato, Mike Pompeo. Sarà il momento del bilancio, del giudizio finale. Si vedrà quanti risultati avrà portato a casa e con quale grado di serietà. Riuscirà, l’aspirante premier a ballare sull’asse Trump-Putin riuscendo a mantenere una sorta di equilibrio senza farsi divorare dai due pesi massimi sullo scacchiere internazionale? Riuscirà a utilizzare queste buone relazioni per ottenere migliori condizioni per l’Italia in Europa? Sarà necessario, da parte americana, un ulteriore esame di affidabilità? Si vedrà, probabilmente in tempi brevi. Mentre l’opposizione, in Italia, continua a giudicarlo impalpabile, perciò malleabile e quindi pericoloso: «La visita di Salvini negli Usa? Ricordo qualcosa che risale alla Prima Repubblica, ma visite così sdraiate sulle esigenze americane come questa non ne ho mai viste», è stato il commento amaro di Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd, oggi deputato di Liberi e Uguali.
Andrea Gaiardoni
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ROCCA 15 LUGLIO 2019
SALVINI TRUMP E L’EUROPA
rocca-14-luglio19
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Intanto sul Corriere della Sera online
Il report (segreto) su Trump dell’ambasciatore inglese a Washington: «Inetto e incapace »
I giudizi pesanti di Kim Darroch, ambasciatore inglese a Washington, che erano in appunti segreti divulgati dal quotidiano inglese Mail
«Non crediamo davvero che questa amministrazione diventerà sostanzialmente più normale, meno disfunzionale, meno imprevedibile, meno faziosa, meno diplomaticamente goffa e inetta»
Il report (segreto) su Trump dell’ambasciatore inglese a Washington: «Inetto e incapace »
«Goffo, incompetente, inetto», così Kim Darroch, l’ambasciatore inglese a Washington, avrebbe definito Trump in alcune note informative che avrebbero dovuto restare segrete ma sono state divulgate dal quotidiano inglese Mail . I giudizi nei confronti del presidente americano, se confermati, sarebbero davvero pesanti. Il quotidiano britannico avrebbe avuto accesso ad appunti importanti di sir Darroch il quale sosterrebbe che la carriera del presidente Usa potrebbe finire in «disgrazia». Una contestazione vera e propria di Trump da parte di sir Darroch il quale svelerebbe conflitti all’interno della Casa Bianca e sosterrebbe che le sue politiche economiche potrebbero distruggere il sistema del commercio mondiale. In uno dei documenti più delicati – sostiene il Daily Mail, l’ambasciatore scrive: «Non crediamo davvero che questa amministrazione diventerà sostanzialmente più normale, meno disfunzionale, meno imprevedibile, meno faziosa, meno diplomaticamente goffa e inetta».
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Abbiamo postato la notizia del Corriere della Sera online su fb, intitolando Il re è nudo.
Un nostro lettore replica: …ha ridotto la disoccupazione a zero.
Il nostro commento al riguardo (sempre su fb).
Non è proprio così. Infatti: è vero che “Quasi trecentomila nuovi posti di lavoro e un tasso di disoccupazione sceso a nuovi minimi da quasi mezzo secolo a questa parte, dal 1969″. Ma: “La forza lavoro americana… si è contratta di mezzo milione di persone” [in sostanza la diminuzione della forza lavoro (-500.000) non è compensata dagli incrementi di occupazione (+300.000)]. E… “I salari aumentano poco… I compensi rimangono uno dei punti più deboli d’una crescita che in questi anni, nonostante la continua marcia, è stata caratterizzata da significative disparità e diseguaglianze”. I poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. W l’Europa e perfino W l’Italia, sempre che non ci distruggano ulteriormente il nostro welfare. Negli USA se non hai una carta di credito con depositi consistenti, avendo problemi di salute, devi rassegnarti a morire. Fonte: https://www.ilsole24ore.com/art/disoccupazione-usa-minimi-mezzo-secolo-ma-salari-non-decollano-ABZ0v0tB?fbclid=IwAR0A__yqgxQ4RcU3uNi9y35EGj1_zI_VO4LNX9X5qo2w07KwhvP3LMYshCo
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