GAVINO e I DUE MANOSCRITTI

Ieri 7 luglio 2019 alle 12:09 su fb.
Ho scritto moltissimi anni fa questo racconto, ispirato da vecchie letture che mi avevano affascinato, appartenenti alla narrativa di altri paesi, di altri continenti.. Era rimasto per tantissimo tempo archiviato nei cassetti della memoria. E’ un racconto di pura fantasia e non contiene riferimenti a persone o fatti reali. L’ha recentemente letto un’amica narratrice, colta e intelligente ma, haimé, spesso in disaccordo con me in materia di politica (vero Nadia?) che l’ha trovato interessante. Magari sotto l’ombrellone si può leggere… (Raffaele Deidda).

iscrizioneGAVINO E I DUE MANOSCRITTI
di Raffaele Deidda
Quel giorno Gavino si alzò presto. Guardò fuori dalla finestra e vide le foglie degli alberi che si staccavano dai rami e volavano via, catturate dai mulinelli d’aria. L’estate cedeva ai chiari assalti dell’autunno. Scelse dall’armadio guardaroba un giubbotto nero, una camicia a quadri bianchi e marron e un pantalone beige di velluto. Pochi minuti dopo uscì dall’appartamento. Il taxi lo trasportò dalla vicina periferia londinese in centro città in poco più di 15 minuti. Scese al Fashion Café. Ordinò un cappuccino e se lo portò ad un tavolino all’esterno del locale. Stare all’interno gli dava un forte senso d’inquietudine. Aspettò l’arrivo del ragazzo contattato su facebook. Era emozionato e inquieto al pensiero che per duemila euro si sarebbe impossessato del manoscritto alla cui ricerca suo padre aveva dedicato tanti anni della sua vita, senza riuscire ad ottenerlo. William arrivò puntuale. Gavino lo riconobbe pur avendolo visto solo una volta in fotografia.
– Hai la …la cosa?
– Si certo. Sai, non avrei voluto disfarmi di questo manoscritto che immagino sia antichissimo. L’ho trovato in una cassapanca nella casa di mio nonno, non so lui da chi lui l’avesse avuto. Boh… Il fatto è che sono in difficoltà economiche, mi hanno licenziato dalla ditta dove lavoravo e ho bisogno di soldi.
– Quello che mi ha meravigliato è stato trovare questo manoscritto in vendita su internet. Tieni i soldi, contali.
– No, no, mi fido. E poi non è il caso di mettersi a contare i soldi qui, nella strada.
William prese quindi il manoscritto e lo tese a Gavino, che lo infilò nella tasca del giubbotto mentre pensieri terribili gli attraversavano la mente. E se questo ragazzo sapesse tutto e fosse stato incaricato dal professor Murtarak di controllarlo e di pedinarlo? Suo padre gli aveva raccomandato di guardarsi dall’archeologo egiziano. Capace, a suo dire, di ogni nefandezza pur di raggiungere il suo scopo, quello di scoprire per primo il mitico tesoro degli Shardana in Egitto. Le versioni degli storici sembravano essere concordanti: gli Shardana, guerrieri e navigatori, alla fine dell’età ramesside si erano amalgamati alla popolazione egiziana, dopo aver accumulato enormi ricchezze dai saccheggi lungo le coste del mediterraneo. Ricchezze che nessuno aveva ancora scoperto. [segue]
La morte del padre era ancora avvolta nel mistero. Broncopolmonite fulminante, avevano detto i medici del Saint Gabriel. A Gavino era però rimasto il tarlo del dubbio: non poteva essere stato certo il clima londinese a spezzare la tempra di un uomo forte e volitivo come suo padre, un vero sardo. Un intellettuale che aveva sempre sfidato intemperie e avversità di ogni tipo per soddisfare la sua sete di conoscenza. Il professor Murtarak doveva entrarci sicuramente con quella morte. Peraltro inutile visto che l’altro manoscritto, quello con la decodifica dei segni che il padre aveva trovato durante gli scavi a Crabarsa, era stato affidato in custodia a Gavino.
Fu un attimo. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la piccola pistola a cui aveva messo un silenziatore e sparò. Il proiettile andò a conficcarsi fra gli occhi del ragazzo che cadde a terra. Accorse tanta gente, dall’interno del bar e dalla strada. Molti urlavano constatando che il ragazzo era morto. Gavino aveva approfittato della confusione e si era allontanato con passo veloce dal bar, fino alla più vicina stazione di taxi. Si fece portare a casa, aprì la porta che poi richiuse ansimando, con un doppio giro di chiave. Si sedette esausto in una poltrona.
Respirò profondamente, aveva bisogno di calmarsi per poter pensare freddamente a due cose: l’aver ucciso un uomo, un ragazzo, e l’essere entrato finalmente in possesso del manoscritto. Lo aprì affascinato. Si, era proprio lui! Conteneva mappe e disegni simbolici che sembravano proprio corrispondere alle decodifiche rappresentate in quello che gli aveva lasciato suo padre. “E’ qui babbo, ce l’ho!” Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma non per la gioia. Si domandava che razza di mostro era diventato. Come aveva potuto uccidere un ragazzo così, a sangue freddo?
Era combattuto, tormentato dalla voglia di mollare tutto, di tornare una persona con una coscienza da essere umano, seppur compromessa per sempre da quell’omicidio. La notte dormì malissimo sognando William che gli gridava “assassino!”. Sognava di correre a casa, di prendere il manoscritto e di farne brandelli.
Gli apparve poi in sogno il padre che gli tendeva le braccia dicendo: “Gavino, fai che la morte di quel ragazzo abbia un senso”. Un senso, certo, bisognava dare un senso alle cose. Se non fosse riuscito a raggiungere il tesoro degli Shardana, la morte del ragazzo sarebbe rimasta senza senso. Si svegliò di soprassalto, erano le cinque del mattino. Fece la valigia e chiamò un taxi. Si fece portare all’aeroporto di Heatrow. Prese il primo volo per Il Cairo.
L’aereo che lo portava da Londra al Cairo rullava nell’interminabile pista di decollo di Heathrow. Gavino non riusciva a calmarsi, troppo forti le emozioni delle ultime ventiquattro ore. Gli sembrava che anche il battito del polso fosse instabile. A decollo avvenuto aprì il tavolino davanti a se e mise i due manoscritti a confronto. Pareva che le coincidenze ci fossero tutte. Il manoscritto acquistato dal povero William rappresentava percorsi labirintici, quello lasciatogli dal padre ne costituiva la chiave di lettura. Si concentrò nei simboli e nei segni e prese a tratteggiare ipotesi di percorso che però, man mano che procedeva, apparivano sempre più intricate. La delusione cominciava a leggerglisi sul viso.
Sollevò lo sguardo e incrociò quello sorridente della sua vicina di posto. Una ragazza carina, occhi scuri e una gran massa di capelli neri ricci, che disse: “Non avevo mai visto tanto accanimento nel cercare di risolvere un rebus. Dev’essere molto complicato”. “Si, abbastanza”, rispose Gavino con poca cordialità, rimproverandosi di non aver saputo resistere alla tentazione di aver esposto i manoscritti alla vista degli impiccioni. “Posso aiutarti?”, chiese la ragazza. “Non mi sono portata nulla da leggere e poi sono molto brava nel risolvere i rebus dei labirinti, sai”. Il cuore di Gavino cominciò a tumultuare ma riuscì a dire: “No grazie, voglio fare da solo”. “Ma dai, ti danno forse un premio se lo risolvi da solo?”. Qualche ora dopo, nel bagno femminile dell’aeroporto del Cairo una bella ragazza dai lunghi capelli ricci veniva trovata morta, strangolata da una sciarpa di lana e seta.
Gavino aveva lasciato il bagno tremante come una foglia. Non avrebbe potuto sopportare l’idea che la ragazza potesse scoprire l’ingresso di uno dei maggiori tesori del mondo. Era stato costretto ad ucciderla. Un demone terribile si era impadronito di lui e gli imponeva di eliminare chiunque potesse interferire con la sua missione. Uscì dall’aeroporto col viso bagnato di lacrime e di sudore, chiamò un taxi. “All’hotel Osiris!”, disse al conducente. L’albergo era confortevole, di buon livello e soprattutto era in pieno centro, come lui voleva. Controllò accuratamente che nella camera non vi fossero delle telecamere nascoste e che la serratura della porta fosse efficiente. Sedette alla scrivania e riprese a tracciare percorsi servendosi dei manoscritti. Era notte tarda quando si rese conto di aver fatto forse dei passi avanti ma di essere ancora lontano dalla soluzione. Gli indizi lo portavano alla piramide di Cheope ma non capiva dove, in quale specifico punto.
L’indomani mattina alle nove era all’Università. “Buon giorno, mi chiamo Gavino Martis e sono qui per una ricerca sugli Shardana in Egitto. C’è qualcuno che può aiutarmi?”, domandò all’anziana segretaria del Dipartimento di Storia Egiziana. “Certo”, rispose gentilmente la donna, lanciandogli uno sguardo languido. “Il professor Muhammad è un grande esperto della materia. Sa, è allievo del professor Murtarak”. Nel sentire quel nome Gavino trasalì: Murtarak, il probabile assassino del padre. “Venga, l’accompagno dal professore”, disse la segretaria.
Muhammad era un uomo alto e grosso. Salutò Gavino molto cordialmente e poi domandò: “Lei vorrebbe fare questa interessante ricerca. Posso sapere chi è il collega che gliel’ha assegnata?” Gavino ebbe un attimo di panico. Non aveva previsto una simile domanda, ma reagì prontamente: “Oh, probabilmente lei non lo conosce, si chiama Gonzales. E’ stato il mio professore di Egittologia all’Università di Londra. Ora però è tornato a vivere nel suo Messico e credo sia in pensione. Mi ha assegnato questa ricerca quando ha visto il mio interesse particolare, in quanto sardo, per la materia”.
“Mi complimento col professor Gonzales, il tema degli Shardana è solitamente poco considerato dagli egittologi. Mi dica, le ha consigliato di circoscrivere la ricerca ad un periodo ramesside particolare?” “Si, mi ha suggerito di approfondire il periodo di Ramses V, dove le tracce degli Shardana sono più evidenti, e di visitare attentamente la piramide di Cheope perché potrebbe rivelare ancora delle particolarità non emerse”.
Muhammad lo guardò sorridendo e disse: “Il nostro amico faraone era un grande amante dei veleni, che amava sperimentare sugli uomini. Mi sa che qualche suo antico avo Shardana ne ha fatto le spese. Keops fece realizzare nella piramide moltissime trappole contenenti gas velenosi che non lasciano scampo quando se ne viene a contatto. “Cioè… se qualcuno volesse accedere in qualche parte della piramide finora inviolata…” sussurrò Gavino, non accorgendosi di pensare a voce alta. “Quasi sicuramente morirebbe avvelenato. Per fortuna nessuno ha mai trovato le famigerate sale inviolate, nonostante le numerose esplorazioni che sono state realizzate”, rispose il professore.
Gavino rischiò: “Professore, le risulta che una delle sale inviolate possa essere quella degli Shardana? In ogni caso immagino sia impossibile trovarla”. “Impossibile forse no, anche se è da molti decenni che proseguono le esplorazioni infruttuose in quel labirinto che è la piramide di Cheope. Credo non sia impossibile ricostruire una mappa dei labirinti, ma ad oggi nessuno ci è riuscito. Lei non ha idea di quanti tentativi siano stati fatti. A volte ho la sensazione che ciò che è passato misterico sia meglio per tutti che non venga scoperto e conosciuto”, rispose il professore.
Gavino si sentiva eccitato, pensando con quanto orgoglio suo padre si sarebbe compiaciuto del buon lavoro che stava facendo. Il professor Muhammad aveva detto che non era impossibile realizzare una mappa completa della piramide per una persona esperta nella lettura di geroglifici e di simboli, laddove questi esistessero. Suo padre l’aveva istruito in questo fin da ragazzo, confidando che sarebbe stato il suo unico figlio a proseguire la ricerca della sua vita. Se qualcuno poteva decodificare il sistema labirintico della piramide di Cheope quello era proprio lui, Gavino.
Gavino si sentiva soddisfatto e pieno di entusiasmo. Il professor Muhammad l’aveva preso in simpatia e gli aveva consentito di consultare a suo piacimento i materiali della biblioteca del Dipartimento. Scelse il tavolo più grande, dove posò antiche mappe stellari, scritti di esploratori, disegni di tecnica costruttiva delle piramidi e manuali di Egittologia. Dalla sua borsa tirò fuori una pila di fogli millimetrati, matite e gomme da cancellare.
I manoscritti no, li teneva chiusi nella borsa e solo ogni tanto li apriva sotto il tavolo, facendo attenzione a che nessuno potesse vederli.Si rese presto conto di quanto arduo fosse il lavoro che aveva intrapreso. Il più delle volte lasciava la biblioteca dopo l’orario di chiusura solo perché invitato a farlo dagli usceri. In albergo poi continuava a lavorare sui labirinti, aiutandosi con gli elaborati realizzati. Dopo sei giorni si era sorpreso a pensare come lui, giovane elegante e atletico, fosse diventato un topo da biblioteca dall’aspetto trasandato. Solo raramente il suo pensiero tornava angosciato a William e a Janet, i due ragazzi che aveva ucciso. La sua missione era però troppo importante, non poteva lasciare spazio ai rimorsi.
La notte che riuscì a risolvere il rebus del labirinto pianse di emozione. Ora gli restava da scoprire l’ubicazione della sala inviolata degli Shardana. Ci vollero altri tre giorni trascorsi febbrilmente nella biblioteca ma alla fine, con la sovrapposizione e l’intersecazione dei grafici e dei disegni che aveva messo insieme, pensò di avere la ragionevole certezza di averla individuata. Aveva esplorato e poi scartato tantissimi percorsi senza uscita all’interno della grande piramide, arrivando ad individuare tre ampi spazi. Uno dei tre poteva ospitare la sala inviolata. Quasi si morse le labbra per non urlare di felicità, tese i muscoli preoccupato che qualcuno dei presenti potesse notare che aveva trovato quello che stava cercando da giorni con tanto accanimento.
Restituì tutti i libri e le mappe che aveva richiesto in visione. La bibliotecaria, notando che lasciava l’abituale postazione prima del solito, gli domandò sorridente: “Ha finalmente trovato quello che cercava?”. “No, è che mi sono stancato di cercare”, rispose prontamente tornando a maledire la sua mancanza di precauzione. Avrebbe dovuto far finta di consultare altri testi che deviassero l’attenzione dalle sue ricerche. L’indomani di buonora noleggiò la miglior jeep disponibile dove caricò le attrezzature che avrebbe portato con se. Fra queste una torcia da minatore, alcuni grimaldelli e un piede di porco. “Non si sa mai”, si disse.
Dal parcheggio dell’hotel partì in direzione del deserto. Una volta in vista della piramide cercò un posto dove la jeep sarebbe stata poco visibile. La parcheggiò e si avviò a piedi in direzione dell’ingresso che aveva visto sulle carte. Era un ingresso secondario e non vigilato, vi accedette senza problemi. Sentiva il cuore battere a mille mentre seguiva il percorso disegnato nel suo taccuino, consapevole che un qualunque passo falso l’avrebbe fatalmente portato a perdersi nella labirintica costruzione.
Salì su delle scale, discese da altre, sempre attentissimo al grafico che aveva realizzato. Era confortato dai segnali che incontrava durante il percorso, geroglifici che sembravano confermargli di essere sulla strada giusta. Emozionato e carico di speranza discese i gradini della scala che, secondo il suo grafico, era l’ultima prima di arrivare alla sala del trono. Si trovò all’improvviso di fronte ad una grandissima parete completamente ricoperta d’iscrizioni, non previste e indecifrabili.
La prima reazione fu di disperazione, lacrime di delusione e di rabbia sgorgarono dai suoi occhi. “Non può essere, non può finire così!”, urlò. Si stava asciugando le lacrime quando vide la feritoia nella parete. Sopra recava incisa la scritta “SHRDN”, la stessa della Stele di Nora! Eccitato, cercò di infilarvi la mano, ma era troppo stretta. Poi, il flash. Estrasse dallo zaino il manoscritto acquistato da William e lo inserì nella fessura. Sospirò, il suo corpo tremava, le ginocchia sbattevano fra di loro, sentiva che le mani non avevano presa. Doveva stare più calmo, più concentrato.
Avvertì una piccola ma dolorosa fitta nel pollice destro e gli sembrò che un liquido spesso cominciasse a percorrere le sue vene. Il veleno di Keops! Sentiva montare la nausea sempre più insopportabile e vomitò. Gli faceva male lo stomaco, la testa e la schiena, e si sentiva sempre più debole. Si accorse che gli si stava annebbiando la vista e si disperò. Con sforzo sovrumano riuscì ad accostarsi alla feritoia e mosse il manoscritto verso destra. Un’altra terribile fitta lo lasciò tramortito.
Pur stremato, riuscì a muovere il manoscritto verso sinistra prima di accasciarsi a terra. Improvvisamente udì il rumore di un antico meccanismo che si attivava. Un rombo inquietante precedette l’apertura della parete che andò a scomparire in un incavo. Riuscì a puntare la torcia e illuminò la grande sala che ora appariva ai suoi occhi. Le pareti erano tappezzate di vetri che riflettevano dei tavoli intarsiati d’oro, sopra i quali erano posati vassoi colmi di diamanti e di altre pietre preziose. Facendo appello alle pur minime energie residue riuscì ad alzarsi e tentò di avanzare verso la sala del tesoro.
Una voce lo fermò: “Grazie di aver fatto questo per noi”. Gavino si girò lentamente e si trovò di fronte due uomini. Uno di questi era il professor Muhammad. L’altro lo riconobbe dalle fotografie che suo padre gli aveva mostrato: era il professor Murtarak. Vide una pistola che mirava alla sua testa. L’ultima cosa che udì fu uno sparo.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>