La ricerca di un’economia al servizio delle persone e delle comunità

«Tra Stato e mercato salviamo i beni comuni»
intervista a Johnny Dotti, a cura di Lorenzo Fazzini
in “Avvenire” del 14 luglio 2019, ripreso da C3dem.
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«Jyrki Katainen, finlandese, vicepresidente della Commissione europea, durante la crisi greca se ne uscì con una proposta che fa bene capire una certa logica: a garanzia del debito pubblico chiese al governo di Atene nientemeno che il Partenone». Questa non è una delle sue tante e vibranti provocazioni: Johnny Dotti, imprenditore sociale, conferenziere e docente alla Cattolica di Milano, la riporta nel suo nuovo libro, scritto insieme ad Andrea Rapaccini, L’Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni (Vita e Pensiero, pagine 160, euro 14), in cui analizza questa nuova frontiera dell’azione amministrativa e dell’impegno sociale. Infatti è in corso anche una campagna di firme, curata dal Comitato popolare di difesa dei beni comuni, sociali e sovrani, per una legge di iniziativa popolare sul tema.

Beni comuni, questi sconosciuti, pare di leggere tra le righe del suo libro. Eppure mai come negli ultimi anni questa espressione è risuonata nel dibattito pubblico. Perché se ne è occupato?
Perché sotto diversi aspetti – giuridico, accademico, economico – ci siamo infilati in un’alternativa che non lascia molto spazio: o il monopolio dello Stato (che però non è in grado di universalizzare i beni comuni) oppure lo stress economico del mercato. E quindi i beni comuni, stritolati da queste due forze opposte, sono a rischio. Il caso del Partenone di Atene rivendicato dal politico Ue è lampante. Domandiamoci: di chi è il Partenone? Dei greci? Solo dei greci? Nella logica capitalista si tende a massimizzare il profitto di ogni realtà. Oggi, nella crisi dell’Occidente, ci troviamo in una traiettoria di ristrettezza, sia politica che economica: i beni comuni possono diventare una leva che ci può sollevare dalla strettoia Stato/mercato in cui siamo ingabbiati. Possono trasferire all’economia e alla politica nuovi slanci nonché dare nuova linfa alla democrazia, se non si intende questa semplicemente come la legge della maggioranza. Del resto, il pensiero religioso degli ultimi anni – dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI alla Laudato si’ di Francesco – ci ha fornito molti spunti su questi temi. I beni comuni sono un elemento politico, economico e spirituale che si ribella sia al freddo statalismo sia al troppo liberismo del mercatismo globalizzato.

I beni comuni come la riproposizione di quella “terza via” che aveva fatto la fortuna di una certa sinistra?
Beh, quella proposta restava prigioniera – anche nel caso di governi socialdemocratici – della proposta binaria che si può riassumere, appunto, nell’alternativa Stato/mercato. Mentre invece la nostra Costituzione (con gli articoli 2, 41, 43, 45, 118, solo per citarne alcuni), attraverso il principio di sussidiarietà, ci parla di ben altro. Già Stefano Rodotà aveva cercato, con la Commissione sui beni comuni, di inserirli nel nostro Codice civile, purtroppo senza successo. Parlare dunque di beni comuni oggi non significa ripresentare qualcosa di vecchio e stantio, bensì riattualizzare qualcosa di antico che ha ancora molto da dire oggi. Esiste un campo di valore che non sta dentro la costruzione binaria tra Stato e mercato – per dirla con Max Weber, dentro il “formale” – e che corrisponde a tutto quello che viene prodotto e vissuto con un significato da parte di una comunità. Anche sull’emergenza ecologica, se ben guardiamo, qualcosa si può fare solo quando si interviene pensando al mondo e in termini di beni comuni. Altrimenti, se affidiamo alla tecnica la domanda di risolvere quei problemi che lei stessa ha causato (vedi il “progresso” tecnologico), restiamo intrappolati in una non soluzione.

Nel suo libro lei fa diversi esempi di pratiche positive dei beni comuni. Prende in analisi il Fai, Fondo per l’ambiente italiano, il referendum sull’acqua bene comune, l’esperienza amministrativa di Barcellona, e altre realtà. Poi però succede che spesso la politica blocca iniziative che in nome dei beni comuni partono dal basso, vedi le scelte politiche sull’acqua in
Italia. Come se ne esce?

In effetti, il libro si chiude con un grande appello alla politica di oggi. C’è bisogno di politica, oggigiorno, non di meno politica. Il principio sussidiarietà, per esempio, è una roba seria, mentre spesso è stato inteso come un semplice “dare i soldi agli amici”. Quello su cui vorrei esser chiaro è che non esiste una società se non esiste una comunità. Servono affezione e partecipazione, non legalismo. I beni comuni richiamano, appunto, una stagione di diritti, di doveri e di responsabilità. Esperienze di questo tipo puntellano l’Italia di oggi: penso alla rinascita di un castello come quello di Padernello, in provincia di Brescia, fatto rivivere proprio come bene comune non incasellabile dentro la dicotomia pubblico/ privato. Nei beni comuni risiede un gran pezzo del futuro che ci è rimasto per il nostro Paese.

I beni comuni vengono spesso intesi come un presidio della democrazia. Ma le tendenze che vogliono far superare il processo democratico non mancano, oggi, anche tra chi ha difeso i beni comuni stessi…
La questione dei beni comuni richiede un passaggio avanti nella democrazia. Quest’ultima si è sempre basata sul triplice valore del voto, della fiscalità e della pubblica amministrazione. Ma ora c’è bisogno di qualcosa in più e di un salto in avanti, perché quelle dimensioni hanno fatto il loro tempo. Seguendo le intuizioni del sociologo Mauro Magatti, penso che si debba uscire dal pensiero binario che vede accoppiati consumatore e produttore, Stato e mercato, governanti e governati. Oggi serve che si partecipi al bene della libertà degli altri. Prendiamo un caso concreto, sollevato da Andrea Rapaccini nel nostro libro. Nei prossimi anni avremo bisogno di 60 miliardi per mantenere operativi i nostri acquedotti. Una cifra impossibile per uno Stato privo di quel denaro. Privatizzare vuol dire relegare in una zona perversa l’uso di un bene comune come l’acqua. A questo punto si capisce che una logica feconda e generativa non è quella che pone in alternativa mercato e Stato, ovvero la logica dell’aut aut, ma quella più giusta è l’et et, che mette insieme le due forze in un campo ulteriore che è, appunto, quello dei beni comuni. Personalmente, non sono una persona che vuole stravolgere il sistema capitalista. Mi basterebbe che venissero autorizzate, ovvero potessero essere messe in campo e lasciate lavorare, delle esperienze – prendiamo il Terzo settore – che, appunto, in nome di un valore condiviso superano l’alternativa pubblico/privato. Si può fare.

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