Ritorno al fascismo?

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Il “male oscuro” della democrazia

di Gianfranco Sabattini

L’avvento al governo (ora dimissionario) di una coalizione inclusiva di forze che si ispirano a valori propri delle ideologie di destra è valso in Italia a diffondere il convincimento che fosse in atto un “ritorno del fascismo”. Secondo Emilio Gentile, autorevole storico studioso del fascismo, autore di “Chi è fascista”, il convincimento è privo di senso sul piano politico-culturale e su quello storico.
Sul piano politico-culturale, egli afferma, se oggi in Italia fossimo convinti di trovarci “di fronte al ritorno del fascismo, [dovremmo] allora riconoscere che l’antifascismo non ha veramente debellato il fascismo nel 1945. Se così fosse, la celebrazione della festa della Liberazione sarebbe la celebrazione di un falso storico, o comunque sarebbe un abuso celebrativo, perché l’antifascismo avrebbe vinto solo una battaglia contro il fascismo e non la guerra”.
Sul piano storico, il convincimento che in Italia sia in atto un ritorno del fascismo è ancor più privo di senso; ciò perché l’azione delle forze oggi al governo in Italia non è sorretta dalle “dimensioni” esprimenti gli aspetti originali e specifici del fenomeno rappresentato dal fascismo, sia dal punto di vista organizzativo, che da quelli culturale ed istituzionale.
Dal punto di vista organizzativo, quando le forze che si ispirano all’ideologia fascista accedono al governo per vie parlamentari e legali (come, ad esempio, è avvenuto in Italia e in altri Paesi) e non attraverso colpi di stato o rivoluzioni, esse si ritengono investite “di una missione di rigenerazione nazionale”. Quelle forze, perciò, si considerano in perenne stato di guerra contro gli avversari politici e, usando il terrore e il compromesso con i gruppi parlamentari più arrendevoli, creano “un nuovo regime, distruggendo la democrazia parlamentare”.
Dal punto di vista culturale, le forze fasciste sono portatrici di una cultura fondata “sul pensiero mitico, sul senso tragico e attivistico della vita, concepita come manifestazione della volontà di potenza”; antidemocratica, anti-individualista, tendenzialmente, anticapitalista e populista, la cultura fascista è espressa “attraverso i miti, i riti e i simboli di una religione laica”, recitata per l’attivazione ed il supporto di un “processo di acculturazione, di socializzazione e d’integrazione fideistica della masse per la creazione di un ‘uomo nuovo’”. Dal punto di vista istituzionale, infine, le forze fasciste, una volta consolidato il loro potere, si avvalgono di un apparato di polizia per reprimere il dissenso e l’opposizione, realizzano una “simbiosi fra regime e Stato” e, organizzando l’economia su basi corporative, sopprimono la libertà sindacale, ampliando l’intervento pubblico e imponendo la collaborazione del lavoro col capitale, per il conseguimento dei fini di potenza della nazione, attraverso una politica estera imperialistica, “in vista della creazione di una nuova civiltà”.
Sulla base delle “dimensioni” che Gentile ha individuato come i parametri esprimenti gli aspetti originali e specifici del fascismo, tutto si può dire, tranne che l’azione di governo posta in essere a seguito dall’”alleanza contrattuale” stretta tra la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle sia stata sorretta e connotata da quei parametri; per quanto lo stile politico comportamentale dei leader dei due movimenti (in particolare di quelli della Lega) sia stato tale da indurre a pensare che fosse in atto un ritorno del fascismo, un simile giudizio è stato quanto meno fuori luogo. Ciò non significa, tuttavia, che nei Paesi occidentali più industrializzati la democrazia sia esposta alle insidie di una nuova ideologia che, combinando populismo e nazionalismo, esprime la base valoriale di forze politiche illiberali e propense ad utilizzare la loro legittimazione elettorale per mettere in discussione lo Stato di diritto al fine di instaurare nuove forme di governo antidemocratico.
Le cause e le modalità di svolgimento di questo processo di indebolimento della democrazia liberale è oggetto dell’analisi che Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (due docenti di Scienza politica presso la Harvard Kennedy School of Government) compiono nel libro “Come muoiono le democrazie”; il lavoro dei due docenti americani è preceduto da un saggio di Sergio Fabbrini (professore di Scienze politiche e relazioni internazionali presso la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli di Roma) che illustra come sia stata possibile, all’interno dei Paesi industrializzati dell’Occidente di più antica democrazia, la formazione di forze politiche che, combinando populismo e nazionalismo, esprimono ora un’”insidia legale” per il regime democratico.
Da sempre, secondo Fabbrini, il populismo ha rappresentato una ”alternativa al liberalismo”, concorrendo a creare i presupposti per l’avvento dei totalitarismi tra le due guerre mondiali. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, i principi dello Stato di diritto e della legittimazione elettorale del potere di governo avevano consentito l’assestamento di un ordine liberale delle relazioni interne dei Paesi occidentali e delle relazioni internazionali; ma “da diversi anni questo ordine è stato messo radicalmente in discussione”: il pluralismo delle istituzioni interne e di quelle internazionali è stato sottoposto “ad una critica feroce da parte di leader e gruppi politici che rivendicano di parlare a nome di popoli nazionali che (si ritiene) siano stati imprigionati da quelle istituzioni”.
Così, i leader populisti mobilitano il popolo contro i tradizionali establishment (politici, economici e culturali) accusati di aver gestito la democrazia liberale, divenendo corrotti e autoreferenziali. In tale processo, i leader populisti hanno ricuperato il concetto di nazione (caro a tutte le forme di fascismo), intendendolo come “il luogo naturale di esistenza del popolo, rilanciando così il nazionalismo come una sorta di nuova ideologia politica”, rifiutando il multilateralismo internazionale “basato sul mutuo riconoscimento di interessi nazionali diversi, con la relativa disponibilità ad accettare compromessi tra loro”.
Le ragioni sulle origini del riproporsi del populismo nelle forme attuali sono oggetto di un dibattito ancora aperto. Secondo gli economisti, il populismo è la conseguenza degli esiti negativi del modo non regolato col quale si è realizzata l’integrazione internazionale delle economie nazionali; la crisi finanziaria occorsa dopo il 2007-2008 ha approfondito le disuguaglianze sociali all’interno dei Paesi occidentali ed ha alimentato la protesta sociale; il populismo sarebbe quindi la reazione all’impatto negativo della globalizzazione sugli strati più deboli della popolazione, per cui i nuovi movimenti hanno potuto proporsi come strumenti politici per arrestare il declino della loro condizione economica e sociale, mediante l’attuazione di politiche isolazioniste e redistributive.
Per molti cultori di scienze politiche, il populismo riflette una crisi di identità dei gruppi sociali “danneggiati” dalla globlizzazione; le disuguaglianze distributive sul piano economico hanno accentuato il grado di marginalizzazione sociale che, congiuntamente ai disagi dovuti ai crescenti flussi di immigrati, è stata la causa dell’”esplosione” dei movimenti populisti. Per i sociologi, infine, il populismo è la conseguenza della rivoluzione epocale provocata dalla ricerca tecnologica nel campo della comunicazione politica, che ha consentito di superare i tradizionali canali di informazione tra i cittadini e la dirigenza politica, con l’accentuazione del processo di disintermediazione tra gli stessi cittadini e le rappresentanze politiche.
A parere di Fabbrini, è stata forse una combinazione di ragioni di natura, sia economica che identitaria e tecnologica, a fare del populismo un soggetto dotato di una forza politica competitiva e del potere elettorale necessario a scardinare “i tradizionali sistemi politici ed economici che si erano consolidati nel lungo secondo dopoguerra” e ad esprimere “una sfida esistenziale, piuttosto che politica, alla democrazia liberale”. I leader populisti, infatti, non vogliono sostituire i partiti tradizionali o una coalizione di governo da essi espressa, ma tendono “a mettere in discussione un sistema rappresentativo che ha funzionati [...] a sostegno degli interessi esclusivi e privilegiati delle élite dominanti (di destra e di sinistra)”.
Con questa pretesa, i populisti hanno rivolto in particolare la loro critica “velenosa” contro i cosiddetti “corpi intermedi”, in quanto detentori di posizioni di potere non elettive, e quindi non legittimate dal popolo, ignorando che questi corpi intermedi (strutture associative di ogni genere: culturali, politiche, imprenditoriali, sindacali, ecc.) sono il “sale” della democrazia liberale, in considerazione del fatto che la loro funzione è sempre stata quella di “bilanciare la spinta proveniente dalle maggioranze elettorali, così da impedire [...] la loro trasformazione in tirannie democratiche”. Per i populisti, perciò – afferma Fabbrini – il popolo “non deve avere limiti, perché limiti non deve avere il regime che vuole creare, la ‘popolocrazia’”.
Con la presenza di forti movimenti populisti nei sistemi politici democratici è divenuta alta la possibilità che i loro leader diventino autoritari, influenzando di sé il funzionamento delle istituzioni democratiche. A questo proposito, Levitsky e Ziblatt introducono quattro indicatori, per valutare se i leader populisti, una volta giunti al potere, possano con la loro azione esprimere un’autentica minaccia legale per la democrazia: il primo indicatore riguarda l’osservanza delle regole democratiche; il secondo, il rispetti degli avversari politici; il terzo, la propensione a praticare o tollerare la violenza politica nei confronti del dissenso; il quarto, la disponibilità a riconoscere e tutelare la libertà d’informazione.
Sulla base dei quattro indicatori possono essere registrati gradi diversi di predisposizione autoritaria dei leader populisti, a seconda del numero di indicatori che ne confermano l’orientamento. Fabbrini ritiene tuttavia che la predisposizione autoritaria non vada commisurata solo rispetto all’obiettivo di rovesciare la democrazia, ma debba essere valutata anche in funzione della propensione dei leader populisti ad “indebolire la democrazia senza necessariamente trasformarla in un sistema autoritario”. Su questo punto il libro di Levitsky e Ziblatt offre indicazioni pregnanti sul come le democrazie possono perire per lente trasformazioni interne, pur in assenza di colpi di stato o di altri fatti eccezionali; ciò accade, secondo i due autori americani, quando i principali leader populisti con responsabilità di governo non sono disposti a difendere, disinteressatamente e con determinazione, le regole democratiche, la legittimità dei loro oppositori, la logica del confronto politico e la libertà dell’informazione.
Finora, nessun Paese occidentale economicamente avanzato e di antica civiltà democratica si è trasformato in un regime autoritario; cionondimeno, tendenze autoritarie sono riscontrabili, secondo gradi diversi, in molti di essi. Di conseguenza, le democrazie liberali fanno fatica a conservarsi e tendono, perché indebolite al loro interno, a trasformarsi in democrazie illiberali. Come è possibile contrastare questa deriva? Levitsky e Ziblatt ripondono che le tutele costituzionali, da sole, non sono sufficienti; ciò perché, a loro parere, anche le prescrizioni di Costituzioni ben formulate e radicate nella coscienza dei cittadini possono fallire nel loro intento, in quanto le loro parole “possono essere seguite alla lettera, ma in un modo che mina alla base lo spirito della legge”.
A causa delle lacune e delle ambiguità inevitabili in tutti i sistemi legali – continuano Levitsky e Ziblatt – “è impossibile fare affidamento solo sulla Costituzione per preservare la democrazia dagli aspiranti autocrati”, poiché le regole costituzionali sono sempre soggette a interpretazioni concorrenti; per conservarsi la democrazia ha bisogno, non solo di regole scritte, ma anche di regole non-scritte, consuetudinarie, che svolgano “la funzione di barriere di sicurezza della democrazia, impedendo che la competizione politica quotidiana degeneri in un conflitto senza esclusione di colpi”. Le norme non-scritte sono necessarie, perché quelle scritte non possono fare affidamento solo “sulla benevolenza dei leader politici”. Quando le norme scritte, supportate da quelle non-scritte, esprimono solidità, la loro violazione, in una società autenticamente democratica, scatena manifestazioni di disapprovazione che costringono chi le viola ad aspettarsi d’essere chiamato a “pagare un prezzo”.
In particolare – secondo Levitsky e Ziblatt – due sono le norme non-scritte che presiedono al buon funzionamento della democrazia: la tolleranza reciproca e le “temperanza istituzionale”. La prima si riferisce all’idea che, fin tanto che i populisti “giocheranno” secondo le regole scritte, essi accettino il fatto che i loro avversari politici abbiano il loro stesso diritto di esistere; la seconda norma, cioè la “temperanza istituzionale”, è quella che Levitsky e Ziblatt evocano per indicare la necessità che le forze che sono al governo siano dotate di un “paziente autocontrollo” nell’esercizio del loro potere istituzionale, nel senso che essi devono evitare di prendere decisioni che “pur rispettando la lettera della legge, ne violano palesemente lo spirito” (come, ad esempio, quando, nelle democrazia parlamentari, le crisi di governo avvengano fuori dalla sede del Parlamento, a seguito di decisioni prese dalle segreterie dei partiti).
Il rispetto delle norme scritte, supportato da quello delle norme non-scritte e corroborato dalla tolleranza e dalla “temperanza istituzionale” costituisce l’essenza della democrazia; oggi, concludono Levitsky e Ziblatt, questa essenza è sotto attacco in tutto l’Occidente industrializzato. I nostri padri hanno fatto sacrifici immani, prima per conquistare e poi per difendere (anche quando, a volte, sono stati sconfitti) le istituzioni democratiche dalle minacce provenienti dall’interno e dall’esterno; le generazioni attuali, cresciute considerando la democrazia come qualcosa di dato per sempre, non hanno un compito diverso: esse devono impegnarsi per impedire che la democrazia muoia a causa delle minacce provenienti ora solo dal suo interno.
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