Risultato della ricerca: Interventi territoriali integrati

Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris

ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
Oggi vediamo invece che i cardini del welfare, scuola, sanità e previdenza, sono presi a picconate. Hanno spazio crescente le ibride macchine organizzative, che sono un misto di degradato parastato e di cattiva imprenditorialità, cui viene affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali.
Cooperative e imprese sociali, fondazioni bancarie, iniziative caritatevoli e filantropiche accompagnano il progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezione sociali.
Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo settore” rappresenta la congiunzione traversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie. Questa è la realtà. Il resto è letteratura.
Quando Vendola nella sanità pugliese internalizza migliaia di soci di pseudo-cooperative degli appalti, non attacca un sistema di solidarietà ma fa semplicemente un’opera minima, indispensabile di moralizzazione e di garanzia di efficacia della sfera pubblica.
Con ciò non dico di abbandonare la prospettiva di un welfare locale attivo, di una sussidiarietà circolare che promuova la domanda associata. Ma occorre prendere atto dello stato delle cose, degli errori fatti, ripensare il futuro e avere ben chiaro che le minoranze attive del volontariato sono nate e vivono per rendere esigibili, effettivi i diritti sociali e non per coprire ideologicamente la regressione dall’universo dei diritti alla supplenza della benevola elargizione o alla deriva del “mercato sociale”.
Detto questo vorrei riprendere un discorso più generale e di carattere storico per dire la mia opinione sul vostro dibattito circa reciprocità, fraternità, altruismo e dono.
Sul piano storico vorrei marcare con forza la valenza del mutualismo nel determinare quella rottura nella storia sociale europea determinata dalla contemporaneità genetica dell’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Una data simbolica: il 1848 parigino, quando i giornali operai modificano la triade libertà, uguaglianza e fraternità sostituendo quest’ultima con la parola solidarietà.
Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in sette righe che riprendono il concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Essa è definita come “la qualità di una obbligazione nella quale più debitori si impegnano a pagare una somma che essi prendono in prestito o che debbono”.
Parecchie pagine nell’Enciclopedia sono invece dedicate alla parola “fraternità” con una ricostruzione storica che conduce questo termine a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra i “fratelli d’armi” e quella della fratellanza cristiana che unisce attorno al Padre divino.
Di fronte all’insorgere della questione sociale queste due tradizioni evolvono verso la sollecitazione morale all’oblazione dall’alto verso il basso in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
L’affermazione della “solidarietà” operaia avviene nel 1848 parigino in polemica con la “fraternità”: essa rivendica il valore pratico e ideale del “far da sé solidale” che si contrappone in quanto agire cooperativo al self help individualistico e si oppone, in quanto capacità del far da sé, all’oblazione filantropica e caritatevole.

La solidarietà tra i lavoratori esprime un loro interesse perchè è fondamentale eliminare la concorrenza e impegnarsi in un’azione cooperativa che sola può permettere di superare l’asimmetria di potere che essi come singoli vivono e subiscono nel lavoro e nella società.
E’ un interesse che però esprime un insieme di valori, un sentimento morale radicato in un vissuto comune e si manifesta in proprie regole di comportamento e forme associative. Il concetto e l’esperienza della solidarietà stanno alla base delle molteplici forme dell’associazionismo operaio delle seconda metà dell’800: dal mutuo soccorso alle leghe di resistenza, dal movimento cooperativo alle Case del Popolo.
Il termine di solidarietà richiama la cooperazione tra uguali nonostante la diversità: è un modo di confederare l’eterogeneo.
La prevalenza nel corso del 900 di una concezione monolitica della classe operaia fa declinare l’uso di questo termine nella seconda e terza internazionale.
Non solo non c’è conflittualità tra “diritti sociali” e mutualismo, ma vi è complementarietà. L’apporto del mutuo soccorso, nella fase aurorale dell’ascesa dei diritti sociali, è indubbio.
All’interno della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità (uno per tutti, tutti per uno) faceva sì che il singolo lavoratore, di fronte alle sventure dell’esistenza, per la prima volta cessasse di rovinare nella condizione del bisognoso che implorava benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale da parte dell’associazione.
Revelli ha accennato al rapporto tra associazione di mestiere e mutuo soccorso.
Credo che la relazione tra mutualità e resistenza meriti un cenno ulteriore sia per comprendere l’evoluzione delle forme della solidarietà sia perché, a mio avviso, oggi si ripropongono rapporti nuovi tra sindacalismo e mutualismo.
Il primo associazionismo operaio si sviluppa come forma di autotutela rispetto ai gravissimi disagi e alle minacce che l’industrialismo faceva incombere sulle condizioni di vita dei lavoratori (il “flagello dei quattro diavoli”: disoccupazione, malattia, infortunio, vecchiaia).
Il mutuo soccorso viene prima della resistenza e dentro il mutuo soccorso si alimenta la resistenza, cioè la lotta rivendicativa negli ambiti di lavoro.
Un caso di grande ed esemplare rilevanza è la rivolta dei tessitori di Lione del 1831. All’origine di quel moto dal sicuro contenuto sindacale (i lavoratori rivendicavano un aumento delle tariffe) si collocava la presenza e l’attività della Societé du Dévoir Mutuel.
Durante i grandi scioperi biellesi del 1878, che meritarono la prima inchiesta parlamentare, fu la Società Operaia di Mutuo Soccorso dei tessitori di Crocemosso che venne sciolta come responsabile delle lotte.
Insieme a questa relazione stretta si manifesta anche una differenziazione tra la forma di solidarietà mutualistica e la forma di solidarietà sindacale. La solidarietà mutualistica è una solidarietà per, quella sindacale una solidarietà contro. La solidarietà positiva della mutualità si radicava negli ambiti di vita e tendeva a una sorta di pratica dell’obbiettivo da realizzare nel basso e nel presente, mentre la solidarietà negativa dell’azione sindacale operava nei luoghi di produzione per strappare concessioni dall’alto.
Con la statizzazione della mutualità alla coppia mutualità-resistenza si sostituì la coppia sindacato-partito, due organizzazioni di solidarietà negativa di scontro con il padronato e di lotta per la conquista dello stato. L’associazionismo operaio subisce una torsione per così dire combattentistica, in cui prevalgono momenti di centralizzazione, di disciplina e di gerarchia.
Fabbrica e Stato occupano l’orizzonte del movimento operaio mentre gli ambiti di vita (il non-lavoro) vengono abbandonati all’amministrazione pubblica e alla cura domestica delle donne.
E’ nel crollo di questo paradigma che riemerge il mutualismo con le sue pratiche di solidarietà positive, con la sua volontà di costruire nel presente contro il rinvio messianico al futuro, con il suo sforzo di crescita delle capacità di realizzare in proprio, con il suo rifiuto della passività assistita.

Oggi vedo emergere nuove possibilità di riproposizione di questo antico nesso tra mutuo soccorso e lavoro. Il movimento operaio belga della fine dell’800 aveva elaborato il modello del “sindacato ad insediamento multiplo”: nel luogo di lavoro e nella società, nella rivendicazione e nella mutualità. Ad esempio il sistema Gand di raccolta e di gestione sindacale di un fondo per la disoccupazione fu un mezzo potente di mutualità che teneva legati i disoccupati al sindacato e permetteva loro di trovare una nuova occupazione decente. Il sistema Gand (riformato) funziona in modo efficace oggi in alcuni paesi scandinavi.
Il lavoro edile da sempre è stato un caso esemplare di precarietà e di dispersione dei lavoratori: la temporaneità del cantiere che nasce e muore, i frequenti intervalli di disoccupazione, la disseminazione spaziale della mano d’opera. Tra gli edili italiani la mutualizzazione della precarietà attraverso la Cassa Edile sin dai primi anni del secolo scorso è stata uno strumento di tutela mutualistica e di rafforzamento del potere rivendicativo.
Nella attuale condizione di lavoro disperso, precario, non garantito, la mutualità può rappresentare un punto di coesione che, a partire dagli ambiti di vita, ricompone socialità e crea solidarietà dentro il lavoro.
Il sociologo americano Sennet, parlando delle esperienze associative delle segretarie di Boston e dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna, dice di un “sindacalismo parallelo” (che richiama il vecchio sindacalismo a insediamento multiplo) che fa leva su forme di neo-mutualismo al fine di recuperare coesione e forza rivendicativa.
La Free Lancers Union di New York è un’associazione insieme mutualistica e sindacale di artigiani tecnologici che, mentre si assicurano reciprocamente assistenza tecnica e giuridica, difendono la qualità e le tariffe del loro lavoro.
Dall’inchiesta recentissima del vicedirettore de l’Unità Gianola sulla condizione operaia dentro la crisi attuale, apprendiamo che in provincia di Brescia Camera del lavoro e Caritas hanno attivato una società di mutuo soccorso raccogliendo tra gli iscritti della CGIL un fondo per il microcredito ai lavoratori disoccupati gestito dalla Caritas.
Questi nuovi rapporti tra lavoro e mutualità, a mio avviso, meritano molta attenzione.
Un’area nella quale i problemi del lavoro e della vita si intrecciano in modo inestricabile è quella dei lavoratori immigrati. Qui troviamo esperienze numerose e significative di neo-mutualismo.
L’esperienza friulana dell’associazione “Vicini di casa” mi sembra esemplare. Questa associazione ha trasformato l’antico patrimonio immobiliare e culturale di una rete di latterie sociali di ispirazione cattolica e socialista in un’offerta di abitazioni per operai immigrati che lavorano nei cantieri di Monfalcone. Gestisce l’affitto di 1500 piccoli appartamenti.
Anche l’esperienza dell’associazione torinese di donne immigrate Alma Mater mi sembra che si collochi in una zona intermedia tra mutualità e lavoro.
Nuovi spazi di autogestione di risorse comuni territoriali vengono aperte dalle culture e dalle pratiche ambientaliste.
L’orizzonte si amplia.
Creare esperienze di cittadinanza attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politiche che producono passività e deleghe plebiscitarie.
Oggi è possibile creare un nesso tra la filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amarta Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro, scriveva nello statuto della Società Umanitaria di Milano: ”Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se medesimi”*.
Creare la condizioni perché le persone siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica missione del mutuo soccorso resta, ancora oggi, il cuore della azione per la libertà e per la giustizia sociale.
Torino 29 ottobre 2010
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Mariuccia Salvati: L’attualità del socialismo di ieri secondo Pino Ferraris

lampadadialadmicromicro1La rivista online Controlacrisi.org in un articolo del 12 marzo 2012 ha ricordato Pino Ferraris, politico-militante della sinistra e storico scomparso nel febbraio dello stesso anno: “La scomparsa di Pino ci ha privato di un interlocutore e un punto di riferimento assai prezioso. Vi proponiamo la bella recensione dell’ultimo libro di Pino uscita sul numero di febbraio della rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi. In coda trovate il link a una registrazione di un intervento di Pino in cui riassumeva il senso profondamento politico del suo lavoro storiografico”. Riproponiamo il contributo per l’attualità delle riflessioni rispetto alle attuali problematiche.
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Partiamo dal titolo, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, (Edizioni dell’Asino). Un titolo che richiama una traccia di lavoro di Vittorio Foa citata nell’introduzione: l’invito cioè – in tempi di amnesie e rimozioni, di nodi politici e sociali che urgono nel presente – a “sciogliere le ideologie nella storiografia”. È ciò che aveva fatto lo stesso Foa con La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento di cui Ferraris ha ripercorso la genesi nella nuova introduzione alla riedizione del libro per Einaudi del 2009 (la prima edizione era stata pubblicata da Rosenberg & Sellier nel 1985). Uscire dall’ideologia attraverso la storia. In questo c’è tutto l’atteggiamento di uno scienziato sociale, ma anche di un intellettuale che è stato militante e dirigente politico e che non fa lo storico di mestiere. Come spiega in un altro passo dell’introduzione, infatti, la sua non è una opzione asettica di un oggetto di studio, ma una scelta di campo.

Il campo prescelto ha due perimetri: un arco cronologico (racchiuso nella seconda metà dell’Ottocento, tra Comune di Parigi e crisi di fine secolo, comunque nei decenni antecedenti alla Grande Guerra e a tutto quanto ne seguì, come richiama nel finale del primo e dell’ultimo saggio) e un dilemma teorico: è esistito un momento in cui il socialismo è sembrato ai protagonisti delle lotte sociali una meta vicina, già praticabile? E, se è esistito, come è stato sconfitto e, soprattutto, perché è stato rimosso dalla memoria del movimento operaio?

Perché è questa, in sostanza egli ritiene, la ragione per cui la prospettiva socialista è scomparsa dall’orizzonte delle masse popolari in Europa.

I tre saggi che compongono il libro sono rispettivamente del 1992, 1995 e 2008. I primi due sono decisamente storici e direttamente ispirati, nelle linee di fondo, dalla Gerusalemme rimandata, il terzo (pubblicato nel quadro delle iniziative della rivista “Una città”) ha già un obiettivo più legato al presente, e costituisce, in un certo senso, la premessa della raccolta stessa. L’oggetto del primo è un quadro complessivo del sindacalismo europeo delle origini: l’ascesa e la sconfitta, in Inghilterra, Francia e Italia, di un sindacalismo (diverso dal modello tedesco) con alcune caratteristiche comuni riconducibili a quella mouvance che Pino chiama, ricollegandosi a Paolo Farneti, di “politicizzazione del e dal sociale”, mobilitazione e pratiche che si sprigionano direttamente dentro il sociale: un sindacalismo certamente politico, ma distinto dall’organizzazione del partito politico socialista, che nasce invece come depositario di una ideologia da diffondere tra le masse. Socializzare senza statizzare, conquistare sicurezza sviluppando libertà, sono parte di questa mouvance, ma, anche, critica alla democrazia, antistatalismo, localismo. Sarà sostanzialmente la guerra novecentesca a chiudere questa esperienza, introducendo i temi della nazione, della violenza e dell’organizzazione militare applicata alla produzione.

Due riflessioni vengono alla mente, a conferma e chiarificazione di questo passaggio cruciale: la prima è il richiamo, nell’arco di tempo considerato, a un aspetto nuovo e dirompente di quella fase storica, cioè la forte internazionalizzazione del lavoro (mercato, organizzazione) che si accompagna a quella parallela del capitale (non a caso gli storici hanno parlato di una vera e propria “prima mondializzazione” rispetto alla seconda di fine Novecento).

Questa internazionalizzazione è segnata, nella storia del movimento operaio, dalla nascita stessa, nel 1889, della grande organizzazione a cui aderirono tutti i partiti nazionali socialisti e laburisti europei sotto la guida del partito socialdemocratico tedesco: la cosiddetta Seconda Internazionale, per distinguerla dalla Prima, fondata nel 1864 e caratterizzata dalla battaglia vincente di Marx contro Mazzini, Proudhon e Bakunin. È sullo sfondo o dentro questa “organizzazione” (ancora oggi ben nota grazie al fondamentale studio sul partito politico di Roberto Michels, autore attentamente studiato dallo stesso Ferraris) che si svolge il decisivo dibattito tra sindacato e partito, segnato dai contrasti teorici su democrazia e capitalismo, spontaneità e organizzazione: così come è anche contro questa organizzazione (praticamente morta nell’agosto del 1914 allo scoppio della guerra) che nascerà, dopo la fine della prima guerra mondiale, la costola bolscevica e la Terza Internazionale. Il primo e massimo storico della Seconda Internazionale è stato Georges Haupt, che a questo studio ha dedicato la vita e che continuava, in anni di ortodossie contrapposte dalla guerra fredda, a difenderne la struttura tutto sommato aperta sul terreno ideologico, proprio perché egli stesso era stato una vittima della Terza (in fuga dalla Romania, approdò in Francia nel 1958: a lui è dedicato il fascicolo in uscita, 1/2012, dei “Cahiers Jaurès” ).

La seconda riflessione – sempre a conferma di quanto scrive Ferraris – si riallaccia allo studio di C.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Nella sua analisi comparata del 1975 su Francia, Italia e Germania, Maier individuava proprio nella sconfitta delle rivendicazioni dei grandi scioperi del primo dopoguerra, di carattere ancora “ottocentesco”, imperniate cioè sul controllo operaio delle fabbriche (significative le parole d’ordine come: “la mine aux mineurs”, “les chemins de fer aux cheminots”…), la chiave di volta per comprendere il successo negli anni venti della rifondazione corporatista del nuovo capitalismo fordista in tutti i paesi europei, e non solo in quelli fascisti. Dal quadro di Maier è volutamente escluso il caso inglese, che conosce una storia diversa: un eccezionale lungo decennio di conflittualità sociale e di spinta operaia libertaria (1910-1920) che apre al “socialismo dei consigli”. La Gerusalemme rimandata V FoaIn quegli stessi anni, nel 1973, ricorda Ferraris nella introduzione alla Gerusalemme rimandata, Foa, che ha già in mente la ricerca sugli operai inglesi, apre il suo saggio per la Storia d’Italia (Einaudi) – Cento anni di sindacato in Italia – prendendo le mosse dagli scioperi del Biellese, investito dalla meccanizzazione del lavoro tessile. Negli scioperi del 1878 (che sono all’origine della relazione della “Commissione parlamentare di inchiesta sugli scioperi” voluta da Crispi), scrive Ferraris, “la lotta economica assume un potenziale politico dal momento in cui gli operai professionali minacciati nel loro mestiere si fanno protagonisti dell’unità con i nuovi lavoratori poco qualificati e con le donne per un comune controllo sulla prestazione del lavoro”. È la stessa ipotesi di ricerca che guida Foa nella Gerusalemme rimandata: la risposta alla taylorizzazione del lavoro, nell’Inghilterra “officina del mondo”, avviene attraverso un processo in cui la difesa corporativa del controllo del proprio mestiere da parte degli operai specializzati si ribalta in proposta unitaria offensiva di controllo operaio sulla produzione. Ma quella esperienza sarà riassorbita dal laburismo amministrativo e statalista. Si trattava dunque di una Gerusalemme rimandata o sconfitta? Questo fu il rovello di Foa, che scrive di classe operaia inglese pensando a quella italiana – e si direbbe anche di Ferraris, che scrive di ieri pensando al domani.

Il secondo dei tre saggi che compongono il libro è dedicato a Osvaldo Gnocchi-Viani, protagonista e teorico appunto di quel tipo di organizzazione che Maier vede definitivamente superata dopo le trasformazioni economico-sociali imposte dalla prima guerra mondiale, ma che già Giuliano Procacci (in un saggio per la “Rivista storica del socialismo” del 1962) considerava profondamente trasformata a seguito dello sciopero generale del 1904: l’organizzazione basata sulle Camere del Lavoro, caratterizzata dalla compresenza di segmenti diversi della classe lavoratrice, dagli artigiani agli operai ai contadini. Qui, incurante delle sconfitte della storia, e mosso da intenti non storiografici, ma ideali e politici, Pino si va a leggere i numerosi saggi di Gnocchi-Viani, anziché studiare, come è stato fatto anche in maniera meritoria da parte degli storici (Franco Della Peruta, Gastone Manacorda, Stefano Merli, Maria Grazia Meriggi), le reti organizzative. E con questo recupera davvero una memoria teorica perduta. Perché nella versione degli storici, quella lotta (guidata sostanzialmente dai tipografi, come Gnocchi-Viani o Bignami, e da un grande giornale, “La Plebe”) è destinata alla sconfitta in base a una logica della storia che la linea organizzativa ispirata a Marx sa meglio interpretare, soprattutto dopo la crisi sanguinosa di fine Ottocento e l’avvio dell’era giolittiana imperniata sui partiti e i collegi elettorali.

A Ferraris, invece, Gnocchi-Viani appare come l’interprete di un “modello italiano” particolare, basato sulla compresenza, nei movimenti sociali italiani, di lavoratori dell’industria e dell’agricoltura: un fatto che stupiva già Engels nella corrispondenza con Labriola, e più tardi Kautsky, perché in nessun paese d’Europa, eccetto che in Italia, troviamo i contadini sulla sinistra dello spettro elettorale (eccezionalità confermata dal grande affresco comparato di Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti). Ora su questo protagonista dimenticato Ferraris scrive delle pagine bellissime, dedicate soprattutto al suo rapporto con i compagni di lotta, alla sua capacità di ascoltare e di accogliere le idee proprie degli operai. Seguiamo il filo dell’analisi dell’opera di Gnocchi-Viani attraverso i titoli dei paragrafi del saggio, che così si susseguono: Un intellettuale anomalo (anomalo, si osserva, per lo spazio offerto alla emancipazione delle donne e alla condizione dei fanciulli); La terza via: partire dal basso, sulla crisi della Prima Internazionale a seguito della lotta tra sette e scuole, a cui Gnocchi-Viani contrappone un sindacalismo apartitico di base; Partito politico e partito sociale: qui Ferraris rilegge attraverso le opere di Gnocchi-Viani la nascita e l’affermarsi del Partito operaio italiano (Poi), il cui scopo era “organizzare arte per arte le falangi del proletariato”: un partito “apolitico”?

Sì, ma nel senso che: “Nella bancarotta dei vecchi ‘partiti politici’ solo i nuovi ‘partiti sociali’ possono ridare idealità, speranza, progresso all’Italia” (p. 96). Altro paragrafo è dedicato a Le Camere del lavoro, cioè al dibattito su Borse o Camere e alla convinzione di Gnocchi-Viani che nelle Camere, su cui egli scommette, fosse confluita l’esperienza del Partito operaio: per lui, infatti, la Camera del Lavoro rappresentava, ben più del partito, lo strumento “per patrocinare gli interessi dei lavoratori in tutte le contingenze della vita” (p. 114). L’ultima parte del saggio è dedicata all’affermarsi del Partito socialista in Italia che, secondo Gnocchi-Viani (Appunti su socialismo germanico del 1892, lo stesso anno della fondazione del Psi), avviene in maniera troppo “precoce” rispetto allo sviluppo del proletariato moderno e del suo associazionismo economico, con il rischio di importare nel contesto italiano l’inadeguato modello tedesco, a cui rimprovera un eccesso di economicismo, di socialismo fatalista; una modalità di costruzione dall’alto verso il basso (anziché il contrario, come nel Poi).

Il terzo e ultimo breve saggio è quello più orientato a esaminare il ritorno dei movimenti sociali sulla scena globale odierna (con le loro domande di cooperazione politica, a partire dal sociale, mentre i partiti politici sembrano giunti al termine di una parabola) e a cercare nel passato (in questo caso l’esperienza di una sorta di welfare non statalista, ma di tipo cooperativo e mutualistico del Belgio di fine Ottocento) suggerimenti per una nuova politica.

Con riferimento soprattutto a quest’ultima parte del libro, propongo anche qui qualche accostamento tra la riflessione di Ferraris e la storiografia del ventennio passato: il primo e più logico è quello con la storia delle donne in Italia, che, grazie soprattutto a Annarita Buttafuoco e alla rivista “DWF”, ha fortemente rivalutato sia la figura di Anna Maria Mozzoni (la cui “Lega promotrice degli interessi femminili” fu sostenuta con convinzione da Gnocchi-Viani) che la Società Umanitaria, che ancora Gnocchi-Viani contribuisce a fondare e a dirigere tra gli anni novanta dell’Ottocento e il 1908. Quei decenni sono stati fonte di grande interesse non solo per la storia delle donne, ma anche per la storia urbana e municipale e più in generale per la storia della modernizzazione statistica e giuridico-amministrativa dell’Italia giolittiana: pensiamo al ruolo di amministratori-politici in sede locale come G. Montemartini. A. Schiavi, E. Nathan, all’intensità degli scambi tra economisti e sindacalisti riformatori al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico (si vedano gli stretti rapporti dell’Ufficio del lavoro con l’American Federation of Labor). Ma ciò che caratterizza soprattutto quel decennio iniziale del secolo, in cui si coagulano formazioni politiche diverse in una sorta di prospettiva ottimista di crescita, è la cultura delle riforme e l’emergere di una scienza sociale a scopo di riforma, la commistione tra analisi sociale, tra sociologia, diremmo oggi, e militanza progressista (su questo, rinvio a una raccolta di brevi e significativi interventi di giovani studiosi, da me curata in un clima totalmente diverso da quello odierno, nel 1993: Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, Clueb).

Eccoci ricondotti alla figura dell’autore di questo libro, a Pino Ferraris e al titolo del suo libro, Ieri e domani. Perché infatti Pino sa cogliere l’attualità del socialismo di ieri? La risposta è semplice: per la sua grande passione politica e la sua curiosità nei confronti della conoscenza di ciò che di nuovo si muove nella società. Pino Ferraris è originario di Biella, di quelle valli in cui nasce nell’Ottocento la prima industrializzazione e insieme il primo socialismo: qui Terra e telai (titolo di un classico studio di microstoria di Franco Ramella) si mescolano, si sostengono a vicenda, sullo sfondo di una tradizione di associazioni e fratellanza, quella stessa che lui scopre nel tipografo Gnocchi-Viani. Quanto conti in Ferraris il suo essersi formato in quel contesto è rivelato da un episodio da lui narrato di recente per un volume in ricordo di Lelio Basso (curato dal figlio Piero), in corso di pubblicazione.

Nel 1962 Ferraris, chiamato quattro anni prima, a soli 24 anni, a dirigere la federazione di Biella del Partito socialista, invita – in occasione dei 70 anni del Psi e di una straordinaria mostra organizzata sul secolo di esperienze operaie e socialiste del circondario di Biella – Lelio Basso: il dirigente socialista, venuto per un giorno, si ferma due giorni, colpito dalla ricchezza della documentazione e dall’entusiasmo dei giovani: orgoglio di scoprire una passato classista e socialista mentre l’effervescenza sociale riappare, commenta Ferraris. “Scavate nel passato e scrutate nel futuro”, è il messaggio lasciato da Basso in quella circostanza. E in effetti, Ferraris studia le lotte di classe nel biellese: poi su questo stesso terreno incontra, come si è visto, Vittorio Foa, il quale, negli anni settanta, partendo dal biellese scopre l’autonomia e il potenziale politico della lotta operaia (contro lo schema secondo internazionalista della lotta operaia come corporativa) insieme alla proposta unitaria di controllo operaio del movimento inglese: entrambi mossi dalla comune speranza di riuscire a proporre – scavando nel passato – nuove forme associative all’altezza degli anni settanta-ottanta. È con questa commistione che vorrei chiudere: chiedendomi cioè se ancora oggi le scienze sociali nutrite di storia non possano fare da battistrada – come mostra il caso di questo libro o dell’altro recente di Carlo Donolo, Italia sperduta – verso una cultura diffusa delle riforme della politica.

LO STRANIERO, N.140 – Febbraio 2012
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Ascolta il discorso conclusivo di Pino Ferraris alla Festa della Parola alla Snia di Roma sabato 1 ottobre 2011
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- Approfondimenti: Il libro di Pino Ferraris
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* Fondatore dell’Umanitaria di Milano fu Prospero Moisè Loria.
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ferraris pino LIBROIeri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente
di Pino Ferraris
pp. 178

“Quando la maison institutionnelle minaccia di crollare e i saperi dell’ordinaria manutenzione non bastano più nasce l’esigenza di riportare alla luce i disegni e i progetti, i calcoli e i modelli dei costruttori […]. Ogni crisi di rifondazione chiama ed esige il recupero del punto di vista genetico. Oggi è la radicalità della crisi del sindacato e del sistema politico dell’Europa contemporanea che ci costringe a scavare dentro le origini.” I tre saggi del testo interrogano la storia del movimento operaio e socialista delle origini. Rappresentanza degli interessi e orientamento ai valori, ambiti di vita e di lavoro, autonomie confederate e centralizzazione amministrata, statalismo e “far da sé solidale”, azione sindacale e lotta politica: sono dilemmi di una storia complessa troppe volte semplificata e mistificata dentro schemi ideologici. Non rimozione o nostalgia del passato. Ma rifiuto dell’“ideologia del presente” collegando lo sguardo libero e critico sul passato all’invenzione del futuro.

Pino Ferraris è stato dal 1958 segretario della Federazione del Psi di Biella. Nella seconda metà degli anni sessanta è stato membro della direzione del Psiup e segretario della Federazione di Torino. Nei primi anni settanta è stato tra i promotori della costruzione del Pdup. Dal 1977 al 1999 ha insegnato Sociologia presso l’Università di Camerino. Ha scritto saggi di sociologia politica, sociologia del lavoro e di storia del movimento operaio.

Rassegna stampa
“I diavoli dell’Apocalisse” di Goffredo Fofi (“l’Unità” del 25 settembre 2011)
“Compagno Pino, quanto ci hai insegnato” di Valentino Parlato (“il manifesto” del 3 febbraio 2012)
Sito dell’Editore:
http://www.asinoedizioni.it/products-page/libri-necessari-2/ieri-e-domani-storia-critica-del-movimento-operaio-e-socialista-ed-emancipazione-dal-presente/

Ripensare la città. Senza la partecipazione popolare non c’è presente e futuro accettabili

lezione alla scuola popolare 1971Oltre i festival, per una nuova alfabetizzazione

di Ottavio Olita, su il manifesto sardo.

Area vasta, città metropolitana, grandi dimensioni per un futuro che si spera migliore. Ma quale attenzione per gli storici quartieri periferici viene posta nelle dichiarazioni programmatiche della nuova giunta di Cagliari? Vediamo cosa c’è scritto di specifico.

A pag. 18: “Proseguirà la cura delle azioni possibili per garantire i diritti di tutela sociale e giuridica dei minori stranieri non accompagnati, in una logica di corretto raccordo interistituzionale e con l’obiettivo di produrre vera inclusione sociale. Saranno rafforzate le azioni che hanno già portato ottimi risultati: il progetto ‘Centri di Quartiere’ a San Michele, Mulinu Becciu, Pirri e Marina (in fase di realizzazione Centro di Quartiere a Sant’Elia), il potenziamento di attività oratoriali destinate a spazi di accoglienza per minori dai 6 ai 18 anni, lo sviluppo del servizio ‘educativa di strada’ a favore di adolescenti e giovani di età compresa tra 14 e 21 anni nel quartiere di Sant’Elia e nel quartiere di San Michele, l’ufficio Mediazione e lo Spazio famiglia”.

Alle pag. 27 e 28: “A seguito di un’approfondita analisi di contesto, il Comune di Cagliari, in coprogettazione con il Centro Regionale di Programmazione della Regione, ha individuato nei quartieri di Is Mirrionis e San Michele l’area urbana per un Investimento Territoriale Integrato (ITI). La proposta progettuale prevede un intervento di rigenerazione urbana, inteso quale insieme di azioni materiali e immateriali integrate fra loro. L’intervento è articolato su due livelli:

la riqualificazione urbana, finalizzata al recupero edilizio di contesti caratterizzati da elevato disagio abitativo con prevalenza di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), mediante interventi di riduzione dello stato di degrado degli immobili e miglioramento e incremento delle strutture e degli spazi pubblici;
le azioni di supporto e accompagnamento all’inclusione dei residenti nel quartiere, con l’obiettivo di creare un contesto sociale in cui si previene il disagio, si crea coesione sociale e si risponde ai bisogni insieme alle istituzioni, al fine di accrescere il capitale sociale.
L’ITI si compone di 6 azioni declinate in sub-azioni. Gli obiettivi previsti devono essere raggiunti entro 48 mesi, tempo entro cui devono anche essere completati gli interventi. Le azioni previste riguardano:

il miglioramento della qualità degli spazi di vita nel quartiere attraverso la realizzazione di azioni che stimolino la partecipazione attiva dei residenti alla vita pubblica (Azione 1);
il recupero funzionale dell’Hangar per la realizzazione di una ‘casa del quartiere’ in cui svolgere attività di animazione territoriale e inclusione sociale (Azione 2);
il recupero della ex scuola di via Abruzzi per realizzare servizi di cura socio educativi (Azione 3);

la riqualificazione dell’istituto comprensivo Ciusa per la realizzazione di un polo didattico-scientifico (Azione 4);
innovazione sociale e inclusione attiva, attraverso progetti orientati all’occupazione e alla creazione d’impresa (Azione 5).
Tutte le azioni saranno accompagnate da un processo partecipativo per informare, costruire consapevolezza sulle opportunità di cambiamento materiale e immateriale, costruire un percorso di fiducia per promuovere e guidare la crescita e la responsabilità civile degli abitanti del quartiere (Azione 6)”.

Le sei azioni indicate sono evidentemente frutto di una valutazione di quel che è accaduto in questi quartieri negli ultimi decenni e quel che continua a determinarsi in particolare tra le giovani generazioni. Come fare per rendere efficaci gli interventi? Come passare dall’enunciazione alla pratica? Come riuscire a raggiungere gli obiettivi se non si crea una sorta di task force realmente operante nel quartiere che svolga opera di aggregazione, socializzazione, diffusione della conoscenza? Bisogna innanzi tutto ricorrere alle associazioni e ai gruppi di volontariato che operano già all’interno per aiutarli ad incrementare e migliorare i loro interventi. Bisogna inoltre mettere a disposizione gli spazi necessari. Perché, ad esempio, non recuperare a questo fine quel Centro Culturale, diventato ormai un rudere, che negli anni ’70 del secolo scorso ospitò l’esaltante esperienza della Scuola Popolare di is Mirrionis?

L’appello è rivolto soprattutto al nuovo assessore comunale alla Cultura, Paolo Frau, che conosciamo molto sensibile a questi temi e al quale sottoponiamo un’altra nostra riflessione: siamo proprio sicuri che la strada migliore per diffondere curiosità culturale sia la spettacolarizzazione degli eventi? I festival dei generi più disparati muovono gli interessi e le curiosità dei già informati, dei lettori più avvertiti, degli intellettuali frequentatori delle antiche terze pagine dei giornali, delle librerie, delle biblioteche. Servono anche, senz’altro, a far giungere nuovi visitatori.

Ma perché non impiegare altrettante energie intellettuali ed economiche per favorire una nuova alfabetizzazione nelle periferie, dando gambe possenti a quelle sei Azioni così diligentemente elencate? La buona volontà è bella ma non basta. Perché non cominciare a coinvolgere molto di più i Comitati, le Associazioni, i gruppi di volontari che già operano e quindi conoscono bene quelle realtà così diverse dai tanti salotti e cenacoli letterari pubblici e privati?
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Libro SP Is Mirrionis ca
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Approfondimenti sull’ITI (da Aladinews)
via Is Mirrionis segue numerazione
Por FESR Sardegna 2014-2020 Parte ITI Investimenti Territoriali Integrati

Azione 9.6.6. Interventi di recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione collettiva, inclusi interventi per il riuso e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alle mafie

Descrizione della tipologia e degli esempi di azioni da sostenere.

L’azione che si intende sostenere è incardinata nell’ambito della Strategia per le Aree urbane ed è finalizzata a sperimentare, in stretta sinergia con le altre azioni del presente Asse (9.3.8 e 9.4.1), un approccio multidisciplinare alle problematiche della legalità orientato alla vita della comunità promuovendo la sperimentazione di progetti innovativi improntati su politiche di prevenzione.

Si intende, quindi, favorire il recupero funzionale e il riuso di vecchi immobili pubblici da destinare a spazi di relazione per il quartiere e l’intera comunità locale, nella piena convinzione che la rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi o sottoutilizzati in stretto collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva, possa rispondere a una duplice finalità: da un lato evitare l’ulteriore degrado dell’area, dall’altro rappresentare una leva di coesione sociale.

Gli interventi infrastrutturali saranno funzionali alle attività di animazione sociale che sul territorio si intenderà promuovere, per diventare dei luoghi fisici di partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi in cui sviluppare un lavoro di prossimità. Tali iniziative dovranno fungere da catalizzatore per la costruzione di nuove reti di relazione e rappresentare dei luoghi in cui si potranno intercettare i problemi sociali della famiglia, degli anziani, delle persone inoccupate e disoccupate in cerca di lavoro, e diventare delle vere e proprie “case di quartiere”, in grado di offrire servizi alla collettività (supporto alla genitorialità, sostegno alla legalità, prevenzione di fenomeni di devianza giovanile e/o abbandono scolastico).

Particolare attenzione verrà data alla sostenibilità di gestione nel medio-lungo periodo dei servizi realizzati, garantendo adeguate analisi di fattibilità ex ante, l’individuazione di risorse per lo start-up e l’avvio immediato delle procedure di selezione degli eventuali soggetti gestori, anche contestuale alla progettazione, così da incorporare l’effettivo fabbisogno del gestore.

Infine, le azioni afferenti le aree urbane saranno realizzate, secondo quanto previsto nell’ambito della strategia regionale su Agenda Urbana, attraverso il ricorso allo strumento degli Investimenti Territoriali Integrati nelle tre maggiori aree urbane (Cagliari, Sassari e Olbia), con l’affidamento della responsabilità di attuazione alle Autorità Urbane. Con riferimento all’area di Cagliari e agli interventi previsti nell’ambito del PON Metro, la demarcazione avverrà su base territoriale, con l’individuazione di un quartiere target per il POR e il sostegno a iniziative anche di scala metropolitana nei diversi settori di intervento del PON METRO.

Contributo atteso al perseguimento dell’obiettivo specifico

Si ritiene che attraverso tali azioni si possa migliorare la legalità di aree degradate delle principali città attraverso il recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva della comunità locale.

Principali gruppi di Destinatari: Categorie sociali fragili Territori specifici interessati: Territori urbani degradati Beneficiari: Enti locali; Enti Pubblici

www.sardegnaprogrammazione.it
sardegnaprogrammazione.it
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ITI IS MIRRIONIS

SCHEDA COMUNE DI CAGLIARI
EXECUTIVE SUMMARY
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DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021 SINDACO MASSIMO ZEDDA

Torri municipio Cagliarilampadadialadmicromicro13Il nostro amico consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Pino Calledda ci ha fatto avere in anteprima il documento con le dichiarazioni programmatiche che il Sindaco Massimo Zedda esporrà nella prossima seduta del Consiglio comunale di Cagliari prevista martedì 11 ottobre. Le stesse dichiarazioni sono pervenute a tutti i consiglieri comunali su richiesta del presidente dell’assemblea civica Guido Portoghese ma allo stato non sono disponibili nel sito web del Comune. Nei prossimi giorni in spirito di servizio, come si diceva un tempo, formuleremo osservazioni critiche – in senso lato – cercando di mantenere comunque una serenità di giudizio. Ciò significa apprezzamento per quanto riteniamo positivo, critica per quanto riteniamo sbagliato, richiesta di spiegazioni per quanto viene omesso. Proprio a quest’ultimo riguardo lasciateci anticipare un interrogativo: perché nelle dichiarazioni non si parla degli immigrati e delle politiche di accoglienza? Ne vogliamo parlare? Ecco: in questo contesto e in questa direzione noi siamo impegnati, ma vorremmo essere in buona compagnia, cioè vorremmo che tutti coloro che hanno qualcosa da osservare o segnalare, per questioni di carattere generali o specifiche, intervenissero. Con tutto il rispetto che abbiamo dei nostri rappresentanti istituzionali che si esprimeranno nell’esercizio del loro mandato, crediamo che non debba mancare l’intervento dei semplici cittadini singoli o associati. A tal proposito gli spazi di ALADINEWS sono dunque a disposizione.
StemmaAraldico_ComuneCagliari_feb2015_d0

    DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE – MANDATO AMMINISTRATIVO 2016/2021
    SINDACO MASSIMO ZEDDA

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Come saranno spesi i 15 milioni per Is Mirrionis? Studiamo la documentazione e esercitiamo le nostre capacità critiche.

quartiere-di-is-mirrionis-stefanoconti(Dal sito web della RAS) Delibera del 11 maggio 2016, n. 26/6 [file .pdf]
Programmazione Unitaria 2014-2020. POR FESR e POR FSE 2014-2020. Agenda Urbana – Investimento Territoriale Integrato (ITI). Accordo di Programma tra la Regione Autonoma della Sardegna e il Comune di Cagliari “ITI Is Mirrionis”.
- All. 26/6 – Accordo di programma quadro [file .pdf]
- All. A – Investimento Territoriale Integrato [file .pdf]
- All. B - quadro finanziario dell’ITI [file .pdf]
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lampada aladin micromicroVolete un primo commento? Questo progetto è negativamente contraddistinto da un “deficit di partecipazione”. Sembra fatto in uno studio isolato da professionisti incuranti di confrontarsi con la gente in carne ed ossa. Le strutture fisiche di partecipazione, tra tutte l’hangar, appaiono scelte più per ragioni di attenzione alle spese che per l’efficacia delle azioni rispetto alle finalità. Non risulta alcuna analisi delle attività socio-culturali esistenti, che ci si è ben guardati di coinvolgere. Come un pugno in un occhio il fatto che si continui ad ignorare la richiesta di riuso dell’edificio di proprietà di Area dove si svolse l’esperienza della Scuola Popolare dei Lavoratori. Sorvoliamo per ora sulla governance del progetto che appare pesante, eccessivamente burocratica e chiusa a riccio rispetto alle esigenze di partecipazione democratica dei singoli cittadini e delle loro associazioni. E’ un progetto che può essere emendato? Diciamo di SI. Diciamo anche che DEVE essere emendato perché nella sua formulazione attuale contrasta in molta sua parte con gli indirizzi comunemente concordati tra Unione Europea e Regione Sarda, risultanti agli atti dei PO Fesr e Fse della programmazione 2014-2020. Torneremo presto sull’argomento.
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Una storia italiana… l’hangar di Is Mirrionis

Hangar 3 2 mag 2016Hangar 1 2 mag 2016HANGAR DI IS MIRRIONIS.
Dalla progettazione creativa di un suo uso iniziata nella primavera del 2001 ad oggi (sono passati ben 15 anni!) solo parole, parole, parole e soldi spesi per ora invano! logo hangar Is Mirrionis 2012
Progettazione  a Is Mirrionis 2012
La pagina fb dedicata all’iniziativa.
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SINTETICA DOCUMENTAZIONE GIORNALISTICA DI UNA STORIA ITALIANA
Progettazione Partecipata a Is Mirrionis. Cosa fare nell’hangar? 23 marzo 2012·
Eventi finali del progetto europeo “Med More and Better Jobs Network”. Cagliari 29-30 marzo 2012
Il 29 ed il 30 marzo si sono svolti a Cagliari presso l’Auditorium dell’Istituto Comprensivo “Ciusa” di via Meilogu, nel quartiere di Is Mirrionis, gli eventi finali del progetto europeo Med More and Better Jobs-Network, finanziato dal Programma europeo Italia-Francia Marittimo e portato avanti dall’Agenzia regionale per il lavoro.
Nella pagina fb dell’evento, tuttora pubblicata, il progetto veniva (anticipatamente) descritto come segue.

Macroregione europea? Di cosa cosa parlano Pigliaru e Simeoni? Cerchiamo di fare chiarezza. Noi ci proviamo da tempo…

Mediterraneo-Archimedlampada aladin micromicroMacroregione? Oppure o anche Euroregione… o Gect? Di cosa cosa parlano Pigliaru e Simeoni? E’ probabile che con precisione non lo sappiano neppure loro. Cerchiamo allora di fare chiarezza. Noi, nel nostro piccolo, ci proviamo da tempo, non ci sembra che vi sia altrettanto impegno da quanti avrebbero più titoli e risorse per farlo. Su queste tematiche che richiamano capacità innovativa anche di innovazione istituzionale, di cui abbiamo particolare necessità*, s’impegnino allora innanzitutto la Regione e l’Università della Sardegna (come avevamo richiesto nel luglio 2014).
Con riferimento al nostro impegno e come stimolo per altri, ci sembra utile riproporre alcune riflessioni di Nicolò Migheli (Sardegna Soprattutto) e Franco Meloni (Aladinews), che crediamo mantengano intatta attualità. Ovviamente occorre approfondire e andare avanti nella concreta realizzazione di forme di cooperazione internazionale.
Facciamo precedere i citati contributi da una risposta in forma scritta di Johannes Hahn a nome della Commissione Europea (13 settembre 2012) a un’interrogazione dell’europarlamentare Mara Bizzotto (EFD) del 30 luglio 2012. Ci sembra chiara e quindi utile.

“Il concetto di Euroregioni è stato elaborato dal Consiglio d’Europa. Esse sono istituite al di fuori del quadro giuridico dell’UE, da gruppi, in genere di autorità pubbliche, interessati a cooperare a livello transfrontaliero. Tali gruppi sono istituiti conformemente alle rispettive legislazioni nazionali e definiscono le proprie regole di funzionamento. Sebbene il concetto non sia stato elaborato dall’UE, la Commissione è favorevole al ruolo che le Euroregioni possono svolgere nello sviluppo di progetti transfrontalieri e per superare gli ostacoli alla cooperazione, costituendo in questo modo un importante valore aggiunto per il mercato interno.
Fino ad ora gli approcci macroregionali sono stati elaborati sulla base di richieste del Consiglio europeo. Non esiste una procedura formale per l’istituzione delle macroregioni, ma l’esperienza si basa su aree vaste, che condividono sfide e opportunità comuni, che si uniscono per affrontare tali sfide in un quadro ampio che sottolinea il valore aggiunto pratico a livello di UE. Le macroregioni e la loro struttura di governance sono descritte nella comunicazione e nel piano d’azione relativi a ciascuna strategia dell’UE, integrati da orientamenti concordati dai partner partecipanti. Le macroregioni generalmente operano su una scala più ampia rispetto alle Euroregioni. L’agevolazione del mercato interno figura tra le strategie macroregionali esistenti nell’UE.
Vi sono molti tipi di gruppi di cooperazione transfrontaliera, con una struttura più o meno formale. Uno strumento formale disponibile nel contesto della politica di coesione è il gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT) (1). Il regolamento (CE) n. 1082/2006 descrive come istituire e gestire un GECT. I GECT agevolano e promuovono la cooperazione territoriale a vantaggio anche del mercato interno”.
(1) Regolamento (CE) n. 1082/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio.

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Per quanto riguarda esperienze concrete e recenti di macroregione, possiamo fare riferimento alla Macroregione Adriatica-ionica, approvata dall’Unione Europea nell’ottobre 2014.
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Di seguito i contributi di Nicolò Migheli e Franco Meloni.
mar mediderraneo cartaape-innovativa2La riflessione di Nicolò Migheli sulle macroregioni europee (che sotto riproponiamo da Sardegna Soprattutto) dalla quale emerge la proposta che la Sardegna promuova la costituzione di una “macroregione mediterranea” (così composta: per la Spagna da Catalogna, Valencia, Murcia, Aragona e Baleari; per la Francia da Languedoc-Roussillon e Corsica; per l’Italiada Sardegna, Sicilia e Toscana), che riprendiamo corredandola con un nostro contributo apparso su Aladinews il 23 giugno 2014, ci consente di sollecitare un apposito dibattito. Particolarmente necessario proprio in relazione allo stato delle proposte in campo, che non sono totalmente combacianti, come anche risulta dai due contributi pubblicati, tuttavia convergenti nell’individuazione dello strumento “macroregione” come grande opportunità di nuovo sviluppo per la Sardegna e per le altre entità coinvolgibili, Non ci possiamo permettere di sprecarla. Ci pensino innanzitutto il Consiglio e la Giunta regionale e tutti gli altri soggetti interessati. Tra questi, non ultime, le Camere di Commercio sarde e la loro Unione regionale. Al riguardo un ruolo decisivo potrà giocarlo la commissaria straordinaria della Camera di Cagliari, Paola Piras, che, nonostante il breve tempo del suo mandato, potrà invertire la deprecabile inattività e l’autoreferenzialità che hanno per troppo lungo tempo segnato il sistema camerale sardo e segnatamente la sua parte più rilevante.

Mentre Cagliari guarda Roma, sulle Alpi…
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 12 agosto 2015/ Società & Politica/

Fino ad ora l’allarme dello Svimez ha prodotto un rinfocolarsi di reciproci pregiudizi. Da una parte le accuse allo stato per aver abbandonato il Sud, dall’altra il solito sprezzante giudizio sulle classi dirigenti meridionali. Entrambe le opinioni hanno una base di verità. Il governo risponde con stanziamenti, mirabolanti solo nei comunicati Tweeter. Si scopre infatti che non c’è nulla di nuovo: solo cofinanziamenti per i programmi comunitari 2014-2020.

Compartecipazione obbligatoria da parte dello stato. Senza, i fondi non potranno essere spesi. Soldi che finiranno in gran parte in Campania, Puglia, Sicilia, Calabria e Basilicata, nei documenti Ue meno sviluppate. Abruzzo Molise e Sardegna, in transizione per le stesse classificazioni, prenderanno molto meno. Un’ulteriore dimostrazione che l’accorpamento Mezzogiorno non ha più senso, se non nelle stanche abitudini di certi commentatori. Tanto meno per la Sardegna, per ragioni geografiche, storiche, di capitale sociale, cultura e lingua.

In quei stessi giorni, la Ue approvava EUSALP, macro regione europea delle Alpi. Ne fanno parte le regioni tedesche Baviera e Baden Wutemberg; le francesi Provenza-Alpi-Costa Azzurra (PACA), Rodano-Alpi, Franca Contea. Lombardia, Piemonte, Liguria, le provincie autonome di Trento e Bolzano, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia per l’Italia. Austria e Slovenia e come regioni associate, Svizzera e Liechtenstein. Settantacinque milioni di abitanti e il Pil pro capite tra i maggiori del continente. Obbiettivi di EUSALP: promuovere innovazione e sostenibilità, sviluppo territoriale, tutela del patrimonio alpino e delle risorse naturali e culturali. Programmi ambiziosi che lasciano intravedere la creazione di un nucleo oltre gli stati nazionali. Sono in arrivo la macroregione baltica, quella del Danubio e Adriatica-Jonica. È in atto un cambiamento che determinerà quale Europa e come volerla.

La Sardegna dal 1996 fa parte di IMEDOC, con Sicilia, Corsica e Baleari. Una macroregione che nell’Ue ha rivendicato, con scarsi risultati, solo il riconoscimento dell’insularità. Uno strumento che la politica sarda ha considerato marginale. Gli occhi sempre rivolti a Roma, percepita come alfa ed omega dei nostri destini. A questo punto però occorre ragionare in maniera diversa. Avere un approccio strategico. Quindi considerare quella che fino ad ora era politica estera dello stato, come politica propria. Se gli interlocutori, quelli che possono realmente determinare il nostro futuro stanno a Bruxelles, è lì che bisogna rivolgersi.

La Sardegna, regione e non stato indipendente, ha una forza limitata, ciò non toglie che possa farsi promotrice di un’aggregazione del Mediterraneo occidentale. Sarebbe come riprendere i rapporti storici che l’isola ha avuto per settecento anni, fino all’avvento dei Savoia. Basterebbe trasformare IMEDOC ed allargarla alle regioni sul mare. Per la Spagna le Comunità autonome: Catalogna, Valencia, Murcia e le Baleari. Benché non rivierasca, l’Aragona andrebbe inserita per ragioni storiche. Per la Francia Languedoc-Roussillon e Corsica. Per l’Italia, Sardegna, Sicilia e Toscana. Questa, nelle programmazioni europee, ha fatto parte di numerosi programmi INTERREG con le regioni citate.

Si avrebbero circa 23 milioni di abitanti e molti programmi comuni da affrontare: salute del mare, ricerca, agroalimentare, artigianato di qualità, sostenibilità e sviluppo rurale; beni culturali, salvaguardia degli ambienti naturali e delle culture autoctone. Pilastri strategici della politica europea. La regione che potrebbe promuovere questa nuova aggregazione potrebbe essere la Sardegna. In questi anni con i programmi INTERREG, la cooperazione internazionale del Programma LEADER, l’iniziativa euro mediterranea dell’EMPI- la cui sede resterà in Sardegna anche per la prossima programmazione – l’isola si è dotata di professionisti e funzionari che hanno maturato esperienza. La politica dovrebbe farsi promotrice di immaginazione e di un programma ambizioso.

La Sardegna potrebbe uscire dal frangente proponendosi come perno del progetto. Basta crederci. La Catalogna impegnata in elezioni che porteranno, quasi sicuramente, ad una dichiarazione unilaterale di indipendenza, difficilmente può essere regione capofila. Lo scontro con Madrid si annuncia molto duro. Per Barcellona l’aggregazione del Mediterraneo occidentale può rivelarsi un’arma di consenso. Per la Sardegna una modalità per pensarsi centro e non periferia e per prendere in mano il proprio destino come soggetti attivi e non destinatari di scelte altrui. Agire come se Roma non ci fosse. Per quel che è possibile.

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lampadadialadmicromicro133Articolo pubblicato su Aladinews il 23 giugno 2014
Le politiche della Sardegna verso il Mediterraneo. L’interesse della Sardegna a partecipare alle Euroregioni (o altre entità cooperative similari) del Mediterraneo.
Nei giorni scorsi sulla nostra news abbiamo dato rilievo alla notizia dell’approvazione da parte della Commissione Europea della costituzione della Macroregione europea Adriatica-Ionica, per la quale si attende ora l’approvazione finale da parte del Consiglio europeo prevista il prossimo 24 ottobre. Di questa Macroregione non fa parte la Sardegna (1) in quanto la nostra isola è situata nella parte tirrenica del mar Mediterraneo. Ma, allora, perchè siamo così interessati a questa nuova realtà istituzionale? La risposta sta in quello che appare, dai documenti pubblicati, un progetto serio e credibile, che va dandosi un’organizzazione robusta in grado di sostenere un programma ambizioso e, cosa estremamente importante, che raccoglie il consenso e l’impegno di tutte le istituzioni interessate. Al riguardo il coordinatore dell’iniziativa Gian Mario Spacca, presidente della Regione Marche, sostiene che la costituzione della Macroregione “è il frutto di un intenso lavoro svolto dalla comunità adriatica e ionica, dalle città, Università, Camere di Commercio e Istituzioni territoriali che hanno trovato a Bruxelles, nel Comitato delle regioni, il luogo per dare forza al loro progetto”. Noi che siamo del parere che una delle ragioni della situazione disastrosa della Sardegna sia imputabile in gran parte alla incapacità delle istituzioni sarde di cooperare per l’attuazione di una buona politica nell’interesse dell’Isola, non possiamo che plaudire alla capacità costruttiva delle diverse Istituzioni coinvolte nel processo di realizzazione di questa Macroregione, la quale per i protagonisti, per il percorso effettuato, per i progetti strategici e così via, costituisce un modello per altre Macroregioni o per altre Entità similari di cui fa parte o potrà far parte la Sardegna. Attualmente la Sardegna non partecipa ad alcuna Macroregione, che ha una propria caratterizzazione normativa europea, ma a un’altra aggregazione cooperativa, molto somigliante denominata Euroregione (su queste nuove Istituzioni occorrerebbero approfondimenti soprattutto di carattere giuridico; intanto si segnala l’ottimo saggio di Laura Berionni “La strategia macroregionale come nuovo strumento di cooperazione territoriale” ). Archimed loghetto1Partecipa infatti alla Euroregione delle Isole, chiamata Archimed, la quale sembra versare in una situazione di precarietà, decisamente lontana dalla vitalità impressa alla Macroregione Adriatica-Ionica. Forse la causa della inconsistenza di Archimed sta nel suo vizio originario di un nuovo soggetto nato senza grande coinvolgimento istituzionale e sociale, che “si aggiunge” a tanti altri quasi una nuova bottega di generi alimentari in una città già ricca di tali esercizi. Che male c’è? Qualche posto di lavoro in più, qualche nuova prebenda per qualche amico, qualche occasione in più di turismo congressuale a spese della collettività, qualche occasione per fare fotografie di gruppo per far finta che qualcosa si fa. La gestione di Ugo Cappellacci della vicenda Archimed da proprio questa sensazione di superficialità e spreco di risorse pubbliche. Di interesse per la Sardegna esiste poi un’altra Euroregione, denominata Alp-Med, che allo stato coinvolge diverse regioni francesi e italiane (2), ma non la Sardegna né la Corsica, anche se sussisterebbe un interesse delle stesse isole, evidenziato dal fatto che ambedue fanno parte di una struttura parallela di associazionismo delle Camere di Commercio della stessa Euroregione, in attesa di un allargamento istituzionale. Peraltro anche l’euroregione Alp-Med sembra allo stato poco attiva, prova ne sia il non aggiornamento del sito web ufficiale gestito dalla regione Piemonte, fermo al 2013).
Perchè siamo così interessati alle Macroregioni europee e alle Euroregioni? Perchè crediamo possano essere utili per la Sardegna. Ci pensiamo da molto tempo. Ma diverse recenti occasioni di dibattito hanno riacuito l’interesse per questa questione. Innanzitutto mi riferisco al dibattito sulla necessità di un nuovo Statuto per la Sardegna. In particolare, trattando di politica di relazioni esterne della Sardegna, che devono avere riconoscimento anche nello Statuto, mi riferisco alle relazioni della Sardegna con il Mediterraneo. L’argomento è stato specificamente oggetto dell’intervento di Pietrino Soddu al Convegno sullo Statuto promosso dalla Fondazione Sardinia, dalla Carta di Zuri e da Sardegna Soprattutto il 9 giugno, con l’ulteriore approfondimento nell’iniziativa del 23 del corrente mese.
Nel citato intervento (non ancora trascritto in atti, ma tuttavia presente in audio/video tra i materiali del Convegno, nel sito web della Fondazione Sardinia) Pietrino Soddu sostiene che la Sardegna fino all’inizio del periodo sabaudo (1720) era saldamente collocata nel contesto Mediterraneo, specificatamente quello del Sud, verso cui intratteneva le sue relazioni più consistenti, sia in termini economici, sia di natura culturale. Gli interessi prevalenti dei nuovi dominatori sabaudi erano invece prevalentemente rivolti al Nord, in particolare alla Lombardia, circostanza che avrebbe, gioco forza, mutato la direzione dello “sguardo” della Sardegna verso il Continente italiano e verso l’Europa continentale, disinteressandosi sostanzialmente del campo passato. Secondo Soddu questa diversa prospettiva ha portato anche notevoli conseguenze positive per la Sardegna, laddove era proprio su quel versante europeo che maggiormente correva il fiume della modernità e del progresso. Oggi non si tratta di abbandonare questa collocazione, quanto di riscoprire e rilanciare l’interesse verso il Mediterraneo, nel suo complesso, e verso il Mediterraneo del Sud. Come fare? Soddu non lo ha detto, confessando di non avere idee al riguardo, se non la certezza della strada da compiere. Per questo occorre superare le incertezze e perfino le paure legate all’ancestrale timore de “su moru, che viene a rapirci le nostre donne e ad impadronirsi delle nostre risorse materiali”. I nuovi mori oggi hanno precise sembianze: sono soprattutto (e non solo) gli emiri arabi, interessati al comprarsi la Sardegna. Tutto ciò non deve portare ad un atteggiamento di chiusura, quanto piuttosto di apertura, di scambi paritari, consentiti nella misura in cui abbiamo una buona classe dirigente, espressa dalla maggioranza dei “sardi padroni in casa propria” e rafforzati sempre più nella loro identità. Ecco la migliore garanzia perchè non si venda la Sardegna a nessuno! L’intervento di Pietrino Soddu si è fermato proprio al punto che forse costituiva una prima risposta al suo interrogativo e insieme auspicio su “Sardegna: che fare verso una politica di interesse, partecipazione e integrazione nell’area mediterranea”, cioè alla seconda parte del settimo principio della Carta di Zuri: «La Sardegna (…) offre amichevole collaborazione alle comunità e alle regioni vicine per formare, a partire dal Mediterraneo, una euroregione per il progresso degli interessi comuni». Un’euroregione, appunto! E perchè, allora, non approfondire gli strumenti che l’Unione Europea mette a disposizione per realizzare concretamente questa opportunità. Sono strumenti utili e adeguati? Parliamo quindi della proposta di mandare avanti seriamente, al contrario di quanto si sia fatto finora, la realizzazione dell’euroregione Archimed, con la partecipazione di tutte le isole del Mediterraneo appartenenti all’Unione Europea, con l’intento di rafforzare una politica di pace, di solidarietà di scambi a tutti i livelli con i paesi del Mediterraneo del Sud, compresi quelli non facenti parte dell’Unione Europea e con i quali esistono già interessanti relazioni, a volte incentivate dalla stessa UE (pensiamo al programma ENPI), che potrebbero estendersi all’interno della specifica politica Bomeluzo-Alpmed2-con-UE2-300x212di favore prevista per la condizione di insularità. Ma, anche per corrispondere alla esigenza prospettata da Soddu che la Sardegna non abbandoni il fronte continentale europeo: non sarebbe utile e opportuno coltivare la piena realizzazione dell’Euroregione Alp-Med, con l’ingresso della Sardegna e della Corsica nella compagine societaria? Temi evidentemente da approfondire, che richiedono innanzitutto una “presa in carico” della Regione e, insieme, uno specifico filone d’impegno per i nostri parlamentari italiani ed europei (peraltro questi ultimi rappresentano già la circoscrizione Sardegna-Sicilia; facciamo dunque di “necessità” virtù). Peraltro, in questa sede, giova apportare un qualche correttivo all’analisi di Pietrino Soddu secondo cui la Sardegna ha abbandonato ogni interesse per il Mediterraneo a far data dal passaggio dalla Spagna al Piemonte. L’interesse per il Mediterraneo infatti se pur sopito è stato sempre coltivato e non mancano le riflessioni politiche e culturali al riguardo. Tra le prime (anch’esse culturali, ma di maggior valenza poltica) ricordiamo quanto scritto recentemente da Federico Francioni in un articolo critico proprio nei confronti del pluricitato intervento di Pietrino Soddu, pubblicato sul sito della Fondazione Sardinia, laddove Francioni ricorda che “(…) l’idea di una Federazione mediterranea – di uno Stato che avrebbe dovuto raggruppare Baleari, Corsica, Sardegna e Sicilia – fu delineata dopo il primo conflitto mondiale” proprio dal PSd’Az . Ma è giusto anche in questa sede ricordare il dibattito e gli interventi di carattere culturale (basti citare per tutti le riflessioni di Giovanni Lilliu) e l’impegno di ricerca delle Università sarde nei paesi dell’Africa mediterranea. Tutto occorre riprendere e rilanciare, perchè non si parte da zero. Anzi! E questo è il nostro e altrui impegno. Certo da rafforzare e estendere, chiamando in causa soprattutto le Istituzioni sarde.
Voglio ora concludere con una proposta operativa, sicuramente riduttiva, ma, a mio parere, importante e immediatamente fattibile.
Il 28 febbraio 2012 fu siglato dal presidente della Camera di Commercio di Cagliari e dal direttore del Dipartimento di Scienze Sociali e Istituzioni dell’Università di Cagliari un “Accordo di collaborazione” tra le due Organizzazioni per l’elaborazione di progetti per rafforzare i rapporti della Sardegna con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, anche come possibile rappresentanza/terminale avanzato della Sardegna verso i paesi del nord Africa, soprattutto attraverso l’associazionismo camerale (Ascame, Insuleur, Alpmed). I progetti elaborati e gestiti congiuntamente si dovevano proporre l’obiettivo di dare concreta attuazione alla normativa di cui all’art. 4 della legge regionale 28 dicembre 2009, n.5, finanziata dalla Regione Autonoma della Sardegna*. Tale legge regionale prevedeva un impegno della Regione così definito: “La Giunta regionale è autorizzata al finanziamento, anche con il concorso di risorse di provenienza statale e comunitaria, di progetti speciali finalizzati:
a) alla definizione di un sistema internazionale e mediterraneo di osservatori per l’intercettazione degli allarmi di crisi economico-sociale e dei settori produttivi o delle prospettive di sviluppo delle attività produttive e dell’occupazione;
b) alla predisposizione e sperimentazione di modelli di intervento per prevenire e scongiurare gli effetti derivanti dallo stato di crisi economico-sociale o per anticipare e cogliere integralmente ogni opportunità di sviluppo dei settori produttivi e dell’occupazione (…)”. A quell’accordo di collaborazione non seguì nulla. La ragione fondamentale, mi dicono, fu (e purtroppo tuttora è, considerato che al riguardo nulla è cambiato) che non si trovò un interlocutore a livello di Esecutivo politico e di organizzazione amministrativa regionale che consentisse di passare dalle parole ai fatti. Insomma, il solito problema di grandi idee (già molto che quelle ci furono) ma miseria di comportamenti e nullismo organizzativo. Non potevamo permettecerlo allora e tanto meno oggi. La proposta è dunque riprendere quell’Accordo, riscriverlo coinvolgendo in dimensioni regionali l’Unioncamere e l’Università della Sardegna, ridefinirne l’ambito, allargandolo, per esempio, al supporto alla realizzazione delle Euregioni, prima tra tutte quella esistente Archimed, di cui, per inciso, di recente è diventato presidente, in virtù della sua carica, Francesco Pigliaru.
Per questo e altro l’imperativo è: muoviamoci!

Note
1) Della Macroregione fanno parte: Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina, Serbia, Montenegro, Albania, Grecia. In Italia le regioni interessate sono Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Lombardia, Trentino Alto Adige. Come si vede la Sardegna non è interessata a detta macroregione
2) L’Euroregione Alpi Mediterraneo riunisce cinque Regioni francesi e italiane (Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta e Rodano-Alpi).
3) Dell’Euroregione Archimed fanno parte la Regione Sicilia, la Regione Sardegna, il Govern de les Illes Balears e l’ Agenzia dello Sviluppo Larnaca di Cipro (Larnaca District Development Agency – Cyprus)
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Archimed questo sconosciuto. Aggiornamento 27 agosto 2015
A proposito di Archimed visitando il suo scarno sito web in data odierna abbiamo appreso che l’organismo ha un nuovo presidente. Si tratta di Spyros Elenodorou – President Larnaca District Development Agency (CIPRO). Non abbiamo trovato traccia della riunione assembleare che lo ha eletto. Dal sito risulta invece la composizione dell’assemblea: per la Sardegna, oltre a Francesco Pigliaru ne fa parte l’assessore Cristiano Erriu. Chiederemo a lui qualche ulteriore informazione.Per ora Archimed rimane un oggetto misterioso.
Mediterraneo Archimed
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* A proposito di INNOVAZIONE “Siamo abituati a pensare ad un tale processo in termini di cambiamenti tecnologici. In questo modo di vedere non c’è nessun male, purché si sia ben consapevoli che i cambiamenti organizzativi, amministrativi e istituzionali (che includono i cambiamenti orginati da leggi) possono avere, nel processo dello sviluppo economico, esattamente lo stesso ruolo del processo tecnico inteso nel senso stretto” (Paolo Sylos Labini)
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- Risposta di Johannes Hahn a nome della Commissione Europea ad apposita interrogazione di Mara Bizzotto (13 settembre 2012).

Come sta l’Università italiana? Male soprattutto al Sud e nelle Isole. Il declino può essere arrestato e invertita la direzione? Non ci resta che provarci, con convinzione!

studenti-di-bologna4ape-innovativaE’ stata pubblicata, come anticipazione rispetto al testo completo, la sintesi di un’importante ricerca sullo stato dell’Università in Italia, a cura della Fondazione RES (Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia sostenuto dalla Fondazione Sicilia e da Unicredit S.p.A.). Lo studio mette a confronto gli Atenei del Nord con quelli del Sud, fornendo un quadro della situazione, inquietante e preoccupante soprattutto per quanto riguarda i secondi e, tra questi, per quanto ci coinvolge direttamente, gli Atenei della Sardegna. Abbiamo già dato notizia della ricerca, con l’impegno di divulgarla e farne oggetto di specifico approfondimento e dibattito in Sardegna, a partire dalle nostre realtà accademiche. In questo ambito, per ora prevalentemente di divulgazione, si situa la pubblicazione dell’introduzione alla ricerca, a cura di Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia. La RES ci comunica che il rapporto nella sua interezza è in corso di pubblicazione con la casa editrice Donzelli, Roma e uscirà a fine febbraio. Entro questo spazio di tempo (da oggi fino a febbraio) contiamo di animare un dibattito avanzato fatto di interventi sui blog/siti internet e iniziative in presenza. Ovviamente noi di Aladin ci impegnamo per quanto consentono le nostre risorse, auspicando che molti altri, persone e organizzazioni, partecipino a questo progetto. Abbiamo fiducia che tutto ciò servirà a contrastare una deriva declinante, a nostro parere niente affatto scontata. Anche in questa circostanza facciamo appello al concetto gramsciano del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della nostra volontà.
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rapporto RES 2015

    Fondazione RES
    Rapporto 2015
    Nuovi divari Un’indagine sulle Università Del Nord e del Sud
    Introduzione

di Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia

Questo settimo Rapporto RES è dedicato all’istruzione universitaria in Italia. Il tema è analizzato mettendo a fuoco i caratteri e il funzionamento delle università nelle diverse aree territoriali del paese. Si tratta di un lavoro che fa seguito a quello presentato lo scorso anno sull’istruzione secondaria. In tal modo la Fondazione ha cercato di dare un contributo su un tema cruciale per lo sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno qual è quello dell’istruzione e della formazione.
Com’è noto, il ruolo delle università è da tempo al centro della riflessione sui processi di sviluppo economico e sociale. Sempre di più, infatti, le possibilità di coniugare una crescita solida con elevati livelli di coesione sociale passano per l’acquisizione di conoscenze, per la formazione di ‘capitale umano’ come risorsa necessaria per attività produttive di beni e servizi legate alla qualità e all’innovazione; e passano anche per la capacità di far dialogare efficacemente il mondo delle imprese e il mondo della ricerca. Sappiamo che questa è una scelta obbligata specie per i paesi avanzati, che in tempi di globalizzazione non possono competere con quelli emergenti solo o prevalentemente sui costi. Ancora di più lo è per l’Italia, per la sua specializzazione manifatturiera che necessita di forti ibridazioni con le nuove tecnologie, e per la presenza di una vasta area come il Mezzogiorno che ha bisogno di far crescere attività solide e innovative e di maturare uno sviluppo più autonomo.
Le funzioni degli atenei non sono peraltro rilevanti e strategiche solo per la crescita economica. L’istruzione universitaria è anche un veicolo essenziale – insieme a quella secondaria – per la crescita culturale, per la formazione di una cittadinanza attiva e consapevole, capace di coniugare gli interessi individuali e familiari con una visione degli interessi collettivi. Essa è uno strumento importante per alimentare maggiore fiducia nelle istituzioni pubbliche, insieme a una migliore capacità di controllo sul loro operato al servizio della collettività. Insomma, scuola e università sono il terreno di coltura non solo del capitale umano ma anche del capitale sociale. E sappiamo quanto questo ingrediente sia importante nei processi di sviluppo, nei quali assume un peso certo non meno rilevante del capitale economico.
Il ruolo dell’università ha dunque una sua rilevanza oggettiva, ampiamente riconosciuta. Tuttavia, la scelta di dedicare a tale tema il rapporto di quest’anno, e il disegno della ricerca che è stato adottato, si legano anche ad alcune caratteristiche dell’approccio che RES ha cercato di seguire sin dalla sua nascita.
Anzitutto, ci siamo proposti di guardare ai problemi di sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno considerando non solo i fattori economici, ma anche quelli culturali e istituzionali:
un approccio che oggi si fa sempre più strada anche tra gli economisti nello studio dello sviluppo aprendo nuovi ponti tra l’economia e le altre scienze sociali, e tra l’economia e la storia. Come si diceva, nella prospettiva istituzionale l’università appare un fattore cruciale per lo sviluppo delle regioni meridionali ed è dunque importante cercare di colmare un vuoto di conoscenze su questo aspetto che fa intravedere l’apertura di nuovi e preoccupanti divari tra le diverse aree del paese.
In secondo luogo, ci siamo sempre sforzati di non vedere il Mezzogiorno come un’area omogenea in cui prevalgono solo le ombre, cioè condizioni economiche, sociali e politiche negative. Abbiamo cercato di segnalare anche le luci, anche quelle meno conosciute ma già accese, e quelle potenziali. Lo abbiamo fatto con le imprese innovative, con la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, con i processi di internazionalizzazione e con quelli di cooperazione. Ma abbiamo attirato anche l’attenzione sulla debolezza delle attività innovative e sui rischi che prevalgano ‘adattamenti regressivi’: il lavoro nero, l’economia nascosta, le ‘alleanze nell’ombra’ tra imprese e criminalità organizzata, l’inefficienza delle politiche pubbliche. Come si vedrà, questo approccio caratterizza anche lo studio delle università del Sud nel confronto con quelle del Centro-Nord. Ne discende un quadro più ‘mosso’ degli atenei del Mezzogiorno, un quadro fatto di “chiari” oltre che di tanti “scuri”, di risorse importanti e anche di esperienze di eccellenza, accanto a fenomeni problematici e preoccupanti.
Questo porta, infine, a un altro fattore che si pone in continuità con gli studi precedenti. Le responsabilità per le inefficienze delle attività economiche o delle istituzioni nel Mezzogiorno sono spesso attribuite ad un’unica causa. Chi vive e opera nel Sud, ma anche diversi analisti del problema meridionale, sono spesso portati a vedere in tali inefficienze soprattutto il frutto di interventi non adeguati dei governi nazionali per far fronte ai problemi delle regioni meridionali. Dall’altra parte, chi vive e opera in altri contesti – o anche analisti più distanti dal filone meridionalista – insistono sulle responsabilità primarie delle classi dirigenti locali. Nei lavori di RES ci siamo sforzati di evitare queste interpretazioni più unilaterali, semplicemente perché pensiamo che non aiutino a capire efficacemente le realtà del Mezzogiorno, e quindi a intervenire meglio. In verità, responsabilità locali e centrali si intrecciano in spirali perverse da cui non è facile uscire. Ma è su questo terreno che ci si deve misurare, ed è quello che abbiamo cercato di fare anche in questa indagine sulle università. Come si vedrà, da questo studio emerge infatti un quadro variegato di responsabilità in cui si combinano limiti evidenti della governance locale degli atenei e politiche centrali. Quest’ultime, dopo aver a lungo contribuito a peggiorare le cose con la loro permissività, negli ultimi anni rischiano di complicarle ulteriormente con interventi continui e più intrusivi che generano effetti perversi.
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Perché parliamo di ‘nuovi divari’ a proposito dell’università? Fondamentalmente per due motivi. Anzitutto perché negli ultimi anni, segnati dalla grave crisi internazionale, si allarga la distanza nel peso dell’università in Italia rispetto agli altri paesi più avanzati. Questa tendenza è ben evidenziata nelle pagine di questo Rapporto per tutti i principali indicatori: iscritti, laureati, corpo docente, finanziamenti per la ricerca e per il sistema universitario nel suo complesso. E’ bene ricordare subito questo fenomeno perché, da esso, ne discende una conseguenza importante. Il problema dell’università italiana non è limitato al Mezzogiorno; non si tratta di una questione sezionale che riguarda una sola parte del paese, anche se – come vedremo – una serie di fenomeni preoccupanti si concentrano maggiormente al Sud.
E’, infatti, soprattutto su questo nuovo divario tra Nord e Sud che si indirizza lo sforzo di documentazione e di analisi del Rapporto: l’emergenza di differenziazioni crescenti nella partecipazione all’istruzione terziaria, e più in generale nel funzionamento degli atenei, tra Centro- Nord e Sud. Soffermiamoci allora su questo fenomeno al fine di mettere in luce alcuni aspetti che saranno approfonditi nei capitoli successivi.
Anzitutto, in che senso si può parlare di ‘nuovo’ divario tra Nord e Sud? E quando comincia a manifestarsi questo fenomeno? Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, non c’è una significativa differenziazione tra le grandi aree territoriali del paese dall’Unità fino agli inizi degli anni ’70, quando si fanno sentire gli effetti del provvedimento che liberalizza gli accessi. Ciò è sicuramente vero per quel che riguarda gli iscritti, i laureati, il corpo docente, il rapporto tra docenti e studenti. Non abbiamo indicatori precisi per quel che riguarda la qualità della didattica e della ricerca, ma sappiamo che non mancavano punte di eccellenza nelle università del Mezzogiorno e della Sicilia. Si tratta di atenei di lunga tradizione con significative presenze specie nei campi di maggiore specializzazione: le discipline giuridiche, umanistiche, mediche.
In altre parole, non c’è un divario significativo tra Nord e Sud fino a quando l’università resta di élite, resta riservata a un ristretto numero di studenti provenienti principalmente dalle classi medio-alte ed è prevalentemente uno strumento di riproduzione delle classi dirigenti. In diversi anni di questa lunga fase che comincia con l’Unità, iscritti e laureati rispetto alla popolazione – o in termini più precisi rispetto alle relative classi di età – sono addirittura lievemente superiori nel Mezzogiorno. L’opposto di quel che si verifica invece per i tassi di alfabetismo che segnano un divario elevatissimo e fanno registrare differenze significative fra le grandi aree del paese ancora nei primi decenni del secondo dopoguerra.
Fino a quando l’università resta di élite, la differenziazione tra Nord e Sud non riguarda dunque i tassi di partecipazione all’istruzione terziaria, ma si manifesta piuttosto nella specializzazione disciplinare, che vede al Sud un più elevato numero di iscritti alle facoltà di giurisprudenza e a quelle legate agli studi umanistici, e invece una minore consistenza di coloro che scelgono gli studi di ingegneria e di architettura o di economia. Questo si può considerare un indicatore significativo della differenziazione delle classi dirigenti nelle due grandi aree territoriali del paese che vede al Sud una più ridotta presenza di attività produttive moderne.
Il quadro cambia, come si diceva, negli anni ’70 dopo la liberalizzazione degli accessi. E’ in quel momento che la partecipazione in termini di iscritti compie un balzo in tutte le aree del paese. Tuttavia, è proprio a partire da questi stessi anni che comincia ad aprirsi un divario maggiore e crescente tra Nord e Sud negli iscritti e nei laureati, mentre si attenua sensibilmente – ma persiste – il modello di specializzazione disciplinare basato sugli studi giuridici e umanistici.
Come spiegare il manifestarsi di questo nuovo divario? L’ipotesi che si può formulare è che con il passaggio dall’università di élite a quella di massa il Mezzogiorno non riesca a tenere il passo con il Centro-Nord, anzitutto per numero di iscritti. In altre parole, possiamo supporre che le nuove opportunità di allargamento della istruzione universitaria per le classi medio-basse siano state colte in misura inferiore nel Sud, soprattutto a causa delle minori risorse economiche su cui le famiglie di questi gruppi sociali potevano contare. Peraltro, questa situazione di svantaggio non veniva – e non è mai stata – corretta da un’efficace intervento pubblico a sostegno del diritto allo studio per gli studenti meno abbienti.
E’ in questo quadro più ampio che dobbiamo dunque inserire le tendenze dell’ultimo quindicennio, dettagliatamente documentate nei capitoli seguenti. Si accentuano infatti le difficoltà delle famiglie appartenenti alle classi più svantaggiate a sostenere l’istruzione universitaria dei figli, anche come conseguenza della crisi economica internazionale che colpisce l’intero paese ma si manifesta in forme più gravi nelle regioni del Sud. Più della metà del calo degli immatricolati nello scorso decennio si concentra nel Sud. Paradossalmente, il fenomeno non è contrastato, come ci si dovrebbe aspettare, dagli interventi per il diritto allo studio e per i servizi agli studenti, che anzi continuano a registrare uno squilibrio significativo dei livelli di sostegno a tutto svantaggio delle regioni meridionali.
Insomma, c’è una grave sottovalutazione – che viene da lontano, con il passaggio all’università di massa – del ruolo strategico che il rafforzamento dell’istruzione terziaria potrebbe avere proprio per lo sviluppo del Sud. Questo fenomeno ha riguardato certamente i governi nazionali e le loro difficoltà a mettere a punto una strategia efficace che tenesse conto dell’importanza del capitale umano e del capitale sociale nei processi di sviluppo; ma ha riguardato anche, in misura non meno grave, le regioni meridionali per la parte di loro competenza. Insomma, non è stato adeguatamente sostenuto il diritto allo studio sia come aspetto cruciale di una moderna politica di sviluppo, sia come diritto di cittadinanza fondamentale sancito dalla Costituzione (art. 34) che avrebbe dovuto attivare politiche di coesione adeguate per garantire agli studenti ‘capaci e meritevoli anche se privi di mezzi’ l’accesso all’istruzione universitaria quale che sia la loro residenza.
Questa situazione vede l’Italia in condizioni di copertura sensibilmente più bassa di quelle dei principali paesi europei e, come si diceva, si è addirittura aggravata nello scorso decennio. Così, mentre per la prima volta scendeva il numero degli immatricolati, specie nel Mezzogiorno, gli interventi per il diritto allo studio finivano per essere ancora più deboli proprio nelle regioni meridionali dove ve ne era più bisogno. Ciò è dovuto al farraginoso e inefficiente meccanismo di finanziamento nell’ambito del quale il fondo integrativo statale premia sostanzialmente le regioni che spendono di più, che non sono quelle del Sud. Il risultato è un’ingiustificabile balcanizzazione regionale di un diritto di cittadinanza e un effetto regressivo del finanziamento per cui sono premiate le regioni con redditi medi più elevati. Considerando solo le borse di studio, si arriva così a una situazione nella quale solo il 38% degli idonei riceve una borsa nelle Isole, il 61% nel Mezzogiorno continentale a fronte di valori intorno al 90% per il Centro-Nord.
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Ci sono dunque evidenti responsabilità dei governi nazionali e regionali nel non aver sostenuto e accompagnato efficacemente il passaggio del nostro sistema dall’università di élite a quella di massa, e questo ha certamente penalizzato di più le regioni del Mezzogiorno. Ha inciso sulle difficoltà di rispondere a una domanda crescente di università. Ma chiediamoci ora che cosa suggerisce la ricerca dal punto di vista dell’offerta, cioè del funzionamento degli atenei con riferimento alle tre principali attività: la didattica, la ricerca e la cosiddetta ‘terza missione’. Su tutti questi aspetti il Rapporto fornisce informazioni e analisi dettagliate e mette in luce l’esistenza di differenze più o meno marcate tra le grandi aree territoriali e anche al loro interno. Le maggiori criticità riscontrate negli atenei meridionali con riferimento a queste tre funzioni fondamentali mettono però anche in luce come il passaggio dall’università di élite a quella di massa non sia spiegabile soltanto con la maggiore debolezza del contesto economico-sociale o con l’inadeguatezza delle politiche regionali e nazionali, ma chiami in causa carenze specifiche della governance degli atenei meridionali.
E’ molto difficile misurare e valutare la qualità della didattica. Tuttavia, alcuni indicatori segnalano delle criticità che contraddistinguono maggiormente gli atenei del Mezzogiorno. Essi riguardano anzitutto l’efficienza dell’attività didattica: tempi di completamento degli studi mediamente più lunghi, specie per i corsi di laurea triennali e per quelli a ciclo unico; minore frequenza delle lezioni; abbandoni dopo il primo anno più numerosi; maggiore presenza di ‘fuori corso’. E’ evidente che su questi fenomeni possono incidere le competenze acquisite in precedenza dagli studenti, e sappiamo che queste sono spesso più lacunose e meno adeguate nelle realtà del Mezzogiorno. Tuttavia, queste tendenze sono anche influenzate da fattori di offerta, come il rapporto più elevato tra docenti e studenti, la carenza di aule e di servizi, la mancanza di efficaci servizi di orientamento e di tutoraggio. Da questo punto di vista, sono dunque da prendere in considerazione anche scelte autonome da parte degli atenei che appaiono meno efficaci nell’organizzazione delle attività didattiche e possono condizionare il rendimento degli studenti. Naturalmente, è difficile stabilire quanto tali scelte siano a loro volta influenzate da problemi di finanziamento e da vincoli esterni al reclutamento e alla programmazione del personale docente, ma si intravede anche uno spazio di autonomia che non sembra sia stata usata sempre al meglio dagli atenei meridionali, pur se il fenomeno non è limitato solo al Mezzogiorno.
Quest’impressione emerge ancor più chiaramente dall’analisi dei recenti cambiamenti dell’offerta didattica, Com’è noto, le università hanno dovuto affrontare negli ultimi anni un percorso complesso di allargamento dei corsi offerti (con l’introduzione delle lauree triennali e di quelle magistrali), al quale si è accompagnata la crescita di sedi decentrate. Dopo pochi anni, si è imposto un percorso inverso che ha portato alla diminuzione dei corsi offerti, in base a una serie di vincoli tra i quali la disponibiltà del personale docente da potere impegnare nei corsi attivati. L’approfondimento dei risultati di questo processo ha messo in luce come sia la fase di allargamento, sia soprattutto quella del ridimensionamento dell’offerta didattica siano stati, in generale, molto condizionati da pressioni interne provenienti dai diversi settori disciplinari, a scapito di valutazioni più legate a una ricognizione non fittizia delle esigenze formative provenienti dal contesto esterno e a una considerazione degli effettivi punti di forza e di debolezza degli atenei in termini di risorse qualificate per la didattica e la ricerca. Secondo i dati raccolti, questa spinta alla riorganizzazione della didattica più guidata dagli equilibri interni tra i diversi settori, pur essendo stata una tendenza di carattere generale, sembra più nettamente presente negli atenei del Mezzogiorno. Si profila dunque una carenza nella governance locale degli atenei che trova riscontri ancor più chiari se si considera la qualità della ricerca e del personale docente reclutato.
Anche la qualità della ricerca non è facile da misurare. I vari indicatori utilizzabili presentano tutti degli aspetti problematici e il loro uso richiede cautela. Tuttavia, alcune indicazioni appaiono sufficientemente solide. L’analisi condotta sulla base della VQR (Valutazione della qualità della ricerca) per il 2004-10 e dei risultati della ASN (Abilitazione scientifica nazionale) offre risultati tra loro coerenti. Ne emerge un quadro della qualità della ricerca e della qualificazione scientifica del personale che vede gli atenei meridionali nelle condizioni di maggiore debolezza. Naturalmente, questo giudizio richiede delle qualificazioni. Anzitutto, appare molto forte la varianza dei settori disciplinari all’interno degli atenei. Vi sono settori, come per esempio quelli legati a alcune specializzazioni di ingegneria, alle scienze fisiche e a quelle mediche, che ottengono buoni risultati negli atenei meridionali, mentre altri si collocano molto in basso, specie nel campo delle scienze economiche e statistiche, di quelle politiche e sociali, della psicologia e delle discipline umanistiche e storiche. All’interno di diversi settori vi sono poi particolari specializzazioni che costituiscono delle vere e proprie punte di eccellenza anche a livello internazionale. Tuttavia, gli atenei meridionali sono caratterizzati, nel complesso, da numerosi settori disciplinari che si collocano al di sotto della media nazionale. Si tenga inoltre presente che relativamente più elevato è al Sud il numero degli ‘inattivi’ dal punto di vista della ricerca. Tra i 10 atenei con il più alto numero di inattivi, 6 sono nel Mezzogiorno. E ancora: soltanto il 10% degli atenei meridionali ottengono più fondi Prin della media nazionale e solo il 15% ottengono più fondi europei.
Quanto alla qualificazione scientifica del personale docente, indicazioni coerenti con il quadro precedente vengono da un’analisi dettagliata dei risultati dell’ASN. Gli atenei meridionali si caratterizzano per un maggior numero di ricercatori e associati che non hanno partecipato alla valutazione per l’abilitazione. Considerando invece coloro che hanno partecipato, solo meno di un quarto degli atenei meridionali hanno una media di abilitati (in tutti i settori) superiore a quella nazionale contro l’80% delle università del Nord e il 37% del Centro.
Nel caso della qualità della ricerca e della qualificazione scientifica del personale docente siamo dunque in presenza di carenze che non possono essere semplicemente spiegate con caratteri e vincoli provenienti dal contesto esterno, o con condizionamenti esercitati dagli interventi regolativi del centro, ma chiamano anche in causa la governance degli atenei: le scelte autonome fatte in materia di reclutamento e di carriere. La rilevanza di questa dimensione trova conferma anche nella accurata analisi della ‘terza missione’ presentata nel Rapporto.
Se si considerano tre indicatori rilevanti per misurare il fenomeno – i brevetti, gli spin-off e le prestazioni in conto terzi – emerge come queste attività, oltre che nei Politecnici, siano più concentrate in atenei prevalentemente localizzati nel Centro-Nord. E’ evidente che ciò risente della diversa dinamicità dei contesti economici locali e quindi della domanda e degli stimoli che vengono dal mondo delle imprese. Da questo punto di vista, le università meridionali sono certo penalizzate. Ma è interessante notare come anche a parità di risorse in termini di specializzazioni disciplinari e di conoscenze attivabili – che riguardano soprattutto le cosiddette hard sciences – i risultati ottenuti dagli atenei del Mezzogiorno siano variabili. Vi sono dei casi in cui le capacità di attivazione delle risorse disponibili raggiungono risultati significativi nel trasferimento tecnologico. Ciò suggerisce che anche da questo punto di vista vi siano spazi di autonomia in termini di scelte e di capacità strategiche degli atenei da non sottovalutare; in positivo come possibilità di impegno maggiore su un terreno che acquista, come si è detto, un peso crescente per lo sviluppo economico, o invece come scarsa sensibilità e minore impegno che non può essere solo giustificato in termini di un contesto economico esterno sfavorevole.
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Nel complesso, le tendenze emerse con riferimento all’attività didattica, alla qualità della ricerca e alla qualificazione scientifica del personale chiamano in causa responsabilità specifiche degli atenei meridionali che non vanno sottovalutate, anche in relazione alle misure da prendere, in prospettiva, per migliorare efficienza e efficacia. Non è facile spiegare le motivazioni di tali scelte, e il tema non era oggetto specifico di questa indagine. Tuttavia, è possibile formulare qualche ipotesi. Con il passaggio dall’università di élite a quella di massa sono aumentate le risorse disponibili, in termini di possibilità di reclutamento, di creazione di nuovi corsi, di crescita delle attività svolte. E’ vero, come abbiamo sottolineato, che l’incremento degli iscritti non è stato adeguatamente sostenuto con politiche per il diritto allo studio e per i servizi agli studenti, ma le risorse disponibili per gli atenei sono comunque cresciute. Per lungo tempo l’uso che ne è stato fatto ha determinato inefficienze nell’offerta, nell’attività didattica e soprattutto nella qualificazione del personale docente e nella qualità di ricerca.
Questi problemi non sono certo limitati agli atenei meridionali, dove non mancano anche aree di eccellenza e esperienze positive, ma nel funzionamento delle università del Sud appaiono sistematicamente più diffusi. Una possibile spiegazione – da approfondire e verificare – potrebbe essere legata a tendenze più generali che si sono manifestate nel Mezzogiorno con la crescita del welfare e dei settori di attività dipendenti dall’intervento pubblico. In una situazione economica e sociale caratterizzata dal più ridotto peso delle attività di mercato, tende a essere più forte la pressione dei soggetti che vogliono difendere o migliorare le loro condizioni di vita per l’accesso a posizioni direttamente o indirettamente dipendenti dall’intervento pubblico. Se il controllo dell’accesso a tali posizioni non è ancorato a incentivi che responsabilizzino chi ha tale potere, premiandolo in caso di scelte basate sul merito e penalizzandolo nel caso di scelte che vanno nella direzione opposta, si creeranno condizioni più favorevoli a una sorta di ‘selezione avversa’. In altre parole, ci saranno più probabilità che vengano reclutati o promossi in termini di carriera soggetti meno meritevoli ma più legati da un rapporto diretto (di gruppo, di ‘scuola’) con chi ha il potere di cooptazione.
Questa condizione di ‘autonomia senza responsabilità’ ha a lungo influito sulle modalità di funzionamento degli atenei al Sud e al Nord. I costi di decisioni meno efficienti si scaricavano infatti sul finanziamento determinato a livello centrale, che veniva erogato senza tenere conto della qualità delle scelte. Ciò disincentivava inoltre il controllo esercitato da altri gruppi disciplinari degli stessi atenei, dato che neanche essi ne pagavano le conseguenze, e avevano dunque solo la preoccupazione di garantirsi condizioni di reciprocità. Si può inoltre ipotizzare che queste condizioni permissive abbiano contribuito a erodere gli standard deontologici delle comunità accademiche, portando ad una maggiore tolleranza verso criteri di reclutamento e di valutazione dell’attività scientifica meno vincolati al merito. Ma se questa condizione di ‘autonomia senza responsabilità’ che ha caratterizzato per molto tempo le scelte di governo delle università non vale solo per il Sud, possiamo però supporre che la pressione per posizioni occupazionali di buon livello sia stata maggiore nel contesto meridionale, con le conseguenze prima ricordate.
A completamento di questa ipotesi, occorre poi considerare che le scelte effettuate nella fase di ampliamento delle risorse e di apertura dei canali di reclutamento, che nel caso del sistema universitario si sono concretizzate specie negli anni ’70, con il passaggio all’università di massa (stabilizzazione dei professori incaricati, giudizi di idoneità per assegnisti e contrattisti), hanno probabilmente avuto conseguenze di lunga durata. Non solo hanno determinato l’occupazione di una quota di posizioni consistente con effetti per gli anni a venire, ma hanno anche potuto influire sulle scelte successive. Una selezione di soggetti con minore qualificazione condiziona, infatti, anche le attività di ricerca e di didattica dei decenni successivi e la formazione di giovani studiosi. Si può inoltre supporre che per un lungo periodo, negli scorsi decenni, un elevato turnover di docenti vincitori di concorso, spesso provenienti da regioni del Centro-Nord, abbia a sua volta influito negativamente. I nuovi docenti di origine esterna, infatti, molto spesso non si trasferivano stabilmente nelle sedi meridionali ma venivano richiamati dopo pochi anni da atenei del Centro-Nord. Di conseguenza, il loro investimento in attività di ricerca impegnative e a lungo termine, o nella formazione di giovani studiosi, tendeva ad essere più limitato. Da questo punto di vista, è da segnalare che anche negli atenei del Mezzogiorno aree scientifiche più istituzionalizzate che si caratterizzano per una migliore qualità della ricerca tendono a reclutare giovani studiosi più qualificati in termini di produzione scientifica.
Come abbiamo detto, queste sono soltanto alcune ipotesi stimolate dai risultati dell’indagine che richiedono specifici approfondimenti. Quali che ne siano le cause, non va però sottovalutato il peso di scelte degli atenei meridionali che si riflettono nelle criticità documentate dal Rapporto. Ma per completare il quadro è necessario aggiungere un ultimo tassello che riguarda i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nei meccanismi di finanziamento.
Abbiamo ricordato come per lungo tempo il modello di governance sia stato caratterizzato da una condizione di ‘autonomia senza responsabilità’. In tale situazione i costi delle scelte fatte dagli atenei venivano finanziati dal centro per così dire a piè di lista. In particolare, con l’introduzione del ‘fondo di finanziamento ordinario’, nel 1993, le quote assegnate alle singole università si basavano largamente sulla ‘spesa storica’. Le cose cambiano nel decennio successivo per effetto dei vincoli crescenti alla spesa pubblica e della crisi economica. Ne deriva una riduzione del fondo di finanziamento ordinario, di circa il 10% tra il 2008 e il 2015, alla quale si accompagna una crescita fino al 20% della ‘quota premiale’, cioè delle risorse assegnate sulla base del soddisfacimento di una serie di condizioni. Si determina così un paradosso, dettagliatamente spiegato nelle pagine seguenti, che contribuisce ad allargare il divario nel funzionamento dell’università tra Centro-Nord e Sud.
In che cosa consiste il paradosso? Nel fatto che dopo aver a lungo finanziato gli atenei senza porre vincoli e esercitare controlli efficaci sulla allocazione delle risorse, il centro lega ora una quota crescente del finanziamento a determinati standard della didattica e della ricerca, mettendo così in ulteriore difficoltà le università del Sud che hanno maggiori criticità. Peraltro, i criteri utilizzati non solo sono cambiati più volte nel tempo, ma spesso alcuni di essi presentano evidenti incongruenze: come quelli relativi alla didattica che premiano, per esempio, una rapida conclusione degli studi senza tener conto delle assai diverse condizioni degli studenti e dei contesti territoriali. C’è da aggiungere che si tratta dunque di criteri molto discutibili, fissati ex post, che non permettono di valutare comportamenti dopo aver prima stabilito chiaramente le regole del gioco. In ogni caso, in questo modo si innesca una sorta di circolo vizioso per cui chi è in condizioni peggiori di performance, invece di essere stimolato e sostenuto a migliorare, viene di fatto messo in una condizione di carenza di risorse che ne aggrava le condizioni di partenza.
Come si esce da questa pericolosa spirale che rischia di privare il Mezzogiorno di una risorsa essenziale per il suo sviluppo e i giovani meridionali ‘capaci e meritevoli’ ma senza mezzi di un loro diritto costituzionalmente sancito? Il Rapporto chiarisce che sarebbe sbagliato continuare a percorrere la strada intrapresa negli ultimi anni, che genera effetti perversi, ma lo sarebbe altrettanto rinunciare a legare il finanziamento degli atenei a criteri – certo meglio costruiti di quelli attuali – di maggiore efficienza della didattica, di una migliore qualità della ricerca e di un rafforzamento della terza missione. La richiesta che a volte proviene dagli atenei meridionali di compensare i criteri premiali con parametri che tengano semplicemente conto di una generica condizione di penalizzazione legata alla debolezza del contesto economico e sociale non va dunque nella direzione giusta e non va incoraggiata. Si tratterebbe infatti di una sorta di protezione statica che non stimola a miglioramenti di efficienza.
Come si chiarisce nel capitolo sul finanziamento, la via di uscita dalla spirale perversa va cercata piuttosto in interventi che separino i meccanismi di finanziamento ordinari degli atenei dai problemi di recupero delle condizioni di efficienza, che possono essere invece considerati come un obiettivo di specifiche politiche di sviluppo e coesione, e come tali possono quindi attingere alle risorse nazionali ed europee destinate a questi interventi. Si pensi al miglioramento delle competenze degli studenti in entrata, alle borse di studio e ai servizi, ma anche al rafforzamento delle attrezzature e delle risorse per la ricerca scientifica. Ma naturalmente affinché questi interventi possano essere efficaci, è necessario collegarli a condizionalità ben disegnate e a strumenti di valutazione adeguati dei risultati raggiunti, ed è soprattutto necessario che cresca la consapevolezza di chi opera nelle università e di chi ha compiti di direzione, che l’autonomia senza responsabilità non ha futuro.

Interventi nelle periferie (Is Mirrionis, per esempio): senza la partecipazione dei cittadini si fallisce.

ape-innovativaCi piace molto l’articolo di Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa. Lo riportiamo integralmente perché vogliamo utilizzarlo come guida critica rispetto all’intervento ITI (Investimenti Territoriali Integrati) progettato dal Comune di Cagliari per San Michele-Is Mirrionis con l’utilizzo di consistenti appositi fondi europei. Siamo intervenuti criticamente su questo progetto che crediamo vada profondamente modificato e soprattutto vada discusso con i cittadini, come prescrive precisamente l’Unione Europea. Torneremo per gli opportuni approfondimenti, ma intanto ci piace riprendere un passo dell’articolo che applichiamo alla scelta del citato progetto ITI laddove individua come unico intervento per favorire l’aggregazione l’hangar attualmente nella disponibilità dell’Agenzia del Lavoro localizzato nell’area di Is Mirrionis, con accesso dalla via Fontana Raminosa, mentre ignora totalmente l’edificio che ospitò la Scuola Popolare dei lavoratori di Is Mirrionis. Ecco il passo testuale:
” (…) serve quella che l’urbanista napoletano Aldo Loris Rossi chiama «visione olistica» applicata alle città. Approccio soft, processi partecipati, più servizi e socialità che cantieri. Meglio un piccolo locale riutilizzato da un’associazione di quartiere che un grande centro giovanile gestito da funzionari comunali”. A presto per gli approfondimenti.
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I cantieri da soli non bastano, senza cittadini coinvolti si fallisce
Gli urbanisti: “Pochi 500 milioni, ma segnale giusto”. Si moltiplicano le social street

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26/11/2015
di GIUSEPPE SALVAGGIULO, su La Stampa on line
TORINO
Dietro l’annuncio di Renzi di destinare 500 milioni di euro aggiuntivi per le periferie ci sono posizionamento politico (anche internazionale, altro che proclami bellicisti) e strategia comunicativa (vedi citazione del «rammendo» di Renzo Piano, ormai di moda). Nessun piano segreto e specifico. Del resto basta fare due conti. I soldi vanno alle città metropolitane (tredici già istituite, la Sardegna potrebbe aggiungere Cagliari), da spendere entro il 2016 per progetti da presentare entro la fine di quest’anno. Meno di 40 milioni per città e 13 mesi per spenderli: tempi e soldi sconsigliano interventi giganteschi. Bisogna recuperare progetti già pronti. «Non c’è cifra che basterebbe a risanare le periferie italiane – dice l’urbanista Francesco Indovina -. 500 milioni sono una goccia nel mare, ma anche pochi soldi servono se spesi bene».
segue -

A passo di lumaca prosegue l’attuazione del Piano (piano, piano…) per la Zona Franca (più correttamente Punto Franco Doganale) di Cagliari

SnailAvevamo ragione ad essere cauti e un po’ diffidenti. Pubblicata la delibera della Giunta Regionale (DELIBERAZIONE N. 53/10 DEL 3.11.2015), che sotto riportiamo integrale con alcune annotazioni e richiami in modalità di ipertesto), e comunque consultabile sul sito web della Ras: http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_274_20151106131704.pdf. Presto approfondimenti.
RAS loghetto
DELIBERAZIONE N. 53/10 DEL 3.11.2015

PROGRAMMA PER LA CITTA’. Cosa fare per le periferie urbane? Ce lo dice l’Unione Europea attraverso la Regione.

Ma il Comune di Cagliari e la stessa Regione recepiscono le linee programmatiche in un progetto riduttivo, scritto senza ascoltare la gente e rispondere alle sue esigenze
quartiere-di-is-mirrionis-stefanocontiGabriele Mura Is Mirrionis
(a cura dell’Unione Europea)*

L’azione che si intende sostenere è incardinata nell’ambito della Strategia per le Aree urbane ed è finalizzata a sperimentare, in stretta sinergia con le altre azioni (…) un approccio multidisciplinare alle problematiche della legalità orientato alla vita della comunità promuovendo la sperimentazione di progetti innovativi improntati su politiche di prevenzione.

scuolapopolareismirrionis
Si intende, quindi, favorire il recupero funzionale e il riuso di vecchi immobili pubblici da destinare a spazi di relazione per il quartiere e l’intera comunità locale, nella piena convinzione che la rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi o sottoutilizzati in stretto collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva, possa rispondere a una duplice finalità: da un lato evitare l’ulteriore degrado dell’area, dall’altro rappresentare una leva di coesione sociale.

Gli interventi infrastrutturali saranno funzionali alle attività di animazione sociale che sul territorio si intenderà promuovere, per diventare dei luoghi fisici di partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi in cui sviluppare un lavoro di prossimità. Tali iniziative dovranno fungere da catalizzatore per la costruzione di nuove reti di relazione e rappresentare dei luoghi in cui si potranno intercettare i problemi sociali della famiglia, degli anziani, delle persone inoccupate e disoccupate in cerca di lavoro, e diventare delle vere e proprie “case di quartiere”, in grado di offrire servizi alla collettività (supporto alla genitorialità, sostegno alla legalità, prevenzione di fenomeni di devianza giovanile e/o abbandono scolastico).

Particolare attenzione verrà data alla sostenibilità di gestione nel medio-lungo periodo dei servizi realizzati, garantendo adeguate analisi di fattibilità ex ante, l’individuazione di risorse per lo start-up e l’avvio immediato delle procedure di selezione degli eventuali soggetti gestori, anche contestuale alla progettazione, così da incorporare l’effettivo fabbisogno del gestore.

Infine, le azioni afferenti le aree urbane saranno realizzate, secondo quanto previsto nell’ambito della strategia regionale su Agenda Urbana, attraverso il ricorso allo strumento degli Investimenti Territoriali Integrati nelle tre maggiori aree urbane (Cagliari, Sassari e Olbia), con l’affidamento della responsabilità di attuazione alle Autorità Urbane. Con riferimento all’area di Cagliari e agli interventi previsti nell’ambito del PON Metro, la demarcazione avverrà su base territoriale, con l’individuazione di un quartiere target per il POR e il sostegno a iniziative anche di scala metropolitana nei diversi settori di intervento del PON METRO.

Contributo atteso al perseguimento dell’obiettivo specifico

Si ritiene che attraverso tali azioni si possa migliorare la legalità di aree degradate delle principali città attraverso il recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva della comunità locale.

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*Por FESR Sardegna 2014-2020 Parte ITI Investimenti Territoriali Integrati
Azione 9.6.6. Interventi di recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione collettiva, inclusi interventi per il riuso e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alle mafie
Descrizione della tipologia e degli esempi di azioni da sostenere.
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- La foto è di Gabriele Mura. Si riferisce al quartiere di Is Mirrionis negli anni Settanta (ai tempi della Scuola Popolare)
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TTIP 1
TTIP: una micidiale operazione contro la democrazia a favore dei potentati economici planetari.
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sarasanna ft sett15 VT

LE FERIE SONO FINITE. Punt’e billettu per riprendere i progetti ITI (Investimenti Territoriali Integrati)

via Is Mirrionis segue numerazioneScuola Popolare Is Mirrionis IL RUDERE- Protocollo d’intesa Regione-Comune di Cagliari.
- La documentazione sul sito del Comune di Cagliari: cominciamo a studiarla.
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- La notizia sul sito della RAS.
lampada aladin micromicro————————————
- Informazioni sugli ITI (Investimenti Territoriali Integrati)
- http://www.antonioladu.it/le-aree-urbane-nella-programmazione-regionale-2014-2020/

Oggi domenica 12 luglio Mes’e Argiolas (Orgiolas, Mes’e Trìulas, Mes’e su Cramu) 2015

aladinewsGli eventi di oggi segnalati da Aladinpensiero sul blog Aladinews agorà. PUNT ‘E BILLETTU: La Scuola Popolare dei lavoratori di Is Mirrionis. ITI (Interventi Territoriali Integrati) a Is Mirrionis.
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Oggi sabato. sabudu, 11 luglio Mes’e Argiolas (Orgiolas, Mes’e Trìulas, Mes’e su Cramu) 2015

aladinewsGli eventi di oggi segnalati da Aladinpensiero sul blog Aladinews agorà. PUNT ‘E BILLETTU: La Scuola Popolare dei lavoratori di Is Mirrionis. ITI (Interventi Territoriali Integrati) a Is Mirrionis.
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AVVISO AI NAVIGANTI aladinlampada-microConsiderato il periodo estivo l’aggiornamento del sito potrebbe non essere regolare. Ma il sito non chiude per ferie. Buone vacanze a tutti!

Oggi mercoledì, merculis, 8 luglio Mes’e Argiolas (Orgiolas, Mes’e Trìulas, Mes’e su Cramu) 2015

aladinewsGli eventi di oggi segnalati da Aladinpensiero sul blog Aladinews agorà. PUNT ‘E BILLETTU: La Scuola Popolare dei lavoratori di Is Mirrionis. ITI (Interventi Territoriali Integrati) a Is Mirrionis.
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Oggi martedì, martis, 7 luglio Mes’e Argiolas (Orgiolas, Mes’e Trìulas, Mes’e su Cramu) 2015

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Bomeluzo San Firmin