Risultato della ricerca: Sardegna Europa

La coalizione di centro sinistra si schiera in maggioranza per Alessandra Todde. Una buona scelta che auspichiamo faccia trovare l’unità del tavolo anche da parte di chi portava altri candidati. Uniti si vince: questa è una certezza, non sprechiamo l’occasione, per la Sardegna, per i Sardi!

img_3442REGIONALI. CENTROSINISTRA SARDO VERSO L’INVESTITURA DI ALESSANDRA TODDE.
GIOVEDÌ NUOVO TAVOLO PER UFFICIALITÀ. MA “DUBBI” Di PROGRESSISTI, LIBERU E +EUROPA (DIRE) Cagliari, 6 novembre 2023.
Ancora manca l’ufficialità, ma l’investitura della pentastellata Alessandra Todde a candidata governatore del centrosinistra sardo è in dirittura d’arrivo: il via libera potrebbe arrivare questo giovedì, con la deputata pronta a confrontarsi con il tavolo del campo largo, già convocato. È ciò che emerge alla fine della riunione del campo largo oggi nella sede del Pd di Cagliari, incontro di tre ore che, viste le premesse, si è concluso in maniera positiva: oltre alla convergenza su Todde di 12 sigle su 15, nessuno dei partiti ha abbandonato il tavolo. Certo, i distinguo non mancano: Progressisti, Liberu e +Europa continuano a storcere il naso sul nome della deputata del M5s – e hanno necessità di un confronto interno alle proprie segreterie prima di arrivare a una decisione definitiva – ma la coalizione tiene e, come detto, la strada sembra già tracciata. “Il tavolo è unito, anche le forze politiche che negli ultimi giorni avevano palesato alcune difficoltà, erano presenti alla riunione- spiega il segretario regionale del Pd, Piero Comandini -. Il M5s ha fatto il nome di Alessandra Todde, che ha visto la condivisione della maggior parte delle forze politiche.

Verso il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna – Documentazione

img_4862img_4876Verso il Convegno di Cagliari del 27 e 28 ottobre 2023. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA, quando il comunitarismo incontrò il sardismo.
di Salvatore Cubeddu, sul sito della Fondazione Sardinia.
La storia del rapporto tra Adriano Olivetti e il partito sardo nelle elezioni politiche del 1958. Il racconto dell’intellettuale lussurgese Antonio Cossu inviato da Ivrea in Sardegna. Il testo dell’accordo elettorale tra Adriano Olivetti e Titino Melis, segretario del PSd’A(z) (i due nelle foto). Il programma politico-economico-culturale (stralcio). Le elezioni politiche del 1958 in Sardegna.
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Convegno di studi ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA Attualità di una prospettiva umanistica – Documentazione.

img_4780La Comunità in una società individualizzata
di Remo Siza

Introduzione
In Italia nel linguaggio corrente il richiamo alla comunità e alla sua rilevanza nella vita delle persone è stato molto ampio, sebbene, come ha rilevato Bagnasco (1999) l’uso del termine comunità per certi versi è problematico in quanto nella stessa parola si sovrappongono significati molto differenti.
George Hillery (1955; Collins, 2010) rilevava che esistono 94 definizioni di comunità e l’unico aspetto comune a tutte queste definizioni è l’idea di un tessuto di relazioni sociali che connette le persone fra di loro. Altre dimensioni del concetto quali la prossimità, la profondità emotiva delle relazioni non sono sempre condivise.
Nel dibattito politico e nei programmi dei principali partiti, il riferimento è diventato:
- la comunità locale, spesso come livello politico locale contrapposto a quello centrale.
- la comunità come ambito della partecipazione diretta delle persone al governo che assicura l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica
- come sistema delle autonomie locali capace di rispondere alla crisi dei partiti e della rappresentanza politica;
- per riavvicinare città alle aree interne dimenticate dal mercato e dall’attuale modello di sviluppo.

Infine, la comunità è stata riscoperta nei sistemi di welfare che intendevano valorizzare il Servizio sociale di comunità, i servizi per l’infanzia, il ruolo delle famiglie e le relazioni di comunità nella cura delle persone.
Nel pensiero di Adriano Olivetti tutte queste accezioni del termine comunità erano presenti.
- non per contrapporre comunità arcaica e città moderna, non come ritorno al passato;
- la comunità è vista come mediazione fra individuo e Stato;
- come ambito di innovazione, ambito di relazioni che rafforzano e danno sostanza umana allo sviluppo industriale e contribuiscono alla costruzione di una società ‘a misura d’uomo’;
- come idea-forza per una radicale riforma del sistema politico.

Il richiamo alla comunità era chiaramente legato ad una preoccupazione per la fragilità dei legami sociali, per i cambiamenti che travolgevano sistemi di valore e istituzioni.

I cambiamenti della società industriale
La comunità che Olivetti richiamava nel suo progetto di riforma era cambiata profondamente a partire dagli ultimi anni Cinquanta.
Una straordinaria espansione economica e una imponente mobilità territoriale che aveva come destinazione le città del triangolo industriale contribuiva ad un cambiamento profondo della società italiana.
Non cambiava soltanto l’economia, cambiavano, forse in modo più radicale, le relazioni fra le persone.
Lo sviluppo industriale incideva profondamente sull’equilibrio individuo e comunità e su un processo fondamentale della modernità: il processo di individualizzazione (Beck, 1992; Beck U and Beck-Gernsheim, 2001).
Il processo di individualizzazione è il fondamento delle società occidentali e di ogni dinamica di innovazione e cambiamento.
Sono processi che promuovono il distacco dai ruoli e vincoli tradizionali costrizioni (della famiglia autoritaria tradizionale, della comunità), che valorizzano l’autonomia individuale verso una crescita della libertà e della consapevolezza di sé dell’individuo, per costruire una vita indipendente sulla base dei valori e dei principi della nascente modernità industriale. Io posso aderire ad un gruppo ma deve essere una scelta personale.
Sono processi che orientano le agenzie di socializzazione verso la costruzione di individualità che inevitabilmente si distinguono dalle comunità di appartenenza.

Una individualizzazione parziale
In quegli anni questi processi definiti di individualizzazione si diffondono molto rapidamente e coinvolgono una larga parte della società italiana. Una parte significativa della popolazione, soprattutto i più giovani, vuole realizzare il proprio progetto di vita e scegliere autonomamente il proprio destino anche lontano dalla comunità di origine, assumere la propria indipendenza rispetto alle attese dei genitori, della rete parentale allargata, dalla comunità, dalle grandi associazioni collettive.
Le comunità tradizionali non si sono comunque dissolte. In fondo, questi processi di emancipazione e di individualizzazione (cioè di distacco dai ruoli e vincoli tradizionali verso una crescita della libertà individuale) erano ancora governabili e funzionali al nuovo sviluppo economico.
La società industriale era una società percorsa da grandi cambiamenti ma comunque solida nei suoi riferimenti culturali, era una società sostanzialmente integrata, in cui le patologie della modernità erano ancora governabili.
Le condizioni per uno sviluppo della comunità erano ancora presenti, ma il futuro di un discorso comunitario sembrò dipendere strettamente dall’iniziativa e dall’attivismo di Adriano Olivetti più che dai cambiamenti delle comunità concrete.
Il Movimento Comunità declinò con la morte di Olivetti (1960), sebbene in quegli anni la comunità a cui si riferiva Olivetti era ancora vitale e poteva ancora contare su una larga parte delle sue risorse tradizionali di partecipazione e di coesione sociale, di relazioni sociali amichevoli.
Nella società industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i processi di individualizzazione si diffondono rapidamente nel tessuto sociale ma sono ancora parziali, non si sono ancora radicalizzati:
- gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, il sindacato, grandi associazioni, la Chiesa) sono ancora solide;
- si allentano i legami collettivi ma non del tutto
- la famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile si riduce sensibilmente il numero di figli; ma i ruoli di genere persistono sebbene siano accettati con molte più resistenze dalla donna;
- la famiglia è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali;
- le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.

Nelle società industriali, c’era ancora una continuità un passaggio lineare tra due fasi del processo di individualizzazione
1. la fase “liberatoria” dai vincoli e costrizioni che limitano l’autonomia e la capacità di autodeterminazione delle persone e non consentono di realizzare i loro progetti di vita. Ciò che diventa importante è la raggiunta possibilità di scegliere la propria vita, senza rassegnazione e passività.
2. la successiva fase di ricomposizione di nuove forme di stare insieme, di convivenza, nuove relazioni di amicizia e di collaborazione, nuove relazioni con le istituzioni che di norma seguono questa fase liberatoria.

I cambiamenti economici e sociali travolgevano la civiltà contadina, le sue relazioni, le sue staticità, ma allo stesso tempo rivitalizzavano le istituzioni più moderne (famiglia nucleare e il ruolo della donna, i partiti, i sindacati…)
La società industriale è una società moderna che ha in mente il suo punto di arrivo:
- la famiglia nucleare (i genitori con un numero limitato di figli) modernizzata nelle sue relazioni, meno autoritaria;
- la Chiesa ha un ruolo cruciale nella vita delle persone seppure risulti indebolita da processi di secolarizzazione
- le istituzioni politiche sono solide,
- il lavoro è stabile, dignitoso, remunerato sufficientemente per partecipare a pieno titolo alla vita sociale.

I movimenti comunitari degli anni Novanta
A partire, dagli anni Novanta in molte parti del mondo, i movimenti comunitari assumono particolarmente rilevanza come progetto di riforma complessiva della società post-industriale, per affrontare la crisi delle sue principali istituzioni, l’individualismo che sembra delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili (Etzioni, 1993; 1998).
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito movimenti comunitari coinvolgono in un progetto di politica di riforma della società, politici come Bill Clinton e Tony Blair oltre che decine di altri Capi di Stato nel mondo.
Il Communitarian Network, fondato da Amitai Etzioni nel 1993, è il movimento più importante (Pesenti, 2002). Il movimento nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee ed è fondato sulla rivitalizzazione delle comunità, sulla costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale.
Il perno di questo progetto di riforma sono le istituzioni agenti della socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari, lavoro, mass media) che orientano il comportamento individuale e collettivo
Possiamo non condividere l’appello alla moral voice della comunità, per certi versi averne timore nei suoi effetti di controllo, ma i problemi che il movimento evidenzia sono ineludibili:
- l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa,
- che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali;
- che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone,
- sia responsive ‘capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità, con un appropriato equilibrio tra ordine e autonomia.
- Si condivida un nuovo equilibrio tra diritti e doveri, una democrazia fondata sulla costruzione di valori e regole condivise, che promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività,

Fukuyama nel suo più recente saggio (2022) sintetizza gli sviluppi del liberalismo classico. L’idea centrale del liberalismo è la valorizzazione e la protezione della autonomia individuale, come libertà di parola, di associazione, di fede e di vita politica. In questi ultimi due decenni il liberalismo ha avuto due sviluppi radicali: il neoliberismo nell’economia come libertà del mercato senza interferenze dello stato, e un secondo sviluppo che valorizza l’autonomia delle persone relativamente alla scelta dello stile di vita e dei valori, come costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella vita quotidiana (p. 17).
Queste due versioni del liberalismo hanno sostituito, solo parzialmente, e in parte marginalizzato, il conservatorismo dei movimenti tradizionali di destra, legato ai valori e ai principi morali del passato, alla continuità e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che per circa tre decenni ha assicurato ad una parte considerevole della popolazione estesi sistemi di welfare e alti salari, stabilità e crescita alle società europee.
Il neo comunitarismo costituiva una critica severa alla libertà del mercato, raccomandava una qualche prudenza nella libertà individuale e nelle scelte di vita, auspicava un ruolo più limitato dello stato e la necessità di un richiamo ad alcuni valori della tradizione. Questo movimento influenzò significativamente e l’iniziativa politica della sinistra in tutta Europa e La Terza Via nel Regno Unito come progetto politico che si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra e sinistra.
Ma questi tentativi di ricomporre le grandi tradizioni delle società Occidentali non sono riusciti a trovare un equilibrio soddisfacente e stabile tra le esigenze e le logiche di ogni sfera di vita (mercato, stato, società civile, famiglia).

L’influenza del pensiero comunitario in Italia
In Italia il pensiero comunitario non è emerso come sfida culturale agli sviluppi radicali del liberalismo classico, il movimento di pensiero e di azione politica che ha avuto un ruolo fondativo del pensiero politico occidentale.
In Italia, il richiamo alla comunità è molto poco presente nel dibattito pubblico e il pensiero di Adriano Olivetti, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, lavoro, comunità è ben poco presente nella letteratura italiana sui movimenti comunitari in Europa.
Le forze politiche e sociali riprendono alcune proposte dei movimenti comunitari, quali la promozione di una transizione dal welfare state fondato su interventi pubblici ad un welfare community che valorizza le risorse di volontariato, le relazioni informali e le famiglie nella promozione del benessere e della salute delle persone; una transizione dalla scuola come soggetto esclusivo alla comunità educante come rete di attori territoriali che si impegnano a garantire il benessere e la crescita di ragazze e ragazzi.
Così come aveva previsto il governo inglese di David Cameron, il governo italiano riprende, nel suo Libro Bianco sul futuro del modello sociale (2009), l’idea di una Big society un modello di governo della società in cui lo Stato si fa da parte, e alle comunità locali e alla partecipazione dei cittadini comuni più intraprendenti è affidata la gestione dei servizi pubblici locali: il welfare state è inefficiente, crea dipendenza, assistenzialismo, non aiuta la crescita delle persone, non alimenta il senso di responsabilità. Libro Bianco si fondava su un nuovo modello delle opportunità e delle responsabilità:
- riformare l’apparato pubblico, trasferendo maggior potere alle comunità locali;
- incoraggiare le persone a svolgere un ruolo attivo, di gestione comunitaria di servizi collettivi;
- promuovere l’azione volontaria delle associazioni senza fini di lucro e delle fondazioni.

La crisi dei processi di individualizzazione
L’emergere del neo comunitarismo così come la rilettura degli scritti del movimento comunitario di Adriano Olivetti possono essere l’occasione per promuovere un dibattito pubblico sul ruolo che svolgono le principali istituzioni (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro) sulla loro capacità di promuovere il senso di responsabilità degli individui e delle collettività; sui processi di socializzazione, cioè, sui processi di interazione, di sviluppo e di formazione della personalità umana in una determinata società.
In una larga parte della società, la fragilità dei legami sociali, la crisi delle appartenenze collettive sono state per lo più interpretate come effetto del neoliberismo, del crescente individualismo, dello sviluppo delle relazioni di mercato alle quali è necessario contrapporre un’alternativa sostanzialmente socialdemocratica e un rafforzamento delle risorse pubbliche
In poco più di un decennio, la società italiana è cambiata in tutti i suoi ambiti di vita, sono cambiate le condizioni economiche delle famiglie italiane, le relazioni fra le persone e con le istituzioni, con la politica, le relazioni di cura, i valori che abbiamo condiviso per decenni e che abbiamo percepito come naturali e ormai acquisiti.
Ciò che sembra delinearsi è una lunga transizione tra la società industriale del secolo scorso, sostanzialmente stabile, prevedibile e lineare nel suo sviluppo e nelle sue frequenti conflittualità collettive e una modernità molto avanzata di cui ancora non riusciamo a cogliere il punto di arrivo, le istituzioni che possono rappresentarlo, i suoi riferimenti culturali, le forme di convivenza civile che possiamo condividere, i comportamenti che possiamo tollerare.
Negli ultimi due decenni e in una larga parte delle società occidentali contemporanee, non sappiamo più come governare l’autonomia e l’attivismo delle persone nella vita reale e virtuale (Siza, 2022). In società globalizzate, caratterizzate da rapide innovazioni tecnologiche, l’attivismo radicale delle persone crea molto frequentemente instabilità nella vita quotidiana e nella vita di ogni istituzione (la famiglia, la scuola, il sistema politico).
Ciò che noi osserviamo nella nostra vita sociale è la crescita di moltitudini di individui con deboli legami collettivi, attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile, riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale).
La normalità è sempre più estesa, comprende scelte e stili di vita che pochi anni fa la maggioranza delle persone marginalizzava; in fondo siamo disponibili a ritenere normale qualsiasi comportamento.
Il problema diventa come orientare l’autonomia degli individui senza co-stringerli con regole di vita che incombono in ogni sfera di attività, senza disperdere la capacità di innovazione di individui attivi. Quali sono i valori interiorizzati nel nostro passato oppure presenti e attivi nel nostro vivere quotidiano che ci impediscono o limitano significativamente le relazioni di sopraffazione.
Nell’attuale dibattito pubblico emergono posizioni molto semplificate. In molti casi emerge l’illusione di riuscire ad individuare pochi atti risolutivi (per esempio, punizioni esemplari, norme severe) che in una comunità degradata avviino un processo virtuoso. In questo modo non consideriamo che interazioni e atti successivi che non progettiamo di governare possono invertire anche rapidamente gli esiti di ogni azione esemplare.
In altri casi emerge il richiamo alle comunità tradizionali del passato, a relazioni tradizionali nella scuola, in famiglia, alle gerarchie e alle distinzioni di una volta. Il problema è che per realizzare questo progetto non dovremmo soltanto cercare di sollecitare relazioni tradizionali di fiducia e rispetto, ma dovremmo ricostruire anche le istituzioni (il lavoro di una volta, la famiglia tradizionale, la comunità come ambito di relazioni territoriali, l’assenza di tecnologie, le concezioni tradizionali del tempo e dello spazio) che rendevano possibile e funzionali queste relazioni umane. Certe disposizioni interiore alla collaborazione tipiche di una comunità tradizionale in un contesto oggettivo molto differente non orientano i comportamenti concreti con la stessa frequenza.
Nella vita economica leggi e sanzioni (amministrative, penali) limitano la capacità d’iniziativa degli individui e l’orientano verso alcuni obiettivi condivisi. Nelle relazioni intersoggettive contano soprattutto i processi di socializzazione (nella famiglia, nella scuola, nelle relazioni di amicizia, nell’ambiente di lavoro) per costruire individualità collaborative.
In molti contesti, i processi di socializzazione sono diventati disfunzionali, creano molto frequentemente instabilità nella nostra vita quotidiana, tendono a produrre conflitti sociali, nuove divisioni sociali nuove, chiare e distinte, nuove e competitive identità sociali in termini di valori e modelli comportamentali, nella vita pubblica e privata.
In altri contesti i processi di socializzazione contribuiscono alla creazione di individualità molto differenti, creano individui che riconoscono il valore e l’autonomia degli altri; costruiscono nuovi rapporti di collaborazione e di innovazione; iniziative collettive attraverso l’impegno individuale; valorizzano la comunità in cui operano non come fonte di norme e controllo stabilizzati, ma come contesto relazionale in cui creare risposte collettive ai bisogni delle persone.
Il nostro impegno può essere indirizzato ad individuare i contesti, le condizioni, i sistemi di valore che favoriscono questi processi di crescita delle persone; le disponibilità umane e gli atti concreti che creano individualità attive capaci non soltanto di inserirsi attivamente nel mercato del lavoro ma anche di creare relazioni collaborative, iniziative collettive, curare le relazioni con le persone, costruire attivamente una convivenza civile più soddisfacente, legami collettivi meno costrittivi con la propria comunità.
Per queste ragioni può essere utile riprendere i principi e i valori dei movimenti comunitari e su questa base avviare una riflessione pubblica sulla nostra convivenza civile, sui nostri sistemi di valori, sulle istituzioni, sulle relazioni tra città e piccoli centri urbani, per quali motivi il tessuto di relazioni che sta emergendo crea in molti contesti insicurezza e inquietudine
Insomma abbiamo bisogno di riprendere il discorso pubblico sulla fragilità dei legami sociali, sulla crescente frammentazione sociale e sulla esigenza di costruire relazioni sociali caratterizzati da profondità emotiva, impegno morale, coesione sociale e continuità nel tempo (Nisbet, 1977: 68).
Il pensiero di Adriano Olivetti, sulla comunità, sul ruolo della famiglia, della scuola, del gruppo dei pari, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, sul lavoro ci sarà sicuramente molto utili in queste riflessioni.

Riferimenti bibliografici
Hillery, G. (1955) Definitions of Community: Areas of Agreement. Rural Sociology, 20, pp. 111-123.
Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, Bologna: il Mulino.
Beck U. (1992) La società del rischio, Roma: Carocci.
Beck U. and Beck-Gernsheim E. (2001) Individualisation, London: Sage.
Collins, P.H. (2010) The New Politics of Community, American Sociological Review, 1(75), pp. 7-30.
Etzioni, A. (1993) The Spirit of Community: Rights, Responsibilities and the Communitarian Agenda, New York: Crown Publishers.
Etzioni, A. (a cura di) (1998) Nuovi Comunitari, Castelvecchio (Bologna): Arianna Editrice.
Fukuyama, F. (2023) Liberalism and Its Discontents, London: Profile Book.
Nisbet, R.A. (1977) La tradizione sociologica, Firenze: la Nuova Italia.
Pesenti, L. (2002) Comunitarismo-Comunitarismi: una tipologia essenziale, in I. Colozzi (a cura di) Varianti di comunitarismo, in Sociologia e Politiche Sociali, 2(5), pp. 9-38
Siza R. (2022) The Welfare of the Middle Class. Changing Relations in European Welfare States, Bristol: Policy Press.

Che cosa succede e cosa succederà?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 135 del 19 ottobre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 316 del 19 ottobre 2023

QUALE FUTURO

Cari amici,
Dopo la Shoà inflitta dall’Europa del Novecento al popolo ebreo, il mondo ha detto “Mai più!” e stabilito che i popoli non devono uccidersi l’un l’altro ma farsi concittadini e fratelli. Con la fondazione dell’ONU il mondo si è poi chiarito le idee sul delitto di genocidio e la sua singolarità rispetto a ogni altra forma di carneficina, eccidio o strage: una differenza tanto forte da inventargli un nome nuovo, dato che non esisteva la parola né la fattispecie del crimine di genocidio prima della risoluzione delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1946 seguita poi dalla Convenzione internazionale del 1948. Questa definiva il genocidio, indipendentemente dal fatto che fosse perpetrato in tempo di pace o in tempo di guerra, come ciascuno degli atti che venisse commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Tra questi atti era esplicitamente citato “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Crimine veniva considerato anche “il tentativo di genocidio” e non venivano chiamati “scudi umani”, quali vittime dell’attacco, i membri del gruppo uccisi o esposti a “lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale”.
Istruiti da tale statuizione, possiamo chiamare per nome gli avvenimenti che stanno dilaniando Israele e Gaza, dalla turpe carneficina di Hamas alla terra bruciata frutto della punizione collettiva di Israele, fino alla strage degli innocenti malati e feriti nell’ospedale di Gaza.
In piena guerra è impossibile fare un bilancio complessivo delle vittime; si sa per certo che 1200 israeliani sono stati uccisi nel raid di Hamas e circa 200 sono gli ostaggi. Quanto ai palestinesi, l’intera popolazione di Gaza, fatta oggetto della ritorsione israeliana, assomma a 2.200.000 persone, di cui più della metà sono minori e non hanno alcuna responsabilità per le gesta di Hamas, essendo nati dopo che questa nel 2006 aveva vinto le elezioni.
Purtroppo né l’Europa, né l’Occidente sono in grado di fare alcunché per alleviare le sofferenze in atto e promuovere la riconciliazione e la pace. Da noi non c’è che una rissa per demonizzare gli uni o gli altri, non c’è una visione capace di prospettare un diverso futuro. È chiaro invece che, fallita la soluzione dei due popoli in due Stati, inutilmente perseguita nei passati decenni, occorrerà mettere in campo nuove idee e proporre nuovi ordinamenti anche al di là dei modelli esistenti. Non è detto che la sovranità degli Stati debba continuare ad essere quella incondizionata del modello hobbesiano, né che i conflitti identitari si possano risolvere solo nella perdita delle rispettive peculiarità religiose e culturali secondo il modello della laicizzazione occidentale. E se da un lato l’identificazione di Israele come Stato ebraico potrebbe volgere a una interpretazione più magnanima e anche più fedele al cuore delle Scritture di quanto sia l’attuale forma dello Stato di Israele, nell’Islam può diventare cultura comune e immune dalle sacche di estremismi violenti la visione di recente enunciata nel documento islamo-cristiano di Abu Dhabi e nella lettera che 126 leaders e sapienti musulmani nel 2014 inviarono ad Al-Baghdadi e all’Isis, rivendicando il primato delle misericordia nel Corano e una lettura storicizzata delle passate guerre religiose con l’affermazione che l’Islam non avanza con la spada: “È proibito accomunare la “spada”, e quindi la collera e il rigore, alla “misericordia” – diceva la lettera – “Non è altresì lecito subordinare l’idea di “misericordia per tutti i mondi” (attribuita a Maometto) “all’espressione “inviato con la spada”, perché ciò sarebbe come dire che la grazia è subordinata alla spada, cosa che è evidentemente falsa. .. La Misericordia che Muhammad rappresenta per tutti i mondi non può essere condizionata al fatto che egli abbia impugnato la spada (in un tempo, un contesto e per una ragione specifici). Non si tratta qui soltanto di una sottigliezza accademica…”.
Non c’è dunque nulla che si deve fare che sia fuori della cultura ebraica e di quella musulmana; al contrario c’è scritto in Isaia 61, lo ha riproposto Gesù nella sinagoga di Nazaret, ed è affermato nella teologia islamica. E anche il Papa è d’accordo contro tutta la tradizione della Cristianità armata, “da Costantino ad Hitler”, come dice lo storico Heer ben noto a papa Francesco.
Se non si mettono in campo queste alternative, nemmeno noi ci salviamo. Perché tutti siamo responsabili, “Sono tutti traviati, tutti corrotti, non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Salmi), “tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti, non c’è chi compia il bene, neppure uno) (Paolo). Sono detti sapienziali, laici, non confessionali.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Maria Paola Patuelli sul ripudio della guerra e un commento sulla visita di Ursula Von der Leyen in Israele.
Con i più cordiali saluti, con la preghiera di un vescovo, don Pino Caiazzo, “Sconfitti nel Sangue Innocente”.

Costituente Terra (Raniero La Valle)
Chiesadituttichiesadeipoveri
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La preghiera di un vescovo
SCONFITTI NEL SANGUE INNOCENTE

I fiumi di Babilonia, Ninive, Samaria, Kfar Aza, Gaza

Ieri lungo i fiumi di Babilonia (Sl 137,9; Is 13,16)
i tuoi piccoli sfracellati contro la pietra!
A Ninive lungo le strade (Naum 3,10)
i suoi bambini furono sfracellati!
Samaria sconta la sua pena (Os 14,1)
e i suoi piccoli saranno sfracellati!

Oggi Kfar Aza, kibbutz insanguinato
da grida sgomente!
A Gaza scorre copioso il sangue
di bambini senza colpa.

Orrore scorre dalla vendetta
ruscello cruento irriga una terra
senza più vita
arida e senza Dio.
Chi tornerà a seminarla?

Quale immensa sconfitta
in una vittoria dal sapore aspro
nello scempio di volti innocenti!
Quanto dovrà piangere Dio
sulla nuova Gerusalemme?

E’ questo il prezzo della guerra:
sconfitta di tutti!
Dalla morte resta
terrore e dolore
su volti impietriti.

Non siamo ideologie ma vita!

Uomini impastati di terra
ma plasmati d’eterno
soffio divino
che si espande nei respiri.

Fratelli non bestie!
Abbattiamo ogni spirale di guerra
in Israele come in Palestina
torniamo a seminare giustizia
e pur nelle doglie partoriamo pace.

Don Pino Caiazzo, arcivescovo di Matera-Irsina e vescovo di Tricarico.
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Convegno Adriano Olivetti e la Sardegna 27/28 ottobre 2023
PARTECIPATE

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Che succede a Gaza? Una tragedia. Che fare?

img_2726Dalla volontaria di Gazzella a Gaza: Gaza 9.10.2023
Nel corso della notte l’esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi massicci contro i sobborghi di Shujaiyya, Beit Lahya e Rafah e secondo fonti israeliane finora sono state sganciate oltre 100 tonnellate di bombe
Il rafforzamento del sostegno militare a Israele annunciato dal Pentagono che lavorerà per assicurare che Israele abbia “quello di cui ha bisogno per difendersi”, per il movimento di resistenza islamico a Gaza, equivale a “partecipare all’aggressione contro il nostro popolo”. Un inquietante scenario!
Anche oggi le strade di Gaza sono vuote e frettolosi palestinesi, vanno a fare rifornimento di generi alimentari. Ed è quello che faremo anche noi. Stamattina A. andrà a fare la scorta perché non sappiamo come evolverà la situazione e i negozi intorno a noi stanno svuotando gli scaffali. Le scuole dell’UNRWA sono oramai affollate, in ogni aula dalle 20 – 22 persone. Sono migliaia le famiglie che hanno dovuto abbandonare le loro case. Io e A., fatta eccezione per una veloce uscita per acquisto di generi alimentari e una visita di A. alla moglie e dai due figli, la più piccola ha 6 mesi, per il resto della giornata siamo chiusi nella struttura. La situazione è difficile e non sappiamo cosa ci aspetta nei prossimi giorni.
I giornali riportano che le sirene antiaereo suonano a Tel Aviv, negli insediamenti e a Gerusalemme. La gente si precipita nei rifugi. Nessun giornalista riporta che a Gaza le bombe non vengono annunciate, le senti quando colpiscono le case. A volte un messaggio telefonico informa che la tua casa sarà bombardata, ma se non l’ abbandoni velocemente rischi di restare sotto le bombe. È quello che è successo ieri ad una famiglia di Beit Hanun, 12 persone della stessa famiglia morte sotto le macerie della loro casa.
Il Ministero della Salute di Gaza ha aggiornato alle 10pm del 8.10.2023 i dati: 436 martiri di cui 91 bambini e 61 donne, 2.271 feriti di cui 224 bambini e 151 donne. In Cisgiordania ieri si contavano 8 martiri di cui un bambino e 70 feriti. Le vittime in Israele sono oltre 700 e 2.500 feriti.
Hamas ha dichiarato di avere fatto 150 prigionieri e che parte di questi, pare, siano deceduti sotto i bombardamenti israeliani.
Israele ha dichiarato di voler lanciare una vasta operazione via terra contro Hamas nelle prossime 24-48 ore e Netanyhau ha aggiunto “ridurremo in macerie i luoghi di Hamas” e ai civili dice “andatevene da lì adesso perché agiremo ovunque con tutte le nostre forze”. E dove possono andare i palestinesi di Gaza che da 17 anni vivono sotto assedio e sono per il 70% già profughi dal 1948!
Alla luce della complessa situazione è necessario che il governo italiano e il parlamento europeo prendano posizione a favore della legalità internazionale, perché non si tratta di manifestare pro Hamas e per i palestinesi. La questione palestinese è molto altro!
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Una densa riflessione del giornalista israeliano Levy che ricostruisce il contesto e le cause senza i quali non è possibile spiegare gli atroci fatti di questi giorni:
Gideon Levy: “Israele punisce i palestinesi dal 1948, senza fermarsi un attimo”
Dietro tutto quello che è successo, l’arroganza israeliana. Pensavamo che ci fosse permesso fare qualsiasi cosa, che non avremmo mai pagato un prezzo o saremmo stati puniti per questo.
Continuiamo senza confusione. Arrestiamo, uccidiamo, maltrattiamo, derubiamo, proteggiamo i coloni massacrati, visitiamo la Tomba di Giuseppe, la Tomba di Otniel e l’Altare di Yeshua, tutto nei territori palestinesi, e ovviamente visitiamo il Monte del Tempio – più di 5.000 ebrei sul trono.
Spariamo a persone innocenti, caviamo loro gli occhi e spacchiamo loro la faccia, li deportiamo, confischiamo le loro terre, li saccheggiamo, li rapiamo dai loro letti, effettuiamo la pulizia etnica, continuiamo anche l’irragionevole blocco di Gaza, e tutto andrà bene.
Costruiamo un’enorme barriera attorno alla Striscia, la sua struttura sotterranea costa tre miliardi di shekel e siamo al sicuro. Ci affidiamo ai geni dell’Unità 8200 e agli agenti dello Shin Bet che sanno tutto e ci avviseranno al momento opportuno.
Stiamo spostando metà dell’esercito dall’enclave di Gaza all’enclave di Huwara solo per garantire le celebrazioni del trono dei coloni, e tutto andrà bene, sia a Huwara che a Erez.
Poi si scopre che un primitivo, antico bulldozer può sfondare anche gli ostacoli più complessi e costosi del mondo con relativa facilità, quando c’è un grande incentivo a farlo.
Guarda, questo ostacolo arrogante può essere superato da biciclette e motociclette, nonostante tutti i miliardi spesi per questo, e nonostante tutti i famosi esperti e imprenditori che hanno guadagnato un sacco di soldi.
Pensavamo di poter continuare il controllo dittatoriale di Gaza, gettando qua e là briciole di favore sotto forma di qualche migliaio di permessi di lavoro in Israele – questa è una goccia nell’oceano, anch’essa sempre condizionata ad un comportamento corretto – e in al ritorno, mantenetelo come la loro prigione.
Facciamo la pace con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – e i nostri cuori dimenticano i palestinesi, così che possano essere spazzati via, come molti israeliani avrebbero voluto.
Continuiamo a detenere migliaia di prigionieri palestinesi, compresi quelli detenuti senza processo, la maggior parte dei quali prigionieri politici, e non accettiamo di discutere il loro rilascio anche dopo decenni di prigione.
Diciamo loro che solo con la forza i loro prigionieri possono ottenere la libertà.
Pensavamo che avremmo continuato con arroganza a respingere ogni tentativo di soluzione politica, semplicemente perché non ci conveniva impegnarci in essa, e sicuramente tutto sarebbe continuato così per sempre.
E ancora una volta si è rivelato non essere così. Diverse centinaia di militanti palestinesi hanno sfondato la recinzione e hanno invaso Israele in un modo che nessun israeliano avrebbe potuto immaginare.
Alcune centinaia di combattenti palestinesi hanno dimostrato che è impossibile imprigionare due milioni di persone per sempre, senza pagare un prezzo elevato. Proprio come ieri il vecchio bulldozer palestinese fumante ha demolito il muro, il più avanzato di tutti i muri e le recinzioni, ha anche strappato di dosso il mantello dell’arroganza e dell’indifferenza israeliana.
Ha demolito anche l’idea che sia sufficiente attaccare Gaza di tanto in tanto con droni suicidi e vendere questi droni a mezzo mondo per mantenere la sicurezza.
Ieri Israele ha visto immagini che non aveva mai visto in vita sua: veicoli militari palestinesi che pattugliavano le sue città e ciclisti provenienti da Gaza che entravano dai suoi cancelli.
Queste immagini dovrebbero strappare il velo dell’arroganza. I palestinesi di Gaza hanno deciso che sono disposti a pagare qualsiasi cosa per un assaggio di libertà. C’è qualche speranza per questo? NO. Israele imparerà la lezione? NO.
Ieri già parlavano di spazzare via interi quartieri di Gaza, di occupare la Striscia di Gaza e di punire Gaza “come non è mai stata punita prima”. Ma Israele punisce Gaza dal 1948, senza fermarsi un attimo.
75 anni di abusi e il peggio l’attende adesso. Le minacce di “appiattire Gaza” dimostrano solo una cosa: che non abbiamo imparato nulla. L’arroganza è destinata a durare, anche se Israele ha ancora una volta pagato un prezzo elevato.
Benjamin Netanyahu ha una responsabilità molto pesante per quanto accaduto e deve pagarne il prezzo, ma la questione non è iniziata con lui e non finirà dopo la sua partenza.
Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane. Ma dobbiamo piangere anche per Gaza. Gaza, la cui popolazione è composta principalmente da rifugiati creati da Israele; Gaza, che non ha conosciuto un solo giorno di pace.
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[La documentazione che precede è stata tratta dai post del
nostro amico palestinese Fawzi, presidente dell’Associazione Sardegna Palestina, nella chat del Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis
].
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Israele critica il card. Pizzaballa

Attacco contro Israele: Ambasciata Israele presso Santa Sede risponde ai patriarchi di Gerusalemme

Un commento
di Franco Meloni
Hamas ha aggredito Israele usando una violenza spietata, causando moltissime vittime senza distinzione tra militari e civili. La contabilità dei morti è in continuo aumento. Mentre scriviamo da parte israeliana se ne contano oltre un migliaio. Da parte palestinese un po’ meno, ma con le rappresaglie e la controffensiva israeliana presto il conto sarà pareggiato e superato. Se, come è nelle dichiarazioni del governo Netanyahu, Israele per annientare Hamas annienterà un enorme numero di palestinesi tra gli oltre due milioni che abitano la striscia di Gaza, che conta com’è noto la più alta densità abitativa del mondo. Il responsabile numero uno di questa situazione è Netanyahu capo del governo sostenuto da una coalizione di destra. Le responsabilità di Hamas? Tremende. Non mi sentirei mai e poi mai di giustificare Hamas, ma bisogna chiederci come mai la stragrande maggioranza dei palestinesi sono oggi con Hamas. Insomma Hamas si è intestato la rappresentanza dell’intero popolo palestinese. È come se una persona angariata e violentata quotidianamente da un carnefice accettasse la protezione di un delinquente, che per un momento sapesse rendere pan per focaccia a detto carnefice. Per un momento, s’intende, di cui godere per il compimento della “vendetta riparatrice”, per poi tornare alla situazione di partenza o addiritura peggiore. In questo momento nessuno è in grado di evitare il baratro, fatto di distruzione e di morti. Solo una possibile quanto difficile azione diplomatica congiunta delle potenze mondiali (USA, Cina, Europa, in primis, insieme con i paesi arabi moderati, la Russia, la Turchia, i paesi emergenti (India, Brasile, …) e quanti altri nella misura del possibile, potranno fermare il conflitto e avviare una nuova inedita situazione. Jonathan Safran Foer, accreditato intellettuale statunitense di madre ebrea, auspicava che in questa nuova situazione non ci fossero più ne Hamas ne gli attuali politici al governo di Israele. La prospettiva? La coesistenza pacifica di due Stati: Israele e Palestina, che insieme fiorissero a nuova vita. Cosa potevano dire di più il card. Pizzaballa e gli altri Patriarchi della Terra Santa? Non hanno di certo praticato una “immorale ambiguità”, semplicemente si sono ispirati al Vangelo, in questa fase storica decisamente incomprensibile ed estraneo a chi reputa la guerra come unica soluzione dei problemi. Noi siamo con il card. Pizzaballa e gli alti Patriarchi: resistere, resistere, resistere alla rassegnazione al peggio. La lunga notte passerà.
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Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
[segue]

Elezioni e oltre

img_3442LABORATORIO POLITICO SARDEGNA 2024 – di ANTONIO SECCHI.
- Sep 26, 2023 – CEST, su PoliticaInsieme: https://www.politicainsieme.com/laboratorio-politico-sardegna-2024-di-antonio-secchi/.
Il prossimo anno la Sardegna, quasi senza averne consapevolezza, rappresenterà un laboratorio politico che travalicherà i confini isolani per assumere rilevanza almeno nazionale e per certi aspetti anche europea. Si celebreranno infatti nel primo semestre del 2024 in ordine cronologico, prima le elezioni regionali poi a seguire le amministrative dei grandi comuni e a giugno quelle europee per l’elezione del nuovo Parlamento di Strasburgo.

Alessandra Todde: un endorsement* convinto, seppur non richiesto.

img_3442di Franco Meloni
img_4411Per formazione e vita politica ultracinquantennale, sempre a sinistra, sono stato e sono tuttora distante dal Movimento 5 Stelle, che ho votato solo una volta per la credibilità di un amico candidato. Non mi è quasi mai piaciuto il Movimento – a cui peraltro riconosco meriti storici (tra questi il reddito di cittadinanza, pur migliorabile) – soprattutto nella sua fase di straordinario successo e consenso popolare. Oggi, dopo varie debacle che lo hanno ridimensionato, devo dire che mi è più simpatico, forse perché nel bene si è riorganizzato come un normale partito, anche nel male: vero, ma di questo non voglio parlare. Fatta questa premessa, mi sento libero e non attaccabile di partigianeria per le cose che di seguito dico. L’argomento è “elezioni sarde” e specificamente la “scelta del candidato/a alla presidenza della regione”. Bene, io credo, anzi ribadisco, che la priorità da dare negli incontri dell’alleanza di centro-sinistra sia allo stato attuale la scelta del candidato/a. Perché è lui (o lei) che deve condurre le trattative per la definizione del programma e l’indicazione dei criteri per la formazione delle diverse liste, partendo da una fondamentale base comune e nel rispetto delle differenze delle diverse liste in coalizione, compatibili con la stessa. Le persone in grado di assumere questo importantissimo ruolo vi sono eccome. Ne elenco alcune in ordine alfabetico: Piero Comandini, Desirè Manca, Paolo Maninchedda, Graziano Milia, Alessandra Todde, e tanti altri/e. Tuttavia dichiaro che la mia preferenza va a Alessandra Todde. E poco mi importa che il suo nome sia gradito e suggerito dalle segreterie romane dei partiti italiani. Che problema ci sarebbe? Lesa maestà per i sardi? Ma non scherziamo. Ricordo che Emilio Lussu e altri proposero alla Consulta sarda e all’Assemblea costituente italiana che la Sardegna adottasse lo Statuto siciliano, stante la perentoria scadenza che vedeva i rappresentanti della Sardegna non concordi su uno Statuto cucinato in proprio. Apriti cielo! Come si sa, andò a finire che per la Sardegna fu adottato uno Statuto di gran lunga meno autonomista di quello siciliano! Nel nostro caso la scelta “romana” dovrebbe/potrebbe coincidere con quella autonoma sarda. Questo è il img_4403mio auspicio. Non ne siete convinti? Ovviamente legittimo, ma prima di esprimere la vostra opinione definitiva, per favore leggete il curriculum vitae di Alessandra Todde (lo trovate su Wikipedia e comunque lo riporto più avanti). Unito alla sua esperienza e alle sue posizioni politiche di dominio pubblico, per me basta e avanza!
Alessandra Todde su Wikipedia
Biografia
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Nata il 6 febbraio 1969 a Nuoro, si è laureata in Ingegneria informatica all’Università di Pisa e, dopo aver conseguito una laurea magistrale, ha vissuto per 11 anni negli Stati Uniti, dove si è occupata di energia ed evoluzione digitale.

Verso le elezioni sarde. Torniamo a votare

img_3442IL CONVITATO DI PIETRA E L’ARABA FENICE: uno sguardo sulle elezioni regionali
di Tonino Secchi
In questo fine agosto 2023, memorabile per le calure storiche e gli incendi devastanti in diverse aree del Mediterraneo, si respira in Sardegna una sorta di stordimento della memoria soprattutto nell’ambito della politica che ha chiuso i battenti prima delle “vacanze estive” con due vicende significative: l’assemblea del campo largo del centrosinistra al Molentargius e l’imbarazzo del centrodestra alla ricerca affannosa di un nuovo leader. I giocatori di questa partita sembrano non accorgersi di un convitato di pietra che quasi li osserva dispiaciuto e incredulo dagli spalti quasi a ricordare che i giochi sono già fatti e che a vincere può essere proprio lui:

Utopie e rivoluzioni. Ritorna il Contemporary 2023, Festival di arte e avanguardia

img_4015Da giovedì 17 agosto a sabato 19 agosto ritorna Contemporary, Festival di arte e avanguardia, tra i più innovativi e vivaci festival del panorama nazionale. L’edizione corrente che si svolgerà nel piccolo paese di Donori è anche quella che celebra il decimo anniversario della sua fondazione insieme agli artisti e le artiste in residenza Panayiotis Andreou, Satya Forte, Gianmaria Marcaccini, Davide Mariani, Miriam Montani, Fabrizio Segaricci, Tekla Vály, le cui opere saranno visibili per tutta la durata del festival. La troupe del documentario è composta da Camilla Deidda e Marlon Sartore. Le tre serate saranno presentate da Giorgio Manca.

L’insuperabile bellezza della Natura

150afed6-39a4-4b93-aa3e-cd0624814460Guardate i gigli dei campi: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”. Nel riquadro grande: gigli di mare (Villasimius); nel piccolo: Piero della Francesca – “Salomone Riceve la regina di Saba” (particolare) – Arezzo
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ape-innovativaLogo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413

Dibattito. Verso le elezioni sarde. Come voteranno i cattolici?

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d0200290-9056-4df3-a587-48510422d8d5Intervento di Giacomo Meloni.

Una premessa.
Seguo con un certo interesse il dibattito pre-elettorale e, compatibilmente col poco tempo che ho per gli impegni sindacali di Segretario Naz.le della CSS, cerco di andare ad ascoltare i protagonisti principali nelle assemblee ed incontri pubblici. Ho capito che per ora scenderanno in campo vari schieramenti politici: il Centro Destra per ora unito, il PD con alcuni movimenti collaterali, i Progressisti con altri movimenti tra cui gli indipendentisti di Liberu con Giulia Lai e Devias e A Innantis di Franziscu Sedda.
Poi c’è la galassia dei Partiti e Movimenti Indipendentisti, che nelle assemblee di Serri e Parco S.Agostino di Abbasanta stanno tentando una via unitaria identitaria.
Il direttore Franco Meloni mi sollecita a dire la mia su ciò che in politica si muove nel mondo cattolico. E allora, ecco le mie riflessioni.
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Vorrei precisare che il mondo cattolico soprattutto oggi è molto diviso. Fermo restando che credo sia irripetibile l’esperienza del Partito Popolare e della DC e che personalmente non mi reputo certo un nostalgico, anche se penso che molte donne e uomini cattolici impegnati nella politica di quei periodi sono dei giganti rispetto alla maggioranza dei nani e ballerine di oggi.
Vorrei avvertire che i laici cattolici non sono tutti orientati a sinistra e/o al centrosinistra. Le precedenti elezioni hanno visto molti cattolici sostenere candidati di destra sia dentro le coalizioni di destra, sia all’interno degli schieramenti di centrosinistra indicando apertamente donne e uomini di “destra senza tessere”.
Esempi lampanti:
1. Elezione di Ugo Cappellacci (Forza Italia Centro DX) a presidente della Giunta Reg.le, sostenuto dal mondo cattolico in particolare dall’Associazionismo sportivo, rappresentato da Alessandra Zedda che diventò Assessora.
2. Elezione di Massimo Zedda (allora PD ed ora Gruppo Progressisti) a sindaco di Cagliari (Centro-sinistra e sardista per un periodo e poi solo centro-sinistra, dopo il ritiro delle deleghe all’assessore sardista Gianni Chessa), sostenuto dal mondo cattolico tramite la madre cattolicissima ed il forte legame coll’allora ed ora emerito Arcivescovo di Cagliari Mons.Giuseppe Mani (ex ordinario militare in pensione forse col grado di generale e per me “imprenditore”, vedi il forte flusso finanziario delle casse regionali per l’istituzione del Collegio S.Efisio nei locali dell’ex Seminario diocesano).
Massimo era sostenuto anche dai giovani universitari di sinistra. Ma tra i primi provvedimenti della sua Giunta ha chiuso i locali, dove si riunivano le associazioni giovanili nel Palazzo dell’ex Liceo Dettori (poi Siotto), dove studio’ Antonio Gramsci (a cui ha dedicato una targa a futura memoria, dimenticandosi dei giovani, che il nostro grande Gramsci incoraggiava a studiare ed entrare in politica).
3. Elezione di Christian Solinas a Presidente della Giunta Reg.le Sardegna (Centro Destra sardo-leghista), sostenuto dal mondo cattolico e da interessi forti del mondo imprenditoriale e dalla Massoneria.
Torniamo alla sfida di oggi.

Quale Italia? Sud, Sardegna: poveri noi!

img_3586Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica

Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]

SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008

img_3904Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.

Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.

Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.

PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.

NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.

Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.

CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.

Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.

CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»

Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*

L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Arcivescovo di Napoli

*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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img_3442img_3907img_2775Se son rose fioriranno. Qualcuna è già fiorita!
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di Franco Meloni
Il dibattito politico sulle prossime elezioni sarde è in rapida crescita. Per quanto riguarda il centro destra tutto sembra ruotare sulla contrastata ricandidatura di Christian Solinas, che solo la Lega e la parte maggioritaria del PSdAz propongono. La destra rampante di Fratelli d’Italia e quella moderata di Forza Italia più cespugli vari vogliono un cambio di cavallo. E a parere di molti credibili osservatori ci riusciranno. E anch’io così penso. Basterà trovare un beatiful exit per l’ingombrate Christian: per lui si aprirebbe un dorato pensionamento al Parlamento europeo. La destra vincente punterebbe su un candidato di prestigio come l’attuale leader della Coldiretti Sardegna Luca Saba. Scelta intelligente che riunirebbe in una sola coalizione il centro destra. Sulla sponda opposta il centro sinistra stenta a trovare l’unità, nonostante una sola lista avrebbe ragionevoli previsioni di vittoria. Ma, si sa, come per primo disse il prof. Luigi Gessa: “il più grande avversario della sinistra è la stessa sinistra”.
Purtroppo le diverse formazioni della sinistra rischiano ancora una volta di perdere, perché incapaci di costruire un’alleanza intorno a un solo candidato presidente, con diverse liste che garantirebbero la diversità di posizioni. Viaggiano nell’ipotesi di una sola coalizione il Pd, il M5S, i Progressisti, Possibile, e altre importanti 6802d991-52f6-4acf-9de5-bf92b0b994ccaggregazioni, tra le quali Demos con Insieme, queste ultime due rappresentanti un’area di Cattolici democratici, che in questa fase tentano, con qualche successo, di riportare molti Cattolici (o comunque persone che si ispirano ai valori cristiani) all’impegno politico. Significativo al riguardo un esplicito gradimento della conferenza dei vescovi italiani (CEI), che non manca di richiamare la entusiasmante stagione del grande compromesso costituzionale del dopoguerra. Il Vangelo e la Costituzione (Vangelo laico), sono i due fondamentali riferimenti; ma come non vedervi l’incitamento esplicito in dimensioni planetarie di Papa Francesco? Nel nostro piccolo, questa posizione è maggioritaria nell’ambito del Movimento Patto per la Sardegna, che si muove vivacemente nel nostro ambiente.
Ma torniamo al centro sinistra e dintorni. In direzione contraria alla grande coalizione si muovono, allo stato, l’arcipelago degli indipendentisti e, separatamente, la sinistra tout court. Sembrerebbe prevalere per ciascuna di queste aggregazioni la scelta di liste separate. Scelta sciagurata, soprattutto in caso di presentazione di coalizioni (anziché di liste singole), inesorabilmente punite dall’attuale pessima legge elettorale sarda. In sostanza: si può vincere e conquistare il governo della Regione solo con la presentazione di un’unica lista con un solo candidato presidente. Semplice a spiegarsi, duro a capirsi nonostante l’esperienza delle img_3910ultime tornate elettorali. Da segnalare l’incognita del neo movimento di “Sardegna chiama Sardegna”, che ha costruito un bellissimo programma per la Sardegna, ma che stenta a concretizzare la scelta sulla presentazione, attualmente affascinata da uno “splendido isolamento”. Noi di Aladinews siamo schierati senza alcuna reticenza per l’unica lista di coalizione del centro sinistra, guidata da un candidato (meglio da una candidata) scelta attraverso il meccanismo delle primarie. Si discuta apertamente senza preclusioni, badando al possibile e auspicabile risultato vittorioso. Il programma va costruito sulle bozze esistenti, trovando l’unità su una serie di punti, rispettando le diversità che devono essere esplicitate. Avanti nell’interesse dei sardi e dell’intera Sardegna!
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Quale Italia, quale Sud, quale Sardegna?

img_3586Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica

Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]

SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008

img_3904Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.

Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.

Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.

PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.

NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.

Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.

CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.

Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.

CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»

Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*

L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Arcivescovo di Napoli

*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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Che sia la volta buona?

img_3442Nasce la coalizione di centrosinistra in previsione delle elezioni regionali sarde del 2024.
(a cura di Tonino Secchi*)
Aria delle grandi occasioni quella che si respira questa mattina, 7 luglio 2023, nel salone del Parco delle Saline del Molentargius a Cagliari, dove si è riunita alle 10.00 la coalizione politica del centrosinistra sardo in preparazione delle elezioni regionali del 2024.
Saluta i convenuti Paolo Maninchedda, già assessore regionale nella Giunta Pigliaru, ispiratore l’anno passato del primo tentativo di aggregazione dell’area politica del centrosinistra e oggi ancora più convinto dell’importanza di questo passaggio a pochi mesi dalla conclusione della legislatura. Non è infatti un caso che accanto ai partiti presenti in Consiglio regionale siedono, al tavolo della riunione, numerose associazioni culturali e politiche presenti nel tessuto della società civile isolana ormai da diversi anni. Maninchedda assume il ruolo di moderatore della riunione precisando che a parlare saranno i portavoce di tutte le parti presenti che avranno il compito di delineare il perimetro e il carattere della nuova coalizione alternativa al centrodestra, attualmente in carica alla guida della Regione.