Risultato della ricerca: VAN PARIJS

Aladi(n)battiti. Reddito e Lavoro. Sul reddito di cittadinanza e altro ancora.

fa3971cb-bea9-4225-b32e-5d211e6ba194
RIMBALZI
Il reddito di base oltre il tempo della pandemia
25-02-2021 – di: Giuseppe Allegri su Volerelaluna.

Con queste note si vorrebbe invitare a una chiamata collettiva sui possibili spazi di miglioramento di politiche pubbliche di promozione sociale, dinanzi al dibattito europeo e globale sul reddito di base al tempo della pandemia. Considerando anche che nei giorni in cui si ultimano questi appunti il nascente Governo Draghi rimane interlocutorio sulle possibili condizioni di miglioramento della legislazione intorno al reddito di cittadinanza, mentre Oltralpe Libération, celebre quotidiano della nuova sinistra francese, richiama, nella prima pagina di martedì 9 febbraio, la proposta di revenu universel sostenuta da Benoît Hamon, ex candidato socialista alle presidenziali 2017 e ora vicino ai movimenti giovanili e verdi, e quindi dedica un intero dossier online al tema del reddito di base / revenu universel / basic income.

Ottant’anni di modello sociale europeo e due anni di parodistico dibattito italiano

Come oramai sappiamo, dalla primavera 2019 anche il nostro ordinamento repubblicano ha finalmente previsto una forma di “reddito minimo” (minimum income, da noi chiamato reddito di cittadinanza), a circa ottant’anni dalle prime previsioni in questo senso proposte dal Beveridge Report (1942), successivamente introdotte dal governo laburista di Clement Attlee (1945-1948), per liberare le persone dal bisogno, e a oltre trenta dall’introduzione del revenu minimum d’insertion (RMI) nella Francia del governo socialista di Michel Rocard, cioè dalla previsione del diritto di ottenere dalla collettività sufficienti mezzi di sussistenza («droit d’obtenire de la collectivité des moyens convenables d’existence», art. 1 della legge del 1° dicembre 1988). Per ricordare il primo e l’ultimo Paese della vecchia Europa che nei decenni passati introdussero misure di questo tipo. È stato il cuore del modello sociale europeo, pensato negli Stati costituzionali pluralistici e sociali del secondo dopoguerra a partire da misure universalistiche di protezione sociale, che – accanto all’accesso all’istruzione e alla sanità di qualità – prevedeva una lotta alla povertà finalizzata alla tutela effettiva della dignità umana e alla promozione di migliori condizioni di vita e di lavoro per tutta la cittadinanza. Con sussidi diretti alle persone in particolari condizioni di rischio, vulnerabilità e/o fragilità (anziani, malati, inabili al lavoro, famiglie con figli minori, donne in gravidanza, disoccupati cronici etc.), quindi con un’assicurazione sociale di integrazione al reddito per rifiutare i ricatti del lavoro povero, perciò in favore di tutti i salariati, per i lavoratori indipendenti e autonomi con le loro libere attività in proprio, per i disoccupati, sottoccupati o giovani in cerca di prima occupazione.

Nonostante questa arcinota storia oramai quasi secolare, il dibattito politico e culturale intorno al reddito di cittadinanza (RdC introdotto ai tempi del Governo giallo-nero-verde Conte I, con decreto legge n. 4/2019 e successiva legge di conversione n. 26/2019) rimane ancora sospeso in una urticante e indegna parodia, tra sussidio di ultima istanza e di disoccupazione. Da una parte il sempre più timido sostegno da parte dei promotori di questa misura, quel Movimento 5 Stelle dell’allora Ministro del lavoro e delle politiche sociali Luigi Di Maio che neanche due anni fa festeggiava con il retorico e sguaiato grido «abbiamo abolito la povertà». Dall’altra ci sono quegli eterni nemici di qualsiasi forma di sostegno al reddito, da loro pregiudizialmente ritenuta come un’elemosina per gli scansafatiche, propensi a prendere il reddito restando sdraiati sul divano, oppure seduti a mangiare pasta al pomodoro, come sostenne oramai quasi un decennio fa Elsa Fornero, allora Ministra del lavoro e delle politiche sociali del Governo presieduto da Mario Monti e quindi tra le principali responsabili del ritardo con cui si è arrivati a una misura del genere.

Così la legge di conversione ha incluso da subito le fantomatiche norme anti-divano con il vizio di origine, immediatamente evidenziato da Chiara Saraceno, di considerare il RdC come una politica del lavoro, confondendo politiche di sostegno al reddito con politiche attive del lavoro, generando solo confusione, false aspettative, inducendo abusi e prevedendo poi un’assai «discutibile impostazione meritocratica» della stringente condizionalità all’ottenimento del reddito, con una incredibilmente «fitta disciplina sanzionatoria, che occupa uno spazio davvero inusitato nel corpo della legge n. 26/2019 (in particolare con gli artt. 7, 7 bis, 7 ter», come osserva il giuslavorista Stefano Giubboni e come ricostruito anche nei diversi saggi contenuti nel volume collettivo di cui è curatore, Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti.

Frammentazione e insicurezza al tempo della pandemia

La normativa adottata nella lotta alla pandemia ha allentato questi vincoli e ha poi introdotto una serie di indennità, trattamenti di integrazione salariale, bonus, reddito di emergenza, ristori etc. polverizzando le misure di sostegno al reddito in una ventina di interventi categoriali e settoriali (dall’istanza per l’emersione di lavoro subordinato irregolare, alle indennità di 600 e 1000 euro, alle indennità Covid-19 per i lavoratori domestici, al REM, ai Congedi Covid-19 retribuiti, al bonus baby sitting, bonus indennità collaboratori e istruttori sportivi etc.), generando un coacervo di strumenti sempre più parziali e occasionali, perché ogni volta una porzione della società rimaneva comunque fuori dalle tutele e garanzie previste in precedenza. Una sorta di rincorsa a tappare i buchi di un Welfare rimasto vittima della sua tradizionale impostazione categoriale, frammentata e fondamentalmente affidata all’intervento sussidiario della famiglia, anche in tempi di pandemia e conseguente sospensione di molte attività lavorative e imprenditoriali e per giunta spesso lacerati da rapporti familiari coatti, a causa dei diversi vincoli di isolamento.

Come nota il recente Rapporto DisuguItalia 2021 di Oxfam Italia, «in questo contesto, le misure di sostegno pubblico al reddito, al lavoro e alle famiglie emanate nel corso del 2020 dal Governo hanno contribuito ad attenuare gli impatti della crisi e a ridurre moderatamente i divari retributivi e reddituali. [… Ma] vecchie vulnerabilità si sono acuite e sommate a nuove fragilità, con conseguenze allarmanti per il benessere dei cittadini, l’inclusione e la coesione sociale». Tanto che altrove, anche come Basic Income Network Italia, abbiamo espressamente parlato di urgenza del reddito di base nella pandemia. Tutto ciò da un lato produce insicurezza, incertezza e risentimento nei confronti delle istituzioni pubbliche in quella porzione più debole della società, che si aspetta strumenti di protezione e tutela dai meccanismi di Welfare. Dall’altro innesca stigma e sfiducia in «quel 40% degli italiani in condizioni di povertà finanziaria, ovvero senza risparmi accumulati sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi» (per citare sempre il Rapporto DisuguItalia 2021), circa 25 milioni di persone che in realtà costituiscono una parte impoverita di quel ceto medio già precarizzato, sottoccupato, sfiduciato, ora piombato nell’assenza di lavoro, se non sommerso, grigio, occasionale etc. e da sempre tradizionalmente poco avvezzo a entrare nei meccanismi burocratici della sicurezza sociale.

Per questo è necessario indagare gli spazi pubblici di confronto per migliorare il RdC esistente, pensare tutele e garanzie che diano risposte all’altezza della situazione e immaginare il welfare del presente e del futuro.

Per un possibile cantiere comune, a partire dal reddito di base

Quelle che seguono sono solo suggestioni, quasi slogan di un primo possibile ragionare in comune, nel senso di condividere analisi, riflessioni, proposte, progetti per migliorare le istituzioni di sicurezza sociale nella prospettiva di pensare un vero e proprio ius existentiae (per riprendere, nel dibattito italiano, tra i molti e le molte, le proposte di Luigi Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti e quindi Elena Granaglia e Magda Bolzoni, Il reddito di base). Un reddito di base inteso come erogazione monetaria individuale, una nuova istituzione, diritto sociale fondamentale a condurre una vita quanto più libera possibile dai ricatti, un vero e proprio investimento pubblico in favore delle persone, per farle uscire da uno stato di ricatto e minorità, per una Democrazia del reddito universale come titolava il volume manifestolibri che nel 1997 raccoglieva testi dei maggiori studiosi europei del Basic Income, come Philippe Van Parijs, Alain Caillé, Claus Offe, che si stavano confrontando con l’avvento della società digitale e della precarietà diffusa.

1. Per un dibattito sul reddito di base in Italia

Proprio il riferimento agli anni Novanta del Novecento della rivoluzione informatica e dei primi movimenti di lotta alla disoccupazione/sottoccupazione e alla precarietà oramai strutturale, ci ricorda che in quegli stessi anni in Francia si aprì un fervido dibattito culturale, sociale, politico, sindacale e accademico intorno all’urgenza di estendere e ampliare le garanzie del revenu minimum d’insertion (RMI), ricordato in precedenza e introdotto nel 1988. L’intero decennio dei Novanta fu infatti attraversato da un ricchissimo dibattito, che coinvolse forze culturali e politiche, intellettuali e studiosi, sociologi ed economisti, sindacalisti e giuristi, come Thomas Piketty e Philippe Van Parijs, lo stesso Michel Rocard con Jean-Michel Belorgey, padri dell’allora esistente misura di RMI, quindi Jean-Marc Ferry e Alain Caillé, André Gorz e Daniel Cohen. Dibattito fatto di proposte e riflessioni che provarono a utilizzare lo stesso acronimo RMI per proporre un revenu minimum inconditionnel, cioè svincolato da particolari limitazioni e condizioni di accesso e di eventuale controprestazione lavorativa, fino alla previsione di una allocation universelle, un vero e proprio reddito di base, revenu de base, universale e incondizionato, nel quadro di un necessario aggiornamento universalistico del modello sociale statuale francese, nel contesto di quello europeo. È possibile immaginare che, magari anche a partire dallo spazio e dalle reti raccolte intorno al Centro per la Riforma dello Stato, si inneschi questo plurale dibattito e confronto per contribuire a elaborare elementi di modifica del RdC nel senso di un vero e proprio diritto sociale fondamentale individuale – e non familiare – verso una prospettiva sempre più universale e meno condizionata? Il tutto proprio a partire dalle ipotesi di sperimentazione che permette la stessa legislazione esistente, magari in favore di alcuni soggetti, come i giovani nella proposta di perequazione intergenerazionale di un’eredità universale, di cittadinanza, da erogare al compimento del 18esimo anno di età, proposta dal Forum Diseguaglianze e Diversità. O anche nel senso di quel reddito di autodeterminazione, rivendicato da tempo dal movimento Non una di meno, e inteso come «garanzia di indipendenza economica e dunque concreta forma di sostegno per le donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita da relazioni violente (intrafamiliari e lavorative) […] strumento di prevenzione rispetto alla violenza di genere, di autonomia e liberazione dai ricatti dello sfruttamento, del lavoro purché sia, della precarietà, delle molestie».

2. Reddito di base incondizionato, tra iniziativa dei cittadini europei e futuro dell’Europa sociale

In questa prospettiva è utile ricordare che fino al 25 dicembre 2021 si potrà sostenere e firmare (direttamente online, presso il sito istituzionale dedicato alla raccolta del milione di firme) l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), istituto previsto dall’art. 11 TUE per la partecipazione della società civile nei rapporti con la Commissione europea, in questo caso per favorire l’introduzione di forme di reddito di base incondizionato (RBI o Unconditional Basic Income – UBI) nei 27 Stati UE. Si aggiunga che in questi primi sei mesi dell’anno la presidenza portoghese del Consiglio dell’UE ha come obiettivo anche quello di lavorare intorno al tema dell’Europa sociale, a partire dal Pilastro europeo dei diritti sociali (2017), dalla recente Risoluzione dell’Europarlamento su Un’Europa sociale forte per transizioni giuste (A strong Social Europe for just transitions, 17 dicembre 2020, al cui punto 36 si sottolinea che «ogni persona in Europa dovrebbe essere coperta da un regime di reddito minimo e che le pensioni dovrebbero assicurare un reddito superiore alla soglia di povertà») e dal programmato Vertice sociale europeo – Social Summit di Operto del prossimo 7 maggio. Il tema del futuro dell’Europa sociale – e delle connesse transizioni ecologiche, digitali, energetiche etc. – è quindi strettamente connesso a quello del reddito minimo e di base, nell’auspicabile prospettiva che proprio la garanzia di un Basic Income possa far parte del Recovery Programme. Considerando anche che otto membri dell’Europarlamento riuniti nel gruppo Positive Money, tra i quali Guy Verhofstadt e Sandro Gozi, si sono pronunciati in favore di qualcosa di simile a un QE for the people, sulla falsariga del bazooka monetario – Quantitative Easing – attivato da Mario Draghi allora alla BCE, un helicopter money distribuito direttamente dalla BCE, che una parte dell’opinione pubblica ritenga debba erogare un vero e proprio reddito di base. Mentre nel mondo il dibattito su helicopter money e basic income va avanti oramai da tempo, ripensando a quando anche l’Economist notò come le istanze del reddito di base cominciavano a trovare sempre maggiore consenso tra sperimentazioni locali e progetti istituzionali. Del resto, nelle settimane della primavera scorsa, del primo periodo di lotta alla pandemia globale da Sars-CoV-2 e dalla connessa Covid-19, il 71% di circa 12mila cittadini europei, consultati all’interno di un’ampia ricerca accademica, si dichiarò favorevole all’introduzione di un reddito di base per tutti i cittadini europei.

3. Sperimentazioni di reddito di base: il caso finlandese in chiave post-pandemica

Negli ultimi anni si è molto discusso della sperimentazione finlandese del reddito di base, portata avanti nel 2017-2018. Promossa dal governo, coinvolse duemila persone disoccupate, estratte a sorte nelle liste dei fruitori di sussidi, che ricevettero un reddito mensile di 560 €. L’Istituto finlandese per la protezione sociale, Kela, pubblica risultati e analisi della sperimentazione, sulla spinta di Olli Kangas, padre putativo di questo progetto e direttore di ricerca al Kela stesso. Dai primi report la gran parte degli analisti nota come da questa sperimentazione potrebbero uscire risposte utili e necessarie per pensare in modo più equo e inclusivo le nostre società nell’epoca (post-)pandemica, a partire da tre punti emersi dalle condizioni vissute dai fruitori finlandesi del reddito di base: diminuzione di stress causato da insicurezza economico-finanziaria; maggiore fiducia nelle proprie aspettative future; crescita di condizioni di autodeterminazione e autonomia individuale. Tre coordinate fondamentali per pensare benessere psichico individuale, investimento sul futuro, promozione di maggiore indipendenza, tanto più nella necessaria connessione tra pandemia, lockdown e reddito di base: da una grande crisi derivano grandi cambiamenti?

4. Per un nuovo Welfare, a partire dal sostegno al reddito

«Questa situazione impone un ripensamento del welfare, in cui fare proposte innovative – e non pensare solo a dispositivi protettivi – come nuove forme universalistiche di sostegno al reddito, non come politica di emergenza, ma come nuovo approccio al welfare. In salute mentale vediamo chiaramente l’insufficienza di modelli di welfare fondati sull’asse “produttività/improduttività”». Sono parole che prendo in prestito da un importante intervento, titolato Un nuovo Welfare Comunitario per la Salute Mentale (in Welfare Oggi, n. 3/2020, 9-22), di Roberto Mezzina, già autorevole Direttore dei Servizi di Salute Mentale di Trieste, il quale, in una precedente intervista con Luca Negrogno per l’Istituzione Gian Franco Minguzzi, sottolineò l’urgenza di una presa di posizione del mondo attivo intorno alla salute mentale in favore di misure di sostegno al reddito: «è una questione sul tavolo, è necessario un dibattito pubblico innovativo». E qui il CRS potrebbe impegnarsi a favorire questo dibattito, a partire dal confronto sugli insegnamenti basagliani con il loro vero e proprio movimento di “pazienti”, psichiatri, operatori, tecnici, ricercatori, intellettuali etc., cui partecipò anche Mezzina, con l’obiettivo di tenere insieme corpo organico e corpo sociale, condizione individuale e contesto materiale. Penso in primissima battuta nella connessione con gli studi e le pratiche di Robert Castel, che è forse stato il più prezioso analista del rapporto tra questione sociale, salute mentale e benessere psico-fisico, nella prospettiva attuale dibattuta in tutto il mondo che il reddito di base possa migliorare la salute mentale di un Paese. Questo approccio diventa fondamentale dinanzi agli effetti psicologici intergenerazionali – dai giovanissimi agli anziani – prodotti dalla reclusione e dall’isolamento in tempi di pandemia, con la connessa necessità di pensare, al presente e al futuro, strumenti di inclusione, partecipazione, protagonismo delle persone oltre la dimensione “produttiva” della cittadinanza sociale.

5. Reddito di base tra società automatica, città in trasformazione e officine municipali

In quest’ottica sistemica, il reddito di base è inteso come strumento di sicurezza sociale universale per proteggere gli individui dai duraturi effetti economico-sociali della crisi sanitaria, ma anche dai cambiamenti dei sistemi di produzione e lavoro, nell’economia di piattaforma, digitale e automatizzata e nelle città in trasformazione. Questo è forse il cantiere dove il CRS è maggiormente sensibile, con la sua Scuola critica del digitale oramai attiva da tempo nella sua disamina del capitalismo digitale e di piattaforma, e i suoi progetti intorno alle Officine Municipali, intese anche come nuove istituzioni dove sperimentare e favorire incontri virtuosi tra soggetti, spesso dispersi, frammentati, sottoccupati e precari, delle diverse forme dei lavori – da remoto e in presenza – di innovatori sociali, coworking di vecchia e nuova generazione, quindi affaticata informalità dell’autorganizzazione e della cooperazione sociale e istituzioni locali più tradizionali, come Municipi, Comune, Regione, ma anche quelle scolastiche, universitarie, sportive, del tempo libero e della socialità.

Tutto questo non deve però avere il sentore di un’ennesima utopia, se non da intendersi come “indispensabile”, per dirla con le parole del sempre provocatoriamente concreto Philippe Van Parijs (Il reddito di base: un’utopia indispensabile, in Il Mulino, n. 1/2018), il quale ci ricorda con spietata lucidità, fuori da retoriche paternalistiche, caritatevoli, marginalizzanti, che «oggi è giunto il momento di elaborare e proporre un’alternativa all’utopia neoliberale della sottomissione totale delle nostre vite individuali e collettive al mercato, e un’alternativa all’utopia paleosocialista della sottomissione totale delle nostre vite allo Stato. Di questa utopia il reddito di base è un elemento centrale». Perché ci permette di pensare una vera, concreta, libertà per tutte e tutti, ora che anche all’interno delle diverse classi dirigenti comincia a balenare l’insostenibilità esistenziale, ecologica, sistemica dell’attuale modello economico capitalistico.

L’articolo è tratto dal sito del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – 15 febbraio 2021 .

* Giuseppe Allegri è socio fondatore del Basic Income Network Italia, autore del volume Il reddito di base nell’era digitale. Alcuni di questi profili sono stati approfonditi in G. Allegri, Dal reddito di cittadinanza italiano al dibattito europeo sul reddito di base. Per un nuovo Welfare nella pandemia, in Rivista Critica del Diritto Privato, n. 3/2020, 401-431, cui si rinvia, anche per i riferimenti bibliografici ivi contenuti.

Che succede?

c3dem_banner_04
CONTAGIO ESPONENZIALE. EUROPA IN ATTESA DEL VOTO USA. JIHAD E FRANCIA
18 Ottobre 2020 su C3dem.

DOCUMENTAZIONE.

Reddito di base in Italia: una misura oramai inevitabile?

pressenzaintervista a Michele Giannella
Tratto da Pressenza

Intervista a Michele Gianella, coordinatore italiano della Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per un reddito di base incondizionato.
[segue]

Oggi martedì 5 maggio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6dasvis-oghetto
—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————————————————-
Philippe Van Parijs: Un reddito universale è ciò di cui abbiamo bisogno | Su Il Blog di Beppe Grillo.
lampadadialadmicromicro1 Presto sarà introdotto in Italia un “reddito di emergenza”, per beneficiare chi non ha attualmente altri redditi da lavoro/pensione o ammortizzatori sociali. È una buona cosa, tuttavia temporanea, ma perché non introdurre un reddito incondizionato e universale? Finalmente se ne può almeno discutere. Approfondiamo.
———————————————–
Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Torniamo su un tema alla ribalta in questi giorni di pandemia e che G.F. Sabattini ha lanciato nel dibattito publico sardo in un convegno organizzato dal CoStat qualche tempo fa, i cui atti sono pubblicati nel volume curato da Fernando Codonesu “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti ” – Atti del convegno di Cagliari del 4-5 ottobre 2017.
Questo contributo, per l’importanza che riveste nella riflessione collettiva in questo momento, viene pubblicato insieme ad Aladinpensiero e a il Manifesto sardo. […]

————————————
tpi-it
TPI NEWS Vespignani a TPI: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”
lampadadialadmicromicroMolte cose che dice Vespignani sono perfino di semplice buon senso, che ovviamente nel nostro caso hanno solidi fondamenti scientifici. È facile trarre da quanto dice con esemplare chiarezza un programma di governo della situazione. Mi sembra che il nostro Governo stia operando bene, ma non vedo tradursi le giuste impostazioni con adeguata concreta operatività. Non che si stia facendo poco, anzi, ma ciò che si fa è drammaticamente insufficiente. Per esempio per quanto riguarda la sistemazione dei guariti ancora infettanti e degli asintomatici infettanti. Occorre predisporre alberghi o caserme, dice lo scienziato. E i tracciatori? Occorre assumere un esercito di giovani che con breve e intenso addestramento facciano questo lavoro “pre sanitario”. Come risponde la classe politica. I presidenti regionali del centro destra, per fortuna con eccezioni, sono stati inadeguati, incapaci, preoccupati di distinguersi per interessi di partito piuttosto che mossi dal bene comune. Non possiamo lasciar fare. Occorre una mobilitazione popolare per il nostro presente e futuro, di tutte le generazioni. Ci facciamo e ci faremo sentire. Organizzati!. [Annotazione. L'intervista è pregevole, il titolo decisamente fuorviante].
—————————–
Coronavirus. Arriva l’estate! Ma siamo davvero nell’era dei lumi?
5 Maggio 2020
Amsicora su Democraziaoggi.
Amici e amiche, devo confessare che non so più in quale mondo vivo. Voi lo sapete? Presuntuosamente ho creduto di aprire gli occhi agli altri… alle masse nientemeno. Ed ora brancolo nelle nebbie, non so neanche dove mi trovo. Mi muovo come una mosca cieca, quando, bendato, tentavo di beccare qualcuno dei miei compagni di […]
———————————————-

Oggi lunedì 4 maggio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6dasvis-oghetto
—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————————————————-
La difesa della salute fra federalismo e centralismo
Antonello Murgia su Democraziaoggi.
——————————————
Orazio Orrù, giovane partigiano di Orroli, caduto per la libertà nel cuneese
Daniela Orrù su Democraziaoggi.
————————CHE SUCCEDE?———————-
c3dem_banner_04
IL GOVERNO CONTE E I CORSARI, I CENSORI E I DUBBIOSI
3 Maggio 2020 su C3dem.
Giuseppe Conte, “Il governo è solido, le larghe intese sono chiacchiere, non ci sarà la patrimoniale” (intervista a La Stampa). Matteo Renzi, “Il premier ora decida. Pensi all’economia o farà a meno di noi” (intervista al Corriere della sera). Paolo Pombeni, “I corsari della politica aiutati dalla crisi del calvinismo” (Il Quotidiano). Su Il Fatto una serie di articoli di difesa del governo e di critica a Renzi, tra cui Barbara Spinelli, “Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti”, e Furio Colombo, “Italia, hanno fatto a pezzi la patria”. Così anche Norma Rangeri sul Manifesto, che sottolinea il successo di un appello di intellettuali di sinistra a difesa del governo Conte: “Se un appello raccoglie grande consenso”. Su questo appello scrive Ettore Maria Colombo su Qn: “Da intellettuali a censori. Conte non si critica”. Sofia Ventura, “Perché questo governo non è molto di sinistra” (Espresso). I dubbi di Marco Damilano: “Fase zero” (Espresso). Ugo De Siervo, “Introdurre la causa di supremazia. No ai mini capi di Stato come negli Usa” (intervista al Messaggero). Serena Sileoni, “Donne in ufficio e virus. Aumenta ancora il divario” (Mattino). Luigi La Spina, “Che succede nel Piemonte ammalato?” (La Stampa). Andrea Crisanti, “Le regole uguali un errore. Regioni molto diverse tra loro” (intervista al Messaggero).
————————————-
NUOVE MAPPE MENTALI
3 Maggio 2020 su C3dem.
Ilaria Capua, “Una nuova mappa mentale” (Corriere della sera). Alice Ranucci (giovane scrittrice), “La necessità di aprirsi al nuovo dopo la quarantena” (Messaggero). Vittorio E. Parsi, “Dopo la pandemia: rinascere per non morire” (Vita e Pensiero). Guido Tonelli, “Il peso della responsabilità per scienziati e ricercatori” (Corriere della sera). Marco Bentivogli, “E’ ora di innovare i lavori del futuro. Manifesto per ripartire” (Foglio). Romano Prodi, “Serve un piano dello Stato per far ripartire le imprese” (Messaggero). Sergio Fabbrini, “Alla Germania serve una visione strategica” (Sole 24 ore). Philippe Van Parijs, “Sarà un reddito che ci salverà” (intervista all’Espresso). Enrico Giovannini, “La crisi è un’occasione per far emergere il lavoro nero” (intervista al Mattino).
————————————————————
tpi-itVespignani a TPI: “I virologi italiani non hanno capito nulla, per sconfiggere il virus servono le 3T”
Intervista all’epidemiologo italiano che opera negli Usa: “Per la Fase 2 bisogna ‘testare’, ‘tracciare’, e ‘trattare’. Da qui non si scappa. Noi epidemiologi siamo come quelli che fanno le previsioni del tempo, ma non abbiamo la foto di un un vortice da mostrare al mondo. Per fortuna, al contrario dei metereologi, dopo aver individuato l’uragano, possiamo attenuarne l’impatto”
[NdR Il titolo è decisamente fuorviante, ma i contenuti dell'intervista sono veramente pregevoli].
————————————————–

Coronavirus. Pensare, analizzare, agire.

riccoepulone-jacopo-bassano
Proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori il sesto contributo, un intervento di Gianfranco Sabattini, economista, condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
———-
Il reddito di cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà o contro gli esiti distruttivi di eventi eccezionali

di Gianfranco Sabattini

Lo scoppio della pandemia da Covid-19 sta rilanciando l’idea dell’introduzione nel sistema di sicurezza nazionale del reddito di cittadinanza, con le finalità che hanno inteso assegnargli coloro che per primi l’hanno proposto, non già in contrapposizione, ma ad integrazione (per il maggior rispetto della dignità umana e la maggiore efficacia sul piano della valorizzazione dell’attività lavorativa), del sistema di welfare State, introdotto dopo la fine del secondo conflitto mondiale nella seconda metà del secolo scorso.
La cosiddetta “prova dei mezzi” e le molte “condizionalità” alle quali devono sottostare i fruitori della “difesa sociale” garantita dal sistema welfarista sono la conseguenza dei molti pregiudizi che caratterizzano una malintesa tutela della “dignità del lavoro”, che hanno giustificato, sino ai nostri giorni, le critiche portate da un arco di forze sociali (tra loro molto distanti sul piano ideologico) contro la possibile introduzione del reddito di cittadinanza, riproposte di continuo da quando sono iniziate ad emergere gli irreversibili motivi di crisi del sistema del welfare State sinora realizzato. Tali forze sociali hanno sempre considerato “offensive” della dignità personale l’erogazione di un reddito cui non corrispondesse una “prestazione lavorativa” da parte del fruitore.
Ciò che ha accomunato l’intero arco di tali forze ideologicamente eterogenee è stato il convincimento che la tutela del lavoro come valore in sé fosse irrinunciabile, perché il lavoro è “vita”, “partecipazione”, “autonomia” ed altro ancora. Sulla base di questo radicato assunto, sia le forze politiche e sindacali di sinistra, sia quelle che si rifanno ai principi della dottrina sociale della Chiesa cattolica, hanno sempre sostenuto che la tutela del lavoro dovesse essere garantita attraverso la creazione di posti di lavoro, malgrado tale obiettivo divenisse sempre più difficile da perseguire nei moderni sistemi economici.
In tal modo, le “buone intenzioni” dell’ampio arco di forze sociali critiche del reddito di cittadinanza ha finito col subire gli esiti di un’eterogenesi dei fini, che ha condotto le loro intenzioni ad essere sostituite dalle “conseguenze inintenzionali” di un convincimento volto a tutelare il lavoro; in tal modo, la loro posizione è servita, non già a difendere la dignità del lavoro, bensì a tutelare gli interessi delle forze conservatrici, motivate a conservare gli esiti spontanei connessi al libero svolgersi delle forze di mercato.
Tra le voci contrarie al reddito di cittadinanza, una delle più autorevoli è stata quella espressa tempo addietro da Papa Francesco in un discorso tenuto a Genova davanti ad un’assemblea dei lavoratori dell’Ilva; ora, però, a fronte dello scoppio della pandemia da Covid-19, anche il Papa sembra essersi convinto dell’urgenza, come di recente ha dichiarato, di una “retribuzione universale di base”, cioè di una forma di reddito in grado di garantire e realizzare un tipo di società che rispetti i suoi stessi membri. L’apertura del Papa all’introduzione di un reddito di cittadinanza incondizionato ha suscitato un coro di consensi anche tra quelle forze politiche di sinistra e sindacali (forse anch’esse indotte a cambiare parere di fronte agli effetti distruttivi della pandemia da Covid-19) tradizionalmente contrarie all’introduzione di ogni forma di reddito universale e incondizionato.
La rapida conversione ad accettare di istituzionalizzare una proposta sempre avversata sotto l’incalzare dello stato dell’urgenza e della necessità non può che essere apprezzata da quanti, da tempo, nell’ambito del dibattito politico-culturale in corso in Sardegna, sottolineano la positività dell’introduzione del reddito di cittadinanza nel sistema di sicurezza sociale, a motivo della crisi irreversibile del welfare State; ne è prova l’attività del Comitato Regionale d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria, i cui promotori ed organizzatori hanno ospitato nei loro “Blog” (Democraziaoggi, Aladinpensiero e Il Manifesto sardo), scritti e riflessioni sull’opportunità di introdurre il sempre criticato reddito di cittadinanza incondizionato nel sistemi sociali democratici ad economia di mercato; del dibattito, protrattosi negli anni non senza contrasti, fa fede la
costat-convegnocelebrazione, ad iniziativa del suaccennato “Comitato” e dell’“Europe Direct Regione Sardegna”, di un Convegno sul lavoro (svoltosi a Cagliari il 4-5 ottobre 2017, i cui atti sono stati raccolti nel volume “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti”), nel corso del quale sono stati esposti gli aspetti positivi del reddito di cittadinanza, rispetto alla tutela di chi involontariamente è privato della disponibilità di un reddito di base necessario alla sua sopravvivenza. Qui di seguito vengono riassunte le motivazioni che hanno caratterizzato la proposta dell’introduzione di tale reddito di base, intorno al quale sembra essersi finalmente realizzato un generale consenso.
Il welfare State, il sistema di protezione sociale oggi esistente, è stato formulato sul piano teorico tra le due guerre mondiali del secolo scorso, per tradursi in strutture pubbliche operative nei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi democratici, a partire soprattutto dalla fine del secondo conflitto mondiale, legittimando sul piano sociale che l’intervento dello Stato nell’economia costituisse la base portante del benessere dei cittadini, da conseguirsi attraverso la conservazione dello stabile funzionamento del sistema economico; ciò ha prodotto la trasformazione dello Stato di diritto liberale in Stato sociale di diritto, legittimando in tal modo un intervento pubblico costante di natura strutturale nel governo dell’economia. Le riforme istituzionali introdotte hanno dato luogo alla costruzione del sistema di sicurezza sociale, la cui funzione è stata quella di rendere operante la stipula di un patto politico tra capitale e lavoro, fondato sull’apporto teorico di John Maynard Keynes al pensiero economico dominante.
Il welfare State è divenuto così, sul piano dell’azione politica dei Paesi che l’hanno adottato, il presidio della realizzazione delle condizioni volte a garantire lo stabile funzionamento del sistema economico, con una crescente creazione e conservazione di opportunità lavorative. In particolare, il sistema welfarista ha assunto anche la funzione di assicurare alla forza lavoro, nel caso fosse risultata temporaneamente e involontariamente disoccupata, la garanzia di un reddito da corrispondere sotto forma di sussidio, a fronte di contribuzioni previdenziali a carico di imprese e lavoratori.
Negli anni successivi alla sua introduzione, il welfare State ha perso gran parte della sua funzionalità, a causa del formarsi di una diffusa disoccupazione sempre più difficile da “governare”; fatto, quest’ultimo, che ha messo progressivamente in crisi il sistema di sicurezza sociale realizzato, a causa delle profonde trasformazioni delle modalità di produzione del prodotto sociale e della crescente partecipazione dei cittadini alle procedure decisionali dell’attività politica.
E’ però opportuno ricordare che il welfare State fondato sulle idee di William Beveridge, si contrapponeva una proposta alternativa, avanzata da James Edward Meade (premio Nobel per l’economia 1977 e già docente alla London School of Economics e alla Cambridge University). Meade proponeva che la sicurezza sociale fosse garantita in termini radicalmente diversi da quelli previsti dal sistema suggerito da Beveridge; la sicurezza sociale, a suo parere, poteva essere meglio assicurata, invece che con la corresponsione ai soli disoccupati di sussidi condizionati (vincolando, ad esempio, il disoccupato a reinserirsi nel mondo del lavoro e a sottoporsi a un insieme di controlli non sempre rispettosi della dignità della persona), attraverso l’erogazione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, da corrispondere a tutti i cittadini senza alcun vincolo. Meade chiamava tale forme di reddito “dividendo sociale”, da finanziarsi senza alcun inasprimento del sistema fiscale ad integrazione del welfare State. Il dividendo sociale, doveva essere corrisposto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento pubblico, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, salute, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico.
Il fine ultimo della proposta di Meade era quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che riconoscesse ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad un reddito di base, erogato in termini assolutamente ugualitari. Tuttavia, tale proposta non è stata accolta, non solo per il maggior accreditamento sociale delle idee keynesiane sulle quali era stato formulato il sistema di welfare, ma anche perché i “Gloriosi Trent’Anni” (1945-1975), nell’arco dei quali i sistemi sociali democratici ad economia di mercato hanno vissuto un periodo di crescita sostenuta, sono valsi a giustificare il consenso in pro dei welfare State nazionali, aperti ad allargare sempre di più le loro funzioni.
Se il processo di allargamento delle finalità dei sistemi di welfare, ha avuto l’effetto di promuovere l’espansione e la sicurezza economica dei cittadini, esso ha anche portato ad una continua crescita della spesa pubblica, la cui copertura, per via dell’aumentata frequenza dei periodi di instabilità dei sistemi economici, è stata la causa del rallentamento del processo di crescita e sviluppo delle economie, con la formazione di crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Tali fenomeni, oltre ad incrinare l’antico patto tra capitale e lavoro, hanno anche determinato una crisi più generale del welfare State, progressivamente trasformatosi in struttura caritatevole nei confronti di una crescente massa di disoccupati, contribuendo ad allargare l’area della povertà, a causa delle sempre più limitate prestazioni sociali nei confronti di chi perdeva la stabilità del posto di lavoro.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, il rallentamento della crescita e dello sviluppo, nonché la conseguente crisi del welfare, hanno comportato il “ricupero” di antiche ideologie economiche e politiche conservatrici, dando vita al neoliberismo; imputando la causa della stagnazione del sistema economico al crescente livello della spesa pubblica, questa nuova ideologia ha individuato la soluzione del problema del rilancio della crescita e dello sviluppo nella riduzione delle prestazioni sociali (considerate un disincentivo al lavoro) e del carico fiscale (col quale veniva finanziato il sistema di sicurezza sociale).
Quali siano stati gli esiti di questo nuovo orientamento politico è ormai nell’esperienza di tutti. Ma se il connotato principale degli attuali sistemi produttivi ad economia di mercato è stato quello di causare crescenti livelli di disoccupazione strutturale (complici, da un lato, l’internazionalizzazione senza regole delle economie nazionali e, da un altro lato, l’elevata velocità dei processi di miglioramento delle tecnologie produttive), quale prospettiva può essere offerta ai disoccupati irreversibili (e, in generale, a tutti coloro che risultano privi di reddito) di partecipare alla distribuzione del prodotto sociale, perché sia loro reso possibile di perseguire dignitosamente il proprio progetto di vita?
La risposta a questo interrogativo può essere data solo prendendo in considerazione una riforma delle modalità di distribuzione del prodotto sociale, erogando a tutti i cittadini un dividendo sociale (come originariamente lo ha denominato Meade), indipendentemente dalla loro età e dal fatto di essere occupati, disoccupati o poveri; una soluzione però ignorata dai Paesi sempre più frequentemente colpiti da crisi economiche, le cui forze politiche hanno preferito, al contrario, continuare a “rabberciare” il vecchio sistema welfarista.
Da tempo, a livello internazionale, si propone di ricuperare l’originaria proposta di Meade, per istituzionalizzare un reddito di inclusione, una forma di trasferimento pubblico (a favore di chi è privo di reddito) diversa da quella prevista dal sistema welfarista; tale è, ad esempio, il trasferimento che, con la denominazione impropria di reddito di cittadinanza, viene corrisposto sulla base dei provvedimenti adottati di recente in Italia. In realtà, questa forma di erogazione fondata su un’impropria identificazione tra povero e disoccupato ed un approccio caritatevole, che vede nel percettore del reddito un potenziale approfittatore da tenere sotto sorveglianza ed al quale prescrivere persino i consumi, è tutto fuorché un dividendo sociale (o reddito di cittadinanza) universale e incondizionato.
Una riforma delle regole di distribuzione del prodotto sociale fondata sull’introduzione di un reddito di cittadinanza à la Meade renderebbe inutile, quasi totalmente, l’intero apparato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, qualora essa fosse associata ad una riqualificazione dell’attuale sistema di welfare, indirizzandolo a curare prevalentemente, se non esclusivamente, la formazione professionale e lo stato di salute dei cittadini. Tale riforma renderebbe plausibile il rilancio di uno stabile processo di crescita e sviluppo, evitando ogni possibile spreco della risorsa più preziosa (cioè la capacita lavorativa e creativa dei cittadini) della quale ogni sistema dispone anche nelle fasi di crisi.
Con l’introduzione di un reddito di cittadinanza (universale e incondizionato) e la riqualificazione del sistema di welfare diventerebbe realistico pensare che il settore pubblico, liberato dall’incombenza di risolvere i problemi distributivi di momento in momento insorgenti, possa essere orientato prevalentemente ad allargare e diversificare l’offerta di beni collettivi, utili a massimizzare la valorizzazione delle capacità lavorative di tutti i cittadini; i quali, attraverso la loro creatività, potranno concorrere a plasmare, non solo l’economia, ma anche la società alla quale appartengono.
Che senso può avere la costituzione di un’organizzazione della società fondata su un’attività d’investimento pubblico volto a rendere massima la valorizzazione delle capacità lavorative individuali? Se si riflette sulle difficoltà delle moderne economie industriali a creare nuovi posti di lavoro, l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato risponderebbe all’urgenza che le politiche pubbliche tradizionali divengano conformi alla soluzione dei problemi del nostro tempo, quali – tra i molti – la povertà, la disoccupazione, la salute pubblica e la bassa produttività dell’attività politica, ora perennemente “schiacciata” sul presente e poco orientata a progettare il futuro.
Questi problemi possono essere adeguatamente affrontati da una riorganizzazione del sistema sociale che, eliminando le disuguaglianze, la disoccupazione, la povertà e le minacce allo stato di salute della collettività, crei sempre più spazio ad attività d’investimento pubblico volte a massimizzare il prodotto sociale, attraverso la promozione di attività produttive autodirette, come fonte di reddito alternativo al lavoro eterodiretto (o dipendente), del quale il processo di accumulazione capitalistica contemporanea tende ad avere sempre meno bisogno.
————————————
8e886b6a-23d0-43f3-be42-1d1420881892
Rammentiamo che è in corso una Campagna per l’istituzione del Reddito di cittadinanza incondizionato e universale in Italia e in tutti gli altri paesi dell’Unione Europea, promossa da Unconditional Basic Income Europe e da BIN Italia. Aladinpensiero, il manifesto sardo, Democraziaoggi e Giornalia appoggiano detta Campagna e invitano a firmare l’apposito appello.

—————————————————-
Materiali per il Dibattito su Lavoro e Reddito di Cittadinanza
[segue]

Reddito di cittadinanza universale e incondizionato: da Marx a Van Parijs…

marx
L’attualità della critica marxiana del capitalismo

di Gianfranco Sabattini

E’ singolare il fatto che siano molti coloro che, pur non essendo mai stati marxisti militanti, trovino in Marx molte idee con cui spiegarsi i fenomeni negativi che affliggono le società capitalistiche contemporanee a regime democratico. Il fatto sorprende ancora di più, se si pensa che la maggior parte dei marxisti di ogni tendenza hanno “cestinato” Marx, giungendo persino a condividere e ad appoggiare la realizzazione di situazioni economiche che già Marx, pur nella diversità delle condizioni del suo tempo rispetto a quelle attuali, aveva individuato come causa della disuguaglianza distributiva del prodotto sociale; causa, questa, di uno dei mali che maggiormente destabilizzano il “normale” e stabile funzionamento delle società industriali contemporanee.
sebastiano_maffettone-marxMalgrado il generale disinteresse attuale per le analisi e il pensiero di Karl Marx, secondo Sebastiano Maffettone, docente di Filosofia politica presso la LUISS Guido Carli, in “Karl Marx nel XXI secolo”, non si può non riconoscere che, nel corso dell’Ottocento, il grande critico del capitalismo, comunque lo si voglia giudicare, è “oggi e per il prossimo futuro un pensatore da tenere assolutamente presente nell’analisi dei problemi e delle crisi che caratterizzano la vita del capitalismo contemporaneo”. Oggi, infatti, le sue idee servono a comprendere “il nostro tempo, le sue caratteristiche precipue, i suoi problemi sociali ed economici più profondi”.
L’interesse attuale per le analisi e il pensiero di Marx non sta tanto nelle sue previsioni circa un futuro salvifico dalla società capitalistica, da rinvenirsi nel comunismo, quanto nel fatto che, mediante un approccio multidisciplinare ai problemi sociali, egli abbia per primo compreso che il capitalismo è un modo di funzionare transitorio dei sistemi produttivi e delle società da essi plasmate e che i suoi “meccanismi di funzionamento” costituiscono le premesse di possibili ricorrenti crisi di stabilità, sia del sistema economico che di quello sociale; ma egli ha spiegato anche che il manifestarsi delle crisi è la conseguenza del fatto che i meccanismi di funzionamento del capitalismo danno origine ad una distribuzione ingiusta del prodotto sociale, a causa del fatto che “pochi profittano di molti e sfruttano la capacità di lavoro di altri per arricchirsi alle loro spalle”.
Inoltre, nella sua critica radicale della società capitalistica, Marx, ricorda Maffettone, non solo ha messo in risalto l’importanza che la scienza e le innovazioni tecnologiche rivestono nello svolgimento del processo della crescita economica e dello sviluppo civile, ma ha anche evidenziato gli effetti destabilizzanti che scienza e tecnica provocano sui rapporti sociali. Né alla critica marxiana del capitalismo – continua Maffettone – sono “sfuggiti” gli effetti negativi della globalizzazione delle economie nazionali che, per quanto ai tempi di Marx fossero ancora contenuti, sono stati da lui individuati come impliciti all’internazionalizzazione del capitale.
Per tutti i motivi indicati, di fronte alla crisi delle moderne società capitalistiche, è sostanzialmente impossibile, per chiunque ne voglia comprenderne le cause, e soprattutto per i responsabili dell’azione politica volta alla loro rimozione o al loro contenimento, ignorare il patrimonio di riflessioni critiche sui limiti dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, che Marx ha lasciato in eredità del mondo contemporaneo; ciò significa che, per avere contezza dello stato incerto e destabilizzato in cui versano le società capitalistiche contemporanee e per formulare possibili azioni politiche volte al suo superamento, non si possa, oggi, non “sentirci tutti marxisti”.
Di fronte alla ponderosa produzione di scritti filosofici, storici ed economici di Marx, per capire il senso del suo pensiero, si è soliti fare riferimento alla sua “opera maxima”, il “Capitale”, nel cui “Libro primo” sono contenuti gli elementi di base che egli ha posto a fondamento della sua analisi critica del funzionamento del capitalismo e dell’”iniqua distribuzione” del prodotto sociale causata dallo sfruttamento della forza lavoro.
Punto di partenza della costruzione marxiana dello schema esplicativo dello sfruttamento è la merce, intesa come tutto ciò che viene prodotto perché “utile” alla soddisfazione dei bisogni sociali. In quanto tale, la merce ha un “valore d’uso”; ma possiede anche un “valore di scambio”, che consente di scambiarla con altre merci. L’atto dello scambio, perciò, stabilisce un rapporto quantitativo tra merci qualitativamente diverse, in quanto dotate di valori d’uso differenti.
Perché le merci qualitativamente diverse possano essere scambiate, occorre che abbiano una dimensione in comune (che Marx chiama “valore”) che consenta di confrontarle. Dallo scambio nasce un “plusvalore” delle merci che, secondo la prospettiva marxiana (e, in generale, secondo quella di gran parte degli economisti della scuola classica che si rifanno al pensiero di Ricardo), è dato dalla differenza tra il valore delle merci scambiate, prodotte grazie all’impiego della forza lavoro, e la rimunerazione a quest’ultima corrisposta, sotto forma di salario, appena sufficiente alla sola sua “riproduzione”. Nei regimi capitalistici, secondo Marx, del plusvalore si appropriano gli imprenditori-capitalisti; esso, denominato da Marx “sfruttamento del lavoratore”, derivando dalla differenza tra il valore della quantità di lavoro conferito per la produzione delle merci e quello contenuto nelle merci necessarie alla riproduzione della forza lavoro, esprime un’appropriazione indebita di valore prodotto con lavoro non rimunerato.
A differenza degli altri autori classici, tuttavia, Marx ha formulato con maggior precisione il concetto di sfruttamento, inquadrando la sua formazione in una situazione di “concorrenza perfetta”; in questo modo, egli ha potuto collegarlo al concetto di “esercito industriale di riserva”, cioè a quella massa di disoccupati che, competendo con gli occupati in termini di salario, “spingeva” la rimunerazione della forza lavoro al ribasso, sino al suo livellamento al salario di sussistenza. L’esistenza dell’esercito industriale di riserva poteva, in tal modo, essere assunta come strumentale alla propensione degli imprenditori-capitalisti ad accumulare capitale, attraverso l’appiattimento del salario al livello minimo di sussistenza; quest’ultimo consentiva infatti agli imprenditori-capitalisti di “estrarre” il massimo “pluslavoro”, originante il plusvalore del quale “senza merito” essi appropriavano.
Su queste basi, Marx ha potuto sostenere che il sistema capitalistico era teso, nel suo complesso, alla continua e illimitata crescita del valore di scambio del prodotto sociale, indipendentemente da ogni valutazione riguardante la sua destinazione alla soddisfazione dei bisogni dei componenti la società. Inoltre, sulla base della dimostrazione che i meccanismi intrinseci al funzionamento del sistema capitalistico erano tali da supportare un’accumulazione capitalistica fondata sullo sfruttamento della forza lavoro occupata (grazie alla presenza di un esercito permanente di disoccupati), Marx ha potuto trarre la conclusione che era proprio la disoccupazione permanente a costituire la condizione che rendeva instabile il processo economico, a causa del verificarsi di continue crisi di sovrapproduzione.
Come non rinvenire, mutatis mutandis, nelle condizioni di operatività descritte e denunciate da Marx sul del sistema capitalistico del XIX secolo, una similitudine con quelle prevalenti nei sistemi capitalistici attuali? In questi ultimi, infatti, a causa della finanziarizzazione dell’attività economica e della crescente automazione dei processi produttivi dell’economia reale, si sono diffusi, da un lato, i processi di estrazione di valore, che concorrono ad approfondire le disuguaglianze distributive, e dall’altro, i processi di espulsione dalla stabilità occupazionale di quote crescenti di forza lavoro, che contribuiscono a formare una disoccupazione strutturale irreversibile (moderno esercito industriale di riserva); estrazione di valore e disoccupazione strutturale che, oltre a generare disuguaglianze distributive, sono anche cause di instabilità economica, come nei sistemi capitalistici dei tempi di Marx.
Il problema che Marx non è riuscito risolvere (assieme a lui, l’intera scuola classica alla quale come economista egli apparteneva) è stato, com’è noto, quello di non essere riuscito trasformare “i valori in prezzi”. A questo problema, sia pure indirettamente e dopo un prolungato dibattito, ha offerto una soluzione Piero Sraffa, il quale, partendo da una critica del marginalismo della teoria economica neoclassica e negando che la distribuzione del prodotto sociale potesse essere determinata da circostanze naturali o tecniche, né giustificata da “leggi ferree”, è giunto alla conclusione che, per la spiegazione del fenomeno distributivo, fosse necessaria una ricostruzione della teoria economica attraverso il ricupero della teoria marxiana del plusvalore, con conseguenze non di poco conto sul piano delle regole sottostanti il funzionamento del sistema economico-sociale.
Infatti, secondo Sraffa, non tutte le grandezze economiche (quantità da produrre, consumo, salario, profitto, ecc.), costituiscono fenomeni determinabili all’interno dell’economia, ma lo divenivano solo grazie ad “approcci procedurali”, la cui insufficiente formalizzazione ed istituzionalizzazione legittima il ruolo e la funzione del “conflitto sociale”. Ciò significa che quasi tutte le grandezze economiche devono essere calcolate solo su “basi tecniche” (come il foraggio per il bestiame ed il combustibile per le macchine), mentre il profitto va considerato in termini residuali, dovendosi identificare in ciò che resta del prodotto sociale dopo avere rimunerato il lavoro e reintegrato i capitali anticipati.
La soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi proposta da Sraffa non è servita a porre termine al dibattito tra gli economisti, circa il modo in cui stimare lo sfruttamento e il grado di ineguale distribuzione del prodotto sociale da esso causato; la prosecuzione del dibattito, però, è valsa a determinare la reazione di una robusta schiera di economisti filosofi sociali marxisti che, sulla base di un metodo proprio della filosofia analitica, hanno inaugurato la corrente di studio del problema distributivo detta, appunto, del “marxismo analitico” (analytical marxism).
Tale corrente, impostasi tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta del secolo scorso (in particolare, per il contributo di Allen E. Buchanan, Gerald Allan Cohen, Jon Elter e John Roemer), ha tentato una lettura in termini innovativi dei testi marxiani e dei concetti chiave del materialismo storico (quali quelli di sfruttamento, classe, forze produttive e rapporti di produzione), partendo dal presupposto, come afferma Maffettone, che fosse necessario salvare le problematiche distributive evidenziate da Marx, al fine di sottrarle alle lungaggini di un dibattito inconcludente, evitando così di esporle al rischio di una rimozione dal novero di quelle considerate come le cause principali delle crisi di natura economica e sociale del capitalismo contemporaneo.
Secondo gli esponenti del marxismo analitico, era possibile interpretare il problema distributivo formulato di Marx, fuori dalle difficoltà proprie di quello della trasformazione dei valori in prezzi, ricuperando, in alternativa, il tema dello sfruttamento, considerato come un aspetto strutturale della dinamica del capitalismo contemporaneo.
Considerate le difficoltà in cui ci si imbatte, se si continua ad insistere nel tentativo di dimostrare la fondatezza dello sfruttamento, facendo riferimento agli elementi quantitativi della teoria del valore in funzione della derivazione da questo dei prezzi, non resta che prendere in considerazione la dimensione “qualitativa e normativa” del problema distributivo; ciò, nella consapevolezza che un simile “ripiegamento”, se può – come sostiene Maffettone – “sopire la disputa” circa la mancata trasformazione del valore delle merci in prezzi, esso (il ripiegamento), però, “non risolve il problema” della dimostrazione su basi logiche del processo dello sfruttamento.
Un approccio in termini qualitativi e normativi appare tuttavia l’unico modo oggi possibile per contrastare l’annoso problema dello sfruttamento, continuando però, da un lato, a rinvenire, come ha fatto Marx, la causa del suo continuo approfondimento nella struttura basilare dei meccanismi di funzionamento del capitalismo; dall’altro lato, a trovare, con la formulazione di una teoria normativa della giustizia sociale, una possibile prospettiva di azione politica per contrastarlo, o quantomeno per contenerlo.
A tal fine, per i marxisti analitici, si è imposta la necessità di scegliere se la giustizia distributiva dovesse essere valutata in termini di “utilità per i componenti il sistema sociale” (come presumibilmente avrebbe voluto Marx), oppure in termini delle possibilità o libertà di cui essi possono disporre all’interno di una società giusta sul piano distributivo. Tenendo conto che una giustizia distributiva fondata sul principio dell’utilitarismo era criticata da molti cultori di scienze politiche e sociali, per via della sua tendenza a privilegiare gusti e preferenze della maggioranza, senza tenere sufficientemente conto delle minoranze, è prevalsa la scelta di altri principi alternativi a quello utilitaristico; ciò, sulla base dell’assunto che l’equità distributiva possa essere meglio realizzata, non garantendo a tutti la disponibilità di qualcosa che fosse dotata di una “qualità” differente da quella implicita nel principio dell’utilitarismo: quella di “beni primari” per John Rawls, di “capabilities o capacità di funzionamento” per Amartya Sen, di “carte vincenti” per Ronald Dworkin, di “libertà reale” per Philippe Van Parijs.
Il principio che accomuna queste “qualità” sta nel fatto che tutte fanno riferimento, non a ciò che con una distribuzione “giusta” i singoli soggetti possono provare o si attendono di provare, ma alla “libertà”, intesa come insieme delle opzioni entro le quali essi possono liberamente scegliere come realizzare il loro programma di vita. La “libertà reale”, per Van Parijs, uno dei massimi teorici del reddito di cittadinanza universale e incondizionato, proposto per risolvere il problema dello sfruttamento e dell’iniqua distribuzione del prodotto sociale, è uno dei presupposti irrinunciabili per creare le condizioni istituzionali proprie di una società libera e di un’economia stabile, liberate da ogni forma di estrazione di valore, ovvero da ogni forma di appropriazione senza merito di una quota del prodotto sociale.
Per Van Parijs, e per gli altri autori che, come lui, propongono di rimuovere o di ridimensionare lo sfruttamento attraverso l’introduzione del reddito di cittadinanza universale e incondizionato, la libertà non è un vincolo a ciò che la giustizia impone, ma il bene nella cui equa distribuzione consiste propriamente la giustizia. In questa prospettiva, la giustificazione etico-politica del reddito di cittadinanza, posto a fondamento dell’equità distributiva, risiede nel fatto che con esso è assicurata, non una “libertà formale”, ma una “libertà reale”, idonea in linea di principio a garantire a ciascun cittadino la capacità di effettuare le scelte ritenute più consone alla realizzazione del proprio progetto di vita.
———————————
lampadadialadmicromicro
IL TARLO

In una vecchia casa,
piena di cianfrusaglie,
di storici cimeli,
pezzi autentici ed anticaglie,
c’era una volta un tarlo,
di discendenza nobile,
che cominciò a mangiare
un vecchio mobile.

Avanzare con i denti
per avere da mangiare
e mangiare a due palmenti
per avanzare.
Il proverbio che il lavoro
ti nobilita, nel farlo,
non riguarda solo l’uomo,
ma pure il tarlo.

Il tarlo, in breve tempo,
grazie alla sua ambizione,
riuscì ad accelerare
il proprio ritmo di produzione:
andando sempre avanti,
senza voltarsi indietro,
riuscì così a avanzar
di qualche metro.

Farsi strada con i denti
per mangiare, mal che vada,
e mangiare a due palmenti
per farsi strada.
Quel che resta dietro a noi
non importa che si perda:
ci si accorge, prima o poi,
ch’è solo merda.

Per legge di mercato,
assunse poi, per via,
un certo personale,
con contratto di mezzadria:
di quel che era scavato,
grazie al lavoro altrui,
una metà se la mangiava lui.

Avanzare, per mangiare
qualche piccolo boccone,
che dia forza di scavare
per il padrone.
L’altra parte del raccolto
ch’è mangiato dal signore
prende il nome di “maltolto”
o plusvalore.

Poi, col passar degli anni,
venne la concorrenza
da parte d’altri tarli,
colla stessa intraprendenza:
il tarlo proprietario
ristrutturò i salari
e organizzò dei turni
straordinari.

Lavorare a perdifiato,
accorciare ancora i tempi,
perché aumenti il fatturato
e i dividendi.
Ci si accorse poi ch’è bene,
anziché restare soli,
far d’accordo, tutti insieme,
dei monopoli.

Si sa com’è la vita:
ormai giunto al traguardo,
per i trascorsi affanni
il nostro tarlo crepò d’infarto.
Sulla sua tomba è scritto:

PER L’IDEALE NOBILE
DI DIVORARSI TUTTO QUANTO UN MOBILE
CHIARO MONITO PER I POSTERI
QUESTO TARLO VISSE E MORI’.

Dibattito

divano-rossoCiò che la sinistra non ha fatto
LA VERA NATURA DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Il suo scopo non è di far sopravvivere una platea più o meno ristretta di persone che cercano e non trovano lavoro, ma di garantire il diritto all’esistenza di tutti, e la loro autodeterminazione, come prima responsabilità di uno Stato sociale, quando milioni di persone sono in povertà assoluta.
di Giuseppe Bronzini
(da “Volere la luna”)

Finalmente ha visto la luce il decreto legge istitutivo di un “reddito di cittadinanza” voluto dal Movimento 5Stelle come elemento “identitario” della sua partecipazione all’attuale governo.
[segue]

Parliamo di “reddito di cittadinanza”, di quello vero: utopia da inseguire, per ora appannaggio dei “campioni dell’impossibile”?

d232b811-6c5b-43f8-805c-97f7498fbece
pensatoreReddito di base universale e incondizionato: un’idea radicale per affrontare l’insicurezza economica e l’esclusione sociale del nostro tempo

di Gianfranco Sabattini

Dopo la pubblicazione, nel 2013, di “Il reddito minimo universale” e, nel 2017, di “Il reddito di base”, entrambi dedicati dagli autori, Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght alla spiegazione del significato e della funzione del reddito di cittadinanza (assegnato a ogni individuo senza vincoli di “contropartite lavorative” e senza “prova dei mezzi”), era plausibile attendersi che la classe politica si fosse presa la briga di leggerli; ciò avrebbe consentito di evitare la confusione, ormai radicata anche nell’opinione pubblica, che solitamente viene fatta per la mancata distinzione tra la forma di reddito della quale parlano gli autori e tutte le misure monetarie di natura welfarista adottabili e adottate (come, ad esempio quella introdotta dall’attuale governo italiano) per contrastare il fenomeno della povertà.
rdc-01
La confusione non potrà essere d’aiuto per riflettere sui contenuti più appropriati della politica economica, presumibilmente chiamata nel prossimo futuro ad affrontare i fenomeni dell’insicurezza economica e dell’esclusione sociale che affliggono attualmente il sistema socio-politico dell’Italia, congiuntamente a quello di molti altri Paesi industrializzati di mercato, per tutte le ragioni puntualmente illustrate nei libri sopra richiamati.
Viviamo in un mondo radicalmente nuovo rispetto a quello nato e consolidatosi nei primi trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; si tratta – affermano Van Parijs e Vanderborght, – di un mondo “riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica determinata dal computer e da Internet; la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazioni; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni a dispetto dei limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali e dalla saturazione dell’atmosfera; la crisi delle tradizionali istituzioni protettive, dalla famiglia ai sindacati, ai monopoli di Stato, ai sistemi di welfare; infine le interazioni esplosive di queste varie tendenze”.
Per poter valutare razionalmente come contrastare le minacce delle quali sono portatrici queste tendenze, occorre, a parere di Van Parijs e Vanderborght, definire un quadro istituzionale di riferimento alternativo a quello esistente; a tal fine, gli autori, affermati docenti di economia e di scienza politica e divulgatori dell’idea di “reddito di base” (o reddito di cittadinanza), avanzano la proposta di un “nuovo quadro istituzionale” fondato sulla libertà, “intesa come libertà sostanziale di tutti e non solo dei ricchi”.
rdc-univ02
Per realizzare il nuovo quadro istituzionale occorre agire su diversi fronti, dal miglioramento dell’uso delle risorse, alla ridefinizione dei diritti di proprietà, dal miglioramento del sistema dell’istruzione (attraverso la sua trasformazione in sistema di apprendimento permanente), alla ristrutturazione del modo in cui all’interno delle moderne società industriali ad economia di mercato si persegue l’obiettivo della sicurezza economica e dell’inclusione sociale. Lo strumento sul quale edificare il nuovo quadro istituzionale alternativo a quello attuale (non più in grado di garantire, sia la sicurezza economica, che l’inclusione sociale) consiste, secondo Van Parijs e Vanderborght, nell’introdurre nell’insieme delle regole di funzionamento delle moderne società industriali ciò che oggi “è comunemente chiamato reddito di base: un reddito regolare pagato in denaro ad ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”.
Qual è l’incombenza, si chiedono Van Parijs e Vanderborght, che, pesando oggi sullo stabile funzionamento delle società economicamente avanzate, a rendere necessaria una riforma del loro quadro istituzionale, fondata sull’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato? Tutti coloro che sinora si sono pronunciati in favore di tale forma di reddito chiamano in causa alcuni aspetti della dinamica propria delle moderne società industriali, quali, in primo luogo, l’ondata di automazione (di cui è prevista un’accelerazione nei prossimi anni) che sta investendo i processi produttivi, causando una crescente polarizzazione del prodotto sociale; in secondo luogo, l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione che, oltre ad aggravare le disuguaglianze distributive, causerà l’aumento del numero delle persone che perderanno irreversibilmente la stabilità occupazionale.
Le innovazioni dei processi produttivi (che consentono “risparmio di lavoro”, indotto dal progresso scientifico e tecnologico e dalla natura altamente competitiva del mercato globale), potrebbero non rappresentare una “calamità sociale” insormontabile, se la maggior produttività da esse determinata potesse tradursi in una maggiore crescita; ma la fiducia su una crescita senza limiti presenta diverse controindicazioni: in primo luogo, esse sono dovute ai limiti ecologici, oggi amplificati dall’impatto sull’atmosfera; in secondo luogo, al fatto che i moderni sistemi industriali, come sottolineano molti economisti, sono esposti agli esiti di una loro tendenza a una “stagnazione secolare”; in terzo luogo, alla consapevolezza che la crescita, anche per chi la ritiene auspicabile che possibile, non costituisca una soluzione alla disoccupazione strutturale e alla precarietà.
Le controindicazioni circa la possibilità che un’ulteriore crescita basti a risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà, nel contesto di un’automazione crescente e di un allargamento della globalizzazione, sono forse discutibili; esse, tuttavia, sono sufficienti a “spiegare e a giustificare” le richieste di una più efficace risposta alle sfide poste dall’aggravarsi dei fenomeni della disoccupazione strutturale e delle disuguaglianze distributive: secondo Van Parijs e Vanderborght, se non si troverà “un modo per assicurare un reddito di base da corrispondere alle persone che non hanno lavoro (o non hanno un lavoro decente), le moderne società industriali ad economia di mercato andranno incontro ad un futuro perennemente caratterizzato da instabilità economica e conflittualità sociale”.
La previsione che la creazione di nuovi posti di lavoro “dignitosi” sarà sempre più difficile suggerisce perciò la necessità che gli establishment dominanti si convincano che occorre assicurare le risorse necessarie alla sopravvivenza della crescente massa di disoccupati e di poveri. Van Parijs e Vanderborght indicano due alternative per rispondere a questa necessità. Un primo modo di procedere (che gli autori considerano sconveniente) potrebbe consistere nell’allargamento dell’esistente sistema di assistenza pubblica; si tratterebbe di un modo utile solo per contrastare la “povertà estrema”, ma, a causa della sua “condizionalità”, varrebbe a trasformare i beneficiari in una classe di cittadini destinati a dipendere “permanentemente dall’assistenza sociale”. L’altra possibile soluzione, fondata sul principio che la libertà sostanziale debba essere garantita a tutti, consiste nell’introdurre un reddito di base di tipo incondizionato, inteso “nell’accezione più piena del termine”.
Il reddito di base differisce da ogni altra forma di sussidio corrisposto a chi versa in stato di necessità, perché esso, oltre ad essere universale (dimensione di cui sono prive tutte le “misure” welfariste destinate ad alleviare le condizioni esistenziali di chi è privo di ogni fonte di sostentamento), è anche incondizionato, in quanto, a differenza di tutte le forme di assistenza welfarista, esso è esente da ogni accertamento della condizione economica del beneficiario. Infatti, ogni forma di assistenza condizionata presenta lo svantaggio che il sussidio sia corrisposto ai beneficiari solo “ex post” (cioè sulla base di una preliminare determinazione delle risorse materiali delle quali possono disporre gli stessi beneficiari); il reddito di base incondizionato, al contrario, è corrisposto “ex ante”, senza alcun accertamento della condizione economica degli aventi diritto.
Le conseguenze dell’incondizionalità risultano tali da rendere il reddito di base profondamente diverso da ogni forma di assistenza condizionata; dal punto di vista del disoccupato strutturale o del povero, l’elemento che più di ogni altro vale a differenziare questo tipo di reddito dai sussidi condizionati è la possibilità assicurata ai beneficiari di sottrarsi al ricatto intrinseco alla condizioni alle quali è tradizionalmente subordinata la fruizione di un sussidio condizionato; ne è un esempio il “potere di ricatto” che può essere esercitato da ogni datore di lavoro ai danni dei lavoratori, quando questi ultimi siano “obbligati a svolgere un lavoro” infimo e mal pagato, per conservarsi nella condizione di poter fruire del beneficio assistenziale.
In conseguenza di quanto sin qui osservato sulle specificità del reddito di base, si può dire che, mentre la sua universalità consente di evitare la “trappola” delle disoccupazione e della povertà, il fatto di non essere condizionato serve a contrastare la “trappola” del lavoro obbligato, spesso sottopagato o degradante. Considerati i vantaggi connessi alle specificità del reddito di base universale e incondizionato, è difficile – affermano Van Parijs e Vanderborght – negare che esso costituisca nelle moderne società industrializzate ad economia di mercato, non solo un “potente strumento di libertà”, ma anche, più che una spesa, una forma d’investimento, utile a garantire una maggior flessibilità nel governo dei moderni problemi economici e sociali delle società economicamente avanzate e integrate nell’economia mondiale.
I principali interrogativi che incombono sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato (come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà nelle società industriali avanzate e ad economia di mercato) riguardano la sua sostenibilità e il sui finanziamento. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto diffusa è la preoccupazione che l’offerta di lavoro venga negativamente influenzata dall’assenza di obblighi da parte dei beneficiari del reddito di base. Van Parijs e Vanderborght ritengono fuorviante “ridurre le conseguenze economiche del reddito di base al suo impatto immediato sull’offerta del mercato del lavoro”. Fornendo sicurezza e autonomia economica, è plausibile prevedere che il reddito di base possa incoraggiare l’imprenditorialità, promuovendo l’allargamento di forme di lavoro autodiretto; in secondo luogo, esso può motivare molti lavoratori a scegliere di optare per un lavoro a tempo parziale; in terzo luogo, liberando chi è privo di reddito dalla “trappola della disoccupazione”, il reddito di base universale e incondizionato può produrre effetti positivi sul capitale umano, motivando i fruitori ad aumentare il loro “interesse a investire nell’istruzione e nella formazione continua”.
philippe_van_parijs_croppedyannick-vanderborghtSecondo Van Parijs e Vanderborght, tutte queste ragioni concorrono a rendere stretta la connessione che esiste tra una maggior sicurezza garantita dal reddito di base e una maggior flessibilità del mercato del lavoro; si tratta di una connessione che tende ad assicurare ai senza reddito la libertà di non lavorare, piuttosto che l’obbligo di lavorare. Tra l’altro, la stretta connessione che esiste tra la libertà dal bisogno e la maggior flessibilità del mercato del lavoro rende possibile anche una più funzionale riorganizzazione del tradizionale sistema di welfare State; essa consente infatti la sua trasformazione da “sistema protettivo caritatevole e punitivo” in “sistema di welfare State attivo ed emacipatorio”, orientato “a rimuovere gli ostacoli allo svolgimento di un’attività lavorativa gratificante, quali sono le trappole della disoccupazione e dell’emarginazione”, e a “facilitare l’accesso delle persone all’istruzione e alla formazione”, strumentali all’intrapresa di una pluralità di attività produttive.
In questo modo, nelle moderne società industriali, il welfare State cesserebbe d’essere strumento “punitivo del lavoro” (come avviene con il sistema esistente, che rimuove il beneficio corrisposto al lavoratore disoccupato o al povero indigente che dovessero rifiutare di sottostare ai “vincoli” previsti per il loro reinserimento e/o inserimento lavorativo), per diventare, al contrario, strumento di promozione di forme gratificanti e socialmente utili di lavoro.
Per quanto riguarda l’altro interrogativo (quello relativo al finanziamento), incombente sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà, la preoccupazione principale che esso solleva è riconducibile all’ipotesi che le società industriali moderne, già gravate di un oneroso sistema fiscale, possano non tollerare un suo ulteriore inasprimento per finanziare il reddito di base, a meno che l’inasprimento non sia associato ad una riduzione dell’asimmetria nel trattamento fiscale dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, “caricando” prevalentemente sul capitale l’onere del finanziamento del reddito di base.
Un più equo trattamento fiscale delle due classi di reddito, però, si scontrerebbe con l’opposizione delle forze economiche e politiche prevalenti, per via del fatto che l’asimmetria nel trattamento fiscale a vantaggio del capitale è tradizionalmente “giustificata dalla necessità – affermano Van Parijs e Vanderborght – di incoraggiare investimenti ad alto rischio e lo spirito imprenditoriale” e di non promuovere la mobilità internazionale del capitale che, di fronte alla minaccia di perdere in parte i privilegi fiscali potrebbe “fuggire all’estero”.
Per finanziare il reddito di base esistono però – sottolineano Van Parijs e Vanderborght – delle alternative che non prevedono il ricorso alla tassazione. Tra queste, la principale consiste nella creazione di un “Fondo Sovrano Permanente”, una sorta di “salvadanaio collettivo”, nel quale fare affluire le entrate derivanti da tutte le forme di collocamento (a titolo di affitto o di cessione) delle risorse mobiliari e immobiliari di proprietà pubblica. In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe secondo le modalità previste da James Meade nel suo “modello agathopista”; in altri termini, il reddito di base potrebbe essere finanziato senza bisogno di alcuna tassazione, mediante la distribuzione annuale a tutti i cittadini, su basi paritarie, della dotazione del “Fondo”, sotto forma di reddito di base universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico.
Un disegno di riforma del quadro istituzionale di riferimento, quale quello fondato sull’introduzione di un reddito di base (o di cittadinanza, come anche viene chiamato), per risolvere i problemi delle società industriali avanzate, richiede ovviamente che il loro sistema economico sia efficiente e gestito da forze economiche e politiche interessate al suo stabile funzionamento.
Ipotizzare che questo disegno sia proponibile e attuabile all’interno di un Paese qual è l’Italia di oggi può apparire temerario, considerato lo stato in cui essa versa. Una cosa però è certa: se tutte le forze sociali impegnate (sul piano culturale, politico ed economico) a risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Paese (rilancio della crescita e contrasto della disoccupazione strutturale e della diffusione della povertà) abbandoneranno molti dei pregiudizi ideologici che hanno sinora condizionato la ricerca di adeguate soluzioni, dovranno (quelle forze) necessariamente tener conto del fatto che l’istituzionalizzazione del reddito di base universale e incondizionato è uno dei presupposti per fare dell’Italia del futuro, parafrasando un’efficace espressione di Meade, “un luogo in cui è ancora conveniente e gratificante vivere”.
———————————————————
028411b9-cb39-438f-9cc5-68e5fb62b6b3
———————————————————
- Gianfranco Sabattini su AladiNews.
- Campioni dell’impossibile: http://www.aladinpensiero.it/?p=89277

DIBATTITO. Reddito di cittadinanza e Rei. La proposta del Movimento 5 Stelle, tra limiti e opportunità: l’opinione di Chiara Saraceno

unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccioniconvegno-valut-lavoroimg_5197POVERTÁ e INCLUSIONE
Così il reddito di cittadinanza può migliorare il Rei
La proposta del Movimento 5 Stelle, tra limiti e opportunità: su lavoce.info l’opinione di Chiara Saraceno

logo_secondowelfaredi Chiara Saraceno
16 marzo 2018 su

Il reddito di cittadinanza proposto da M5s è insostenibile nel breve-medio periodo dal punto di vista finanziario e dubbio sotto quello dell’equità e dell’efficacia. Ma alcune sue caratteristiche potrebbero essere integrate nel Rei, per migliorarlo.
[segue]

Reddito minimo garantito: reddito incondizionato (RdC) o reddito di inclusione sociale? Un dibattito tra la babele terminologica, le teorie e le esperienze in attuazione.

convegno-valut-lavoro
“…Si possono distinguere, schematicamente, due tipi di reddito minimo garantito: il reddito di base garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti quale oggetto di un diritto fondamentale, e perciò universale, recuperato poi dalle persone abbienti con un adeguato prelievo fiscale”.
Non è assistenzialismo
L’UTOPIA CONCRETA DEL REDDITO MINIMO GARANTITO

Comunque lo si voglia chiamare esso va giudicato nella nuova situazione di un lavoro che non è più disponibile a tutti. Ci sono ragioni etico-politiche (il diritto alla vita), economiche, sociali e costituzionali per le quali questo istituto, presente nella maggior parte degli Stati europei, dovrebbe entrare nella naturale organizzazione di un Paese democratico

di Luigi Ferrajoli [1]

Due modelli di reddito di base garantito. Quattro fondamenti
L’esplosione della disuguaglianza e la crescita della povertà e della disoccupazione stanno oggi minacciando, nei paesi poveri ma anche in quelli di economia avanzata, la sopravvivenza delle persone. Torna perciò a riproporsi, in maniera sempre più urgente e drammatica, la questione del diritto alla vita, sulla cui garanzia si basa, fin dal modello hobbesiano della modernità, la ragion d’essere dello Stato e delle pubbliche istituzioni.

E’ precisamente il diritto alla vita che richiede oggi, quale sua essenziale garanzia, l’introduzione di un reddito minimo di base. Di questa garanzia vitale di livelli minimi di sussistenza e perciò di uguaglianza sostanziale, idonei a garantire a tutti la sopravvivenza, esistono molte versioni, differenti quanto all’estensione dei beneficiari e quanto ai loro presupposti. Per tutti, o solo per i disoccupati, o per i soli disoccupati disposti a lavorare? Per tutti o solo per i più poveri? Per tutti o per determinate fasce d’età? Per l’individuo o per la famiglia? Per una durata illimitata o solo per periodi di tempo determinati? Sottoposto a controprestazioni – per esempio a qualche tipo di attività utile o all’accettazione di un qualsiasi lavoro – oppure incondizionato? Questo reddito di base, infine, deve essere una variabile indipendente o una variabile dipendente dall’economia? Dovrebbe essere comunque garantito – e in quale misura –, oppure la sua garanzia deve dipendere dalla sua fattibilità economica? E cosa deve intendersi per “fattibilità economica”?

Si possono quindi distinguere, schematicamente, due tipi di reddito minimo garantito: il reddito di base garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti quale oggetto di un diritto fondamentale, e perciò universale, recuperato poi dalle persone abbienti con un adeguato prelievo fiscale.

La prima ipotesi è quella più largamente sperimentata in Europa. Con presupposti differenti, per importi diversi, talora sotto forma di integrazioni, essa è stata realizzata in Austria, in Belgio, nella Repubblica Ceca, in Germania, in Danimarca, nel Regno Unito, in Spagna, in Francia, in Finlandia, nel Lussemburgo, in Irlanda, in Olanda, in Portogallo, in Romania, in Slovenia, in Svezia e perfino, pur se in misura assai ridotta, in Slovacchia e in Polonia. Fanno eccezione la Grecia, la Bulgaria, l’Ungheria e l’Italia, dove sono previste, come si vedrà più oltre, solo misure frammentarie, regionali o limitate ad alcune categorie sociali[2].

La seconda ipotesi è quella ben più radicale e ambiziosa del reddito di base incondizionato. Essa comporta l’attribuzione del reddito minimo a tutti, dalla maggiore età in poi, finanziata mediante adeguate imposte sui redditi. Sganciato dal lavoro, il reddito base non sarebbe legato a condizioni o a controprestazioni, ma verrebbe corrisposto a tutti, a garanzia della dignità personale. Sarebbe un istituto che cambierebbe la natura della democrazia e anche del lavoro, garantendo, più d’ogni altra prestazione sociale, la riduzione delle disuguaglianze sostanziali.

Secondo un luogo comune diffuso in gran parte del mondo politico, una simile garanzia di carattere universale sarebbe un’utopia, un sogno, una proposta suggestiva ma irrealistica. Altri, invece, la propongono come possibile, ma accompagnano la sua proposta con l’accettazione dell’odierna flessibilità del lavoro, o peggio di una riduzione del welfare e delle garanzie degli altri diritti sociali. Si tratta invece, come cercherò di mostrare, di un istituto concretamente realizzabile, la cui funzione garantista della vita e della dignità personale è strettamente connessa, soprattutto nella sua forma universalistica e incondizionata, precisamente alla sua introduzione non certo in alternativa, bensì in aggiunta all’intero sistema delle garanzie dei diritti sociali e del lavoro, che come si è detto nei capitoli che precedono andrebbero restaurate e rafforzate, in particolare con il vincolo della gratuità delle prestazioni sanitarie e di quelle scolastiche. Non solo. Nelle condizioni di precarietà che come si è visto caratterizzano, in forme sempre più drammatiche, il lavoro e la vita di masse crescenti di persone e soprattutto di giovani, il reddito di base garantito a tutti, unitamente a riforme fiscali in senso realmente progressivo, è la sola misura in grado, realisticamente, di fronteggiare la crisi sociale ed economica in atto e la sola alternativa a un futuro di disuguaglianze crescenti, di crescente povertà e di tensioni e conflitti sociali insolubili e distruttivi.

Nelle pagine che seguono indicherò tre fondamenti o ragioni di questa garanzia vitale di un reddito di base: a) il fondamento etico-politico, b) il fondamento giuridico e costituzionale, c) il fondamento economico e sociale. Argomenterò poi le molte ragioni che fanno della sua forma universale e incondizionata un fattore non soltanto di effettiva garanzia dell’uguaglianza sostanziale e delle condizioni minime della sopravvivenza, ma anche di rifondazione della dignità del lavoro.

A) Il fondamento etico-politico: il diritto alla vita
Qual è, innanzitutto, il fondamento assiologico, morale e filosofico-politico di questo nuovo diritto fondamentale che è il diritto a un reddito minimo vitale? La risposta a questa domanda è la medesima che fu data da Hobbes, alle origini della modernità giuridica, alla questione della ragion d’essere di quell’artificio che è lo Stato: questo fondamento è la garanzia della vita – del diritto fondamentale alla vita – contro la libertà selvaggia e violenta che è propria di quello specifico stato di natura che è oggi il mercato.

Si pone qui una questione teorica di fondo. Alle origini della modernità il diritto alla vita fu concepito come una libertà negativa, cioè come la semplice immunità da aggressioni altrui; mentre la sopravvivenza veniva concepita come un fatto naturale, affidato all’iniziativa individuale. Fu così che John Locke, nel suo Secondo trattato sul governo, poté fondare la sopravvivenza sull’autonomia dell’individuo: sul suo lavoro, e perciò sulla proprietà che del lavoro è il frutto, e quindi sulla sua libera e responsabile iniziativa; in breve, sulla volontà di lavorare. Giacché sarà sempre possibile purché lo si voglia, argomentava Locke, andare a coltivare nuove terre “senza pregiudicare nessuno, perché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti”, se non altro emigrando “in qualche parte interna e deserta dell’America”[3]. Fu su questa base che il primo liberalismo poté teorizzare un nesso forte tra libertà, lavoro, proprietà e vita, alla cui mutua conservazione è finalizzato il contratto sociale; un nesso, peraltro, integrato dallo ius migrandi che già Francisco de Vitoria, come si vedrà nel prossimo capitolo, aveva teorizzato un secolo e mezzo prima come fondamento della conquista spagnola del nuovo mondo.

Oggi quel nesso tra autonomia, lavoro, proprietà e sussistenza, formulato da Locke come il fondamento etico-politico così dello Stato come del mercato capitalista, si è rotto, essendo radicalmente mutati i rapporti tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e la società. Si è rotto, in primo luogo, il rapporto tra autonomia individuale e sopravvivenza, assicurato dallo scambio – ingiusto quanto si vuole, ma in via di principio accessibile a tutti – tra lavoro e sussistenza, essendo venuta meno la possibilità per tutti di trovare un lavoro. Si è rotto, in secondo luogo, il rapporto tra ius migrandi e lavoro quale condizione sia pure estrema di sopravvivenza, essendo stato quel diritto negato e trasformato nel suo contrario non appena i flussi migratori si sono invertiti: non più, come in passato, dai nostri paesi avanzati al resto del mondo, a fini di conquista e colonizzazione, ma dal resto del mondo impoverito ai nostri paesi. E si è rotto, in terzo luogo, il rapporto storico tra occupazione e produzione di beni: a seguito dello sviluppo tecnologico, e in particolare delle tecnologie informatiche ed elettroniche, la tendenza odierna, non reversibile ma anzi destinata a crescere, è infatti quella all’aumento della produzione simultaneo alla diminuzione dell’occupazione e alla crescente svalutazione del lavoro.

Non basta più, perciò, la volontà di lavorare, e neppure quella di emigrare per trovare un’occupazione. Non è più vero che il lavoro è accessibile a tutti, purché lo si cerchi e lo si voglia cercare. Il lavoro umano è sempre più fungibile, e non ci sono più campagne cui fare ritorno né nuovi mondi nei quali emigrare. Oggi è perciò diventato impossibile ciò che in passato era possibile: l’accesso al lavoro e più ancora l’emigrazione. Può darsi che questi presupposti elementari della legittimazione del capitalismo siano sempre stati, di fatto, largamente illusori e ideologici. Ciò che è certo è che essi, oggi, hanno sicuramente cessato di esistere, e che la tradizionale legittimazione dell’ordine esistente – sia del diritto che del potere politico – sulla base della sua funzione di tutela della vita è duramente smentita dalla realtà.

Del resto, quanto più cresce il processo di integrazione sociale, tanto più l’uomo si allontana dalle risorse e dalle condizioni naturali di vita e tanto maggiore diventa perciò la dipendenza dalla società della sua sopravvivenza. “L’uomo civilizzato”, scriveva già Tocqueville, “è infinitamente più esposto alle vicissitudini del destino dell’uomo selvaggio”[4]: più esposto, prima di tutto, alla mancanza dei mezzi di sussistenza e degli apporti del lavoro altrui. Giacché il progresso e più in generale il processo di civilizzazione sono avvenuti simultaneamente all’allontanamento crescente dell’uomo dalla natura, allo sviluppo della divisione del lavoro e perciò alla perdita progressiva di autosufficienza delle persone e alla crescita della loro interdipendenza sociale.

A questa crescente interdipendenza sociale si è aggiunto oggi un processo parimenti crescente di espulsione del lavoro dai processi produttivi. Secondo il rapporto McKinsey del 2016, il 49% dei lavori attuali è destinato, nei prossimi dieci anni, ad essere sostituito dalle macchine e dalle tecniche digitali, che trasferiscono sugli acquirenti o sugli utenti gran parte del lavoro richiesto dalle prestazioni di beni e servizi. E’ insomma in atto una rivoluzione di enorme portata nelle forme e nei rapporti di produzione che renderà sempre più marginale il lavoro umano: una rivoluzione che sarà un fattore di progresso anziché di regresso, di liberazione e di crescita civile anziché di crescita della povertà e della precarietà di vita, soltanto se sarà accompagnata da ingenti riduzioni degli orari di lavoro, equa redistribuzione dell’occupazione, abbassamenti dei prezzi, ripensamento delle forme di lotta e di organizzazione sindacale, massima socializzazione della produzione della ricchezza e, soprattutto, forme di solidarietà sociale e sicure garanzie della sussistenza indipendenti dal lavoro.

La disoccupazione crescente e strutturale, che una pur doverosa politica del lavoro può contenere ma certo non eliminare, sta insomma ponendo in crisi la legittimità dell’intero sistema politico ed economico; il quale non può più limitarsi alla garanzia negativa della vita contro gli omicidi, ma richiede altresì le garanzie positive delle condizioni materiali e sociali della sopravvivenza. Dobbiamo finalmente prendere atto che nelle società odierne, caratterizzate da un alto grado di interdipendenza e di sviluppo tecnologico, anche la sopravvivenza, non meno della difesa della vita da indebite aggressioni, è sempre meno un fenomeno naturale ed è sempre più un fenomeno artificiale e sociale. Ben più che in passato, tutte le condizioni della sopravvivenza dell’uomo – dal lavoro all’emigrazione, dall’abitazione alla salute e all’alimentazione di base – sono affidate alla sua integrazione sociale, cioè a condizioni materiali e a circostanze giuridiche e sociali di vita che vanno ben al di là della sua libera iniziativa. Di qui la trasformazione del diritto a sopravvivere in un corollario del classico diritto alla vita, cioè a non essere uccisi: in un diritto fondamentale all’esistenza[5], che al pari della vecchia immunità da aggressioni esterne richiede, in presenza di quella che è ormai una disoccupazione strutturale, di essere garantito dalla sfera pubblica attraverso quella sola garanzia possibile che è precisamente il reddito di base.

B) Il fondamento costituzionale
Il secondo fondamento del reddito di base è quello giuridico, e specificamente costituzionale, indebitamente leso in Italia, che come si è detto è tra i pochi paesi europei nei quali questa garanzia non esiste. Hanno infatti un fondamento costituzionale entrambe le due versioni del reddito di base: quella condizionata e quella incondizionata e universalistica.

Ha un esplicito fondamento costituzionale, innanzitutto, il reddito di base nella sua prima versione, quella che lo lega allo stato bisogno, e che tuttavia in Italia non esiste. Si tratta di due norme, disposte entrambe dall’articolo 38 della Costituzione, il quale nel 1° comma conferisce il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” ad “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e nel 2° comma stabilisce che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” non solo “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”, ma anche in caso di “disoccupazione involontaria”.

Ebbene, a parte qualche limitata esperienza locale come quella avviata nel Lazio con la legge regionale n. 3 del 3.11.2009[6], nessuna di queste due norme è stata in Italia seriamente attuata. Una modesta attuazione della prima è stata operata con la legge n. 114 del 16.4.1974, la quale ha introdotto la cosiddetta “pensione sociale” nella misura di 492 euro per chi abbia superato i 65 anni di età e sia al di sotto di una soglia minima di reddito, anche se non ha prestato attività lavorative e non ha perciò contribuito all’assicurazione obbligatoria.

Al presupposto della “disoccupazione involontaria” previsto dalla seconda delle norme suddette è invece riconducibile l’istituzione della Cassa integrazione guadagni – quella ordinaria istituita dal decreto legislativo n. 788 del 9.11. 1945 e quella straordinaria introdotta dalla legge n. 1115 del 5.11.1968 e riformata dalla legge n. 164 del 20.5.1975 – che comporta, per determinati periodi di tempo, un’indennità, decisa discrezionalmente dal governo, a favore dei lavoratori sospesi o a orario ridotto, a causa di crisi industriali o comunque non dipendenti dalla loro volontà.

E’ chiaro che nessuna di queste misure – i cosiddetti “ammortizzatori sociali” – integra il reddito minimo garantito previsto dell’articolo 38 sopra citato: nessun reddito di base è stato infatti introdotto né per i poverissimi che non abbiano raggiunto i 65 anni di età, né per i casi di “disoccupazione involontaria”, come quelli della disoccupazione giovanile, non conseguenti alla perdita del lavoro.

Neppure corrisponde alla garanzia voluta dall’articolo 38 della Costituzione il cosiddetto “reddito di inclusione”, introdotto da un decreto legislativo del 2017 e consistente – in sostituzione di altre due misure più o meno del medesimo importo, il Sostegno all’inclusione attiva (Sia) e l’Assegno sociale di disoccupazione (Asdi) – in un assegno mensile oscillante tra i 190 euro (per le persone singole) e i 485 euro (per le famiglie) e concesso, per un periodo massimo di 18 mesi, a chi abbia redditi inferiori a 6.000 euro l’anno e si impegni a svolgere determinate attività o servizi (in totale a circa 400 o 500 mila famiglie, non più di un quarto delle persone in condizioni di povertà assoluta). 190 o 485 euro, infatti, non bastano certo “al mantenimento” o ai “mezzi adeguati alle esigenze di vita” di cui parla l’articolo 38. Inoltre questo cosiddetto reddito di inclusione, a rigore, non è neppure un reddito, bensì un beneficio rateizzato in 18 mesi che può essere rinnovato, con le stesse complicazioni burocratiche, dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dall’ultima erogazione. Continua quindi a persistere, come una vistosa e illegittima lacuna, la mancata attuazione di questo essenziale principio costituzionale.

C’è poi, nella Costituzione italiana, un altro fondamento del reddito di base in entrambe le sue versioni, quella universalistica e incondizionata e quella condizionata alla mancanza di lavoro o allo stato di bisogno. Esso fu identificato molti anni fa, da Massimo Severo Giannini, nell’articolo 42 della Costituzione, quello dedicato alla proprietà privata, che nel suo 2° comma stabilisce che la legge “determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Dunque la legge deve rendere possibile a tutti l’accesso alla proprietà. Si tratta, scrisse Giannini, di una norma che può essere intesa non solo come un corollario del principio di uguaglianza formale in ordine alla capacità d’agire e ai diritti civili, ma anche, sulla base dell’associazione a “proprietà privata” del predicato “accessibile a tutti”, come un’enunciazione “interamente esplicativa del principio di costituzione materiale di uguaglianza sostanziale”[7]. Deve insomma risultare accessibile a tutti, secondo questa autorevole interpretazione, una qualche forma di proprietà: quanto meno dei beni elementari necessari alla sussistenza.

Ma è lo spirito stesso della Costituzione – dai principi di uguaglianza e dignità stabiliti dall’articolo 3 ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” previsti dall’articolo 2 – che impone una simile misura. Si aggiungano le norme del diritto sovrastatale: la Carta dei diritti dell’Unione Europea, il cui articolo 34 stabilisce che “ai fini di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”; la Dichiarazione universale dei 1948, che nell’articolo 25 stabilisce che “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia”; i Patti sui diritti economici del 1966 sul diritto di ciascuno, stabilito dall’articolo 11, “a un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario ed alloggio”. Sono insomma tutte le carte dei diritti, nazionali e sovranazionali, che impongono questa elementare garanzia della sopravvivenza, sempre più essenziale e vitale in presenza dei mutamenti crescenti delle forme della produzione.

4. C) Il fondamento economico e sociale

Il terzo fondamento del diritto a un reddito minimo di base è quello di carattere economico e sociale. Non parlerò del fondamento sociale di tale diritto nella sua versione condizionata, che è il medesimo di tutti gli altri diritti sociali: la garanzia della sopravvivenza e la riduzione delle eccessive disuguaglianze, quali condizioni della coesione e della pace sociale. Parlerò invece del suo fondamento economico, essendo precisamente il costo economico la principale obiezione alla proposta della sua introduzione, tanto più se in forma universale e incondizionata.

Certamente questo diritto costa, come costano tutti i diritti sociali. Ma l’idea che il costo di tale diritto sia anti-economico è un luogo comune da sfatare. Costa molto di più, anche sul piano economico, lo stato di indigenza provocato dalla sua mancata garanzia. Come si disse in via generale nel § 3.4 del terzo capitolo a proposito del nesso tra sviluppo economico e garanzia dei diritti sociali, anche la garanzia di quel diritto vitale per antonomasia che è il diritto a un reddito di base rappresenta un investimento primario, essendo in grado non solo di assicurare la sopravvivenza e di aumentare il benessere delle persone, ma anche di accrescere le loro capacità produttive.

Sono cose sotto gli occhi di tutti. I paesi europei sono più ricchi rispetto agli altri paesi e al loro stesso passato perché, almeno fino a ieri, hanno garantito, sia pure imperfettamente, i minimi vitali. Al contrario, dove i diritti sociali non sono soddisfatti – dove mancano l’istruzione pubblica, la garanzia dell’assistenza sanitaria, le tutele del lavoro, l’organizzazione sindacale dei lavoratori e, soprattutto, le garanzie della sussistenza – non solo crescono la povertà e le disuguaglianze, ma vengono meno la produttività individuale e quella collettiva e con esse la produzione della ricchezza. Non a caso, in Italia, il boom economico nei primi decenni della Repubblica è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, allo sviluppo dell’istruzione di massa e al rafforzamento della sanità pubblica. La crisi recessiva è iniziata quando sono stati tagliati i finanziamenti alla scuola, è stato aggredito il servizio sanitario nazionale universale e gratuito e il diritto del lavoro è stato distrutto. Precarietà del lavoro e assenza di garanzie di sussistenza generano solo insicurezza, panico sociale, angoscia, frustrazioni, sprechi di competenze e di saperi, cioè altrettanti fattori di recessione e di riduzione della ricchezza. E sono altresì all’origine di gran parte della delinquenza di strada e di sussistenza.

C’è poi un altro ordine di considerazioni, che riguarda specificamente la garanzia del reddito minimo di base. L’attuale crisi economica colpisce soprattutto le giovani generazioni, che sono le più penalizzate dalla precarizzazione di massa, dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione. Essa mette in pericolo il futuro dei giovani, che equivale al futuro in generale, accentuando in maniera esponenziale le disuguaglianze. Oggi, in Italia, un giovane su due non trova lavoro e in 100.000 ogni anno sono costretti a emigrare. Sono quindi soprattutto i giovani che trarrebbero giovamento dal reddito minimo garantito. Anche per questo tale misura sarebbe un sicuro fattore di sviluppo e di riconciliazione della società con la democrazia: perché l’assenza di crescita o la bassissima crescita sono anche l’effetto dell’assenza di opportunità e di prospettive per i giovani, che equivale, ripeto, all’assenza di prospettive per il futuro di tutti. Di tutto questo i giovani, come attestano le loro rivolte in tutto il mondo, sono perfettamente consapevoli. I soli che non ne sono consapevoli o che comunque di tutto questo non si occupano né si preoccupano sono quanti hanno responsabilità di governo.

Luigi Ferrajoli

[1] Dal capitolo 6 di Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, 2018 Laterza Bari

[2] Una rassegna dei diversi tipi di reddito di base presenti nei diversi paesi europei è contenuta in Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Gruppo Abele, Torino 2012, cap. II, pp. 55-75, che contiene anche un’ampia bibliografia.

[3] J. Locke, Due trattati sul governo cit., cap.V, cap.V, § 36, pp. 267 e 266. Su questa tesi lockiana, che fa dello ius migrandi una condizione della legittimazione politica del capitalismo, tornerò più oltre, nel § 2 del prossimo capitolo.

[4] A. de Tocqueville, Mémoires sur le paupérisme (1838), in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1989, tome XVI, Mélanges.

[5] L’espressione è di G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Gruppo Abele, Torino 2011, p. 35. Sul reddito di base si vedano anche, dell’ormai vasta letteratura, A. Fumagalli, M. Lazzarato (a cura di), Tute bianche, disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma 1999; P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Bocconi Editore, Milano 2006; Basic Incom Network Italia, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, Roma 2009; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit.; Th. Casadei, Oltre i diritti sociali? Il basic income (e i suoi problemi), Firenze, University Press, Firenze 2012, con ampia bibliografia. Si vedano anche i sei Quaderni per il reddito del 2016, a cura di Bin Italia.

[6] Intitolata “Istituzione di un reddito minimo garantito”. Su queste limitate esperienze, cfr. G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza cit., pp. 94-101; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit., cap. III, pp. 103-135.

[7] M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, in “Poli­tica del diritto”, II, 1971, p. 474. Analoga la disposizione dell’articolo 17 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua o in comune con altri”.

————
l-ferrajoli-manifesto-eg

Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti

unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccioni
lampadadialadmicromicro1Con il documento che segue (intervista del politologo Maurizio Ferrera con il filosofo e economista Philippe Van Parijs), proseguiamo nella diffusione di documentazione sulla ricerca Lavoro e Reddito di Cittadinanza avviata per quanto ci riguarda nella fase preparatoria e nel Convegno sul Lavoro del 4-5 ottobre u.s. promosso dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria, sulla base dei contributi scientifici e di divulgazione del prof. Gianfranco Sabattini. Sulla questione il Comitato organizzerà momenti di approfondimento e, tra questi, un prossimo Convegno.
——————-
Reddito incondizionato a tutti i cittadini
Maurizio Ferrera dialoga con il filosofo e economista Philippe Van Parijs sulla sua proposta del reddito di base incondizionato come proposta radicale di riforma dei sistemi di protezione sociale.
bin_italia_logo_20158
Philippe Van Parijs sarà con il BIN Italia il 10 novembre 2017 a Roma per una lectio magistralis dal titolo “Reddito di base una proposta per il XXI Secolo”

Il vecchio Stato sociale, pensato per il tradizionale lavoro dipendente, non funziona più. Non riesce a combattere la povertà né a ridurre le disuguaglianze, priorità per le quali si stanno studiando nuove proposte. L’idea più radicale, che prevede un reddito di base da erogare a tutti i cittadini, è sostenuta dal filosofo ed economista Philippe Van Parijs (Bruxelles, 1951), professore emerito dell’Università cattolica di Lovanio (in Belgio), che in queste pagine si confronta sul tema con Maurizio Ferrera, politologo esperto di welfare e firma del «Corriere». Van Parijs sarà a Bologna sabato 28 ottobre per tenere l’annuale lettura del Mulino: l’appuntamento è alle 11.30 presso l’Aula Magna di Santa Lucia, dove lo studioso belga interverrà sul tema «Il reddito di base. Tramonto della società del lavoro?». Una illustrazione organica della sua proposta, con varie risposte alle possibili obiezioni, si trova nel libro scritto da Van Parijs con Yannick Vanderborght (docente dell’Università Saint-Louis di Bruxelles) «Il reddito di base», in uscita per il Mulino giovedì 26 ottobre.

images-real-f
Maurizio Ferrera: La prima formulazione completa della tua teoria sul reddito di base è contenuta nel volume Real Freedom for All, uscito nel 1995. Sulla copertina c’è l’immagine di un giovane surfista. Mi hai raccontato che lo spunto ti venne da John Rawls. Qualche anno prima, lui ti aveva chiesto: perché i surfisti di Malibu dovrebbero ricevere un sussidio dallo stato? Inizierei questa conversazione rivolgendoti, a trent’anni di distanza, quella stessa domanda.

Philippe Van Parijs: Il reddito di base è un trasferimento monetario periodico erogato ad ogni membro della comunità politica su base individuale, senza verifica della situazione economica o della disponibilità al lavoro. Non si tratta, in altre parole, di una prestazione riservata a chi è inabile o in cerca di lavoro. Dopo avere letto Una Teoria della Giustizia di John Rawls, io pensavo in effetti che suoi capisaldi potessero giustificare l’idea di un reddito di base incondizionato. Il “principio di differenza” richiede infatti che vengano massimizzate non solo il reddito ma anche la ricchezza e i “poteri” dei più sfavoriti, assicurando a tutti “le basi sociale del rispetto di sé”. A me sembrava che ciò fornisse una base robusta in favore di un reddito di base incondizionato.

Maurizio Ferrera: Ma Rawls non era d’accordo con te….

Philippe Van Parijs: No, e ne fui molto sorpreso e anche deluso. Gliene parlai durante una prima colazione a Parigi nel 1987. Rawls mi obiettò: chi passa tutto il giorno a fare surf sulla spiaggia di Malibu non dovrebbe avere diritto a ricevere un trasferimento incondizionato.

Maurizio Ferrera: Così è il dibattito con Rawls ha dato al tuo editore lo spunto per la copertina del tuo libro…

Philippe Van Parijs: Già. Poi però, in scritti successivi, Rawls cercò di neutralizzare il mio ragionamento in questo modo: il tempo libero e la gratificazione dei surfisti equivale al salario minimo di un operaio a tempo pieno. Introducendo questo elemento nella teoria, il surfista non può più rivendicare di appartenere ai meno sfavoriti.

Maurizio Ferrera: Partita chiusa, allora?

Philippe Van Parijs: No, in una conferenza che feci a Harvard (Perché dar da mangiare ai surfisti?) e poi nel libro che hai citato sopra, Real Freedom for All, ho sostenuto che il punto di vista “liberale” adottato da Rawls consente di giustificare il reddito incondizionato. Per capirlo, bisogna passare attraverso la seguente considerazione. Gran parte del reddito di cui ciascuno di noi dispone non è in realtà il frutto del nostro sforzo, ma dal capitale e dalle conoscenze complessive “incorporate”, per così dire, nella società, quelle che rendono possibile il suo funzionamento efficiente. Il reddito di base non estorce risorse da chi lavora duramente per darle a chi è pigro. Si limita a redistribuire in maniera più equa una colossale “rendita” che la società ci mette a disposizione e che nessuno di noi, individualmente ha contribuito nel passato ad accumulare.

Maurizio Ferrera: Nella tua teoria, il reddito di base andrebbe a tutti, anche ai ricchi. Eppure tu sostieni che ad esserne avvantaggiati sarebbero soprattutto i poveri. Potresti chiarire meglio il punto?

Philippe Van Parijs: A meno che non siano disponibili trasferimenti esogeni (per esempio aiuti internazionali) oppure risorse naturali abbondanti e pregiate, il reddito di base deve essere finanziato da una qualche forma di tassazione. Di norma, le imposte sono progressive, dunque i ricchi contribuiranno al finanziamento più dei poveri. Praticamente, chi ha di più pagherà per il proprio reddito di base e per almeno una parte dei redditi di base che vanno ai poveri. Il reddito di base quindi non renderà i ricchi ancora più ricchi. Al contrario, porterà i poveri più vicino alla soglia di povertà o al di sopra di essa, a seconda del tipo e dell’importo delle prestazioni assistenziali pre-esistenti. Ancora più importante: esso aumenterà la sicurezza dei poveri. Un reddito che si riceve senza nulla in cambio è meglio di una rete di sussidi con dei buchi attraverso i quali si può cadere. Oppure che genera delle trappole.

Maurizio Ferrera: Vediamole meglio queste trappole. Qui il tuo argomento è che i trasferimenti condizionati alla verifica della situazione economica e alla disponibilità al lavoro sono molto spesso intrusivi e repressivi. La ricerca empirica ha effettivamente documentato questi effetti. Mi viene in mente il titolo un bel libro a cura di Ivar Lodemel e Heather Trickey: An Offer you Can’t Refuse: Workfare in International Perspective. In molti paesi, sostengono gli autori, i disoccupati devono accettare lavori che vengono loro offerti con una specie di pistola alla tempia (come faceva Il Padrino): se non accetti, ti tolgo il sussidio. E’ anche la storia raccontata da Ken Loach nel bel film Daniel Blake. Ma il reddito di base è davvero l’unica soluzione? Dopo tutto, i paesi scandinavi sono riusciti a costruire un welfare “attivo”, insieme equo ed efficace: ai giovani e ai disoccupati non si offre un lavoro qualsiasi, prima li si aiuta a migliorare il proprio capitale umano. Il principio non è work first, ma piuttosto learn first. Rimane un po’ di paternalismo, è vero, ma attento alla dignità e ai bisogni delle persone. …

Philippe Van Parijs: Io credo che i soggetti più adatti a giudicare quanto un lavoro sia buono o cattivo – e per molti questo include quanto sia utile o dannoso per gli altri – siano i lavoratori stessi. Essendo senza condizioni, il reddito di base rende più facile abbandonare o non accettare posti di lavoro poco promettenti, a cominciare da quelli che non prevedono una formazione utile. Poiché può essere combinato con guadagni bassi o irregolari, il reddito di base rende più facile accettare stage, o posti di lavoro che si pensa possano migliorare il proprio capitale umano o anche, e più semplicemente, posti di lavoro corrispondenti a ciò che le persone realmente desiderano e pensano di poter fare bene. Si amplia così la gamma di attività accessibili, retribuite e non. Si dà alle persone più potere di scegliere. Il reddito di base attrae chi si fida delle persone più che dello stato come migliori giudici dei loro interessi.

Maurizio Ferrera: Restiamo sul tema del lavoro. Nell’apertura del tuo nuovo libro, tu sei molto pessimista circa gli effetti delle nuove tecnologie e della globalizzazione sui posti di lavoro, sembri rassegnato alla prospettiva della cosiddetta “stagnazione secolare”. E giustifichi la proposta del redito di base anche come risposta nei confronti di questo scenario. Ci sono però studiosi che la pensano diversamente. Il lavoro non scomparirà. L’invecchiamento della popolazione e l’espansione di famiglie in cui entrambi i partner lavorano amplierà notevolmente la richiesta di servizi sociali “di prossimità” (assistenza personale, cura dei bambini, e in generale servizi di “facilitazione della vita quotidiana”) i quali non potranno essere svolti dalle macchine né delocalizzati. Sanità, istruzione, ricerca, formazione, intrattenimento, turismo: anche in questi settori l’occupazione potrà crescere. E la cosiddetta “internet delle cose” sposterà in avanti la frontiera dei rapporti fra umani e macchine o robot, senza però annullare (e forse nemmeno comprimere in modo drastico) il ruolo, e dunque l’impiego attivo degli umani, appunto. Citando una profezia di Keynes, tu dici che l’innovazione tecnologica consente oggi di risparmiare forza lavoro ad un ritmo tale che diventa impossibile ricollocare i disoccupati altrove. Siamo sicuri che le cose stiano davvero così? Ci sono paesi in Europa che si situano alla frontiera dello sviluppo tecnologico e pure mantengono altissimi livelli di occupazione, anche giovanile e femminile. Si tratta, di nuovo, dei paesi Nordici, che hanno riorientato il proprio welfare nella direzione dell’investimento sociale, senza aver (ancora?) introdotto il reddito di base…

Philippe Van Parijs: In realtà non credo in una rarefazione irreversibile di posti di lavoro. Ma ritengo che il cambiamento tecnologico labour saving, in congiunzione con la mobilità globale del capitale, delle merci, dei servizi e delle persone, generi una polarizzazione del potere di guadagno. I proprietari di capitali, dei diritti di proprietà intellettuale, coloro che hanno competenze altamente richieste dal mercato saranno in grado di appropriarsi di una quota crescente di valore aggiunto. Allo stesso tempo, per molti lavoratori il potere di guadagno si riduce (o rischia di ridursi) al di sotto di quello ritenuto necessario per una vita dignitosa. Se si vuole impedire che un numero sempre maggiore di persone restino bloccate all’interno delle tradizionali reti di assistenza sociale, si possono immaginare due strategie, due versioni della stessa nozione di welfare attivo. La strategia “lavorista” consiste nel sovvenzionare i posti di lavoro, esplicitamente o implicitamente; la strategia “emancipatrice” consiste nel capacitare le persone. Chi crede che il ruolo centrale del sistema economico non sia quello di creare occupazione, ma di liberare le persone, si orienterà, – come faccio io – verso la seconda strategia, che ha come nucleo centrale il reddito di base. Ma la prima strategia ha a sua volta molte varianti, non tutte ugualmente repressive o ossessionate dal lavoro, né quindi ugualmente lontane dalla seconda.

Maurizio Ferrera: Veniamo alla vexata quaestio dei costi. Innanzitutto, nella tua concezione, quale dovrebbe essere l’importo del reddito di base? Nella ambigua proposta del Movimento Cinque Stelle per un reddito di cittadinanza si parlava di 700 euro al mese. All’inizio si pensava che si trattasse di un reddito universale, molti italiani ancora credono che sia così. In realtà i Cinque Stelle propongono un reddito minimo garantito, anche se molto generoso e costoso (più di venti miliardi di euro l’anno). In base a quali criteri dovrebbe essere definito l’importo del reddito di base?

Philippe Van Parijs: I promotori del referendum svizzero del giugno 2016 sul reddito di base hanno proposto un importo mensile di CHF 2300, pari al 39% del PIL pro capite della Confederazione. Il loro argomento era che tale livello fosse necessario per portare ogni famiglia al di sopra della linea di povertà, compresi i single residenti in aree urbane. Nel prossimo futuro, ogni proposta ragionevole per un reddito di base incondizionato, e quindi strettamente individuale, dovrà rimanere molto più modesta, ad esempio tra il 12% e il 25% del PIL pro capite (mf: per l’Italia, la forbice si situerebbe fra 270 e 560 euro al mese). Dovranno essere quindi mantenuti alcuni sussidi aggiuntivi di tipo condizionato per far sì che nessuna famiglia povera ci perda.

Maurizio Ferrera: Tu stesso ammetti come auto-evidente il fatto che l’universalità comporta un alto livello di spesa pubblica. Come si finanzierebbe il reddito di base?

Philippe Van Parijs: Partire dal costo lordo – reddito di base moltiplicato per ibeneficiari – è fuorviante. Se gli importi sono modesti, la maggior parte dei costi si “autofinanziano” da due fonti. In primo luogo, tutte le prestazioni monetarie inferiori all’importo del reddito di base vengono eliminate e tutte le prestazioni più elevate verrebbero ridotte dello stesso importo.

Maurizio Ferrera: Fammi capire bene. Poniamo che il reddito di base sia fissato a 400 euro mensili. Per qualcuno che avesse un sussidio permanente pari a questo importo cambierebbe solo il nome. Per chi ce lo avesse più basso, il sussidio verrebbe sostituito dal reddito di base: dunque un guadagno netto. Per chi gode invece di una prestazione più alta (poniamo una pensione minima di 800 euro), il trasferimento scenderebbe a 400, si aggiungerebbe però il reddito di base e il reddito totale non cambierebbe (800 euro in totale).

Philippe Van Parijs: Esattamente. La seconda fonte sarebbe questa: tutti i redditi sono tassati dal primo euro all’aliquota attualmente applicabile ai redditi marginali di un lavoratore dipendente a tempo pieno con bassa retribuzione.

Maurizio Ferrera: Tutti i redditi, dunque anche quelli su patrimonio e investimenti finanziari, senza distinzioni o franchigie? E questo basterebbe per auto-finanziare il reddito di base?

Philippe Van Parijs: Le due fonti congiunte assicurerebbero l’auto-finanziamento di gran parte del costo lordo. Naturalmente, ogni paese ha il suo mix regolativo di imposte e trasferimenti, e da questo dipenderebbe l’ammontare complessivo del gettito che si renderebbe disponibile.

Maurizio Ferrera: Nel tuo libro sottolinei l’importanza di concepire il reddito di base come trasferimento monetario, ma chiarisci che esso non sostituirebbe tutti i servizi erogati o finanziati dallo stato. Supponiamo che un immaginario stato dei nostri tempi, privo di qualsiasi politica di protezione sociale, ti desse carta bianca per progettargli un sistema pubblico di welfare. Oltre al reddito di base, che cosa ci metteresti?

Philippe Van Parijs: Dovrebbero esserci prestazioni per i figli, esse stesse congegnate come reddito di base pagato ai genitori, ad un livello che può variare con l’età ma non con il numero di figli. Dovrebbero restare sistemi pubblici educativi e sanitari efficienti, obbligatori e poco costosi e dovrebbero esserci schemi di assicurazione integrativa di tipo contributivo per malattia, disoccupazione e vecchiaia. Va da sé che lo stato continuerebbe a fornire beni pubblici come la sicurezza fisica, la mobilità sostenibile e, mettiamola così, una “piacevole immobilità” negli spazi pubblici.

Maurizio Ferrera: I paesi europei hanno oggi estesi welfare state, che assorbono fra il 25 e il 30% del PIL. Come vedresti la transizione verso il reddito di base? Immagino che si dovrebbero prevedere dei tagli alle prestazioni esistenti. Come affrontare il problema di “diritti acquisiti”, che in molti paesi (primo fra tutti l’Italia) vengono considerati inviolabili anche dalle Corti Costituzionali?

Philippe Van Parijs: La proposta di un reddito di base non presuppone che si parta da zero, da una tabula rasa. Al di sopra di importi estremamente modesti, è chiaro che vi dovrà essere una ridistribuzione a spese dei redditi più elevati, forse anche a spese delle pensioni più generose. Senza dubbio, alcune categorie si sentiranno minacciate, chiederanno forme di compensazione implicita o esplicita. Quanto ai diritti acquisiti: se la transizione avviene facendo leva sul sistema fiscale, non vedo perché essa debba incontrare ostacoli costituzionali insormontabili.

Maurizio Ferrera: Non oso pensare alle difficoltà politiche che si incontrerebbero per attuare riforme così ambiziose dal punto di vista istituzionale e redistributivo….

Philippe Van Parijs: Si, ma fortunatamente il calcolo fra vantaggi e perdite finanziari immediati non è l’unico fattore da prendere in considerazione per valutare la fattibilità di riforme. Se fosse così, dubito che avrei passato gran parte della mia vita ad occuparmi di filosofia politica.

Maurizio Ferrera: In effetti, noi scienziati politici siamo a volte troppo realisti. Ma siamo anche convinti che le idee e i valori contino nel plasmare il cambiamento. E che la politica non sia solo gestione dell’esistente, ma anche “visione”, elaborazione di utopie realizzabili (anche se suona come un ossimoro).

Philippe Van Parijs: Il reddito di base incondizionato è in qualche modo un’utopia. Ma lo erano, fino a non moltissimo tempo fa, anche l’abolizione della schiavitù o il suffragio universale. “Il possibile non verrebbe mai raggiunto nel mondo se non si ritentasse, ancora e poi ancora, l’impossibile” Così scrisse Max Weber nel suo famoso testo La politica come professione. Un’esortazione da condividere in pieno. Avanti!
—————————————

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 23 ottobre e pubblicato da BIN Italia previo consenso dell’autore.
—————
255a0f9cover27374

Oggi sabato 4 novembre 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
—————————————————————
lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti.
Reddito di cittadinanza: quale finanziamento?. Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi e su Aladinews.
———————————————————————————————————————-

tqnjqq_0Reddito incondizionato a tutti i cittadini: dialogo di Maurizio Ferrera con l’economista Van Parijs.
Dialogo con il filosofo e economista Philippe Van Parijs sulla sua proposta del reddito di base incondizionato come proposta radicale di riforma dei sistemi di protezione sociale.
Philippe Van Parijs sarà con il BIN Italia il 10 novembre 2017 a Roma per una lectio magistralis dal titolo “Reddito di base una proposta per il XXI Secolo”.
———-CatalognaDibattito——————————————————————-
democraziaoggiPuigdemont, un avventurista; Rajoy, un provocatore
4 Novembre 2017

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
————————————————————–
Commento di Tonino Dessì (su fb)
Il punto di vista di Andrea Pubusa, che come suo solito non lesina realismo e parole forti.
Il fatto è che la vicenda catalana ha destato e desta fortissime perplessità in una vasta area di democratici sardi, analoghe credo a quelle di gran parte dell’opinione pubblica democratica italiana ed europea.
Personalmente non avrei molto di approfondito da aggiungere a quello che ho scritto nei giorni scorsi seguendo passo passo gli eventi e a quello che ho scritto nel post di ieri.
Si tratta di eventi dai quali possiamo già trarre insegnamenti importanti. Fra questi il più evidente è che il contesto costituzionale di grandi realtà statuali non è fatto solo di norme astratte, ma rispecchia e compone una molteplicità di forze e di interessi materiali.
Non si può pensare che un tentativo di romperlo unilateralmente, da parte di qualsiasi componente, anche afferente a un intero territorio, non attivi forze e interessi contrapposti.
Perciò una strategia e una tattica che non prevedano queste reazioni e non si domandino se il gioco valga la candela sono da considerare altamente rischiose, se non velleitarie.
Tuttavia non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che la vicenda catalana ha provocato il coinvolgimento di masse di cittadini animati da una pulsione convintamente identitaria.
La reazione delle autorità centrali a un moto che ha origini risalenti e radicamento cospicuo è stata ottusa e inadeguata.
Ho anche già avuto modo di scrivere che una questione come questa non dovrebbe essere lasciata nelle mani dei magistrati penali.
Il punto di crisi va affrontato con alto senso di responsabilità.
Anche per questo ho fatto cenno alle responsabilità del Parlamento spagnolo e dei partiti politici spagnoli.
Spetterebbe a loro prendere atto che l’esperienza della maggioranza e del Governo a guida Rajoy andrebbe terminata e che la via di pacificazione passa per una depenalizzazione dei comportamenti finora messi in atto dalle istituzioni catalane, mediante una tempestiva legge di amnistia ad hoc, e per la successiva chiamata di tutto il corpo elettorale a elezioni generali e territoriali, nelle quali si confrontino piattaforme nuove per un assetto costituzionale più avanzato.
Io resto per una soluzione federalista, in Spagna come nella prospettiva in Italia.
Al momento non avrei altri spunti di riflessione da suggerire.
——————————————————————————
eddyburgSOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SCANDURRA
Il giorno delle elezioni
di ENZO SCANDURRA su eddyburg, ripreso da aladinews.

So di dire un’ingenuità. Ma è la sola cosa che resta a chi legge ogni giorno le estenuanti prove di dare vita, a sinistra, ad una coalizione diversa dal PD. I temi non mancano: le disuguaglianze… la povertà… la minaccia ambientale… le sorti della scuola e della università… la precarietà…
——————————————————————-

Approfondendo… Reddito di Cittadinanza e dintorni

reddito-di-cittadinanza-universale-e-incondizionato-philippe-van-parijsPhilippe Van Parijs sostiene da molti anni la necessità dell’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, erogato a ogni membro di una comunità politica su base individuale, indipendentemente dalla situazione economica e senza nessun requisito lavorativo. La proposta suscita oggi un interesse senza precedenti. Viene invocato da molti poiché fornirebbe a ogni persona una sicurezza sociale di base.
Lectio di Philippe Van Parijs (maggio 2016). Interviene Roberta Carlini.
——————————–Segnalazione/Punta de billete——————————
locaofficial-e1507648722546
bin_italia_logo_20158 BIN Italia.
—————————————————————————-

Materiali per il Dibattito su Lavoro e Reddito di Cittadinanza

unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccionilampada aladin micromicroFacendo seguito all’anticipazione fattane in questa stessa rubrica, e ad altri precedenti contributi, pubblichiamo un saggio breve del prof. Gianfranco Sabattini sul “Reddito di Cittadinanza”, o meglio sul “Dividendo Sociale”, come lui preferisce denominare lo strumento che costituirebbe una fonte alternativa alle sempre più improbabili nuove opportunità di lavoro. Stiamo parlando di una tematica complessa, non riconducibile alle semplificazioni proprie di molte trattazioni giornalistiche o, peggio ancora, a molte improvvisate e superficiali proposte presenti nel recente dibattito politico. Al contrario, le teorie serie e fondate, se non altro perché avanzate da illustri economisti, tra i quali James Edward Meade, premio Nobel per l’Economia del 1977, fanno fare a Gianfranco Sabattini una scelta di campo precisa a favore del RdC-Dividendo Sociale nel dibattito sui sistemi più efficaci per perseguire il benessere collettivo. Tale scelta netta a nostro avviso favorisce il confronto tra posizioni e indubbiamente contribuisce a illuminare la strada ai decisori politici. Non spetta a noi, giornalisti e operatori della comunicazione, fare scelte altrettanto chiare e definite. A noi spetta fornire un terreno fertile per il dibattito. Come abbiamo fatto e stiamo facendo con il sostegno all’attività del Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria a partire dalla preparazione, organizzazione e, ora, disseminazione dei contenuti, del recente Convegno sul Lavoro (4-5 ottobre u.s.). Proprio in tale sede sono emersi i termini del dibattito e l’attuale (diciamo attuale perché forse il dibattito potrebbe anche fornire soluzioni intermedie o diverse) contrapposizione tra teorie e posizioni politiche; la più netta tra quelle contrarie (o fortemente critiche rispetto) al RdC sembra essere quella di cui si è fatto autorevole sostenitore Papa Francesco, nella più aggiornata versione della Dottrina sociale della Chiesa cattolica (espressa con massima chiarezza nel discorso fatto a Genova ai lavoratori dell’Ilva il 27 maggio u.s.), che Giacomo Meloni, Segretario nazionale della CSS, ha ripreso, condividendola, nel suo intervento al nostro Convegno. Nel ringraziare il prof. Sabattini per il suo tenace lavoro di ricercatore accademico e di eccellente divulgatore, non possiamo che rinnovare la richiesta, o, meglio, la giusta pretesa, perché le Università sarde al riguardo si impegnino seriamente sul versante dell’approfondimento scientifico, mettendosi a maggiore disposizione della società, in primis quella sarda di loro primo riferimento.
—————————————

Il Reddito di Cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà

di Gianfranco Sabattini

1. Premessa

Il dibattito politico che ha preceduto l’introduzione in Italia del “Reddito d’inclusione”, inteso come provvedimento utile per assicurare il sostegno economico in modo progressivo a tutte le famiglie che si trovino al di sotto della soglia di povertà assoluta, ha rilanciato la “campagna di disinformazione” sul Reddito di Cittadinanza (RdC), spargendo su quest’ultima forma di reddito valutazioni e giudizi che sono del tutto estranei al discorso degli economisti che ne hanno definito e formalizzato in termini compiuti il concetto, collocandolo all’interno di un’analisi coerente con i principi della teoria economica. Esempi di disinformazione recente sono offerti da un articolo di Raoul Kirchmayer, apparso su L’Espresso del 30 aprile scorso, dal titolo “Una trappola contro i poveri. Non fidatevi del reddito di cittadinanza: è la vittoria culturale del neoliberismo”, e dall’intervista concessa dal tedesco Henning Meyer, docente alla London School of Economics, a Carlo Bordoni, il cui testo è apparso sul periodico domenicale del Corriere delle Sera, “La Lettura”, col titolo “Il reddito garantito umilia le persone”.
Kirchmayer afferma d’aver sentito parlare per la prima volta del “RdC” dal filosofo Jean-Mark Ferry, uno degli studiosi che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha contribuito a diffonderne la conoscenza e l’attuazione. Il nesso che si sosteneva esistesse tra la cittadinanza e una base economica garantita dall’introduzione del “RdC” è sembrata a Kirchmayer “una forma di protezione sociale capace di mettere al riparo dalle incertezze di quella che, di lì a poco, sarebbe stata chiamata ‘società del rischio’”.
Il nesso, perciò, non evocava nessuna correlazione del “RdC” con la povertà, della quale, tra l’altro, non si parlava; questo nesso, secondo Kirchmayer, è cominciato a comparire dopo il 2007/2008. Con la crisi, sarebbe mutato il senso e il significato originario come utopia o come proposta di politica del “RdC”. Questo avrebbe cessato di rappresentare un progetto d’inclusione della democrazia e di ampliamento dei diritti democratici materiali dei cittadini, per diventare “un intervento-tampone per limitare la sofferenza dei ceti più attaccati dalla crisi”. La crisi, secondo Kirchmayer, avrebbe comportato, in merito al senso del “RdC”, uno suo spostamento “nella produzione discorsiva pubblica”, che sarebbe valsa ad attribuirgli un carattere non più utopico e progettuale; uno spostamento, cioè, che lo avrebbe “fatto entrare da qualche anno a questa parte e con denominazioni diverse, nell’agenda politica nazionale di movimenti e partiti”.
Il discorso critico di Kirchmayer è condivisibile; ciò che non è condivisibile è la sua implicita affermazione secondo la quale, a causa dell’”incompetenza” dei movimenti e dei partiti politici, il concetto di Reddito di Cittadinanza possa aver perso il senso e il significato che gli sono stati attribuiti originariamente. Quando, però, il “RdC” sia correttamente inserito nella “cornice teorica” grazie alla quale coloro che l’hanno costruita hanno dotato il concetto di senso e di significato univoci, nessun movimento o partito politico può stravolgere il concetto stesso in funzione di esigenze politiche contingenti.
Più grave è la disinformazione sul “RdC” che origina dalle considerazioni svolte da Henning Meyer nell’intervista concessa a Bordoni. Egli mette addirittura in dubbio l’efficacia del “RdC” contro la disoccupazione, facendo pensare che la sua introduzione possa portare allo “smantellamento del sistema previdenziale, sostituito da misure minime generalizzate”, destinate a ridursi “ad una falsa democratizzazione”, in quanto il Reddito di Cittadinanza “si risolverebbe in una falsa democratizzazione, privilegiando le classi che non hanno bisogno di sostegno”. Inoltre, Meyer nutre dubbi sull’efficacia del “RdC” come strumento utile a contrastare la disoccupazione tecnologica. Ciò si verificherebbe per diversi motivi: intanto, perché il “RdC” ridurrebbe il lavoro a semplice fonte di introiti, con la conseguenza di radicare l’ignoranza circa la sua natura di fattore di autostima; inoltre, perché il ricevimento di un salario sociale indurrebbe la forza lavoro a non riuscire più ad inserirsi nel mondo del lavoro, a causa della rapida obsolescenza delle competenze professionali provocata dalle trasformazioni tecnologiche dei moderni sistemi economici.
In luogo di erogare un Reddito di Cittadinanza, i governi dovrebbero combattere la disoccupazione comportandosi keynesianamente come “datori di lavori di ultima istanza”; in questo modo, a parere di Meyer, “i governi avrebbero uno strumento aggiuntivo per incrementare le attività socialmente utili”; ma anche “per finanziare lo sport e altre attività culturali a livello locale, rafforzando la coesione sociale delle comunità”. Si potrebbe anche aggiungere, sebbene Meyer manchi ricordarlo, il possibile ampliamento del servizio civile secondo le forme e le modalità indicate dall’attuale Ministro della difesa italiano.
Concludendo la sua critica riguardo al “RdC”, Meyr, contraddittoriamente, dopo aver escluso che le risorse necessarie per combattere la disoccupazione attraverso lo Stato datore di lavoro di “ultima istanza” possano essere recuperate attraverso un “ripensamento” del sistema fiscale, non ha avuto altro di meglio che proporre, per il futuro, la “democratizzazione” del capitale accumulato, per estendere al maggior numero possibile di cittadini le quote di partecipazione alla sua proprietà.
Le osservazioni critiche di Meyer sorprendono, non solo per la sua rinnovata fiducia nel sistema del welfare State, che egli considera ancora come strumento efficace per risolvere il problema della disoccupazione tecnologica originata dai moderni sistemi industriali; ma anche, e soprattutto, perché mostra di ignorare il contributo di un suo illustre predecessore alla London School of Economics, James Edward Meade, il cui contributo pionieristico alla definizione e giustificazione del Reddito di Cittadinanza resta un punto di riferimento ineludibile, come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, per capirne il senso sul piano sociale, oltre che su quello economica.

2. Reddito di cittadina e disoccupazione strutturale

Allo stato attuale, una cosa è certa; una schiera sempre più espansa di analisti di sinistra, di centro e di destra va sostenendo da tempo, che la logica capitalistica di funzionamento dei moderni sistemi produttivi non è più in grado di “creare” posti di lavoro, né di “conservare” i livelli occupazionali acquisiti. Quindi, gli attuali sistemi industrializzati, anziché soddisfare gli stati di bisogno delle rispettive società civili (funzione, questa, che dovrebbe valere a giustificarli e a legittimarli socialmente) riversano su di esse l’”inconveniente” di produrre crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Di fronte a questa situazione sopraggiunge l’incombente e fatidica domanda: che fare allora?
Proprio per dare una risposta all’interrogativo, è maturata l’idea che occorresse creare all’interno dei sistemi sociali che soffrono della crescente disoccupazione strutturale irreversibile condizioni (fuori dalle logiche rivoluzionarie del passato) tali da consentire, non solo il sostentamento del nuovo “esercito industriale di riserva” senza lavoro, ma anche l’autoproduzione, resa possibile dall’erogazione del “RdC”, considerato come fonte alternativa di nuove opportunità di lavoro.
Affrontando la soluzione del problema della disoccupazione, insistendo sul valore psicologico del lavoro e trascurando la natura strutturale irreversibile della disoccupazione, si manca di considerare il crescente e continuo affievolimento, se non della totale estinzione, dell’etica del lavoro; in tal modo, ci si preclude di comprendere come gli esiti negativi della disoccupazione strutturale possono essere rimossi ricorrendo ad una forma di reddito incondizionato, qual è il Reddito di Cittadinanza, alternativo al reddito di mercato. Sin tanto che non sarà rimosso il rapporto che si presume esista tra il lavoro e la stima di sé, che porta a considerare il lavoro stesso come un valore esistenziale dal quale non si può prescindere (perché: “il lavoro è vita”, “il lavoro è partecipazione”, “il lavoro è autonomia”, ecc.), la necessità di creare posti di lavoro continuerà a costituire una priorità sociale ineludibile, ma irrisolvibile in presenza delle attuali regole di funzionamento delle economie di mercato integrate nell’economia mondiale.
Perché il lavoro possa portare la stima di sé occorre che esso produca beni e servizi che possano essere “apprezzati” dai potenziali consumatori e dai contribuenti, quando sono questi a doverlo finanziare; ne consegue, perciò, che il lavoro creato attraverso contribuzioni pubbliche solo perché si ritiene costituisca un valore in sé potrebbe non servire allo scopo. Ciò può accadere se il lavoro fosse avvertito come controproducente, sia da chi fruisce del prodotto finale (consumatore), sia da chi ne finanzia la produzione (contribuente).
La stima di sé del lavoratore non è un valore che possa essere presidiato con il convincimento che esso esista o, peggio, che esso debba esistere. Se il lavoro svolto da un lavoratore è “apprezzato” dagli altri, esso sarà richiesto e, necessariamente, assicurerà a chi lo svolge stima di sé; d’altra parte, se il lavoro non è richiesto, esso non potrà assicurare a chi lo esercita nessuna stima, ma solo uno stato di indigenza insostenibile e di grave frustrazione psicologica.
Inoltre, dal punto di vista dei rapporti sociali, la stima di sé, che può essere tratta da chi svolge un lavoro, dipende anche dal “tipo” di lavoro svolto. Un lavoro temporaneo, ad esempio, non può assicurare alcuna stima, in quanto coloro che lo eseguono sono occupati solo per un tempo limitato. Se, ad esempio, lo scopo del lavoro temporaneo, nelle condizioni attuali, fosse quello di impedire l’autoafflizione dei disoccupati strutturali, occorrerebbe che il lavoro fosse stabile e non precario. In conclusione, il lavoro supposto dotato di valore in sé nella attuali economie industriali avanzate non è assunzione utile alla rimozione della disoccupazione strutturale e con questa dell’indigenza; il lavoro inteso come “vita”, “dignità”, “partecipazione” e “libertà” è un residuo biblico, che si è tradotto in un principio comportamentale individualistico ed arcaico dell’uomo “condannato” a produrre ciò di cui ha bisogno per sopravvivere, non più idoneo, nei moderni sistemi industriali, a garantire stabilità economica e sociale in presenza di una giustizia distributiva condivisa. Il problema allora della giustificazione dell’erogazione di un reddito svincolato dallo svolgimento di un lavoro deve essere spostato sul piano sociale.

3. Giustificazione economico-sociale del Reddito di Cittadinanza

3.1. L’esperienza del modo di funzionare dei moderni sistemi industriali ha da tempo evidenziato che, quando la gestione del sistema economico è lasciata all’azione discrezionale della politica per il perseguimento di scopi nobili come, ad esempio, l’incremento o il mantenimento dei livelli occupativi, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, è resa possibile una manipolazione dei flussi di reddito, tale da creare uno stock di capitale sociale negativo (somma dei disavanzi correnti del settore pubblico) a spese dei cittadini; è questa la ragione del perché si impone oggi, all’interno delle società industriali avanzate, ed in particolare all’interno di sistemi come quello italiano che da tempo ha visto deteriorarsi i propri “fondamentali” economici, la necessità di una riforma radicale del welfare esistente.
Prima del secondo conflitto mondiale John Maynard Keynes affermava che gli Stati autoritari dell’epoca risolvevano il problema della disoccupazione a spese dell’efficienza e della libertà. Keynes, tuttavia, era certo che il mondo non avrebbe tollerato a lungo la mancanza di libertà, ma anche che non avrebbe sopportato la “piaga” della disoccupazione, imputabile alle ingiustificabili modalità di funzionamento delle economie capitalistiche. L’economista di Cambridge era anche certo che, abbattute le dittature, una corretta soluzione del problema della disoccupazione sarebbe stato possibile trovarla, ricuperando, sia l’efficienza, che la libertà.
Dopo il secondo conflitto mondiale, però, il mercato del lavoro ha subito un cambiamento nelle forme d’uso della forza lavoro, originando una diffusa disoccupazione sempre più difficile da “governare”, sino a diventare disoccupazione strutturale, che ha messo progressivamente in crisi il sistema di sicurezza sociale basato sul modello elaborato nel Regno Unito, nel 1942, da William Henry Beveridge. Questo sistema aveva tre funzioni: assicurare alla forza lavoro disoccupata la garanzia di un reddito corrisposto sotto forma di sussidi a fronte di contribuzioni assicurative; assicurare un reddito alle categorie sociali che, per qualsiasi motivo, avessero avuto bisogno di un’assistenza temporanea, nel caso in cui esse non avessero avuto il diritto ad alcun sussidio; assicurare al sistema economico servizi regolativi e di supporto all’occupazione ed al risparmio, attraverso la realizzazione delle condizioni che davano titolo a ricevere i sussidi. L’obiettivo fondamentale del welfare State realizzato è stato, sin dal suo inizio, univocamente determinato; il sistema è però “fallito”, a causa delle perdita della flessibilità del mercato del lavoro.
Il sistema di sicurezza sociale realizzato era basato sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo ad esso, cosicché le contribuzioni della forza lavoro bilanciassero le erogazioni previste in suo favore. Ma il sistema così come era stato concepito all’origine è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale. Ciò perché il welfare State è stato progressivamente esteso per coprire le emergenze conseguenti all’aumentata complessità dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente a seguito dell’espandersi delle varie forme di sussidio che è stato necessario corrispondere e dei costi burocratici per le “prove dei mezzi” (le prove cioè di trovarsi realmente in stato di bisogno) alle quali i beneficiari dei sussidi dovevano sottoporsi.

3.2. Il fallimento delle riforme e delle integrazioni cui il sistema di sicurezza sociale è stato sottoposto, dopo la sua realizzazione, ha orientato l’analisi economica ad assumere che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro e non quello di compensare la crescente insicurezza reddituale delle forza lavoro. Il modo per rendere tra loro compatibili la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale nella libertà, da un lato, e l’efficienza del sistema economico, dall’altro, è stato individuato nell’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza.
Si tratta di una forma di reddito erogato incondizionatamente a favore di tutti e finanziato con le medesime risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale, l’attuale welfare; oppure mediante la distribuzione di un Dividendo Sociale, finanziato con le risorse derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato, mediante la costituzione di un “Fondo-capitale nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini. Era questa l’idea originaria con cui James Edward Meade, docente alla London School of Economics e alla Cambridge University e insignito nel 1977 del premio Nobel per l’economia, parlando di Dividendo Sociale, ha introdotto nell’analisi economica il problema dell’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza.
Il Dividendo Sociale, doveva essere corrisposto di diritto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico. Il suo fine ultimo doveva essere quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che avesse riconosciuto ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad uno standard minimo di vita, in presenza di una giustizia sociale più condivisa; un sistema di sicurezza, cioè, che avesse consentito di raggiungere, sia pure indirettamente, tale fine in termini più efficienti ed ugualitari di quanto non fosse stato possibile conseguirlo con qualsiasi altro sistema alternativo.

3.3. Meade ha sempre preferito parlare di Dividendo Sociale, anziché di Reddito di Cittadinanza; quest’ultima espressione sarà introdotta successivamente, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso; ma il suo significato e le sue implicazioni saranno quelle indicare da Meade nel suo concetto di Dividendo Sociale, che il premio Nobel aveva mutuato dal lavoro di Lady Juliet Rhys-Williams, autrice nel 1943 di un libro dal titolo “Something to Look Forward Too” (Non vedere l’ora di fare qualcosa di nuovo), in cui veniva proposto un “Nuovo Contratto Sociale”, implicante la corresponsione incondizionata e universale di un reddito sociale alternativo a quello previsto dal Rapporto-Beveridge sulla sicurezza sociale. James Meade, nel 1948, in un suo lavoro, “Planning and the Price Mechanism”, ha presentato l’idea di Lady Rhys-Williams come una stimolante proposta per una riforma strutturale del modello di sicurezza sociale istituzionalizzato nel Regno Unito alcuni anni prima.
Meade ha riassunto come segue la proposta di Lady Juliet Rhys-Williams: ella – ha affermato il Nobel inglese – ha suggerito la corresponsione di un pagamento in moneta (o Dividendo Sociale) ad ogni singolo cittadino, uomo, donna o bambino. La somma pagata deve sostituire tutti i benefici sociali corrisposti sulla base del sistema di sicurezza sociale esistente, quali i sussidi ai disoccupati, il pagamento delle pensioni ai lavoratori collocati a riposo per raggiunti limiti di età, i sussidi per malattia e quelli corrisposti ai minori di età. Ogni uomo, donna o minore deve percepite il Dividendo Sociale, qualunque sia il loro stato di salute, sia nel caso di malattia che nel caso si trovino in perfetto stato di salute, sia in caso di occupazione che di disoccupazione, e indipendentemente dall’età. Non deve essere prevista nessuna prova dei mezzi, né devono esistere dei test per provare che i soggetti destinatari del Dividendo Sociale sono impegnati nella ricerca di lavoro; né essi sono obbligati a dimostrare di essere realmente ammalati. I medici possono cessare di rilasciare certificati di malattia e procedere, quindi, a tempo pieno nella cura dei loro ammalati. Gli uffici per l’occupazione possono cessare di preoccuparsi dei disoccupati e impegnarsi maggiormente nell’avviare verso nuove opportunità occupazionali chi si trova involontariamente ad essere disoccupato. Conclusivamente, il Ministero della Sicurezza Sociale può addirittura essere chiuso. I sussidi personali universali concessi incondizionatamente a tutti i cittadini possono prendere il posto dell’intero apparato del sistema di sicurezza sociale esistente.

3.4. La proposta di Lady Juliet Rhys-Williams, secondo Meade, era da condividersi e da preferirsi al sistema di sicurezza sociale costruito sulla base del Rapporto-Beveridge, perché presentava quattro grandi vantaggi: 1. realizzava una semplificazione burocratica nel governo del sistema economico; 2. garantiva una maggiore libertà personale; 3. realizzava una “equalizzazione” dei redditi personali; 4. garantiva un’efficace strumentazione per un più razionale controllo della spesa pubblica. Per tutti questi motivi, secondo Meade, la proposta meritava un’attenta e seria considerazione, in quanto rendeva possibile una razionalizzazione dei metodi correnti di distribuzione del costo della sicurezza sociale.
Negli anni successivi alla sua formulazione, la proposta sarà abbandonata, per via dell’inizio dei “Gloriosi trent’anni” (1945-1975), nell’arco dei quali le economie capitalistiche, rette da sistemi politici democratici, vivranno un periodo di crescita sostenuta che consentirà la realizzazione di welfare State sempre più universali; dopo la crisi monetaria ed energetica e l’instabilità di funzionamento dei sistemi economici degli anni Settanta è insorto il problema della sostenibilità del costo dei sistemi di sicurezza sociale realizzati, anche per via del fatto che le politiche pubbliche finalizzate a regolare il mercato del lavoro, sono diventate sempre meno efficaci per il mantenimento dei livelli occupazionali.
L’occasione per riproporre il dibattito sull’istituzionalizzazione di un reddito incondizionato da corrispondersi a tutti i cittadini (o residenti) sarà offerta dall’evento che nel 1985 ha visto la formazione del Basic Income European Network (BIEN), movimento fondato alla fine della First International Conference on Basic Income, svoltasi all’Università Cattolica di Lovanio. La conferenza ha inaugurato la prima fase di riflessione sull’uso dell’espressione Reddito di Cittadinanza, ma ha anche concorso a consolidarne l’uso nell’analisi economica. La letteratura sull’argomento evidenzia che, nell’anno in cui si è svolta la conferenza, molti economisti inglesi erano ancora propensi ad usare, in luogo dell’espressione Reddito di Cittadinanza, quella di Dividendo Sociale. Alla fine della conferenza del 1986, i suggerimenti per stabilire definitivamente il nome del Network è stato, tra i molti avanzati, quello che, in considerazione della natura bilingue del Paese che ospitava la conferenza, proponeva di associare all’acronimo “BIEN” (che in lingua francese significa anche “bene”) la sua traduzione olandese in “GOED”, corrispondente all’espressione inglese “Great Order for European Dividend”. Tutti così hanno trovato la “pace dei sensi” sul come denominare il movimento a supporto dell’uso del “RdC”, inteso come strumento di politica economica attraverso il quale realizzare un sistema di sicurezza sociale alternativo a quello realizzato.

3.5. Le carenze del sistema di sicurezza sociale esistente erano la conseguenza della premessa originariamente assunta che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo al pieno impiego, cosicché una parte delle contribuzioni assicurative della forza lavoro potesse bilanciare le erogazioni previste in suo favore nelle fasi negative del ciclo economico.
Ma il sistema così come era stato concepito è divenuto largamente insufficiente rispetto alla nuova natura della realtà economica e sociale. Il welfare State è stato necessario estenderlo progressivamente per coprire le emergenze conseguenti alla crescente complessità del funzionamento dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente a seguito dell’espandersi delle varie forme di sostegno che è stato necessario erogare e dei costi burocratici originati dal suo funzionamento.
Il fallimento delle riforme e delle integrazioni, cui il sistema di sicurezza sociale è stato sottoposto dopo la sua realizzazione, ha orientato l’analisi economica ad assumere, come già si detto, che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro attraverso la liberazione dal bisogno della forza lavoro, e non quella di compensare la sua crescente insicurezza reddituale. Il modo per rendere tra loro compatibili, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale nella libertà, da un lato, e l’efficienza del sistema economico, dall’altro, è stato individuato nell’adozione di un nuovo sistema di sicurezza sociale fondato sull’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza, sotto il vincolo di poter creare un sistema di sicurezza sociale più efficiente ed ugualitario di quanto non fosse possibile realizzare con il sistema del welfare State esistente.
All’interno del nuovo sistema di sicurezza sociale, lo scopo perseguibile con l’istituzionalizzazione del “RdC” sarebbe consistito, in sostanza, nell’assicurare a tutta la forza lavoro disponibile la possibilità di scegliere tra un più alto reddito/maggior lavoro e un più basso reddito/più tempo libero; ciò nella prospettiva che l’effettuazione di questa scelta avrebbe consentito il cambiamento in positivo della percezione negativa che tradizionalmente la disoccupazione ha sempre avuto sul piano individuale, ma anche su quello sociale. Le conseguenze dell’istituzionalizzazione di un sistema di sicurezza sociale fondato sull’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza, secondo chi lo proponeva, sarebbero state diverse e tutte positive sul piano individuale e su quello sociale.
In primo luogo sarebbe stato possibile ridurre il bisogno di attuare programmi pubblici volti ad avviare “attività di cantiere”, al solo fine di creare un alto numero di posti di lavoro fittizi; ciò perché la corresponsione di un reddito incondizionato, alternativo a quello ottenibile attraverso lo svolgimento di attività precarie, avrebbe reso più responsabile, per coloro che lo avessero percepito, la decisione del come impiegare il loro tempo libero.
In secondo luogo, l’erogazione del Reddito di Cittadinanza avrebbe contribuito ad incoraggiare la propensione a svolgere un’attività lavorativa per l’autosostentamento; questa propensione, comportando per la forza lavoro un suo minore inserimento nel mercato del lavoro, avrebbe reso possibile l’innalzamento della qualità del lavoro e quella del risultato di chi lo avesse svolto.

4. Il superamento dell’etica del lavoro.

Nel dibattito sul Reddito di Cittadinanza, coloro che affrontano criticamente il superamento della disoccupazione strutturale e la dissociazione del reddito individuale dal rapporto di lavoro attraverso l’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza, tendono a trascurare il problema della necessità di pervenire al superamento dell’etica del lavoro, intesa questa come valore in sé. Per tale motivo, essi finiscono anche col trascurare i limiti sul piano degli effetti delle loro stesse proposte. Così, sin tanto che non sarà rimosso il rapporto che si presume esista tra il lavoro e la stima di sé che porta a considerare il lavoro stesso come diritto (il lavoro è un diritto, perché: “il lavoro è vita”, “il lavoro è partecipazione”, “il lavoro è autonomia”, ecc.), ne consegue che la necessità di creare posti di lavoro continui a costituire una priorità sociale ineludibile; priorità che, come si è detto, nei moderni sistemi economici si sta rivelando quasi impossibile da soddisfare.
Perché il lavoro porti la stima di sé occorre anche che esso produca beni e servizi che possano essere apprezzati dai potenziali consumatori e dai contribuenti; ne consegue, perciò, che il lavoro creato attraverso contribuzioni pubbliche solo perché si ritiene costituisca un diritto potrebbe non servire allo scopo, in quanto avvertito come controproducente. La stima di sé non è un valore che possa essere assicurato con la creazione di un diritto; se il lavoro svolto da un dato soggetto è apprezzato dagli altri, esso, necessariamente, assicurerà stima per chi lo svolge. D’altra parte, se il lavoro non è richiesto, ed è garantito solo perché considerato un diritto, il lavoro stesso non potrà assicurare necessariamente stima per chi lo svolge.
Inoltre, dal punto di vista dei rapporti sociali, la stima di sé connessa al lavoro dipende dal “tipo” di lavoro svolto. Un lavoro temporaneo, ad esempio, non può portare alcuna stima duratura per chi lo svolge; né il lavoro ha implicazioni positive per chi lo esegue allorché i disoccupati sono destinati alla produzione di “servizi socialmente utili”, cioè quando i disoccupati sono impiegati nella produzione di beni e servizi che in un momento particolare sono ritenuti necessari. Infatti, se lo scopo dei “lavori socialmente utili” è quello di impedire il disagio sociale dei disoccupati mediante l’inserimento di questi ultimi nel mercato del lavoro, occorrerebbe che i lavori socialmente utili fossero lavori stabili.
In conclusione, il lavoro come diritto non sembra “strumento” proponibile per rimuovere la disoccupazione strutturale; il lavoro come diritto, inteso come “vita”, “partecipazione” e “libertà” è un residuo ideologico proprio dei sistemi sociali ad economia di mercato afflitti da disoccupazione strutturale irreversibile e da difficoltà di crescita. Occorre, pertanto, flessibilizzare il mercato del lavoro, dissociando il lavoro dal reddito che deve essere corrisposto anche a coloro che non siano inseriti nel mercato del lavoro; ciò consentirà ai soggetti che percepiranno il Reddito di Cittadinanza di ricuperare l’autostima di sé, svolgendo attività lavorative che potranno essere intraprese grazie all’impiego del reddito ricevuto, secondo le scelte che ognuno potrà compiere tra un più alto reddito/maggior lavoro e un più basso reddito/più tempo libero. Il ricevimento di un reddito svincolato da un rapporto di lavoro costituirà, perciò, il ricupero da parte dell’intera forza lavoro della piena stima di sé, rinvenendo la sua “fonte” nella funzione economica, individuale e sociale svolta dal reddito universale e incondizionato ricevuto.
Il ruolo e la funzione del Reddito di Cittadinanza “sganciato” dagli automatismi del mercato saranno, come ripetutamente è stato affermato, strumentali al rilancio che, nel breve periodo, è possibile imprimere alle tre “istituzioni portanti” del processo di crescita e di sviluppo del sistema produttivo: settore delle famiglie, mercato e settore pubblico. Il settore delle famiglie, fruendo dell’opportunità garantita a tutti i membri di ogni famiglia dal Reddito di Cittadinanza indipendentemente dal loro status rispetto al lavoro, potrà concorrere a rendere più flessibile il mercato del levoro; con il sistema economico in espansione, sarà possibile finanziare il progresso tecnologico, aumentare la produzione e la distribuzione dei servizi sostituitivi di quelli tradizionali prodotti e consumati direttamente dalle famiglie. D’altra parte, con l’attuazione di una politica riformatrice dello Stato sociale tradizionale, il mercato del lavoro, dotato di una maggiore flessibilità, sarà anche caratterizzato da una maggiore instabilità, per cui il settore pubblico, con il Reddito di Cittadinanza, potrà garantire alle famiglie un’adeguata protezione sul piano economico e su quello sociale, contro la possibile perdita temporanea di ogni capacità di reddito da lavoro e contro molti altri rischi sociali, quali, ad esempio, la perdita di professionalità, la perdita della capacità di reinserimento nel mercato del lavoro, ecc.

5. Finanziamento del Reddito di Cittadinanza

Un problema assai dibattuto riguardo all’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza concerne il suo finanziamento. Un dei meriti di Meade è stata la dimostrazione della possibilità di istituzionalizzare l’introduzione del “RdC” attraverso il suo finanziamento con l’impiego delle risorse utilizzate per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente, oppure mediante la distribuzione di un Dividendo Sociale finanziato con le rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini.
Al riguardo, è plausibile pensare che, in Paesi come Italia, la “via” del finanziamento del “RdC” tramite la riforma ab imis dell’attuale sistema di sicurezza sociale sia destinata ad essere percepita in assoluto come impercorribile, dati i tempi che sarebbero richiesi e le criticità inevitabili che sarebbe necessario affrontare durante la transizione dall’attuale sistema di sicurezza sociale a quello nuovo, imperniato sull’introduzione del “RdC”. Più facile sembra la “via” della costituzione del Fondo Capitale Nazionale, dal quale derivare le risorse da assegnare sino alla concorrenza delle disponibilità, variabili nel tempo, del “Fondo” ai singoli cittadini. In questo caso, come reperire le risorse necessarie?
Meade ipotizzava che lo stock di capitale costituivo del “Fondo” potesse essere finanziato dai surplus della bilancia internazionale dei pagamenti dei singoli Paesi; si potrebbe però ipotizzare che il finanziamento sia realizzato coi proventi derivanti dalla vendita di determinati beni, come ad esempio avviene in Norvegia, dove la costituzione del “Fondo” è alimentato dai proventi della vendita del petrolio. In Paesi come l’Italia, dove mancano le risorse petrolifere e dove è problematico pensare di trovare risorse alternative per introdurre il Reddito di Cittadinanza attraverso uno dei due possibili modi suggerii da Meade, la soluzione del problema potrebbe essere inserito nella prospettiva delle finalità del cosiddetto “movimento benecomunista”, ovvero del movimento che si prefigge di riordinare i diritti di proprietà all’interno dei moderni sistemi industriali, senza “tagliare la gola” ai capitalisti.
L’idea di riordinare l’istituto della proprietà in funzione dello stato presente del sistema sociale ed economico nazionale può essere derivata dalla teoria economica dei diritti di proprietà, secondo la quale l’esistenza dei diritti di proprietà e la disponibilità di una loro definizione più rispondente alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici costituirebbero i fattori che consentirebbero di massimizzare la convenienza della persone a “vivere insieme”, per svolgere l’attività utile al perseguimento dei loro progetti di vita, attraverso il meccanismo di produzione, di scambio o di fruizione della ricchezza accumulata.
In questa prospettiva, l’elemento che giustificherebbe la proprietà non sarebbe tanto il valore dei beni in sé e la possibilità di una loro illimitata ed arbitraria utilizzazione, quanto l’insieme delle regole che ne dovessero sottendere la loro fruizione; i beni, perciò, sarebbero svuotati del loro mero significato di oggetti, per dare rilievo alle modalità con cui i costi ed i benefici connessi alle decisioni del loro uso sono suddivisi. In questo contesto, la proprietà privata sarebbe distinta da quella comune, proprio per il diverso grado di disponibilità a titolo individuale dei beni che costituiscono il contenuto sia dell’una forma di proprietà che dell’altra.
Sono gli stravolgimenti della vita sociale imputabili alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici che giustificherebbero una migliore ridefinizione dei diritti di proprietà; su questa nuova base, diverrebbe possibile costituire un patrimonio collettivo per il finanziamento del “Fondo” da utilizzare per finanziare il “RdC”.

6. Conclusioni

Da quanto sin qui esposto risulta chiaro come il Reddito di Cittadinanza (o Dividendo Sociale), all’origine concepito come forma di reddito sul quale fondare la costruzione di un sistema di sicurezza sociale più efficiente di quello realizzato sulle base del “Rapporto-Beveridge”, esso, successivamente, dopo la First International Conference on Basic Income, svoltasi all’Università Cattolica di Lovanio nel 1985, è stato riferito ad una sfera di applicazione molto più allargata, sino a comprendere la soluzione del problema della disoccupazione tecnologica irreversibile originata dalle modalità di funzionamento dei moderni sistemi industriali capitalistici.
Al Reddito di Cittadinanza, o Dividendo Sociale, o Reddito di Base, oltre che un significato economico, è stata assegnata la funzione di risolvere sul piano sociale i problemi che la sperimentazione del welfare State ha mostrato di non poter risolvere, quali, in particolare, quello di conservare ai lavoratori che hanno perso la stabilità occupazionale la stima di sé e quello di poter garantire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro.
Tali obiettivi, con il Reddito di Cittadinanza diventano perseguibili, senza la necessità di realizzare rivoluzioni sociali, ma solo attraverso una responsabile politica riformista, idonea a riproporre, su basi nuove, l’organizzazione dello stato di sicurezza sociale vigente, a porre definitivamente fine all’uso di provvedimenti-tampone per rimediare alle situazioni sociali negative causate dall’insorgenza di possibili crisi economiche, ma anche di promuovere lo svolgimento, da parte dei percettori del Reddito di Cittadinanza, l’avvio di possibili attività produttive autonome gratificanti, perché la fruizione del loro risultato è affrancato dalla natura di “prestazione caritatevole” dei sussidi di sopravvivenza corrisposti dall’assistenza statale.
—————————-
Riferimenti bibliografici

Elster J. (1987), La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico, Feltrinelli, Milano.
Ferry J.M. (1996), L’allocation universelle. Pour un revenu de citoyemmeté, Les Éditioms du Cerf, Paris.
George H. (1963), Progresso e libertà, Robert Schalkenbach Foundation, New York.
Jordan B. (1992), “Basic incombe and Common Good”, in Van Parijs P. (1992).
Mantegna A., Tiddi A. (2000), Reddito di cittadinanza. Verso la società del non lavoro, Castelvecchi, Roma.
Meade J.E. (1972), “Poverty in the Welfare State”, in Oxford Economic Papers”, vol. XXIV.
Meade J.E. (1948), Planning and the Price Mechanism: The Liberal-Socialist Solution, Routledge, London.
Morley-Fletcher E. (1998), “Opening Adress”, Discorso di apertura al VII Congresso internazionale sul reddito di cittadinanza, 10-12 settembre, Amsterdam.
Offe C. (1999), “Il reddito di cittadinanza: una strategia inevitabile per contrastare la disoccupazione”, in Stato e Mercato, n. 56.
Purdy D. (1990), “La fattibilità politica di una società a reddito di base”, in Democrazia e Diritto, vol. XXX.
Purdy D. (1994), “Citizenship, Basic Incombe and the State”, in The New Left Review, n. 208.
Rhys-Williams J.E. (1943), Something to Look Forward to; a Suggestion for a New Social Contract, Macdonald, London.
Standing G. (1986), Unemployment and Labour Market Flexibility: the United Kingdom, International Labour Office, Geneva.
Toso S. (2016), Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il Mulino, Bologna.
Van Donselar G. (2009), The Right to Exploit. Parasitism, Scarsity, Basic Incombe, Oxford University Press, Oxford.
Van Parijs P. (1992), A cura di, Arguing for Basic Incombe. Ethical Fondations for a Radical Reform, Verso, Lomdon.
Van Parijs (1997), Real Freedom for All; What (if Anything) Can Justify Capitalism, Oxford University Press, Oxford.
Van Parijs P., Vanderborght Y. (2006), Il reddito Minimo universale, Università Bocconi Editrice, Milano.