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Il Reddito di Cittadinanza non è un provvedimento-tampone contro la povertà

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di Gianfranco Sabattini
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costat-logo-stef-p-c_2Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria sta organizzando un convegno sul lavoro, da tenersi nella prima metà di ottobre. Questo scritto, un saggio breve, del Prof. Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano, già apparso sul n. 6/2017 di Mondoperaio, costituisce un valido contributo a questa problematica.
(Su Democraziaoggi e su Aladinews)
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1. Premessa

Il dibattito politico che ha preceduto l’introduzione in Italia del “Reddito d’inclusione”, inteso come provvedimento utile per assicurare il sostegno economico in modo progressivo a tutte le famiglie che si trovino al di sotto della soglia di povertà assoluta, ha rilanciato la “campagna” di disinformazione sul Reddito di Cittadinanza (“RdC”), spargendo su quest’ultima forma di reddito valutazioni e giudizi che sono del tutto estranei al discorso degli economisti che ne hanno definito e formalizzato in termini compiuti il concetto, collocandolo all’interno di un’analisi coerente con i principi della teoria economica. Esempi di disinformazione recente sono offerti da un articolo di Raoul Kirchmayer, apparso su L’Espresso del 30 aprile scorso, dal titolo “Una trappola contro i poveri. Non fidatevi del reddito di cittadinanza: è la vittoria culturale del neoliberismo”, e dall’intervista concessa dal tedesco Henning Meyer, docente alla London School of Economics, a Carlo Bordoni, il cui testo è apparso sul periodico domenicale del Corriere delle Sera, “La Lettura”, col titolo “Il reddito garantito umilia le persone”.
Kirchmayer afferma d’aver sentito parlare per la prima volta del “RdC” dal filosofo Jean-Mark Ferry, uno degli studiosi che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha contribuito a diffonderne la conoscenza e l’attuazione. Il nesso che si sosteneva esistesse tra la cittadinanza e una base economica garantita dall’introduzione del “RdC” è sembrata a Kirchmayer “una forma di protezione sociale capace di mettere al riparo dalle incertezze di quella che, di lì a poco, sarebbe stata chiamata ‘società del rischio’”.
Il nesso, perciò, non evocava nessuna correlazione del “RdC” con la povertà, della quale, tra l’altro, non si parlava; questo nesso, secondo Kirchmayer, è cominciato a comparire dopo il 2007/2008. Con la crisi, sarebbe mutato il senso e il significato originario, come utopia o come proposta di politica del “RdC”. Questo avrebbe cessato di rappresentare un progetto d’inclusione della democrazia e di ampliamento dei diritti democratici materiali dei cittadini, per diventare “un intervento-tampone per limitare la sofferenza dei ceti più attaccati dalla crisi”. La crisi, secondo Kirchmayer, avrebbe comportato, in merito al senso del “RdC”, un suo spostamento “nella produzione discorsiva pubblica”, che sarebbe valso ad attribuirgli un carattere non più utopico e progettuale; uno spostamento, cioè, che lo avrebbe “fatto entrare da qualche anno a questa parte e con denominazioni diverse, nell’agenda politica nazionale di movimenti e partiti”.
Il discorso critico di Kirchmayer è condivisibile; ciò che non è condivisibile è la sua implicita affermazione, secondo la quale, a causa dell’”incompetenza” dei movimenti e dei partiti politici, il concetto di Reddito di Cittadinanza possa aver perso il senso e il significato che gli sono stati attribuiti originariamente. Quando, però, il “RdC” sia correttamente inserito nella “cornice teorica” grazie alla quale coloro che l’hanno elaborata hanno dotato il concetto di senso e di significato univoci, nessun movimento o partito politico può stravolgerne il significato, in funzione di esigenze politiche contingenti.
Più grave è la disinformazione sul “RdC” che origina dalle considerazioni svolte da Henning Meyer nell’intervista concessa a Bordoni. Egli mette addirittura in dubbio l’efficacia del “RdC” contro la disoccupazione, facendo pensare che la sua introduzione possa portare allo “smantellamento del sistema previdenziale, sostituito da misure minime generalizzate”, destinate a ridursi “ad una falsa democratizzazione”, in quanto il Reddito di Cittadinanza “si risolverebbe in una falsa democratizzazione, privilegiando le classi che non hanno bisogno di sostegno”. Inoltre, Meyer nutre dubbi sull’efficacia del “RdC” come strumento utile a contrastare la disoccupazione tecnologica. Ciò si verificherebbe per diversi motivi: intanto, perché il “RdC” ridurrebbe il lavoro a semplice fonte di introiti, con la conseguenza di radicare l’ignoranza circa la sua natura di fattore di autostima; inoltre, perché il ricevimento di un salario sociale indurrebbe la forza lavoro a non riuscire più ad inserirsi nel mondo del lavoro, a causa della rapida obsolescenza delle competenze professionali, provocata dalle trasformazioni tecnologiche dei moderni sistemi economici.
In luogo di erogare un Reddito di Cittadinanza, i governi dovrebbero combattere la disoccupazione, comportandosi keynesianamente come “datori di lavori di ultima istanza”; in questo modo, a parere di Meyer, “i governi avrebbero uno strumento aggiuntivo per incrementare le attività socialmente utili”; ma anche “per finanziare lo sport e altre attività culturali a livello locale, rafforzando la coesione sociale delle comunità”. Si potrebbe anche aggiungere, sebbene Meyer manchi ricordarlo, il possibile ampliamento del servizio civile, secondo le forme e le modalità indicate dall’attuale Ministro della difesa italiano.
Concludendo la sua critica riguardo al “RdC”, contraddittoriamente Meyer, dopo aver escluso che le risorse necessarie per combattere la disoccupazione, attraverso lo Stato datore di lavoro di “ultima istanza”, possano essere recuperate con un “ripensamento” del sistema fiscale, non ha avuto altro di meglio che proporre, per il futuro, la “democratizzazione” del capitale accumulato, estendendo al maggior numero possibile di cittadini le quote di partecipazione alla sua proprietà.
Le osservazioni critiche di Meyer sorprendono, non solo per la sua rinnovata fiducia nel sistema del welfare State, che egli considera ancora come strumento efficace per risolvere il problema della disoccupazione tecnologica originata dai moderni sistemi industriali; ma anche, e soprattutto, perché mostra di ignorare il contributo di un suo illustre predecessore alla London School of Economics, James Edward Meade, il cui contributo pionieristico alla definizione e giustificazione del Reddito di Cittadinanza resta un punto di riferimento ineludibile, come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, per capirne il senso sul piano sociale, oltre che su quello economico.

2. Reddito di Cittadina e disoccupazione strutturale

Allo stato attuale, una cosa è certa: una schiera sempre più espansa di analisti di sinistra, di centro e di destra va sostenendo da tempo che la logica capitalistica di funzionamento dei moderni sistemi produttivi non è più in grado di “creare” posti di lavoro, né di “conservare” i livelli occupazionali acquisiti. Quindi, gli attuali sistemi industrializzati, anziché soddisfare gli stati di bisogno delle rispettive società civili (funzione, questa, che dovrebbe valere a giustificarli e a legittimarli socialmente) riversano su di esse l’”inconveniente” di produrre crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Di fronte a questa situazione sopraggiunge l’incombente e fatidica domanda: che fare allora?
Proprio per dare una risposta all’interrogativo, è maturata l’idea che occorresse creare, all’interno dei sistemi sociali che soffrono della crescente disoccupazione strutturale irreversibile, condizioni (fuori dalle logiche rivoluzionarie del passato) tali da consentire, non solo il sostentamento del nuovo “esercito industriale di riserva” senza lavoro, ma anche l’autoproduzione, resa possibile dall’erogazione del “RdC”, considerato come fonte alternativa di nuove opportunità di lavoro.
Affrontando la soluzione del problema della disoccupazione, insistendo sul valore psicologico del lavoro e trascurando la natura strutturale irreversibile della disoccupazione, si manca di considerare il crescente e continuo affievolimento, se non la totale estinzione, dell’etica del lavoro; in tal modo, ci si preclude la comprensione del come gli esiti negativi della disoccupazione strutturale possano essere rimossi, ricorrendo ad una forma di reddito incondizionato, qual è il Reddito di Cittadinanza, alternativo a quello di mercato. Sin tanto che non sarà rimosso il rapporto che si presume esista tra il lavoro e la stima di sé, che porta a considerare il lavoro stesso come un valore esistenziale dal quale non si possa prescindere (perché: “il lavoro è vita”, è “partecipazione”, è “autonomia”, ecc.), la necessità di creare occupazione continuerà a costituire una priorità sociale ineludibile, ma irrisolvibile in presenza delle attuali regole di funzionamento delle economie di mercato integrate nell’economia mondiale.
Perché il lavoro possa portare la stima di sé occorre che esso produca beni e servizi “apprezzati” dai potenziali consumatori e dai contribuenti, quando sono questi a doverlo finanziare; ne consegue, perciò, che il lavoro creato attraverso contribuzioni pubbliche, solo perché si ritiene costituisca un valore in sé, potrebbe non servire allo scopo. Ciò può accadere, se il lavoro fosse avvertito come controproducente, sia da chi fruisce del prodotto finale (consumatore), sia da chi ne finanzia la produzione (contribuente).
La stima di sé del lavoratore non è un valore che possa essere presidiato con il convincimento che esso esista o, peggio, che esso debba esistere. Se il lavoro svolto da un lavoratore è “apprezzato” dagli altri, esso sarà richiesto e, necessariamente, assicurerà la stima di sé a chi lo svolge; d’altra parte, se il lavoro non è richiesto, esso non potrà assicurare alcuna stima a chi lo esercita, ma solo uno stato di indigenza insostenibile e di grave frustrazione psicologica.
Inoltre, dal punto di vista dei rapporti sociali, la stima di sé, tratta da chi svolge un lavoro, dipende anche dal “tipo” di lavoro svolto. Un lavoro temporaneo, ad esempio, non può assicurare alcuna stima, in quanto coloro che lo eseguono sono occupati solo per un tempo limitato. Se, nelle condizioni attuali, lo scopo del lavoro temporaneo fosse quello di impedire l’autoafflizione dei disoccupati strutturali, occorrerebbe che esso fosse stabile e non precario. In conclusione, il lavoro, supposto dotato di valore in sé, nelle attuali economie industriali avanzate non è assunzione utile alla rimozione della disoccupazione strutturale e, con questa, dell’indigenza; il lavoro inteso come “vita”, “dignità”, “partecipazione” e “libertà” è un residuo biblico, che si è tradotto in un principio comportamentale individualistico ed arcaico dell’uomo, “condannato” a produrre ciò di cui ha bisogno per sopravvivere, ma non più idoneo, nei moderni sistemi industriali, a garantire stabilità economica e sociale, in presenza di una giustizia distributiva condivisa. Allora, il problema della giustificazione dell’erogazione di un reddito svincolato dallo svolgimento di un lavoro deve essere spostato sul piano sociale.

3. Giustificazione economico-sociale del Reddito di Cittadinanza

3.1. L’esperienza del modo di funzionare dei moderni sistemi industriali ha da tempo evidenziato che, quando la gestione del sistema economico è lasciata all’azione discrezionale della politica, per il perseguimento di scopi nobili, come l’incremento o il mantenimento dei livelli occupativi, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, è resa possibile una manipolazione dei flussi di reddito, tale da creare uno stock di capitale sociale negativo (somma dei disavanzi correnti del settore pubblico) a spese dei cittadini; è questa la ragione per cui si impone oggi, all’interno delle società industriali avanzate, in particolare nei sistemi, come quello italiano, che da tempo hanno visto deteriorarsi i propri “fondamentali” economici, la necessità di una riforma radicale del welfare esistente.
Prima del secondo conflitto mondiale, John Maynard Keynes affermava che gli Stati autoritari dell’epoca risolvevano il problema della disoccupazione a spese dell’efficienza e della libertà. Keynes, tuttavia, era certo che il mondo non avrebbe tollerato a lungo la mancanza di libertà, ma anche che non avrebbe sopportato la “piaga” della disoccupazione, imputabile alle ingiustificabili modalità di funzionamento delle economie capitalistiche. L’economista di Cambridge era anche certo che, abbattute le dittature, una corretta soluzione del problema della disoccupazione poteva essere trovata, ricuperando sia l’efficienza che la libertà.
Dopo il secondo conflitto mondiale, però, il mercato del lavoro ha subito un cambiamento nelle forme d’uso della forza lavoro, originando una diffusa disoccupazione sempre più difficile da “governare”, sino a diventare strutturale, mettendo progressivamente in crisi il sistema di sicurezza sociale, basato sul modello elaborato nel Regno Unito, nel 1942, da William Henry Beveridge. Questo sistema aveva tre funzioni: fornire alla forza lavoro disoccupata la garanzia di un reddito corrisposto sotto forma di sussidi a fronte di contribuzioni assicurative; garantire un reddito alle categorie sociali che, per qualsiasi motivo, avessero avuto bisogno di un’assistenza temporanea, nel caso in cui esse non avessero avuto il diritto ad alcun sussidio; assicurare al sistema economico servizi regolativi e di supporto all’occupazione ed al risparmio, attraverso la realizzazione delle condizioni che davano titolo a ricevere i sussidi. L’obiettivo fondamentale del welfare State è stato, sin dal suo inizio, univocamente determinato; il sistema è però “fallito”, a causa delle perdita della flessibilità del mercato del lavoro.
Il sistema di sicurezza sociale realizzato era basato sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo ad esso, cosicché le contribuzioni della forza lavoro bilanciassero le erogazioni previste in suo favore. Ma il sistema, così come era stato concepito all’origine, è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale. Ciò perché il welfare State è stato progressivamente esteso per coprire le emergenze conseguenti all’aumentata complessità dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente, a seguito dell’espandersi delle varie forme di sussidio che è stato necessario corrispondere e dei costi burocratici per le “prove dei mezzi” (le prove cioè di trovarsi realmente in stato di bisogno) alle quali i beneficiari dei sussidi dovevano sottoporsi.

3.2. Il fallimento delle riforme e delle integrazioni, cui il sistema di sicurezza sociale è stato sottoposto dopo la sua realizzazione, ha orientato l’analisi economica ad assumere che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro e non quello di compensare la crescente insicurezza reddituale della forza lavoro. Il modo per rendere tra loro compatibili, in regime di libertà, da un lato, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale, e, dall’altro, l’efficienza del sistema economico, è stato individuato nell’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza.
Si tratta di una forma di reddito erogato incondizionatamente a favore di tutti e finanziato con le medesime risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale, l’attuale welfare; oppure mediante la distribuzione di un Dividendo Sociale, finanziato con le risorse derivanti dalla vendita dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato, mediante la costituzione di un “Fondo-capitale nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini. Era questa l’idea originaria con cui James Edward Meade, docente alla London School of Economics e alla Cambridge University e insignito nel 1977 del premio Nobel per l’economia, parlando di Dividendo Sociale, ha introdotto nell’analisi economica il problema dell’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza.
Il Dividendo Sociale, doveva essere corrisposto di diritto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico. Il suo fine ultimo doveva essere quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che avesse riconosciuto ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad uno standard minimo di vita, in presenza di una giustizia sociale più condivisa; un sistema di sicurezza, cioè, che avesse consentito di raggiungere, sia pure indirettamente, tale fine, in termini più efficienti ed ugualitari di quanto non fosse stato possibile con qualsiasi altro sistema alternativo.

3.3. Meade ha sempre preferito parlare di Dividendo Sociale, anziché di Reddito di Cittadinanza; quest’ultima espressione sarà introdotta successivamente, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, riproponendo significato ed implicazioni del concetto che Meade aveva mutuato dal lavoro di Lady Juliet Rhys-Williams, autrice nel 1943 di un libro dal titolo “Something to Look Forward Too” (Non vedere l’ora di fare qualcosa di nuovo), in cui veniva proposto un “Nuovo Contratto Sociale”, implicante la corresponsione incondizionata e universale di un reddito sociale alternativo a quello previsto dal Rapporto-Beveridge sulla sicurezza sociale. Nel 1948, in “Planning and the Price Mechanism”, James Meade ha presentato l’dea di Lady Rhys-Williams come una stimolante proposta per una riforma strutturale del modello di sicurezza sociale istituzionalizzato nel Regno Unito alcuni anni prima.
Meade ha riassunto come segue la proposta di Lady Juliet Rhys-Williams: ella – ha affermato il Nobel inglese – ha suggerito la corresponsione di un pagamento in moneta (o Dividendo Sociale) ad ogni singolo cittadino, uomo, donna o bambino. La somma pagata deve sostituire tutti i benefici sociali corrisposti sulla base del sistema di sicurezza sociale esistente, quali i sussidi ai disoccupati, il pagamento delle pensioni ai lavoratori collocati a riposo per raggiunti limiti di età, i sussidi per malattia e quelli corrisposti ai minori di età. Ogni uomo, donna o minore deve percepite il Dividendo Sociale, qualunque sia lo stato di salute, sia in caso di occupazione che di disoccupazione, e indipendentemente dall’età. Non deve essere prevista nessuna prova dei mezzi, né devono esistere dei test per provare che i soggetti destinatari del Dividendo Sociale sono impegnati nella ricerca di lavoro; né essi sono obbligati a dimostrare di essere realmente ammalati. I medici possono cessare di rilasciare certificati di malattia e procedere, quindi, a tempo pieno nella cura dei loro ammalati. Gli uffici per l’occupazione possono cessare di preoccuparsi dei disoccupati e impegnarsi maggiormente nell’avviare verso nuove opportunità occupazionali chi si trova involontariamente ad essere disoccupato. Conclusivamente, il Ministero della Sicurezza Sociale può addirittura essere chiuso. I sussidi personali universali concessi incondizionatamente a tutti i cittadini possono prendere il posto dell’intero apparato del sistema di sicurezza sociale esistente.

3.4. La proposta di Lady Juliet Rhys-Williams, secondo Meade, era da condividersi e da preferirsi al sistema di sicurezza sociale costruito sulla base del Rapporto-Beveridge, perché presentava quattro grandi vantaggi: 1. realizzava una semplificazione burocratica nel governo del sistema economico; 2. garantiva una maggiore libertà personale; 3. consentiva una “equalizzazione” dei redditi personali; 4. rappresentava un’efficace strumentazione per un più razionale controllo della spesa pubblica. Per tutti questi motivi, secondo Meade, la proposta meritava un’attenta e seria considerazione, in quanto rendeva possibile una razionalizzazione dei metodi correnti di distribuzione del costo della sicurezza sociale.
Negli anni successivi alla sua formulazione, la proposta sarà abbandonata, per via dell’inizio dei “Gloriosi trent’anni” (1945-1975), nell’arco dei quali le economie capitalistiche, rette da sistemi politici democratici, vivranno un periodo di crescita sostenuta che consentirà la realizzazione di welfare State sempre più universali; dopo la crisi monetaria ed energetica e l’instabilità di funzionamento dei sistemi economici degli anni Settanta, è insorto il problema della sostenibilità del costo dei sistemi di sicurezza sociale, anche per via del fatto che le politiche pubbliche finalizzate a regolare il mercato del lavoro sono diventate sempre meno efficaci per il mantenimento dei livelli occupazionali.
L’occasione per riproporre il dibattito sull’istituzionalizzazione di un reddito incondizionato da corrispondersi a tutti i cittadini (o residenti) sarà offerta dall’evento che nel 1985 ha visto la formazione del Basic Income European Network (BIEN), movimento fondato con la First International Conference on Basic Income, svoltasi all’Università Cattolica di Lovanio. La conferenza ha inaugurato la prima fase di riflessione sull’uso dell’espressione Reddito di Cittadinanza, ma ha anche concorso a consolidarne l’uso nell’analisi economica. La letteratura sull’argomento evidenzia che, nell’anno in cui si è svolta la conferenza, molti economisti inglesi erano ancora propensi ad usare, in luogo dell’espressione Reddito di Cittadinanza, quella di Dividendo Sociale. Alla fine della conferenza del 1986, i suggerimenti per stabilire definitivamente il nome del Network è stato, tra i molti avanzati, quello che, in considerazione della natura bilingue del Paese che ospitava la conferenza, proponeva di associare all’acronimo “BIEN” (che in lingua francese significa anche “bene”) la sua traduzione olandese in “GOED”, corrispondente all’espressione inglese “Great Order for European Dividend”. Tutti così hanno trovato la “pace dei sensi” sul come denominare il movimento a supporto dell’uso del “RdC”, inteso come strumento di politica economica attraverso il quale realizzare un sistema di sicurezza sociale alternativo a quello fino ad allora realizzato.

3.5. Le carenze del sistema di sicurezza sociale esistente erano la conseguenza della premessa originariamente assunta, che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego o ad un livello molto prossimo al pieno impiego, cosicché una parte delle contribuzioni assicurative della forza lavoro potesse bilanciare le erogazioni previste in suo favore nelle fasi negative del ciclo economico.
Ma il sistema, così come era stato concepito, è divenuto largamente insufficiente rispetto alla nuova natura della realtà economica e sociale. È stato necessario estendere progressivamente il welfare State, per coprire le emergenze conseguenti alla crescente complessità del funzionamento dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente, a seguito dell’espandersi delle varie forme di sostegno che è stato necessario erogare e dei costi burocratici originati dal suo funzionamento.
Il fallimento delle riforme e delle integrazioni, cui il sistema di sicurezza sociale è stato sottoposto dopo la sua realizzazione, ha orientato l’analisi economica ad assumere, come già si detto, che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro, attraverso la liberazione dal bisogno della forza lavoro, e non quella di compensare la sua crescente insicurezza reddituale. Il modo per rendere tra loro compatibili la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale nella libertà, da un lato, e l’efficienza del sistema economico, dall’altro, è stato individuato, come già si è detto, nell’adozione di un nuovo sistema di sicurezza sociale fondato sull’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza, sotto il vincolo di poter creare un sistema di sicurezza sociale più efficiente ed ugualitario di quanto non fosse possibile realizzare con il sistema del welfare State esistente.
All’interno del nuovo sistema di sicurezza sociale, lo scopo perseguibile con l’istituzionalizzazione del “RdC” sarebbe consistito, in sostanza, nell’assicurare a tutta la forza lavoro disponibile la possibilità di scegliere tra un più alto reddito/maggior lavoro e un più basso reddito/più tempo libero; ciò nella prospettiva che l’effettuazione di questa scelta avrebbe consentito il cambiamento in positivo della percezione negativa che tradizionalmente la disoccupazione ha sempre avuto sul piano individuale, ma anche su quello sociale. Le conseguenze dell’istituzionalizzazione di un sistema di sicurezza sociale fondato sull’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza, secondo chi lo proponeva, sarebbero state diverse e tutte positive sul piano individuale e su quello sociale.
In primo luogo sarebbe stato possibile ridurre il bisogno di attuare programmi pubblici volti ad avviare “attività di cantiere”, al solo fine di creare un alto numero di posti di lavoro fittizi; ciò perché la corresponsione di un reddito incondizionato, alternativo a quello ottenibile attraverso lo svolgimento di attività precarie, avrebbe reso più responsabile, per coloro che lo avessero percepito, la decisione del come impiegare il loro tempo libero.
In secondo luogo, l’erogazione del Reddito di Cittadinanza avrebbe contribuito ad incoraggiare la propensione a svolgere un’attività lavorativa per l’autosostentamento; questa propensione, comportando per la forza lavoro una minore necessità di inserirsi o di reinserirsi nel mercato del lavoro, avrebbe reso possibile l’innalzamento della qualità del lavoro e quella del risultato di chi lo avesse svolto.

4. Il superamento dell’etica del lavoro.

Nel dibattito sul Reddito di Cittadinanza, coloro che attraverso la sua istituzionalizzazione affrontano criticamente il superamento della disoccupazione strutturale e la dissociazione del reddito individuale dal rapporto di lavoro tendono a trascurare il problema della necessità di pervenire al superamento dell’etica del lavoro, intesa come valore in sé. Per tale motivo, sul piano degli effetti, essi finiscono anche col trascurare i limiti delle loro stesse proposte. Così, sin tanto che non sarà rimosso il rapporto che si presume esista tra il lavoro e la stima di sé, che porta a considerare il lavoro stesso come diritto (perché: “il lavoro è vita”, “partecipazione”, “autonomia”, ecc.), la necessità di creare posti di lavoro continuerà a costituire una priorità sociale ineludibile; priorità che, come si è detto, si sta rivelando quasi impossibile da soddisfare nei moderni sistemi economici.
Perché il lavoro porti la stima di sé occorre anche che esso produca beni e servizi apprezzati dai potenziali consumatori e dai contribuenti; ne consegue, perciò, che il lavoro creato attraverso contribuzioni pubbliche, solo perché si ritiene costituisca un diritto, potrebbe non servire allo scopo, in quanto avvertito come controproducente. La stima di sé non è un valore che possa essere assicurato con la creazione di un diritto; se il lavoro svolto da un dato soggetto è apprezzato dagli altri, esso, necessariamente, assicurerà stima per chi lo svolge. D’altra parte, se il lavoro non è richiesto, ed è garantito solo perché considerato un diritto, il lavoro stesso non potrà assicurare necessariamente stima per chi lo svolge.
Inoltre, dal punto di vista dei rapporti sociali, la stima di sé connessa al lavoro dipende dal “tipo” di lavoro svolto. Un lavoro temporaneo, ad esempio, non può portare alcuna stima duratura per chi lo svolge; né il lavoro ha implicazioni positive, per chi lo esegue allorché i disoccupati sono destinati alla produzione di “servizi socialmente utili” ritenuti tali in un momento particolare. Se lo scopo dei “lavori socialmente utili” è quello di impedire il disagio sociale dei disoccupati, mediante il loro inserimento nel mercato del lavoro, occorrerebbe che i lavori socialmente utili fossero stabili.
In conclusione, il lavoro come diritto non sembra “strumento” proponibile per rimuovere la disoccupazione strutturale; il lavoro come diritto, inteso come “vita”, “partecipazione” e “libertà”, è un residuo ideologico proprio dei sistemi sociali ad economia di mercato afflitti da disoccupazione strutturale irreversibile e da difficoltà di crescita. Occorre pertanto flessibilizzare il mercato del lavoro, dissociandolo dal reddito che deve essere corrisposto anche a coloro che non siano inseriti in tale mercato; ciò consentirà ai soggetti che percepiranno il Reddito di Cittadinanza di recuperare l’autostima, svolgendo attività lavorative che potranno essere intraprese grazie all’impiego del reddito ricevuto, secondo le scelte che ognuno potrà compiere tra un più alto reddito/maggior lavoro e un più basso reddito/più tempo libero. Il ricevimento di un reddito svincolato da un rapporto di lavoro costituirà, perciò, il ricupero della piena stima di sé da parte dell’intera forza lavoro, rinvenendo la sua “fonte” nella funzione economica, individuale e sociale svolta dal reddito universale e incondizionato ricevuto.
Il ruolo e la funzione del Reddito di Cittadinanza, “sganciato” dagli automatismi del mercato, saranno, come ripetutamente è stato affermato, strumentali al rilancio che, nel breve periodo, è possibile imprimere alle tre “istituzioni portanti” dei processi di crescita e di sviluppo dei sistemi produttivi: settore delle famiglie, mercato e settore pubblico. Il settore delle famiglie, fruendo dell’opportunità garantita a tutti i membri di ogni famiglia dal Reddito di Cittadinanza indipendentemente dal loro status lavorativo, potrà concorrere a rendere più flessibile il mercato del lavoro; con il sistema economico in espansione, sarà possibile finanziare il progresso tecnologico, aumentare la produzione e la distribuzione dei servizi sostituitivi di quelli prodotti e consumati direttamente dalle famiglie. D’altra parte, con l’attuazione di una politica riformatrice dello Stato sociale tradizionale, il mercato del lavoro, dotato di una maggiore flessibilità, sarà anche caratterizzato da una maggiore instabilità, per cui il settore pubblico, con il Reddito di Cittadinanza, potrà garantire alle famiglie un’adeguata protezione sul piano economico e su quello sociale, in presenza di una perdita temporanea di ogni capacità di reddito da lavoro e contro molti altri rischi sociali, quali, ad esempio, lo scadimento della professionalità, l’incapacità di reinserimento nel mercato del lavoro, ecc.

5. Finanziamento del Reddito di Cittadinanza

Un problema assai dibattuto riguardo all’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza concerne il suo finanziamento. Uno dei meriti di Meade è stata la dimostrazione della possibilità di istituzionalizzare l’introduzione del “RdC”, attraverso il suo finanziamento con le risorse utilizzate per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente; in alternativa; Meade ha anche ipotizzato la distribuzione di un Dividendo Sociale, finanziato con le rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini.
Al riguardo, è plausibile pensare che, in Paesi come Italia, la “via” del finanziamento del “RdC” tramite la riforma ab imis dell’attuale sistema di sicurezza sociale sia destinata ad essere percepita in assoluto come impercorribile, dati i tempi che sarebbero richiesti e le criticità inevitabili da affrontare durante la transizione dall’attuale sistema di sicurezza sociale a quello nuovo, imperniato sull’introduzione del “RdC”. Più facile sembra la “via” della costituzione del Fondo Capitale Nazionale, dal quale derivare le risorse da assegnare sino alla concorrenza delle disponibilità, variabili nel tempo, del “Fondo” ai singoli cittadini. In questo caso, come reperire le risorse necessarie?
Meade ipotizzava che lo stock di capitale costituivo del “Fondo” potesse essere finanziato dai surplus della bilancia internazionale dei pagamenti dei singoli Paesi; sarebbe però possibile anche un finanziamento realizzato grazie alla vendita di determinati beni, come ad esempio avviene in Norvegia, dove la costituzione del “Fondo” è alimentato dai proventi della vendita del petrolio. In Paesi come l’Italia, dove mancano le risorse petrolifere e dove è problematico pensare di trovare risorse alternative per introdurre il Reddito di Cittadinanza attraverso uno dei due possibili modi suggeriti da Meade, la soluzione del problema potrebbe essere inserita nella prospettiva di un riordino dei diritti di proprietà, senza eccessivi stravolgimento degli istituti giuridici esistenti.
L’idea di riordinare l’istituto della proprietà, in funzione dello stato presente del sistema sociale ed economico nazionale, può essere derivata dalla teoria economica dei diritti di proprietà, secondo la quale l’esistenza di tali diritti e la disponibilità di una loro definizione più rispondente alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici consentirebbero di massimizzare la convenienza della persone a “vivere insieme”, per svolgere l’attività utile al perseguimento dei loro progetti di vita, attraverso il meccanismo di produzione, di scambio o di fruizione della ricchezza accumulata.
In questa prospettiva, l’elemento che giustificherebbe la proprietà non sarebbe tanto il valore dei beni in sé e la possibilità di una loro illimitata od arbitraria utilizzazione, quanto l’insieme delle regole che ne dovessero sottendere la fruizione; i beni, perciò, sarebbero svuotati del loro mero significato di oggetti, per dare rilievo alle modalità con cui i costi ed i benefici connessi alle decisioni del loro uso sono suddivisi. In questo contesto, la proprietà privata sarebbe distinta da quella comune, proprio per il diverso grado di disponibilità a titolo individuale dei beni che costituiscono il contenuto sia dell’una che dell’altra forma di proprietà.
Gli stravolgimenti della vita sociale, imputabili alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici, giustificherebbero una migliore ridefinizione dei diritti di proprietà; su questa nuova base, diverrebbe possibile costituire un patrimonio collettivo di proprietà comune per il finanziamento del “Fondo” da utilizzare per finanziare il “RdC”.

6. Conclusioni

Da quanto sin qui esposto risulta chiaro come il Reddito di Cittadinanza (o Dividendo Sociale), fosse all’origine concepito come forma di reddito sul quale fondare la costruzione di un sistema di sicurezza sociale più efficiente di quello realizzato sulla base del “Rapporto-Beveridge”. Successivamente, dopo la “First International Conference on Basic Income”, svoltasi all’Università Cattolica di Lovanio nel 1985, esso è stato riferito ad una sfera di applicazione molto più allargata, sino a comprendere la soluzione del problema della disoccupazione tecnologica irreversibile, originata dalle modalità di funzionamento dei moderni sistemi industriali capitalistici.
Al Reddito di Cittadinanza, o Dividendo Sociale, o Reddito di Base, oltre che un significato economico, è stata assegnata la funzione di risolvere sul piano sociale i problemi che la sperimentazione del welfare State ha mostrato di non poter risolvere; in particolare, quello di conservare ai lavoratori che hanno perso la stabilità occupazionale la stima di sé e quello di poter garantire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro.
Con il Reddito di Cittadinanza, tali obiettivi diventano perseguibili, senza la necessità di realizzare rivoluzioni sociali, ma solo attraverso una responsabile politica riformista, idonea a riproporre, su basi nuove, l’organizzazione dello stato di sicurezza sociale vigente, ponendo definitivamente fine all’uso di provvedimenti-tampone, per rimediare alle situazioni sociali negative causate dall’insorgenza di possibili crisi economiche. In tal modo, inoltre, si promuoverebbe l’avvio, da parte dei percettori del Reddito di Cittadinanza, di possibili gratificanti attività produttive autonome, in virtù del fatto che la fruizione del risultato del loro esercizio sarebbe affrancata dalla natura di “prestazione caritatevole”, propria dei sussidi di sopravvivenza corrisposti dall’assistenza statale.

Riferimenti bibliografici

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IL LAVORO CHE VOGLIAMO: LIBERO, CREATIVO, PARTECIPATIVO E SOLIDALE

LAVORO
lampada aladin micromicroCome Aladinews siamo da sempre impegnati sulla tematica del lavoro. Nella contingenza abbiamo due scadenze a cui ci riferiamo per contribuire a dare un nostro specifico contributo: la prima riguarda il Convegno “Lavorare meno Lavorare tutti” (per ora è questo il titolo), organizzato dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria, attraverso un apposito Gruppo di Lavoro, che si terrà nei giorni di venerdì 22 (sera) e sabato 23 (mattina e sera) settembre; la seconda riguarda la 48a Settimana dei Cattolici italiani, che si terrà a Cagliari nei giorni dal 27 al 29 ottobre p.v., con un titolo altrettanto suggestivo, suggerito dalla stesso papa Francesco “Il lavoro che vogliano libero, creativo, partecipativo e solidale”. Il nostro impegno si concretizza nel fornire documentazione di supporto alle tematiche del lavoro, prodotta direttamente dai nostri redattori/collaboratori o ripresa da riviste (cartacee e online) che riteniamo utile a chiarificare i termini del dibattito e diffondere buone pratiche che aiutino a farci percorrere nuove (o anche vecchie purché buone) strade per rafforzare il lavoro esistente e crearne di nuovo. Ancora, sarà nostra cura segnalare tutte le occasioni di incontro sulle tematiche del lavoro che possono essere considerate tappe di un “percorso di avvicinamento” ai due citati appuntamenti di rilievo. Periodicamente riassumeremo il dibattito in atto ripubblicando i diversi contributi, magari accompagnati da ulteriori riflessioni e commenti. Di seguito pubblichiamo i contributi di Roberta Carlini e Stefano Zamagni, apparsi nell’ultimo numero della pregevole rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana, ringraziando il comitato redazionale della stessa per averci concesso tale opportunità.
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e non assistenza

di Roberta Carlini su LAVORO, ROCCA 15 GIUGNO 2017

Bisogna guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro».

reddito di cittadinanza
Nella sua visita pastorale a Genova, rispondendo all’intervento di Micaela, una rappresentante sindacale, papa Bergoglio ha avuto parole chiarissime sulla questione lavoro/reddito, che hanno portato a titoli altrettanti chiari sui giornali, il cui senso era: Francesco si schiera contro il reddito di cittadinanza, bisogna dare lavoro non assistenza.
Per una volta, i titolisti dei giornali avevano ragione, il messaggio del testo, a leggerlo tutto, è proprio quello anche se non solo quello: altrettanto peso ha la condanna degli imprenditori-speculatori – i prenditori, diceva qualcuno – e l’imposizione di lavoro a qualsiasi condizione e con qualsiasi paga (quando il lavoro, dice il papa con felice espressione, da riscatto morale diventa ricatto morale).
Ma ha avuto torto chi ha ridotto questa questione a un intervento diretto nel dibattito politico italiano – in particolare, contro il Movimento Cinque Stelle che solo pochi giorni prima aveva fatto la sua marcia per propugnare il reddito di cittadinanza. Il riferimento di certo c’è, se non altro perché la marcia è stata fatta simbolicamente da Assisi a Perugia; ma di certo non esaurisce la questione, ben più ampia e discussa in tutto il mondo, da San Francisco a New Delhi; né aiuta a capirla bene, considerando la grande confusione che lo stesso M5S fa sui termini e sui simboli che propone.
Partiamo da questi ultimi. La proposta di legge che il movimento di Grillo ha presentato in parlamento, anche se è intitolata alla «istituzione di un salario di cittadinanza», non istituirebbe, se approvata, un reddito di cittadinanza. È un assegno mensile, che sarebbe dato dal governo a famiglie in condizioni di povertà, a condizione che accetti un «percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo», cioè accetti il lavoro che gli propongono i Centri per l’impiego o gli obblighi di formazione, qualificazione, o altri che nello stesso percorso siano individuati.

Lo schema è lo stesso che ispira il «reddito di inserimento» nel programma anti-povertà del governo, che entrerà in vigore quest’anno, e che ispira tutte le politiche europee dalla Thatcher in poi, nonché le raccomandazioni di Bruxelles: nessun red- dito a chi non mostri e dimostri di voler lavorare, se può farlo. L’unica differenza, nel piano dei Cinque Stelle, è nell’entità: un reddito e una copertura un po’ più alte di quelle previste dal piano governativo, che – dati i fondi limitati – coprirà solo 400mila famiglie (mentre quelle in povertà assoluta sono circa 1 milione e 600mila). Lo schema di reddito di cittadinanza, invece, ha varie formule proposte ma tutte si basano su alcuni principi che non ci sono in nessuna delle proposte sul tappe- to in Italia: che il reddito sia universale – dato a tutti –, e che non sia condizionato né dal trovarsi sotto una certa soglia di povertà né dalla disponibilità ad accettare un lavoro. Se ne è parlato in altri numeri di Rocca (n. 6 e n. 10): può piacere o non piacere, ma il reddito di cittadinanza va anche al «surfista di Malibu», che passa la sua giornata ad aspettare le onde buone; e serve come un pavimento, uguale per tutti, dal quale ciascuno può decidere, in base alle proprie volontà e possibilità, di quanto alzarsi.

lavoro e fatto sociale
Questa precisazione va tenuta presente, non solo per demistificare la solita propaganda che c’è in tutte le vicende politiche italiane, ma anche per entrare nel merito della discussione, ed evidenziare gli ostacoli, le trappole e le nuove mistificazioni che vengono fuori quando si passa a elencare, praticamente, i metodi per incentivare, sostenere, «creare» lavoro anziché limitarsi a distribuire reddito. Alla base dell’alternativa tra chi mette al centro della sua politica il lavoro e chi sceglie il reddito c’è infatti una diversa filosofia, concezione del mondo, etica; ma nell’attuazione pratica delle politiche per perseguire l’obiettivo, poi, le posizioni possono essere meno lontane di quanto non appaiano in partenza.
La visione da cui parte il discorso di papa Bergoglio è chiarissima e, come lui stesso ha detto, scritta nella dottrina sociale della Chiesa, che «ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori». Il papa ha continuato così: «Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che si sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono «unti di dignità». Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale».

il lavoro creato e non redistribuito
Ma se attorno al lavoro si edifica «l’intero patto sociale» – lo stesso principio posto alla base della nostra Repubblica, con l’articolo 1 della Costituzione – che fare se la quantità di lavoro che il nostro sistema economico richiede non è sufficiente perché tutti ne abbiano? Non stiamo qui parlando della disoccupazione creata dalle oscillazioni del mercato e della produzione, dall’instabilità del capitalismo e dalle sue ricorrenti crisi; ma della disoccupazione tecnologica, delle innovazioni portate dalle macchine che innescano giganteschi processi di cambiamento, rendendo possibile la stessa produzione con quantità di lavoro molto minore. Questo è il tema, affrontato da almeno un secolo (testo base in proposito, Possibilità economiche per i nostri nipoti nel quale Keynes auspicava e ottimisticamente prevedeva la liberazione dell’umanità dalla necessità del lavoro) e non taciuto dal discorso del papa, che però dice: la rivoluzione tecnologica non può cambiare la nostra concezione del lavoro come elemento fondante del patto di cittadinanza. Non può costringerci ad accettare una società in cui due terzi, o anche solo la metà, della popolazione lavorino, gli altri siano «pensionati» già da giovani. Né – attenzione – ad accettare il fatto che dobbiamo limitarci a redistribuire il poco lavoro che c’è: il lavoro va creato, non redistribuito.

riscatto e non ricatto
La critica che la dottrina di questo papa, ribadita a Genova, fa al reddito di cittadinanza, è la stessa che viene dalla parte «laburista» della sinistra e dal sindacato: da chi vede il reddito di cittadinanza come una «toppa», o una stampella a un sistema che non funziona più. I fautori del reddito di cittadinanza – quello puro, non la versione sloganistica del nostro Grillo pseudofrancescano – ribattono dicendo che se il lavoro nobilita l’uomo, non è sottoponendolo al ricatto «o lavori o muori di fame» che questo principio si omaggia; e che dando a tutti un sostegno di base per poter vivere, si sottraggono i più marginali dal ricatto di un mercato del lavoro che li impiega a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione (dunque rimettendoli in condizione di vivere il lavoro come riscatto e non come ricatto); oltre a onorare un altro principio che potrebbe essere caro anche alla dottrina sociale della Chiesa, quello della eguaglianza, tra chi ha di più e chi ha di meno: su quest’ultimo obiettivo insiste il grande economista Tony Atkinson, nel suo ultimo libro Disuguaglianza, nel quale propone un «reddito di partecipazione», laddove la partecipazione in varie forme alla vita civile sostituisce l’obbligo del «lavoro» sul mercato.
Nell’attuazione pratica, il reddito di cittadinanza ha immensi problemi, a partire dalla grande redistribuzione di risorse che bisognerebbe mettere in campo. Ma ne ha anche la politica per cui si dà reddito – e aiuto ai più poveri, che spesso sono anche persone che lavorano ma a salari molto bassi – solo a chi è disponibile a lavorare: la macchina burocratica necessaria per verificare questa disponibilità e attuare l’inserimento nel mondo del lavoro è gigantesca e spesso inutile, tanto più se, fuori, il lavoro non c’è. Di qui la necessità di non limitarsi a guardare solo alle politiche per i lavoratori (effettivi e potenziali) ma anche a quelle per il lavoro, non consegnando a un’impersonale «tecnologia» le chiavi del futuro. Il cammino di questa discussione è appena cominciato.

Roberta Carlini

Bibliografia
Il discorso del santo Padre, Genova, stabilimento Ilva. J. M. Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti (1931, trad. it. Adelphi 2009).
Elena Granaglia – Magda Bolzoni, Il reddito di base (Ediesse, 2016).
Stefano Massini, Lavoro (Il Mulino, 2016). Stefano Toso, Reddito di cittadinanza (o reddito minimo?) (Il Mulino, 2016).
Philippe Van Parijs – Yannick Vanderborght,
Basic Income. A radical proposal for a free society and a sane economy (Harvard University Press, 2017).
Rutger Bregman, Utopia for realists (Bloom- sburt, 2017).
Anthony Atkinson, Disuguaglianza. Cosa si può fare (Cortina 2015)
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Lavoro è dignità e libertà

di Stefano Zamagni, su LAVORO, ROCCA 15 GIUGNO 2017

I limiti dell’attuale cultura del lavoro sono ormai divenuti evidenti ai più, anche se non c’è convergenza di vedute sulla via da percorrere per giungere al loro superamento. La via che l’economia civile – un paradigma economico che si afferma nel 18° secolo durante l’Illuminismo Napoletano (A. Genovesi e altri) e Milanese (P. Verri e altri) – suggerisce inizia dalla presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno che l’uomo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e, così agendo, di edificare se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è un’affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per la semplice ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. È noto, infatti, che non sempre i bisogni possono essere espressi direttamente in forma di diritti politici o sociali. Bisogni come fraternità, amore, dignità, senso di appartenenza, non possono essere rivendicati come diritti. Piuttosto, essi sono espressi come pre-requisiti di ogni ordine sociale.

la cifra morale del lavoro
Per cogliere il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, sull’agire umano. Due le forme di attività umana che tale pensiero distingue: l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire che produce qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. In altro modo, il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. Duplice la conseguenza che discende dall’accoglimento del principio-persona.
La prima conseguenza è bene resa dall’affermazione degli Scolastici «operari sequitur esse»: è la persona a decidere circa il suo operare; quanto a dire che l’au- togenerazione è frutto dell’auto-determinazione della persona. Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria autodeterminazione e quindi propria autorealizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona può essere sostituita con una macchina quando ciò risultasse più vantaggioso. Ma in ogni opera umana non si può separare ciò che essa significa e ciò che essa produce.
La seconda conseguenza cui sopra accennavo chiama in causa la nozione di giustizia del lavoro. Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona che agisce e perciò che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità. In quanto attività basicamente trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavoro. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale. In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati, secondo certe regole, in output; ma è anche il luogo in cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore.

la deriva «escludente»
Da quanto precede si trae che un primo grande fronte di impegno è quello di battersi per arrestare la deriva «escludente» dell’attuale assetto economico e sociale. Si deve ricordare che il mercato da istituzione economica tendenzialmente inclusiva si è andato trasformando, nel corso dell’ultimo quarantennio, sull’onda della globalizzazione e della terza e quarta rivoluzione industriale, in istituzione che tende a escludere tutti coloro che non sono in grado di assicurare livelli elevati di produttività. È così che si è andata formando una nuova classe sociale, quella delle per- sone in eccesso che Papa Francesco op- portunamente chiama «scarti umani». Ieri, all’epoca della Rerum novarum, si reclamava «la giusta mercede all’operaio». Oggi, ci si deve piuttosto chiedere perché non si è dato ascolto a quanto si legge in Gaudium et spes 67: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita».
Infatti, il lavoro non è un mero fattore della produzione che deve adattarsi, anzi adeguarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescere l’efficienza del sistema. Al contrario, è il processo produttivo che deve essere modellato in modo da consentire alle persone la loro fioritura umana e, in particolare, in modo da rendere possibile l’armonizzazione dei tempi di vita familiare e del lavoro. Dicevano i Francescani, già nel XVI secolo: «L’elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere, perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre». Come a dire che tutti devono poter lavorare, anche i meno dotati. Ebbene, sapere che, nelle condizioni odierne, sarebbe tecnicamente possibile attuare il comando di San Francesco («Voglio che tutti lavorino») e non farlo ci carica di una grave responsabilità. Non possiamo tenere tra loro disgiunti il codice dell’efficienza e il codice della fraternità, come tanti cattivi maestri vanno insegnando. (Si rammenti che la fraternità comprende la solidarietà; mentre il viceversa non è vero).

fraternità solidarietà diversità
Infatti, mentre quello di solidarietà è il principio di organizzazione sociale che tende a rendere eguali i diversi, il principio di fraternità consente a persone che sono già eguali sul fronte dei diritti di esprimere la propria diversità, di affermare così la propria identità. (È per questo che la vita fraterna è la vita che rende felici).
Quel che precede ci consente ora di afferrare la portata della grande sfida che è di fronte a noi: come realizzare le con- dizioni per una autentica libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta che il lavoratore ha di realizzare non solo la dimensione acquisitiva del lavoro – la dimensione che consente di entrare in possesso del potere d’acquisto con cui soddisfare i bisogni materiali – ma anche la sua dimensione espressiva. Dove risiede la difficoltà di una tale sfida? Nella circostanza che le nostre democrazie liberali mentre sono riuscite a realizzare (tanto o poco) le condizioni per la libertà nel lavoro – grazie alle lunghe lotte del movimento operaio e sindacale – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. La ragione è presto detta. Si tratta della tensione fondamentale tra la libertà dell’individuo di definire la propria concezione della vita buona e l’impossibilità per le democrazie liberali di dichiararsi neutrali tra modi di vita che contribuiscono a produrre e quelli che non vi contribuiscono. In altri termini, una democrazia liberale non può accettare che qualcuno, per vedere affermata la propria visione del mondo, possa vivere sul lavoro di altri. La tensione origina dalla circostanza che non tutti i tipi di lavoro sono accessibili a tutti e pertanto non c’è modo di garantire la congruità tra un lavoro che genera valore sociale e un lavoro che interpreti la concezione di vita buona delle persone.

libertà del lavoro
La riforma protestante per prima ha sollevato la questione della libertà del lavoro. Nella teologia luterana, la cacciata dall’Eden non coincide tanto con la condanna dell’uomo alla fatica e alla pena del lavoro, quanto piuttosto con la perdita della libertà del lavoro. Prima della caduta, infatti, Adamo ed Eva lavoravano, ma le loro attività erano svolte in assoluta libertà, con l’unico scopo di piacere a Dio. Che le condizioni storiche attuali siano ancora alquanto lontane dal poter consentire di rendere fruibile il diritto alla libertà del lavoro è cosa a tutti nota. Tuttavia ciò non può dispensarci dalla ricerca di strategie credibili di avvicinamento a quell’obiettivo. Ebbene, la proposta di A. Macintyre di concettualizzare il lavoro come opera è quella che appare come la più realisticamente praticabile. Un’attività lavorativa si qualifica come opera quando riesce a far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie. Estrinseca è la motivazione che induce ad agire per il risultato finale che l’agente ne trae (ad esempio, per la remunerazione ottenuta). Intrinseca, invece, è la motivazione che spinge all’azione per la soddisfazione diretta che essa arreca al soggetto quando questi percepisce che essa è orientata al bene. A questo deve mirare, fra le altre cose, una etica civile condivisa, quale è quella cui il cooperativismo ha sempre mirato fin dai suoi albori.

la disoccupazione e i suoi risvolti
Il «Global Employment Trend» dell’Ilo (International Labour Office delle Nazioni Unite) ci informa che il divario occupazionale – la perdita cumulata di posti di lavoro – rispetto alla situazione prevalente prima della crisi del 2007-8 è destinato a crescere: da 62 milioni nel 2013 a 81 milioni nel 2018. Anche il tasso di disoccupazione non si ridurrà, ciò che provocherà un ulteriore aumento del numero assoluto di disoccupati. Sono quelli europei i paesi che più stanno risentendo della transizione tecnologica oggi in atto. La disoccupazione ha già superato in Europa la soglia dei 27 milioni di persone e di queste il 40 per cento circa è rappresentato da disoccupati di lungo termine (oltre i 12 mesi). La situazione è ulteriormente aggravata dalla comparsa della nuova figura dei Neet («not in education, employment or training»), dei giovani cioè di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono in apprendistato. Come indica A. Rosina (Neet, Vita e Pensiero, Milano 2015), i giovani italiani che vivono tale condizione esistenziale sono oltre 2,4 milioni, pari a circa il 26% della popolazione giovanile in questa fascia di età. (Nel Mezzogiorno, la medesima percentuale arriva al 54%!). Il dato dei Neet è di speciale interesse perché, a differenza del tasso di disoccupazione giovanile esso prende in considerazione anche i giovani che non cercano più lavoro, in quanto scoraggiati. Il tasso dei Neet è, pertanto, l’indicatore che meglio di altri dà conto dello spreco umano, del sottoutilizzo del potenziale giovanile e, in conseguenza di ciò, della vasta diffusione tra la popolazione giovanile della diffidenza, oltre che della paura, nei riguardi del futuro.

diversi modelli di sviluppo
Sappiamo, infatti, che l’estromissione dall’attività lavorativa per lunghi periodi di tempo non solamente è causa di una perdita di produzione, ma costituisce un vero e proprio razionamento della libertà. Il disoccupato di lungo termine patisce una sofferenza che nulla ha a che vedere con il minor potere d’acquisto, ma con la perdita della stima di sé e soprattutto con l’autonomia personale. Ecco perché non è lecito porre sullo stesso piano la disponibilità di un reddito da lavoro e l’acquisizione di un reddito da trasferimenti, sia pure di eguale ammontare: è la dignità della persona a fare la differenza. Non solo, ma la fuoriuscita dal lavoro tende a generare gravi perdite di abilità cognitive nella persona, dato che, se è vero che «facendo si impara», ancor più vero è che «si disimpara non facendo». (Per una puntuale e aggiornata indagine empirica si veda J. Sachs et Al., Robots: curse or blessing? A basic framework, Nber, 21091, April, 2015). In un’epoca come l’attuale, caratterizzata dal fenomeno della terza rivoluzione industriale, la relazione tra capacità tecnologiche e attività lavorative è biunivoca: nel processo di lavoro non solo si applicano le conoscenze già acquisite, ma si materializza la possibilità di creare ulteriori capacità tecnologiche. Ecco perché tenere a lungo fuori dell’attività lavorativa una persona significa negarle – come ha scritto Amartya Sen – la sua fecondità. Poiché è attraverso il lavoro che l’essere umano impara a conoscere se stesso e a realizzare il proprio piano di vita, la buona società in cui vivere è allora quella che non umilia i suoi componenti, distribuendo loro assegni o provvidenze varie e, negando al tempo stesso l’accesso all’attività lavorativa. (Cfr. E. Olivieri, «Il cambiamento delle opportunità lavorative», Banca d’Italia, 117, 2012).
Bastano questi brevi cenni a farci comprendere perché, quando si parla di lavoro, si tende oggi a porre l’accento, su quello che occorre fare per porre rimedio alla situazione. La letteratura sulle politiche occupazionali è ormai schierata: si va dalle proposte volte a migliorare la qualità dei posti di lavoro, con interventi sul lato della domanda di lavoro, a proposte che incidono sul lato dell’offerta di lavoro allo scopo di ridurre lo «skills gap» con misure che chiamano in causa il comparto scuola-università-addestramento professionale. E ancora, vi sono coloro che propongono di favorire l’occupazione rispetto all’assistenza (make work pay) e coloro che invece suggeriscono di facilitare la transizione dalla disoccupazione assistita all’occupabilità (welfare to work) mediante l’aumento della flessibilità della prestazione, da non confondersi con la flessibilità dell’occupazione. (Per una rassegna, rinvio a I. Fellini, «Una via bassa alla decrescita dell’occupazione», Stato e Mercato, 105, 2015).

per non rassegnarsi
Questi e tanti altri contributi contengono tutti grumi di verità e suggerimenti preziosi per l’azione. Tuttavia, non pare emergere da questa vasta letteratura la consapevolezza che quella del lavoro è questione che, in quanto ha a che vedere con la libertà sostanziale dell’uomo, non può essere affrontata restando entro l’orizzonte del solo mercato del lavoro. Quel che occorre mettere in discussione è l’intero modello di ordine sociale, vale a dire l’assetto istituzionale della società, per verificare se non è per caso a tale livello che è urgente intervenire. Invero, pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia delle economie di mercato, l’insufficienza di lavoro ha assunto oggi forme e caratteri affatto nuovi. La dimensione quantitativa del problema occupazionale, oltre che la sua persistenza nel tempo, fanno piuttosto pensare a cause di natura strutturale, cioè non congiunturale, connesse all’attuale passaggio d’epoca, quello dalla società fordista alla società post-fordista. Sessant’anni fa, J.M. Keynes giudicava la disoccupazione di massa in una società ricca una vergognosa assurdità, che era possibile eliminare. Oggi, le nostre economie sono oltre tre volte più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione di giudicare la disoccupazione attuale tre volte più assurda e pericolosa, perché in società tre volte più ricche, l’ineguaglianza e l’esclusione sociale che la disoccupazio- ne provoca è almeno tre volte più devastante. C’è allora da chiedersi se invece di affrontare la questione a spizzichi, accumulando suggerimenti e misure di vario tipo, tutte in sé valide ma ben al di sotto della necessità, non sia giunto il momento di riflettere su taluni tratti salienti dell’attuale modello di sviluppo per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte.
Un punto deve, in ogni caso, essere tenuto fermo: il lavoro si crea, non si redistribuisce. Occorre andare oltre la obsoleta concezione «petrolifera» del lavoro, secondo cui il lavoro è pensato alla maniera di un giacimento da cui estrarre posti di lavoro. La creazione di nuovo lavoro ha bisogno di persone, di relazioni tra le stesse, di significati. Ciò è oggi concretamente possibile a condizione che lo si voglia e che ci si liberi dalle tante forme di pigrizia intellettuale e di irresponsabilità politica.

Stefano Zamagni
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rocca-12-2017
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Ulteriori approfondimenti.

Reddito di cittadinanza

LAVORO
di Roberta Carlini, su Rocca 06/2017

Mi successe una sera all’improvviso, mentre lavavo i piatti e guardavo nel giardino attraverso la finestra. Fu allora che mi venne in mente che tutte le cose più importanti che facevo per la mia vita, quella della mia famiglia e degli altri, non erano pagate affatto o erano pagate pochissimo». Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga, fa risalire a quella intuizione l’inizio degli studi e del lavoro sul reddito universale di cittadinanza. Una suggestione, il recupero di un’antichissima utopia sociale, che poi è diventato il suo cavallo di battaglia, l’impegno di una vita e una rete internazionale, il Basic Income Earth Network. Nella costruzione teorica di Van Parijs, il reddito di base è un dividendo sociale, la ricompensa per quello che ciascuno di noi fa, gratuitamente e quotidianamente, per contribuire alla ricchezza sociale.
Quella di Van Parjis è la versione più radicale, estesa e utopistica di un carnet di proposte di sostegno monetario pubblico alle persone o alle famiglie, che in questi mesi molti sono tornati a sfogliare. Dai giganti della tecnologia della Silicon Valley, dove è nata un’impresa per sperimentare il reddito garantito su un piccolissimo numero di 100 persone; al governo finlandese, che dall’inizio del 2017 svolge analoga sperimentazione su un campione di 2000 cittadini; agli elettori svizzeri, che lo scorso anno se ne sono occupati in un referendum – che hanno bocciato; al candidato socialista francese all’Eliseo Benoit Hamon, che ha inserito la proposta di un reddito di base nel suo programma; alla politica italiana, che ha dibattuto (poco) in parlamento su due proposte, di M5S e Sel, intitolate rispettivamente al reddito di cittadinanza e al reddito minimo garantito (in tutti e due i casi, scatterebbe solo al di sotto di una certa soglia di reddito, familiare o individuale), e che è tornata a occuparsene con più clamore dopo il ritorno di Matteo Renzi dal suo mini-viaggio in California. Svuotando il trolley, l’ex premier italiano ha tirato fuori la proposta di reddito di cittadinanza – quella sulla quale, appunto, stanno ragionando alcune teste della Silicon Valley – e l’ha subito scartata per trasformarla in qualcosa di diverso, il «lavoro di cittadinanza». Reddito, lavoro, cittadinanza: attorno a queste parole chiave si articola una gamma di proposte diverse, sulle quali è utile indagare andando oltre gli slogan e gli opportunismi del momento.
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Reddito di cittadinanza

LAVOROdi Roberta Carlini, su Rocca

Mi successe una sera all’improvviso, mentre lavavo i piatti e guardavo nel giardino attraverso la finestra. Fu allora che mi venne in mente che tutte le cose più importanti che facevo per la mia vita, quella della mia famiglia e degli altri, non erano pagate affatto o erano pagate pochissimo». Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga, fa risalire a quella intuizione l’inizio degli studi e del lavoro sul reddito universale di cittadinanza. Una suggestione, il recupero di un’antichissima utopia sociale, che poi è diventato il suo cavallo di battaglia, l’impegno di una vita e una rete internazionale, il Basic Income Earth Network. Nella costruzione teorica di Van Parijs, il reddito di base è un dividendo sociale, la ricompensa per quello che ciascuno di noi fa, gratuitamente e quotidianamente, per contribuire alla ricchezza sociale.
Quella di Van Parjis è la versione più radicale, estesa e utopistica di un carnet di proposte di sostegno monetario pubblico alle persone o alle famiglie, che in questi mesi molti sono tornati a sfogliare. Dai giganti della tecnologia della Silicon Valley, dove è nata un’impresa per sperimentare il reddito garantito su un piccolissimo numero di 100 persone; al governo finlandese, che dall’inizio del 2017 svolge analoga sperimentazione su un campione di 2000 cittadini; agli elettori svizzeri, che lo scorso anno se ne sono occupati in un referendum – che hanno bocciato; al candidato socialista francese all’Eliseo Benoit Hamon, che ha inserito la proposta di un reddito di base nel suo programma; alla politica italiana, che ha dibattuto (poco) in parlamento su due proposte, di M5S e Sel, intitolate rispettivamente al reddito di cittadinanza e al reddito minimo garantito (in tutti e due i casi, scatterebbe solo al di sotto di una certa soglia di reddito, familiare o individuale), e che è tornata a occuparsene con più clamore dopo il ritorno di Matteo Renzi dal suo mini-viaggio in California. Svuotando il trolley, l’ex premier italiano ha tirato fuori la proposta di reddito di cittadinanza – quella sulla quale, appunto, stanno ragionando alcune teste della Silicon Valley – e l’ha subito scartata per trasformarla in qualcosa di diverso, il «lavoro di cittadinanza». Reddito, lavoro, cittadinanza: attorno a queste parole chiave si articola una gamma di proposte diverse, sulle quali è utile indagare andando oltre gli slogan e gli opportunismi del momento.

perché ora

Dalla fine del Diciottesimo secolo, quando l’utopista americano Thomas Paine diede la prima sistemazione teorica all’idea di un reddito di base per tutti, a oggi, molti fatti e molte teorie sono passate sotto i
ponti. E la formula del reddito garantito, con diverse varianti, ha attraversato destra e sinistra, dal liberismo estremo di Milton Friedman (il teorico dello Stato minimo e l’ispiratore delle politiche di Reagan e Thatcher) al rifiuto del lavoro e al diritto all’ozio degli anni ’70. Non ha mai «sfondato» nel campo dei partiti operai novecenteschi, né tantomeno dei sindacati nei Paesi nei quali le organizzazioni del lavoro erano potenti e in grado di influenzare la politica. Un’etica «lavorista» fortissima, e al contempo la certezza del fatto che il reddito si deve pretendere dal capitalista, non dallo Stato, spiegano la diffidenza verso la formula di un assegno monetario garantito a prescindere da quel che si fa e per chi. Altri erano, in questa cultura, i servizi universali che lo Stato doveva garantire: sanità, istruzione, più servizi sociali di base da dare in natura e non in moneta. Specularmente, i conservatori americani con Friedman volevano un reddito minimo (nella formula tecnica dell’imposta negativa) proprio per cancellare tutto quest’apparato di welfare e sostituirlo solo con una erogazione monetaria limitata ai più poveri, che avrebbero con quei soldi potuto scegliere quale istruzione, sanità, servizi comprare.
Oggi il dibattito torna in un contesto del tutto nuovo: quello della disoccupazione causata da uno dei passaggi di tecnologia più dirompente che ci sia stato dall’invenzione della macchina a vapore. Non passa giorno senza una nuova stima sull’effetto della rivoluzione delle macchine sul lavoro: l’ultimo studio, prodotto da due ricercatori di Oxford (Carl Frey e Michael Osborne) sostiene che quasi la metà dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarà automatizzato nei prossimi venti anni. Qualche tempo fa una ricerca McKinsey prevedeva lo stesso scenario, avvertendo però che le cose possono andare molto più rapidamente, o anche molto meno rapidamente, a seconda delle condizioni economiche e sociali esterne. Come dire: tutto può succedere, non sappiamo con precisione quando, ma è certo che succederà. Due tra i più importanti studiosi dell’economia dei robot Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston, più che quantificare i posti di lavoro «persi» invitano a guardare al gigantesco cambiamento in corso prendendo atto del fatto che quei lavori non torneranno più, ma guar- dando con ottimismo al potenziale di pro- duttività e ricchezza liberato dalla «nuova rivoluzione delle macchine». Ma anche per i robot-ottimisti è innegabile che la transizione non sarà un pranzo di gala, e che lascerà (sta già lasciando) sul terreno milioni e milioni di posti di lavoro.
Già nel 1930 John Maynard Keynes, parlando degli effetti di uno choc tecnologico e dell’aumento di produttività che l’inno- vazione delle macchine avrebbe potuto consentire, si lanciava in una profezia:
«Grazie al progresso tecnologico, ci basterà lavorare quindici ore a settimana. E tra cento anni l’economia smetterà di essere un problema per l’umanità». Al centenario di quella profezia di Keynes manca pochissimo, e se ne è attuata solo metà: in effetti il progresso tecnologico richiede molto meno lavoro per fare un numero crescente di merci. Ma l’economia non ha smesso di essere un problema per l’umanità, ripetendosi invece come un incubo ogni notte peggiore. Oggi i fautori delle varie forme di reddito garantito vorrebbero attuare la seconda parte di quella profezia di Keynes: godiamoci le ore di lavoro liberate dalla tecnologia. Ma l’unico modo per farlo è «sganciare» il reddito dal lavoro, attraverso un sostegno di base garantito, un pavimento sotto il quale non si può cadere. L’alternativa – mantenere l’ideale e l’obiettivo della piena occupazione, attraverso le lotte sociali e l’intervento pubblico – richiederebbe di fermare il progresso tecnologico, ricostituire il potere delle organizzazioni sindacali, ridare linfa e risorse agli Stati nazionali: tre cose difficili, al momento.

soldi, lavoro, cittadinanza

In questo complicato scenario si calano anche il dibattito italiano sul reddito garantito e le relative proposte. Da un lato, è uno slogan al quale si stanno aggrappando qua e là forze politiche o movimenti di base alla disperata ricerca di soluzioni al problema della precarietà del lavoro, e a quello ancora più pressante dei salari bassi e bassissimi. Va precisato però che nessuna delle due proposte parlamentari – quella del Movimento Cinque Stelle e quella di Sel – è un reddito di cittadinanza in senso stretto, cioè un assegno dato a tutti, a prescindere dal loro reddito e dalla loro condizione familiare e occupazionale. Anche se il M5S lo chiama «reddito di cittadinanza», di fatto è, come quello proposto da Sel, un reddito minimo garantito: se si supera una certa soglia di reddito (attorno ai 6-700 euro al mese) se ne perde il diritto. Il che può sembrare giusto in linea di principio, ma pone un grosso problema: si introduce un disincentivo a lavorare, tanto più se si considera che spesso i giovani dovrebbero faticare per ottenere una cifra di poco superiore sul mercato. Il costo delle proposte in esame, secondo i calcoli dell’Istat, oscilla tra i 14,9 miliardi annui della proposta del M5S ai 23,5 di quella di Sel (che eroga il reddito su base individuale e non familiare).
Dall’altro lato, c’è chi vede in queste proposte il rischio di una riproposizione del vecchio assistenzialismo, tanto più pericoloso se si considera la differenza tra Nord e Sud che permane attraverso i secoli e che dirigerebbe gran parte delle risorse per il «nuovo» reddito a Mezzogiorno. Su questo secondo crinale si è posizionato l’ex premier Renzi, quando, tornando da un breve viaggio californiano, ha contrapposto alla formula del «reddito di cittadinanza» quella del «lavoro di cittadinanza»: in sostanza, per meritarsi l’assegno bisognerebbe essere disponibili a lavorare, a fare qualcosa per la società. E questo, per evitare che si approfitti della situazione, restando a grattarsi la pancia «tanto c’è papà-Stato che ci pensa».
Con questa proposta, Renzi fa però un salto nel secolo scorso, tornando a quell’equivalenza tra lavoro e reddito che l’evoluzione in corso sta scardinando. Se i lavori «utili» di cui parla servono, non si vede perché non possano essere forniti dal mercato o (se si tratta di beni e servizi che il mercato non «prezza») dallo Stato, che dunque dovrebbe in questo caso assumere lavoratori e pagare i salari corrispondenti. Se invece si tratta di tener impegnate le persone tanto per evitare i mali dell’ozio, o comportamenti opportunistici, la proposta suona abbastanza paternalistica, oltre che viziata da due preconcetti: che la disoccupazione dipenda dal rifiuto di accettare i lavori e lavoretti esistenti sul mercato, invece che da una strutturale eccedenza di persone rispetto ai posti disponibili; e che la gente, di fondo, non abbia alcuna voglia di lavorare. Il reddito incondizionato – cioè non legato alla verifica della disponibilità a lavorare, che peraltro sarebbe molto costosa dal punto di vista amministrativo – ha moltissimi rischi, ma ha due virtù: non bisogna mettere su un apparato burocratico per verificare chi «se lo merita», e si rafforza la capacità contrattuale dei lavoratori (e aspiranti tali) su un mercato dove al momento i rapporti di forza sono tutti per i datori di lavoro.
Se stiamo tutti insieme transitando da un modello economico a un altro, è un aiuto per chi, nel passaggio, rischia di restare stritolato, non possedendo già le competenze e le forze per il nuovo mondo ma non avendo più nessuna tutela dal vecchio. Con tutte le sue incognite, pare questa la direzione da sperimentare.
Roberta Carlini

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Rocca 6 2017