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Ricordando Roberto Porrà

1c218a99-f695-4f32-9553-65a02786872c[Franco Meloni] L’amicizia con Roberto risale agli inizi degli anni 70, quando ci trovammo a militare insieme nelle formazioni della cd sinistra extraparlamentare: Pdup, Democrazia Proletaria. Entrambi approdati all’impegno politico direttamente dalla spinta dei valori della cultura cattolica di cui eravamo impregnati. [segue]

Che succede?

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ROMANO PRODI: “IN ITALIA NON VEDO L’IMPEGNO NECESSARIO…”
12 Luglio 2020, su C3dem.
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ANCORA E SEMPRE EMERGENZA?
12 Luglio 2020 by Giampiero Forcesi su C3dem.
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augias-breviarioUn libro che consigliamo. Prendendo spunto dai temi e dai problemi con cui ci confrontiamo ogni giorno, attraverso la lettura di autori prediletti come Spinoza e Montaigne, Augias ricollega il presente al passato e alle cause che l’hanno provocato, rendendo piú comprensibile e meno ansioso l’orizzonte degli eventi.

Che succede?

c3dem_banner_04NOTE SULLA FASE DUE (DONNE E LAVORO…). E SUL RECOVERY PLAN
30 Maggio 2020 su C3dem.
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LE “CONSIDERAZIONI” DI VISCO SULLO STATO DEL PAESE
30 Maggio 2020 su C3dem.
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Cosa può fare l’Italia con i miliardi del fondo europeo per la ripresa
di Roberta Carlini
By sardegnasoprattutto / 29 maggio 2020 / Economia & Lavoro /
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LAVORO
«Non c’è più tempo: contro la crisi reddito di base e riforma del Welfare»
Decreto rilancio. La campagna “Non c’è più tempo”: estendere il “reddito di cittadinanza” senza vincoli e condizionalità e istituire una misura sociale strutturale, non categoriale, per precari, intermittenti, partite Iva e poveri insieme a un ammortizzatore sociale unico. “Un errore di politica economica e un’ingiustizia sociale tagliare l’Irap a tutte le imprese senza considerare il crollo del fatturato e il prestito di sei miliardi a Fca: a precari e poveri solo le briciole o sussidi occasionali e a tempo”
di Roberto Ciccarelli, su il manifesto, EDIZIONE DEL 30.05.2020.
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Il DILEMMA di MASSIMO ZEDDA

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Il DILEMMA di MASSIMO ZEDDA: Capo dell’opposizione del Consiglio regionale o Governatore della Città di Cagliari e della sua area metropolitana?
Alla luce di una sorta di riproposizione delle città-stato, una “singolare” lettura per aiutare Massimo Zedda nelle sue riflessioni al fine di decidere se rimanere Sindaco di Cagliari o (tornare a) fare il consigliere della Regione Autonoma della Sardegna.
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lampada aladin micromicroAbbiamo letto sulla stampa (qui facciamo riferimento alla rivista online Lettera43) quanto segue. “Il 18 febbraio il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha scritto su Facebook che «entro quest’anno faremo un referendum per la totale autonomia della Città di Napoli: avremo così più risorse economiche, meno vincoli finanziari, più ricchezza, più sviluppo, meno disuguaglianze». «Successivamente – aggiunge De Magistris – proveremo a realizzare, se lo vorranno anche le altre popolazioni del Sud, un referendum per l’autonomia differenziata dell’intero Mezzogiorno d’Italia»”. Come è noto l’autonomia differenziata è prevista da una norma della Costituzione (Titolo V, articolo 116) ma riguarda solo le Regioni prese singolarmente (ed è quanto rivendicano e probabilmente otterranno a breve la Lombardia, il Veneto e l’Emilia e Romagna), non certo le città e nemmeno le aree metropolitane. Concordiamo pertanto con quanti affermano che allo stato quella di De Magistris è “una provocazione piuttosto che una proposta concreta”. Tuttavia l’uscita di De Magistris, non nuova rispetto ad altri più articolati ragionamenti, si pone sulla strada del riconoscimento di molta più autonomia per le città (in Sardegna riguarda soprattutto Cagliari e Sassari), evocando, almeno come suggestivo punto di arrivo, le istituzioni e le vicende storicamente realizzate delle “città-stato”, nella penisola italiana, in Europa e nel mondo. Ecco perché c’è parso pertinente il richiamo a uno stratega politico indiano, Parag Khanna, che sull’argomento ha scritto un libro intitolato “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”, che il prof. Gianfranco Sabattini ha recentemente recensito sulla nostra News, facendo una disamina fortemente critica, ma tuttavia cogliendo le suggestioni dei ragionamenti dell’Autore. Riproponiamo lo scritto di Sabattini, riferendolo un po’ per celia un po’ per provocazione sia alle posizione del Sindaco di Napoli, sia alla scelta che il Sindaco di Cagliari dovrà fare tra la continuità del suo attuale mandato amministrativo – con l’importanza che esso ha e che potrebbe straordinariamente assumere – e quello ben più modesto – in termini di potere e di visibilità anche se rassicurante sul piano strettamente personale – di consigliere regionale, primo sconfitto o, se volete, secondo vincitore dell’elezione regionale di domenica 24 febbraio.
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Quali risposte in positivo alla crisi degli Stati democratici occidentali?
img_4812 E’ proprio vero che le città-Stato e le tecnocrazie possono rimediare ai limiti della democrazia?
di Gianfranco Sabattini*
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Lo scienziato politico indiano, Parag Khanna, considerato una figura di spicco del think tank di Washington “New America Foundation” e dell’”European Council on Foreign Relations”, ha pubblicato di recente “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”. Nel libro Khanna sostiene che la democrazia, il regime politico più accreditato presso gran parte dei sistemi economici più avanzati, può sottrarsi ad un irreversibile declino, solo se le sue istituzioni riusciranno a migliorare le loro performance; secondo il politologo indiano, infatti, è il degrado istituzionale delle democrazie a determinare l’insoddisfazione degli elettori, per il contenimento della quale non esiste che una via: assegnare il governo delle comunità democratiche a squadre di tecnocrati.
A parere di Khanna, le istituzioni democratiche hanno ormai perso credibilità circa la loro adeguatezza a risolvere i problemi del mondo contemporaneo; in particolare, i riti celebrati ricorrentemente in occasione delle consultazioni elettorali per il rinnovo del personale politico servono solo a portare “allo scoperto ampi strappi nel tessuto delle nazioni senza che si sia stilata un’agenda condivisa sul modo in cui ricucirli”. I limiti della democrazia, quindi, per Khanna, non stanno solo nella sua incapacità di risolvere in modo adeguato gli stati di bisogno dei governati, ma anche nel modo in cui essa funziona; conseguentemente, la “democrazia, da sola, non basta più”, occorre supportarla, anzi sostituirla, con l’apporto di tecnocrati professionali.
Per assicurare la sostituzione della democrazia non c’è bisogno – afferma Khanna – “né di guerre né di rivoluzioni – e nemmeno di una parentesi dittatoriale -, bensì di un’evoluzione tecnocratica”, che porti il sistema politico ad essere fondato “sulle analisi degli esperti e sulla pianificazione a lungo termine anziché sulle improvvisazioni senza respiro e prospettiva tipiche del populismo”. A differenza del mondo politico tipico delle democrazie, sempre propenso ad adottare non disinteressatamente provvedimenti ad hoc di breve respiro, la tecnocrazia, secondo il politologo indiano, ha la “virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio per la società) che meritocratica (dotata di leader molto qualificati e non corrotti”; essa, perciò, è strumento atto a far sì “che la scienza politica possa aspirare a diventare qualcosa di degno del suo nome: un approccio rigoroso all’amministrazione”.
Inoltre, la tecnocrazia non perde tempo a discutere se occorra allargare o restringere lo spazio da riservare all’iniziativa privata o a quella pubblica, in quanto essa (la tecnocrazia) predilige sempre agire perché sia la prima che la seconda cooperino per agire nel modo più efficace; è questo il motivo per cui sono sempre più numerosi i cittadini che credono nella competenza degli esperti, anziché in quella del personale politico, per decidere quali obiettivi devono essere perseguiti nell’interesse del Paese. A supporto di questo suo convincimento Khanna si rifà ad una ricerca del World Values Survey (un progetto di ricerca globale, che esplora i valori e le fedi delle persone, di come esse cambiano nel tempo e quale impatto sociale e politico hanno), dalla quale risulta che la percentuale dei cittadini europei e americani che ritiene essenziale vivere in un regime democratico è diminuita da due terzi a meno di un terzo del totale, mentre la quota di cittadini americani che crede che debbano essere gli esperti, anziché i politici, a decidere cosa è meglio fare per il Paese è salita dal 32 al 49%. Fatti, questi, che consentono a khanna di poter affermare, a sostegno della sua tesi, che sempre più cittadini “desiderano ardentemente un governo migliore, che sappia bilanciare democrazia e tecnocrazia”.
L’obiettivo che Khanna, con il suo libro, intende perseguire è quello di redigere un “promemoria” per vivere la trasformazione della democrazia attraverso “una combinazione di ciò che sappiamo e di ciò che possiamo immaginare su quello che significa progettare un governo efficiente che sia veramente al servizio dei cittadini”. Alcune delle sue proposte, avverte Khanna, potranno essere percepite come irrealistiche nelle attuali condizioni delle istituzioni e della politica, ma egli ammonisce che la storia punirà quei sistemi politici che non si predisporranno al cambiamento.
Khanna non si limita ad auspicare una trasformazione “ab imis” della forma di governo democratico, ma la estende anche alle dimensioni prevalenti degli Stati; secondo lui, la ricerca della “forma ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente”; ciò, perché le dimensioni degli Stati e i regimi democratici non sarebbero più strumenti idonei a consentire ai governi di risolvere i problemi del mondo attuale, essendo caratterizzati più dall’incapacità di fare qualcosa che di reagire, senza alcuna coerenza, al manifestarsi degli eventi negativi. Nel corso degli ultimi decenni, a parere di Khanna, gli studiosi dei problemi politico-istituzionali sono stati sempre impegnati ad individuare le dimensioni dello Stato ed il regime politico più convenienti, in funzione della complessità delle emergenze che maggiormente assillano i cittadini.
Dopo la fine della Guerra fredda, l’attenzione degli studiosi si è indirizzata verso l’individuazione del modo più conveniente per “capitalizzare” la creazione di un mercato mondiale, ovvero di un “mondo dominato dalla geoeconomia anziché dalla geopolitica”. Con il consolidarsi della globalizzazione delle economie nazionali, quindi, la concentrazione della produzione e l’approfondirsi dell’interdipendenza tra i vari sistemi produttivi, si sarebbero poste le premesse – afferma Khanna – per la nascita di quello che gli storici economici hanno definito “Stato commerciale” o “Stato di mercato”. Successivamente, gli strateghi della globalizzazione hanno previsto che i centri di potere del mercato mondiale sarebbero divenuti degli “agglomerati urbani di città-Stato analoghi a quelli che nel Medioevo formavano la Lega anseatica”.
La ricerca delle dimensioni dello Stato e della forma di governo più convenienti è proseguita ulteriormente con l’avvento dell’era dell’informazione digitale, portando ad individuare nell’”info-Stato” l’evoluzione modificata, ma più adattata ai tempi, dei modelli precedentemente indicati di “Stato commerciale”, di “Stato di mercato” e di “Agglomerato urbano di città-Stato”. A differenza dei modelli precedentemente individuati, l’info-Stato, a parere di Khanna, non “si fida più del mercato” e della tradizionale sua mano invisibile; esso crede piuttosto nell’azione congiunta del settore privato e di quello pubblico, ai fini dell’attuazione di piani strategici economici finalizzati alla soddisfazione degli stati di bisogno dei cittadini e realizzati sotto la guida esperta di una “tecnocrazia diretta”. In tal modo, secondo Khanna, l’info-Stato esprimerebbe una “democrazia postmoderna [...] che combina priorità dal basso e management tecnocratico”.
Il mondo è composto principalmente da Stati che ancora privilegiano la grande dimensione e la celebrazione dei riti propri delle democrazie elettorali; ma osservandole da vicino diventa facile capire, a parere di Khanna, le loro inefficienze e le insoddisfazioni dei loro cittadini. E’ questa la ragione per cui, secondo il politologo indiano, la piccola dimensione e la tecnocrazia costituiscono la via della salvezza degli Stati che agiscono su scala globale; ciò richiede però che i grandi Stati democratici riescano per tempo a maturare la consapevolezza che la grande dimensione e la democrazia non sono più in grado di garantire con successo la stabile soddisfazione dei bisogni delle loro società. Pertanto, gli Stati attuali potranno salvarsi solo muovendo “verso modelli di governance migliore”, in cui l’apertura alla riduzione delle dimensioni “si accompagni a una tecnocrazia orientata agli obiettivi”.
I grandi Stati democratici potranno pervenire a questo risultato – afferma Khanna – se riusciranno a superare il grave deficit teorico del pensiero occidentale, che ancora confonde la politica con la governance, tralasciando tra l’altro di considerare che, per legittimarsi, la democrazia deve poter realizzare ciò che promette; il suo fallimento, secondo Khanna, è riconducibile al fatto che i riti elettorali sui quali essa è fondata esprimono un sistema di distribuzione di responsabilità, “non un modo per realizzare progetti. La legittimazione procedurale [...] della democrazia non può mai sostituire del tutto la legittimazione dei risultati [...] della fornitura dei servizi di base dei cittadini”.
Inoltre, è molto più probabile che la legittimazione dei risultati possa avvenire nei piccoli Stati, anziché in quelli più grandi. L’idea che i piccoli Stati potessero costituire dei modelli di organizzazione politica è sempre stata considerata impraticabile; ma nel mondo attuale, sostiene Khanna, la sovranità è in via di trasferimento dagli Stati-nazione alle città-Stato, e la primazia ed il prestigio dei primi sono sempre più in declino, in quanto ciò che conta è il successo, che per il politologo indiano non ha nulla a che fare con la dimensione. Di conseguenza, le città-Stato sono destinate a rappresentare le fondamenta per la soluzione di tutte le “sfide che stanno al cuore di questo XXI secolo”. Ovviamente, osserva Khanna, essere un piccolo Stato ha i suoi costi, e proprio per questo alla loro conduzione si addice meglio la tecnocrazia piuttosto che la democrazia; quest’ultima non insegna le virtù del risparmio, o almeno non quanto lo fa la consapevolezza dei tecnocrati di dover fare assegnamento solo su di esso per provvedere a fornire servizi nella quantità e qualità attese dai cittadini.
La superiorità dei tecnocrati in competenza ed iniziativa, rispetto al personale politico, è dovuta al fatto che, a parere di Khanna, una “buona tecnocrazia” ispira sempre il suo comportamento alla “fede dell’utilitarismo”, inteso quest’ultimo, non solo come propensione a massimizzare il risultato economico, ma, anche e soprattutto, a massimizzare il benessere sociale, attraverso l’espansione e la protezione della “libertà individuale e la promozione di opportunità e vantaggi giusti e uguali per tutti”.
Concludendo, Khanna afferma che riporre fiducia su una buona tecnocrazia non significa che le decisioni democratiche dei cittadini e i fini utilitaristici siano in contrasto tra loro; per legittimarsi i tecnocrati devono prestare tutta la loro attenzione alle decisioni dei cittadini e spendersi per realizzarne i fini. Durante questo processo, essi non possono decidere di agire discrezionalmente, perché, se ciò avvenisse, i cittadini disporrebbero di un accesso all’informazione come mai era stato possibile prima dell’avvento dell’informazione digitale, vogliono e possono avere rapporti con esperti in grado di rispondere ai loro desiderata.
Sin qui Khanna; la sua analisi dell’auspicabile evoluzione che possono subire le forme dello Stato e del regime democratico nell’interesse delle comunità solleva non poche perplessità. La prima è riconducibile alla recente esperienza del nostro Paese: i tecnocrati, che erano alla guida dell’Italia in occasione della recente crisi finanziaria non hanno certamente dato prova di lungimiranza e d’essersi ispirati ad un’ideologia utilitaristica nel senso di Khanna. Le loro politiche di austerità non sono andate molto più in là di una spanna dal loro naso; le loro severe politiche di austerità sono state cosi lontane dalle aspettative dei cittadini da costringerli solo “a stringere la cinghia”, senza che la contrazione della spesa pubblica abbia prodotto una ripresa dell’economia e un miglioramento della sicurezza dei cittadini. Ma, a parte questa lamentazione su quanto è accaduto in Italia con la tecnocrazia al potere, l’analisi di Khanna induce a riflessioni preoccupate ben più significative.
Intanto, al di là dell’entusiasmo che sembra riporre sulla sua proposta, quella di fronteggiare le sfide del mondo attuale attraverso una contrazione delle dimensioni dello Stato e la rinuncia alla democrazia sinora sperimentata, Khanna poco si sofferma sui limiti delle forme assunte dalla globalizzazione e nulla dice sul modo in cui andrebbero rimossi. Anzi, tacendo e sorvolando sulle cause che hanno determinato la crisi economica mondiale dell’ultimo decennio, Khanna sembra voglia farne ricadere la responsabilità su due specifici versanti: da un lato, sulle resistenze opposte alla riduzione del ruolo dello Stato-nazione; dall’altro lato, sui regimi democratici, per la loro presunta strutturale incapacità di effettuare previsioni credibili e di reagire in tempi rapidi contro gli effetti negativi del ciclo economico, con politiche lungimiranti e affrancate dai condizionamenti degli interessi consolidati.
L’analisi e il promemoria di Khanna sembrano quindi suggerire riforme dell’organizzazione statuale e del regime democratico, idonee non tanto a migliorare le capacità di governo delle comunità, quanto ad assecondare appropriate per assecondare la formazione di un mercato mondiale, in conformità agli interessi dei poteri che hanno plasmato la globalizzazione a loro immagine e somiglianza. In altre parole, le proposte di Khanna appaiono un subdolo promemoria a sostegno di una politica mondiale consona alla formazione di un mondo fatto di “piccole patrie”, prone più agli interessi di chi controlla il mondo che a quelli dei cittadini che compongono le singole comunità.
Inoltre, a parere di Khanna, il famoso detto di Churhill, secondo cui la democrazia sarebbe la “peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre”, dovrebbe essere ripensato; sì!, ma non per le ragioni indicate dal politologo indiano, ma per rafforzarla e garantirne il funzionamento, per il ruolo che essa svolge a tutela dei destinatari degli esiti delle azioni di chi governa. Al contrario di quanto può pensare Khanna, non è vero che i cittadini siano univocamente interessati alla massimizzazione del risultato che può essere perseguito coi mezzi a disposizione. Ciò è tanto più vero, quanto più l’impiego dei mezzi a disposizione è affidato a tecnocrati, fuori da ogni controllo diretto dei cittadini; questi ultimi, contrariamente a quanto pensa Khanna, oltre ad essere interessati alla massimizzazione del risultato finale, sono anche fortemente motivati a conoscere le possibili conseguenze che possono derivare, a danno della loro esistenzialità, dal modo in cui i mezzi sono impiegati.
Oggi i cittadini, potendo accedere ad una produzione di conoscenza informatizzata come mai è stato possibile in passato, sono sicuramente più informati, ma certamente non sono garantiti riguardo alle procedure utilizzate per la produzione della conoscenza alla quale possono liberamente accedere. E’ questa la ragione per cui, nel mondo attuale e in quello di un tempo a venire sufficiente lungo, la democrazia risulta insostituibile. Essa consente ai cittadini di autoproteggersi, attraverso il dibattito pubblico circa il modo in cui i mezzi possono essere impiegati per la soddisfazione dei loro stati di bisogno; ciò che può essere garantito solo da una organizzazione democratica delle comunità, fondata sul funzionamento di istituzioni idonee a consentire lo svolgersi di un approfondito dibattito pubblico riguardo alle alternative d’impiego dei mezzi.
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*Su Aladinews, e anche su Avanti online

NON È ISLAM

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Terrorismo ed errate risposte
NON È ISLAM

La pretesa corrispondenza tra terrorismo e radicalismo islamico è tanto ripetuta quanto arbitraria e strumentale. Anche la norma divina coranica passa attraverso la mediazione e interpretazione umana. Una reazione sbagliata delle democrazie occidentali porta al disfacimento dei principi su cui si regge la cultura giuridica del costituzionalismo moderno

logo76Dalla Rivista telematica www.statoechiese.it n. 2 del 2018 pubblichiamo uno stralcio (senza l’intero corredo delle note) del saggio del prof. Francesco Alicino, associato di Diritto pubblico delle religioni nella LUM Jean Monnet di Casamassima – Bari, sul tema “Lo Stato laico costituzionale di diritto di fronte all’emergenza del terrorismo islamista”, destinato alla pubblicazione nel volume collettaneo su “L’impatto delle situazioni di urgenza sulle attività umane regolate dal diritto”, Giuffrè, Milano. Vi si troveranno importanti considerazioni sul conclamato rapporto tra terrorismo e Islam, e sui pericoli di perdere la democrazia che si corrono nel combatterlo maldestramente.

1 – Introduzione

La minaccia del terrorismo islamista ha comprensibilmente incrementato la domanda di sicurezza che, nei momenti di maggiore tensione e paura collettiva, è elevata a obiettivo prioritario per lo Stato e i relativi organi pubblici. Motivo per cui questa domanda conduce a interventi statali eccezionali, che spesso finiscono per ridurre gli spazi di tutela di alcuni diritti, come quelli afferenti alla libertà personale, alla libertà di espressione e a quella di religione: pilastri normativi su cui, com’è noto, si fonda e si regge un ordinamento costituzionale, democratico e laico[1]

Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Non è la prima volta che nella storia recente del costituzionalismo occidentale si affaccia il binomio sicurezza-libertà: nel nome della sicurezza e in vista di ripristinare una situazione di normalità, la lotta alle varie forme di terrorismo ha spesso comportato una temporanea rottura della tutela delle libertà e una sospensione dell’ordinaria legalità. Il fatto è che oggigiorno questa problematica assume contorni giuridici inediti e orizzonti temporali sconosciuti, che mettono in discussione il significato stesso di alcune nozioni, a cominciare proprio da quelle riguardanti le situazioni di emergenza. Sembra infatti di essere dinanzi a un periodo che, avendo fra le sue caratteristiche una condizione di allarme stabile e quasi permanente, differisce a data incerta il momento del ritorno alla normalità e, quindi, all’impiego dei comuni meccanismi e strumenti legali. In questo modo i timori suscitati dal terrorismo alimentano un ossimorico e paradossale stato di ordinaria emergenza, attraverso il quale i due concetti si annullano e, al contempo, si rinforzano a vicenda: divenendo la regola, il pericolo e la paura di nuovi attentati assumono sempre più rilevo nella vita quotidiana di milioni di persone; il peso esercitato dell’emergenza terroristica porta in molti settori di normazione giuridica a ridurre al minimo gli spazi di ordinaria legalità[2].

Ora, su questa situazione pesa un’importante questione, non sempre però analizzata con la dovuta chiarezza e lucidità, anche perché forse legata alla difficoltà di individuare e definire con precisione le peculiari caratteristiche delle attuali forme di terrorismo.

Di fronte alla sua minaccia e alla crescente domanda di sicurezza, le istituzioni statali stanno difatti vivendo una condizione di profondo spaesamento. E questo perché il terrorismo islamista è dotato di una diffusa, potente e – soprattutto – imprevedibile carica di lesività, sovente lanciata senza scrupolo e con estrema determinazione da anonimi attentatori nei confronti di civili impreparati al tipo di azioni da esso ispirate. Il che ne aumenta a dismisura la pericolosità, giacché in grado di coinvolgere attivamente una vasta gamma di individui i cui atteggiamenti sfuggono a qualsivoglia inquadramento di tipo sociologico, per un verso, dando corpo a metodi, strumenti e bersagli estremamente diversificati, per l’altro. E va pure ricordato che queste difficoltà non diminuiscono, ma anzi s’infoltiscono, quando l’attenzione si focalizza sulle vittime: la cui caratteristica è proprio quella di non avere tra loro nulla o quasi in comune, se non di essere indiscriminatamente considerate come ‘infedeli’.

Ed ecco che in modo prepotente la questione religiosa s’inserisce nella tragica narrazione, ponendo l’analisi sull’impatto dell’emergenza terroristica nell’ordinamento statale di fronte a due domande cruciali, tra loro intimamente connesse: in che modo e con quale significato le attuali forme di terrorismo possano dirsi di matrice religiosa? E qual è il rapporto che realmente sussiste fra il terrorismo e l’Islam?

La fondatezza di queste domande è anche data da quanto emerge da alcune accurate ricerche. Queste hanno in particolare dimostrato come nella maggior parte dei casi i motivi profondi che armano la mano degli attentatori afferiscano in primo luogo a fattori diversi da quello religioso: fattori quali, per restare ai casi più noti, l’estremismo nazionalista, acuito in alcuni ambienti dal senso di oppressione e di rivalsa nei confronti dell’Occidente, dei suoi ‘invasori’ e della logica colonizzatrice, a volte sostenuta nel nome della cultura dei diritti umani; l’incancrenirsi di alcuni conflitti territorialmente localizzati; gli equilibri socio-economici; la mancata integrazione di immigrati di seconda e terza generazione.

Elementi, questi, che molto spesso agiscono sulle difficili condizioni personali e psichiche degli attentatori sparsi in tutto il mondo, siano essi aspiranti o già operativi. Rispetto a tali giustificazioni, la religione interviene solo in un secondo momento, prendendo corpo attraverso modalità e intenti subdolamente strumentali che, come si vedrà, fanno leva su interpretazioni teologicamente elementari delle fonti del diritto islamico.

Interpretazioni che poco hanno da spartire con la lunga millenaria tradizione musulmana e con i suoi fondamenti. Che, se diversamente commentati, sostengono soluzioni diametralmente opposte a quelle prospettate dal radicalismo islamista: ragione per la quale bisogna stare attenti anche a connotare tali derive interpretative come fondamentalistiche. Il che, tuttavia, non ne ridimensiona l’importanza, soprattutto se lette alla luce dell’efficienza della macchina terroristica, la sua mortale e imprevedibile pericolosità. Sebbene con letture grossolane e rudimentali, negli ambienti del radicalismo islamista la religione, o meglio la sua strumentalizzazione, agisce come una ‘coperta’: viscidamente sfruttata da abili mandanti e organizzatori, essa s’insinua nella mente degli attentatori avvolgendo e dissimulando tutte le altre motivazioni. In questo modo l’elemento religioso alimenta un’incontenibile determinazione nell’attuare i piani mortali. Al punto che, rispetto a questi piani e come sovente accade negli ambienti sovversivi di siffatta natura, il primo presupposto a essere dato per scontato e messo in conto dal terrorista è la perdita della propria vita: una morte ricercata, voluta e, a volte, felicemente invocata in vista della ricompensa divina.

A ciò si aggiunge un’altra considerazione, non meno inquietante di quelle sommariamente esposte fino a ora.

Nella logica rozza ed elementare del terrorista le interpretazioni radicalizzanti dei precetti religiosi hanno il grande merito di creare dal nulla una platea sterminata d’infedeli che, ai suoi occhi, si trasformano con impressionante immediatezza in potenziali nemici, facili da colpire ed eliminare. Il che spiega perché la lotta al terrorismo islamista risulta spesso asimmetrica. In spregio alla dignità dell’uomo e sebbene minoritari, i terroristi non hanno nessun timore di morire in battaglia. Anzi, considerano e usano i propri corpi come insuperabili strumenti di morte contro la vita, la dignità e i diritti inviolabili di milioni di persone umane: ciò che, al contrario, la cultura giuridica occidentale e i principi basilari delle democrazie costituzionali valutano come beni supremi, da tutelare e difendere sopra ogni cosa.

Come però si accennava, questo spiega anche la situazione estremamente difficile in cui si ritrovano le istituzioni e i poteri statali che, di fronte a un’emergenza tanto sfuggente e indefinibile quanto pericolosa e sconvolgente, cercano di intervenire in vario modo. Compreso quello di incentivare la produzione di atti legislativi che, seppur generici nella loro formulazione (o forse proprio per questo), influiscono pesantemente sull’ordinario funzionamento della legalità costituzionale e sul relativo corredo di principi. A cominciare da quelli afferenti alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato che, per restare all’accezione della giurisprudenza della Consulta italiana, implica la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, il divieto di discriminatorie distinzioni in ragione dell’appartenenza a una religione, l’eguale libertà di tutte le confessioni nonché il diritto di professare la propria fede e di farne eventualmente propaganda.

Sotto la minaccia terroristica, la tutela di questi beni rischia in altre parole di essere continuamente scompaginata da situazioni e regole eccezionali che, per questa via, tendono a (con)fondersi con quelle ordinarie rendendo piuttosto ardua la distinzione delle une dalle altre. Con tutto quello che ciò comporta per il lavoro dei giusdicenti, sempre più spesso chiamati ad applicare fattispecie alquanto generiche e indefinite per fenomeni altamente lesivi e altrettanto indecifrabili. E, come se non bastasse, lo scenario è ulteriormente complicato da posizioni che, talvolta con intenti propagandistici, alimentano una emplicistica (con)fusione fra terrorismo e Islam. Un’idea questa che, con variazioni più o meno evidenti, si è affermata all’interno di porzioni importanti di popolazione occidentale, condizionando non di rado l’attività di istituzioni e poteri pubblici.

2 – La lunga tradizione del diritto islamico

Se si analizzano con attenzione i numerosi attentati terroristici attuati dal 2001 a oggi sul suolo occidentale si scopre che, sotto l’aspetto religioso, il fattore comune non è l’Islam in quanto tale, come si sente spesso dire da alcuni commentatori: ciò che nei migliori dei casi denota una scarsa conoscenza della religione musulmana, mentre in quelli peggiori rileva la funzionale posizione degli impresari della paura e del relativo corredo di propaganda elettoralistica. Quello che in realtà accomuna le attuali forme di terrorismo e le attinenti condotte sono le variegate conformazioni di radicalismo, ispirate e armate da minoritarie, incolte, rozze, grossolane, letterali e strumentalmente orientate interpretazioni di alcuni tratti della lunga tradizione musulmana e di limitate prescrizioni religiose.

Interpretazioni che, come si accennava, finiscono però spesso per alimentare minacce pericolose, per un verso, e difficili da prevenire e scardinare, per l’altro. (Segue)

SardegnaCheFare?

lampada aladin micromicroCon l’articolo che segue proseguono le analisi e le proposte che Fernando Codonesu consegna al DIBATTITO sulla grande e impegnativa tematica del SardegnaCheFare?. Il primo contributo è pubblicato su Aladinews del 24 u.s. Gli articoli per un accordo tra Editori e Autore vengono pubblicati in contemporanea anche su Democraziaoggi.
allegoria agricolturaComparto agroalimentare
di Fernando Codonesu.
Quando si parla del lavoro nel settore dei prodotti della terra e dell’agroalimentare nel suo complesso, si deve essere in grado di indicare gli obiettivi di aumento della produzione specificandone i settori, le modalità, gli strumenti con cui tali incrementi vanno perseguiti, la tempistica e gli strumenti di monitoraggio e verifica che si vogliono mettere in campo.
Considerato l’altissimo volume di importazioni che caratterizzano il settore agroalimentare della nostra regione che interessano i formaggi, la carne, le farine, la verdure, il pesce ecc. al punto che le importazioni vengono quantificate all’incirca nell’80% dei consumi, è doveroso programmare un aumento della nostra capacità produttiva che consenta, con una tempistica a tre-cinque anni, di far crescere la bilancia commerciale regionale a nostro vantaggio almeno del 20%, riportando almeno intorno al 40% la nostra capacità di autoproduzione dei prodotti destinati ai nostri consumi alimentari.
Ciò significa aumentare la produzione in generale, ma la produzione può crescere soprattutto con l’innovazione, migliorando la qualità dei prodotti e riuscendo a rendere permanenti e convenienti le filiere corte sul mercato locale, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta.
Oggi si è consapevoli che non c’è una innovazione significativa nel lavoro della terra e, sul punto, si ritiene che ci sia tanto da innovare in termini di prodotti, tecnologie, nuovi macchinari, nuove coltivazioni, filiere certificate del cibo prodotto: Per fare un esempio, dal seme, alla semina, al metodo di coltivazione, al raccolto, al mercato fino alla tavola del consumatore: è questo che si deve imparare a fare perché il cibo non va considerato come una merce qualsiasi, ma come l’espressione più autentica della nostra cultura e della nostra identità.
Capacità di produzione e innovazione significa anche recupero delle numerose, troppe, grandi superfici del territorio regionale oramai abbandonate, considerate marginali rispetto alla produzione agricola. L’aumento della produzione e della qualità di prodotto potranno utilmente consentire di esportare una parte della produzione nel mercato nazionale ed internazionale contribuendo quindi a dare nuovo slancio e capacità di attrazione alla terra e alla produzione di cibo di qualità.
Non solo, bisogna anche razionalmente affrontare il tema delle vocazioni locali declinandole con le qualità delle coltivazioni, dell’allevamento e/o delle produzioni da attivare in un territorio piuttosto che in un altro. Ciò perché dobbiamo imparare a fare meglio ciò che facciamo già bene e incominciare a far bene, il che significa in modo da creare ricchezza e occupazione, ciò che invece non sappiamo fare ancora in modo profittevole o abbiamo disimparato a fare anche a causa del sistema assistenziale che ha caratterizzato per troppo tempo le attività delle campagne.
Solo dal settore agroalimentare, dalla ripresa razionale delle coltivazioni più specializzate e redditizie, con il recupero delle terre marginalizzate da riportare a nuova coltivazione, a nostro parere può essere possibile la creazione di alcune migliaia di micro e piccole aziende non solo a carattere familiare con la possibilità di un fattore moltiplicativo da tre a cinque, per un’ipotesi di occupazione complessiva a cinque anni di almeno 10.000 lavoratori. Purché ci sia un’azione di supporto, accompagnamento delle neo aziende almeno per un triennio, con verifica costante dei risultati a fronte delle risorse economiche messe a disposizione.
A patto che si incominci subito, anche utilizzando come volano un investimento che parta dalla Regione, ma sempre accompagnato da un impegno diretto dell’imprenditore privato che intenda cimentarsi nella nuova agricoltura.
E qui c’è una nota dolente da sottolineare sia per quanto riguarda la Regione (ma questo è fin troppo facile da evidenziare) che, più in generale per quanto riguarda l’assenza di imprenditori locali seri che sappiano rilanciare il territorio rispettano la vocazione e ci mettano risorse proprie perché senza un impegno di capitali propri non si può parlare di imprenditoria.

Emblematici, al riguardo, sono i casi del bando internazionale volto alla individuazione di manifestazioni di interesse per l’acquisto dell’azienda di Surigheddu e Mamuntanas e la recente vendita di SBS (società Bonifiche Sarde). Nel primo caso si tratta di un compendio agricolo di circa 1200 ettari, di grande valore paesaggistico e produttivo, in gran parte pianeggiante e poco coltivata, con l’eccezione di una porzione di circa 50 ettari utilizzata dall’Università di Sassari e con 20.000 metri cubi di edificato.
Che dire? Cercasi imprenditori sardi disperatamente!
Il caso di SBS appena concluso è noto: Bonifiche Ferraresi, la maggiore società agricola europea per superficie utilizzata quotata nella borsa italiana, 6.500 ettari con i mille appena acquistati per 9 milioni di euro comprensivi di tutti i fabbricati presenti, è la nuova proprietaria. Intanto è bene sapere che non appena è stato ufficializzato l’acquisto di SBS, Cassa Depositi e Prestiti (Ministero del Tesoro al 100%) è appena entrata nella compagine sociale con una quota del 20% pari a 50 milioni di euro.. Nel 2014, lo storico titolo di Piazza Affari ha avuto un cambio nell’assetto societario con l’entrata in scena di BF Holding, costituita da investitori italiani come Sergio Dompé (Farmaceutica), Fondazione Cariplo, Carlo De Benedetti (editoria, finanza, altro), il gruppo Gavio (autostrade), il gruppo Cremonini (carni e supermercati).
In buona sostanza, mettendo insieme le superfici di SBS con Surigheddu e Mamuntanas si poteva avere una delle aziende agricole integrate e produttivamente migliori d’Europa. I soldi che vengono trovati dagli imprenditori su menzionati tramite CDP non potevano/potrebbero essere trovati anche da una cordata id imprenditori sardi, purché seri, autorevoli e disposti a mettere propri capitali nell’impresa?
Un’agricoltura di qualità può essere fatta con una certificazione ambientale a monte garantita su tutto il territorio regionale e questo può essere un obiettivo di politica agricola e ambientale della Regione, al netto dei problemi già detti in precedenza derivanti dalle ampie zone inquinate da bonificare. A valle di tale certificazione, andrebbe fatta nel corso di un triennio dalle aziende private la certificazione di qualità di tutte le filiere produttive legate alla terra, ivi compreso ogni tipo di allevamento. E quindi una produzione biologica garantita e certificata in ogni area dell’isola sarebbe un eccellente strumento di commercializzazione in ogni tipo di mercato locale, nazionale e internazionale.
Ci sono risorse pubbliche e risorse private. Tra quelle pubbliche assumono grande rilevanza le risorse comunitarie che vanno perseguite creando gruppi di lavoro finalizzati a non perdere neanche uno dei bandi disponibili, ma soprattutto, a differenza del passato e del presente, non può più essere tollerato che non si riesca a spendere bene le risorse ottenute.
Le risorse private vanno assolutamente messe in campo con la convinzione che solo se c’è l’apporto delle risorse proprie le imprese vanno avanti e in tal modo si può confidare su una nuova imprenditoria della terra che intende crescere contando in maniera determinante sulle proprio forze. Il quadro politico regionale, quindi, è chiamato ad un grande lavoro di selezione da una lato, indicazione prospettica e delineazione di un programma di sviluppo sui diversi fronti dall’altro che siano in grado di creare occupazione.
Sappiamo tutti che nelle banche, a partire dal Banco di Sardegna (ancorché non più sardo) i risparmi ci sono e ben custoditi, ma con rendimenti e produttività pari a zero, almeno per le famiglie e imprese sarde, ma il problema del credito è un discorso che sarà affrontato successivamente.

Sicuramente lo sviluppo di questo comparto trova opportunità nel mercato locale come riequilibrio della forte dipendenza dei consumi sardi dall’esterno, nei mercati nazionali e in notevole parte nei mercati internazionali, in quanto il livello di qualità che la nostra terra può garantire sono certamente tra i più alti, tenendo conto dell’ambiente e del clima che caratterizza l’isola.
E’ sempre più necessario dare spazio e risorse ai giovani imprenditori con investimenti nell’innovazione di produzione, di prodotti e processi, di organizzazione e logistica distributiva.

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Nell’illustrazione in alto Andrea Valli, “Allegoria dell’Agricoltura”,
Municipio di Cagliari

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Formella Agricoltura Pisano Campanile Giotto
Agricoltura. Formella di Andrea Pisano, campanile di Giotto, Firenze.

La funzione propulsiva della Costituzione rafforzata dalla vittoria referendaria

Rencontres-1936-
ape-innovativaLa Costituzione repubblicana ha avuto diverse modifiche, non sempre migliorative; non lo è stata per esempio quella dell’art.81 che ha introdotto il principio castrante del “pareggio di bilancio”, tanto è che da più parti se ne richiede un’urgente modifica per ripristinare il testo originario (e anche noi concordiamo in tal senso). Tra le modifiche di carattere integrativo migliorative della Carta costituzionale indichiamo la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà introdotto con la modifica dell’art.118. Bene, così come per altri principi costituzionali allo stato insufficientemente o per nulla applicati, siamo convinti che la strepitosa vittoria referendaria rafforzi il carattere propulsivo della nostra Carta costituzionale sollecitandone la piena concreta attuazione anche in questo campo d’intervento. Ecco perché riprendiamo un editoriale di Emanuele Rossi contenuto nel rapporto Labsus sui beni comuni 2016, recentemente pubblicato e disponibile sul sito dell’associazione LabSus, che propone un condivisibile percorso metodologico denominato “ welfare generativo” che rende praticabile (pratica dell’obbiettivo) il principio costituzionale della sussidiarietà. (fm)
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Layout 1
WelFare generativo per la cura dei beni comuni
di Emanuele Rossi, sul Rapporto LabSus 2016

L’attuale fase storica dei sistemi di welfare pone, come a tutti ben noto, problemi di sostenibilità delle prestazioni ritenute necessarie per la garanzia dei diritti sociali, al fine di assicurare a tutti livelli adeguati di “benessere”. Ma come spesso avviene, i momenti di crisi possono indurre a ripensare a situazioni consolidate: non necessariamente per ridurre livelli acquisiti, quanto piuttosto per dare nuova forza a principi e strumenti innovativi. Può essere questo il caso del c.d. welfare generativo, espressione che sintetizza un percorso di ricerca e azione che la Fondazione Emanuela Zancan ha da diversi anni studiato, proposto e sperimentato: un percorso finalizzato a rendere i soggetti destinatari di interventi e prestazioni sociali protagonisti di azioni di “rigenerazione”, vale a dire di interventi a vantaggio della collettività, che potrebbero consistere in quegli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni su cui Labsus è fattivamente impegnata. Ciò richiede la responsabilizzazione di tali persone, “invitate” a rendersi disponibili per realizzare azioni a corrispettivo sociale: sia per rendersi utili, e perciò per migliorare il livello della loro qualità di vita e di dignità personale, e sia anche al fine di rendere maggiormente sostenibili i livelli di welfare. Tale prospettiva ha trovato nelle settimane scorse una concretizzazione in un disegno di legge che la Fondazione Zancan ha elaborato, e che è stato presentato alla Camera dei deputati da diversi parlamentari (C3763, prime firmatarie Iori e Lenzi).

La forza espansiva dei diritti
Prima di analizzare tale proposta, facciamo però un passo indietro, per comprendere il senso dell’affermazione iniziale. L’evoluzione dei diritti nel corso degli ultimi decenni è andata nella direzione, più che di un ampliamento del catalogo dei diritti in astratto considerati (il diritto alla salute, il diritto al lavoro, e così via), piuttosto dell’estensione dei contenuti riferibili a ciascuno di tali diritti. Ciò è avvenuto a seguito e come conseguenza di numerosi fattori, tra i quali – ad esempio – il progresso delle conoscenze in ambito scientifico e tecnologico; un generale incremento della qualità della vita e delle esigenze ad essa correlate; un innalzamento dell’aspettativa di vita; e così via. Si pensi, ad esempio, al “diritto alla salute” sancito dall’art. 32 Cost., per il quale è stata da tempo abbandonata la convinzione che faceva coincidere la “salute” con l’assenza di malattie (limitandone la tutela esclusivamente ad interventi di tipo curativo/riparativo), in favore di una concezione che richiede interventi di tipo relazionale ed anche affettivo, senza dei quali non si ritiene garantita una salute effettiva. Ed infatti, l’art. 1 della dichiarazione internazionale di Alma Ata del settembre 1978 definisce la salute “come stato di benessere fisico, sociale e mentale e non solo come assenza di malattia e di infermità”.
Analogamente possiamo dire per il concetto di (ed il relativo diritto alla) assistenza sociale, che l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea definisce come diritto a “un’esistenza dignitosa per tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. E’ evidente la flessibilità della nozione di «esistenza dignitosa», ma anche la sua forza espansiva in relazione alle condizioni economico-sociali di un contesto europeo comunque in progressiva crescita (al netto delle fasi di crisi, ovviamente). Altri esempi potrebbero aggiungersi (si pensi al diritto all’istruzione, al lavoro, alla tutela nel caso di disoccupazione, all’abitazione, alla protezione dell’infanzia, e così via): sebbene il nomen sia rimasto lo stesso nel tempo, il contenuto si è dilatato nel corso degli anni, ed i servizi che ad essi si riconnettono costituiscono un patrimonio rispetto al quale non è possibile arretrare, pena la percezione di una mancata garanzia dello stesso diritto. D’altro canto, le risorse pubbliche disponibili per garantire tale complesso di diritti e prestazioni non sono sempre sufficienti, anche – ma non soltanto – a causa della crisi economica da cui ancora non siamo usciti. Peraltro, è stata la stessa Corte costituzionale a porre in correlazione la garanzia dei diritti – e delle relative prestazioni – con le limitate risorse economiche: nella sentenza n. 248/2011 si legge infatti che “l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare”. Affermazione che qui non merita commentare, ma dalla quale emerge come il tema della sostenibilità dei sistemi di welfare si ponga in termini talvolta drammatici. Per queste ragioni (anche per queste ragioni) occorre esplorare soluzioni capaci di consentire il mantenimento di livelli di welfare adeguati senza abbandonare la prospettiva di accessi a carattere universalistico: e in tale direzione va la proposta di “welfare generativo” sopra indicata.

Welfare generativo e principi costituzionali
Tale proposta, tuttavia, muove anche da altre considerazioni, e tende a dare attuazione ad alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione. Tra questi, il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., da leggere in sistema con l’art. 4, secondo comma, Cost., per il quale “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ciò significa che la solidarietà richiesta dalla Costituzione presuppone un impegno attivo di ogni componente la collettività in vista del progresso sociale: collaborazione che può realizzarsi mediante un’attività di tipo lavorativo o professionale ma anche attraverso un’attività extra-lavorativa, di carattere volontario. Al contempo, la proposta mira a garantire i diritti fondamentali di ciascuno, con riguardo quindi al principio sancito dall’art. 2 Cost., in quanto il contributo che ogni persona, destinataria di interventi e prestazioni sociali, può offrire al perseguimento del bene comune produce valore non soltanto a vantaggio dei destinatari dell’attività, ma anche a favore della persona che realizza un’attività a vantaggio del bene comune. Potremmo dire, per sintetizzare, che è “dando che si riceve”, ovvero che si tutela il diritto di chi riceve una prestazione sociale aiutandolo a realizzare un’attività a beneficio di altri. Ed infine, la proposta di WG mira a dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà: essa consente e favorisce infatti la realizzazione di “attività di interesse generale”, indicando “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati” come la prospettiva da cui far scaturire proposte di attività da realizzare.

La prospettiva sussidiaria e solidarista della proposta
Detto quindi dei presupposti, analizziamo brevemente la proposta di cui si parla. L’idea è di collegare l’erogazione di una prestazione sociale da parte del sistema integrato (nelle varie forme di integrazione pubblico-privato possibili) alla attivazione da parte del soggetto destinatario della prestazione, nei termini di un impegno sociale a vantaggio della collettività: in altri termini, si propone che coloro che ricevono delle prestazioni “restituiscano” alla società qualcosa di quanto ricevuto, attraverso di quelle che vengono definite “azioni a corrispettivo sociale”. Con tale affermazione si intende far emergere il valore rigenerativo e di rendimento (sia economico che sociale, ma anche di arricchimento personale) delle prestazioni che vengono erogate, in quanto tali capaci di contribuire al progresso sociale. Esse richiedono e presuppongono il coinvolgimento attivo e responsabilizzante di quanti ricevono interventi di sostegno, e sono finalizzate a rafforzare i legami sociali, a favorire le persone deboli e svantaggiate nella partecipazione alla vita sociale, a promuovere il patrimonio culturale e ambientale delle comunità; in generale, ad accrescere il capitale sociale locale e nazionale. Tali azioni non avrebbero carattere obbligatorio, e non costituirebbero quindi condizioni sine qua non per l’erogazione del servizio che si riceve, bensì si dovrebbero collocare nell’area dell’azione libera, come tale espressione del principio di solidarietà sociale: per il quale, come affermato dalla Corte costituzionale in una celebre sentenza, “la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione delle profonda socialità che caratterizza la persona stessa” (sentenza n. 75/1992). Di conseguenza, essendo “azioni volontarie” e non “lavoro”, esse non possono in nessun caso assimilarsi ai “lavori socialmente utili”, almeno nella versione di questi ultimi che abbiamo conosciuto e che il legislatore ha regolato.
Circa la scelta a favore della volontarietà delle azioni “a corrispettivo sociale” convergono due motivazioni: da un lato, una scelta che potremmo definire di carattere etico (non costringere una persona che riceve una prestazione come garanzia di un proprio diritto a dover svolgere obbligatoriamente un’attività; ritenere che un’attività a vantaggio della collettività non possa essere imposta forzosamente; ecc.); dall’altro, le difficoltà di immaginare conseguen- ze, sul piano giuridico, all’ipotesi di eventuale inadempimento (non posso- no essere previste sanzioni, come è evi- dente per vari motivi). Tutto questo rafforza la prospettiva sussidiaria e solidarista della proposta.
Anche la prospettiva del “corrispettivo” richiede una precisazione, in quanto il termine può prestarsi ad equivoci, qualora esso sia inteso con riguardo al principio dello scambio di equivalenti: in tal senso “corrispettivo” equivarrebbe ad una sorta di “pagamento della prestazione”, non mediante trasferimento di denaro ma attraverso attività lavorativa (o comunque attraverso un facere). Non è questa la prospettiva che si intende perseguire: l’attività richiesta è (sarebbe) senz’altro collegata alla prestazione ricevuta, senza che però questo collegamento si sostanzi in uno scambio di equivalenti. Piuttosto, essa dovrebbe essere considerata alla stregua di uno “scambio” in termini di reciprocità: e questa prospettiva aiuta a comprendere ed inquadrare il senso della proposta, giacché la reciprocità non richiede equivalenza ma proporzionalità. In altri termini: colui al quale viene chiesta una prestazione non è tenuto a prestare un’attività che corrisponda al “costo” (non solo economico, evidentemente) della prestazione ricevuta; piuttosto, egli potrebbe essere tenuto a fornire una prestazione corrispondente alle proprie possibilità, sulla base pertanto di un progetto che necessariamente si deve configurare come personalizzato e concordato.
La realizzazione di questo sistema richiede un intervento sinergico di vari soggetti, istituzionali e della società civile (dallo Stato alle Regioni, dai Comuni al Terzo settore e alla rete dei cittadini attivi): tutti dovrebbero essere coinvolti, secondo i ruoli propri di ciascuno, a cooperare in una logica di “sistema”.
Credo che sia assai opportuno approfondire, all’interno di questa logica complessiva, le prospettive di interazione con la riflessione e le azioni provenienti da Labsus e relative, come si è detto, a interventi di rigenerazione e cura dei beni comuni: comune è l’intento di favorire un coinvolgimento dei “cittadini attivi”, ovvero di coloro che, prescindendo da vincoli di carattere associativo stabile, intendono mettersi insieme per la cura dei beni comuni e per lo svolgimento di attività di utilità sociale, in attuazione diretta del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, quarto comma, Cost. In tal modo, alle persone destinatarie di interventi e prestazioni sociali verrebbe offerta l’opportunità di esprimere la propria “autonoma iniziativa per lo svolgimento di attività di interesse generale”, favorendo in tal modo anche la loro creatività e le loro competenze da porre a servizio di tutti. Mi pare che la sintonia con l’azione di Labsus sia molto forte, e meriti di essere approfondita e valorizzata.

Europa dei popoli: ripartiamo dalla Grecia

imageIl Polifemo accecato image
di Nicolò Migheli

Non occorre aver fatto il classico. Nel nostro immaginario la Grecia porta con sé i miti fondanti di quel che siamo. In questi anni convulsi in molti hanno scritto che un’ Europa senza la Grecia non è. La stessa Europa è un mito greco, una principessa figlia del re dei Fenici rapita da Zeus travestito da toro bianco. Oggi però l’Europa della finanza apolide che governa, più che la principessa omonima ricorda il figlio Radamanto, che da re e legislatore sapiente si muta in giudice dei morti. Perché in questo l’UE è stata trasformata.

Una classe morta insensibile ad ogni richiesta che contravvenga il principio della remunerazione a breve del capitale finanziario. Chi non è d’accordo, chi ritiene che non debbano essere i ceti deboli a pagare, è sprezzantemente definito populista. Altra parola della neo lingua che ha colonizzato l’immaginario. I padri fondatori avevano pensato ad una unione tra pari, il voto tedesco identico a quello del minuscolo Lussemburgo.

L’Unione monetaria, in assenza di uno stato federale, ha trasformato quel sogno in incubo. In virtù dei differenziali economici e dei tassi di interesse bancari, si trasferisce ricchezza dai paesi poveri a quelli ricchi. Al di là delle vicende dei prestiti greci, su cui non vi è accordo neanche tra gli esperti, una cosa è sicura, la Germania è  più ricca e la Grecia sempre più povera. Responsabilità anche della classe dirigente greca, i cui partiti allora maggioritari, Nea Democratia e Pasok, sono stati definiti l’unica mafia che abbia fallito. È stato chiaro fin da subito però che la troika non aveva nessun interesse a negoziare diverse condizioni con Syritza. Tsipras e Varoufakis trattati come mendicanti.

L’obbiettivo primo era abbatterli. In un sistema ben oliato, la religione dell’austerità del costi quel che costi, non poteva accettare alcuna eterodossia. Nella teologia luterana manca il purgatorio, esiste il paradiso o l’inferno. Il debito in tedesco è sinonimo di colpa che va scontata sino in fondo. Però non è possibile mettere spalle al muro l’interlocutore, ogni buona negoziazione questo predica. Invece gli arroganti padroni d’Europa sono rimasti insensibili, sicuri che alla fine la paura del default avrebbe ridotto a miti consigli chiunque.

Il referendum greco è stato il tentativo disperato di Tsipras per avere un investimento popolare che lo legittimasse di più. È andata bene. Il NO a quelle proposte, riporta la Grecia a Bruxelles come membro della UE, di pari valore agli altri. Una randellata sulla testa di quella “sinistra” come Renzi e Martin Schulz, degni dei loro predecessori che nel 1914 fecero prevalere gli interessi delle èlite guerrafondaie su quelle delle classi popolari europee. Quel NO riapre la partita della democrazia nell’UE.

Un segnale forte contro le politiche di austerità che non risolvendo, anzi peggiorando il debito pubblico, hanno avuto come effetto l’impoverimento di milioni di persone. Il Polifemo della troika è stato accecato. E come il ciclope le borse e l’establishment burocratico reagiranno dando mazzate a destra e a manca. Non si rendono conto però che se gli europei non riescono a risolvere una crisi che riguarda il 2% del Pil dell’Unione, cosa può succedere quando si dovrà affrontare una crisi più grave?

Tirando la corda greca, gli gnomi di Francoforte e Bruxelles hanno spezzato il bene più prezioso, quello della fiducia nei loro confronti e nelle istituzioni europee. Venerdì scorso è scoppiata la bolla della finanza cinese col rischio di sommovimenti mondiali. Si racconta che frau Merkel da studentessa, nelle lezioni di tuffi, si lanciasse dal trampolino dopo che era già suonata la campanella. Troppo tardi. La speranza è che la paura di oggi faccia rinsavire le classi dirigenti europee. L’Europa è stata costruita dalle generazioni che avevano vissuto la II GM, le attuali èlite non hanno memoria delle guerre civili europee.

Questa è la realtà e i rischi di guerra si fanno più probabili. Il ministro della difesa polacco a seguito di esercitazioni militari, riferendosi alla paura della Russia, ha dichiarato che il tempo della pace in Europa era durato troppo. A 180 chilometri da Cagliari, la Tunisia dichiara lo stato di guerra con l’ Isis- Daesch. Ancora una volta siamo in mano ai sonnambuli? Parrebbe di sì.

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By sardegnasoprattutto / 6 luglio 2015 / Società & Politica
toro zeus rapisce europa

Il Catalogo Europa di Aladinews

F. Boucher Il ratto di Europa.IL CATALOGO EUROPA. F. Boucher, Il ratto di Europa. Qui il povero toro-Zeus pare proprio esausto e accasciato, privo di forze. (Sta facendo finta ?). Il mare sembra pure agitato, accorrono tritoni e nereidi e i soliti Amorini svolazzano festosi. Europa, dall’espressione, sembra una che la sa lunga…

Il Catalogo Europa

Gillis Coignet (Gillis met de Vleck : Aegidius Quinetus 1542-1599 AnversaIL CATALOGO EUROPA: Il ratto di Europa secondo Gillis Coignet (Gillis met de Vleck / Aegidius Quinetus, 1542-1599, Anversa): Il torello bianco nuota vigorosamente increspando la superficie del mare e facendo svolazzare il mantello di porpora della principessa. sul viso di Europa, forse, un’ ombra di rimpianto guardando, in lontananza, il paesaggio che sfuma all’orizzonte. (Qui il paesaggio è quello “antico”, filologicamente più corretto).
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Paolo Caliari (il Veronese)  Il ratto d' Europa IL CATALOGO EUROPA. Paolo Caliari (il Veronese): Il ratto d’Europa.
Il Veronese dipinge, in primo piano, Europa mentre viene aiutata dalle ancelle a sedersi sul torello, già incoronato di fiori, mentre due Amorini svolazzano in alto. La scena è divisa in tre tempi: in secondo piano, Europa è in groppa al toro che si dirige verso il mare e, infine, si vede sullo sfondo il toro che nuota.
In primo piano, tra gli alberi, si vede la cima di una piramide: ambientazione egizia? Oppure siamo di fronte al ricordo della piramide Cestia?
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Francesco Albani (1630)  Il toroZeusIL CATALOGO EUROPA. Francesco Albani (1630) – Il toro-Zeus nuota già allegramente ed energicamente, aiutato dagli Amorini: uno tira la corona del toro e apre la via, alcuni issano un mantello, come una specie di vela, un altro punge la coscia dell’animale (come se ce ne fosse bisogno…). Europa sembra protestare (debolmente) rivolta verso le compagne. Ma ormai nessuno può più far niente, il dado è tratto!

Il Catalogo EUROPA. Riprende oggi, giorno della Festa d’Europa…

Lambert Sustris  Amsterdam 1515-1584IL CATALOGO EUROPA - Lambert Sustris (Amsterdam 1515-1584).
Toni delicati, toro possente, fanciulla forzuta

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Alessandro Turchi detto Orbetto Verona 1578-1649
IL CATALOGO EUROPA - Alessandro Turchi (detto l’Orbetto, Verona 1578-1649)
Europa è già lontana… le amiche la chiamano dalla riva. L’Orbetto ha focalizzato la scena dalla parte di chi resta e non di chi va…
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Fernando Botero  Europa e il toro 1995IL CATALOGO EUROPA. Fernando Botero: Europa e il toro (1995).
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Il ratto della bella Europa secondo Jean Cousin il vecchio IL CATALOGO EUROPA: Il ratto della bella Europa secondo Jean Cousin il vecchio (Sens 1490-Parigi 1560 – Pittore manierista francese). Il torello-Zeus, ornato dalla coroncina fatta dalla fanciulla ignara (?) corre/nuota nel mare seguito da un corteo di delfini e amorini. Certo questa immagine è veramente fantastica!

Il Catalogo Europa

Claude Lorrain (1682)  Il rapimento di EuropaIL CATALOGO EUROPA: Claude Lorrain (1682) – Il rapimento di Europa è rappresentato nel contesto di un paesaggio marino del tempo, con tanto di velieri in mare e buoi al pascolo… ma nessuno si accorge di quel che bolle in pentola e i velieri, si presume, non riusciranno a raggiungere il toro quando inizierà a nuotare…
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Simon Vouet (1640)  Il torello IL CATALOGO EUROPA. Simon Vouet (1640) – Il torello ha un’espressione furbetta (sta tramando qualcosa…) mentre si abbassa per accogliere la fanciulla sulla groppa. Una delle amiche di Europa la sta ancora addobbando con una ghirlanda… gli Amorini danzano in cielo. Che scenetta squisita! Proprio “Rococò”.

Il Catalogo EUROPA

rembrandt ratto europa IL CATALOGO EUROPA. Rembrandt: la scena è quasi notturna e assai misteriosa ma credo che il paesaggio sia quello natìo… è lì che il pittore immagina che sia avvenuto il ratto.
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Rembrandt Ratto Europa particol

News sul Catalogo “Europa”

Il ratto di Europa Mosaico  III sec. d.C BeirutChi volesse anticipazioni rispetto alle pubblicazioni di Aladinews su IL CATALOGO “EUROPA” può consultare la pagina fb di Licia Lisei, curatrice del medesimo Catalogo.

Europa e Zeus nel Catalogo “Europa”

Europa sul toro-Zeus di Sconosciuto scultore di area veneta dopo il 1450IL CATALOGO “EUROPA”: Europa sul toro-Zeus di Sconosciuto scultore di area veneta (dopo il 1450).