Risultato della ricerca: crowdfunding

STUDI DI INTERESSE GENERALE. “Innovazione digitale nella campagna elettorale: il caso del microcredito in Podemos

50ee1f07-1130-46ba-a88d-8f37e86af43ePubblichiamo la presentazione dell’articolo intitolato “Digital innovation in electoral campaigns: the case of microcredit in Podemos” (tradotto “Innovazione digitale nella campagna elettorale: il caso del microcredito in Podemos) curato dai tre autori: Fabio G. Lupato, Ariel Jerez e Marco Meloni Lai). Ringraziamo in modo particolare Marco Meloni Lai, nostro collaboratore, per avercelo segnalato.
Di seguito l’abstract e le conclusioni, tradotti in italiano. Per quanti vorranno approfondire l’articolo è scaricabile integrale, in lingua inglese, come specificato più avanti.
ABSTRACT
Il crowdfunding ed altre forme di micro-donazione per il finanziamento delle campagne elettorali sono stati ampiamente studiati, soprattutto negli Stati Uniti. Tuttavia, il finanziamento partecipativo digitale in Europa, con un contesto normativo diverso che prevede il finanziamento pubblico, è stato meno analizzato. Questo articolo analizza gli effetti di uno strumento digitale di finanziamento della campagna elettorale innovativo: il microcredito.
I microcrediti consistono in piccoli “prestiti civili” che un partito politico richiede a membri e simpatizzanti per finanziare la sua campagna elettorale. Ad oggi sono stati capaci di creare fonti di finanziamento alternativo che hanno differenziato i partiti che li hanno utilizzati dai partiti più tradizionali, cambiando la struttura del finanziamento della loro campagna, ma hanno anche evidenziato diversi problemi legali (come il monitoraggio e la protezione dei dati), mostrando le difficoltà di regolamentare la digitalizzazione della politica.
Noi abbiamo studiato questo strumento e le sue conseguenze attraverso il caso del partito spagnolo Podemos – il primo ad implementarlo – nel periodo 2015-2021.
Articolo scaricabile (Open Access, in inglese) su: https://doi.org/10.1080/01442872.2023.2203479

Beni comuni: la legge regionale del Lazio da riproporre anche in Sardegna

lr-lazio-10-2019
- Legge regionale del Lazio 26 giugno 2019 n. 10 Promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni.

Lunedì

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Vivere urbano. FARE SPAZIO alle ATTIVITÀ CULTURALI

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copertina-spazi-cultEDDYBURG » I LIBRI DI EDDYBURG
Una guida per l’azione
di MAURO BAIONI E EDDYBURG E EUTROPIA su eddyburg

Gli spazi culturali conviviali vanno difesi dove sono sotto pressione, riconquistati dove sono sottratti, rivendicati dove possono essere attivati. Qui la prima guida di eddyburg, redatta in collaborazione con eutropian, per Fare spazio alle attività culturali.

FARE SPAZIO ALLE ATTIVITÀ CULTURALI
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Riace

alex-e-mimmoSolidarietà con Mimmo Lucano
Alex Zanotelli – Riace riparte!
Scriveva dal carcere Martin Luther King “L’individuo che infrange la legge perché la sua coscienza la ritiene ingiusta ed è disposto ad accettare la pena del carcere per risvegliare la coscienza della comunità circa la sua ingiustizia, manifesta in realtà il massimo rispetto per la legge”.
21 ottobre 2018 – Laura Tussi su peacelink
Alex Zanotelli – Riace riparte!

Per una nuova comune umanità
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Punta de billete – Save the date – Ricordati

books-are-a-uniquely-portable-magicGabriele Del Grande a Cagliari presenta “Dawla La storia dello stato islamico raccontata dai suoi disertori”
Venerdì 18 maggio alle ore 18.00 a Cagliari nella sala conferenze della Fondazione di Sardegna in Via San Salvatore da Horta, le associazioni Africadegna, CO.SA.S., Efys Onlus e la cooperativa il Giardino di Clara organizzano la presentazione del libro di Gabriele del Grande “Dawla La storia dello stato islamico raccontata dai suoi disertori”, edito da Mondadori e l’incontro pubblico con l’autore che dialogherà con Roberto Loddo del manifesto sardo.

Strade nuove

magatti-libroSussidiarietà economica, beni comuni e riforma del Terzo settore
di Umberto Di Maggio – su LabSus, 9 aprile 2018

I beni comuni sono strumenti per lo sviluppo comunitario, la rigenerazione e la promozione territoriale. Sono risorse per la coesione sociale e ricchezze imprescindibili per stimolare e radicare fiducia, reciprocità e sussidiarietà anche in campo economico. Il mercato infatti può (e deve) essere un luogo civile (Bruni, Zamagni 2015) di scambio e relazioni, prima che di lotta degli uni contro gli altri per il consumo egoistico e dissipativo. Può essere un’occasione per collaborare, cooperare e cioè per cercare e fare insieme il bene comune. Questa premessa per evidenziare come i beni comuni e la sussidiarietà (anche economica) possono essere le parole chiave per una lettura tematica delle interessanti recenti modifiche del 2017 alla normativa nazionale di riforma del Codice del Terzo settore a regolamentazione anche dell’ampio e variegato ecosistema dell’imprenditoria sociale, che fa dei beni “per tutti” un punto di riferimento irrinunciabile.

I beni comuni nella Riforma

A proposito di sussidiarietà va riconosciuto, innanzitutto, che la sua importanza è gia chiara nei principi generali. All’art. 2, infatti, si dice che “è riconosciuto il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne è promosso lo sviluppo salvaguardandone la spontaneità ed autonomia, e ne è favorito l’apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali”. Ciò significa che la collaborazione (individuale o associata) tra cittadini, e fra essi e le diramazioni territoriali dello Stato è la strada maestra per la coesione sociale e l’interesse generale.
Nel testo, in materia di beni comuni è evidenziata l’importanza della loro cura attraverso l’attivazione volontaria della cittadinanza (art. 63). La contemporanea revisione della disciplina in materia di impresa sociale ha inoltre evidenziato la priorità della loro riqualificazione quando per beni comuni possiamo intendere beni pubblici inutilizzati o beni confiscati alla criminalità organizzata (Di Maggio, Notarstefano, Ragusa 2018). Inoltre ha sottolineato come queste attività, insieme a molte altre, rientrino appieno nell’interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale valorizzando e promuovendo l’attivazione e la mobilitazione dei cittadini anche in associazioni, cooperative ed imprese sociali.
L’aggiornamento normativo ha evidenziato anche importanti novità circa le misure fiscali e di sostegno economico. E’ prevista, ad esempio, una razionalizzazione e semplificazione della deducibilità e detraibilità per le persone giuridiche e fisiche che intendono procedere con erogazioni liberali al fine di promuovere e stimolare comportamenti cosiddetti donativi. Ciò sembra essere coerente con il principio di sussidiarietà (art. 118 ultimo comma della Costituzione) e con quello di solidarietà (art. 2 della Costituzione). Attraverso queste forme di sostegno orizzontale i beni comuni possono rigenerarsi ed uscire dallo stato di depauperamento in cui troppe volte purtroppo si trovano a causa di mancato o cattivo utilizzo.

Forme di sostegno e beni immobili

In particolare nel decreto legislativo del 3 luglio 2017 n° 117 è evidenziato lo strumento del cosiddetto “Social Bonus” (art. 83) che prevede un credito d’imposta per donazioni a sostegno del recupero degli immobili pubblici inutilizzati e dei beni sottratti alla criminalità organizzata. Nella stessa legge è istituito un fondo presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 72) per progetti promossi dalle organizzazioni del Terzo Settore e, soprattutto, è evidenziata la valorizzazione di beni culturali ed ambientali, secondo i criteri della semplificazione e di economicità, e l’assegnazione – anche in forma consorziata – di immobili pubblici inutilizzati e di beni confiscati.
Queste novità hanno un portato innovativo di grande importanza che va letto, attualizzato e contestualizzato alla natura di quegli stessi beni immobili ed a quella dei contesti geografici e sociali in cui quelle strutture si trovano. Non va dimenticato, ad esempio, che molti beni sottratti alle mafie (ma lo stesso può dirsi di tanti beni pubblici che confiscati non sono) si trovano all’atto dell’assegnazione al soggetto gestore in condizione di estrema difficoltà. Le cause, ovviamente, sono tante e l’affidamento da parte dell’Ente locale a soggetti facenti parte dell’associazionismo, della cooperazione, del volontariato e più in generale del Terzo Settore non può essere soluzione da “ultima spiaggia”. Un virtuoso riutilizzo dei beni comuni, Labsus l’ha evidenziato ad esempio nel modello di regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministratori per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani, non può prescindere dai principi di continuità, inclusività, integrazione e sostenibilità anche economica.
Altre forme di sostegno previste dalla legge sono quelle di natura finanziaria di crowdfunding del Social Lending (art. 78 D.Lgs. 117/2017). Per queste forme innovative di raccolta di denaro attraverso piattaforme online il legislatore ha previsto agevolazioni sulle remunerazioni a chi presta denaro per progetti a valore sociale, anche e soprattutto per quelli che prevedono la riqualificazione di strutture pubbliche inutilizzate o di beni confiscati (art. 5 lett. z) con una tassazione equiparabile a quella degli interessi sulle obbligazioni pubbliche.

Altri programmi e misure finanziarie di supporto

Prescindendo dalla riforma del Terzo settore, ma restando nell’alveo degli strumenti di programmazione istituzionale di natura finanziaria messi di recente in campo in materia di beni confiscati alle mafie è certamente da citare la misura “Imprese sequestrate o confiscate alla criminalità organizzata” del Ministero dello Sviluppo Economico che eroga un sostegno a tasso zero alle imprese sottratte alle mafie. Tale programma di 48 milioni di euro è stato previsto a seguito della Legge di stabilità 2016 (art. 1, comma 195, legge 28 dicembre 2015, n. 208) che ha stanziato 30 milioni di euro per il periodo 2016-2018, a cui vanno aggiunti altri 10 milioni previsti dalla Legge di bilancio 2017. A questo va aggiunto il programma “Banca delle Terre incolte” previsto nel decreto Mezzogiorno (91/2017) per la crescita socio-economica del Sud Italia attraverso la concessione a giovani di terre incolte ed improduttive al fine di un loro pronto riutilizzo ed infine la misura “Resto al Sud” per la promozione dell’autoimprenditoria giovanile.
L’esposizione degli strumenti va anche arricchita con quelli direttamente a disposizione degli enti pubblici in materia di riutilizzo di beni pubblici e di partecipazione civica alla rigenerazione di spazi collettivi. Va citato il Programma Operativo Nazionale plurifondo Città Metropolitane 2014-2020 “PON Metro” che si inserisce nel quadro più generale dell’Agenda Urbana nazionale e delle strategie di sviluppo urbano sostenibile per una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile della “Strategia Europa 2020”. Interessante è il riferimento all’innovativo percorso di “co-progettazione strategica” di confronto tra i diversi soggetti del partenariato strategico delle 14 città metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino, Venezia) sede degli interventi. L’azione 4.2.1., in particolare, prevede il “Recupero di immobili inutilizzati e definizione di spazi attrezzati da adibire a servizi di valenza sociale” e mira a sostenere il miglioramento del tessuto urbano attraverso l’attivazione dell’economia sociale per lo start-up di nuovi servizi di prossimità in territori e quartieri di forte criticità. Tra i risultati attesi dall’azione “Inclusione sociale” si prevede la creazione ed il recupero di 2270 alloggi per famiglie con particolari fragilità sociali ed economiche, il recupero di 35600 mq di immobili inutilizzati da destinare a servizi del terzo settore, un percorso di pronto intervento per individui senza dimora e per comunità Rom, nonché di inserimento lavorativo, sociale ed educativo, sanitario e di accompagnamento all’abitare per individui a basso reddito e con gravi forme di disagio.
Questo elenco di provvedimenti non è certamente esaustivo. Al quadro generale dei progetti in corso di attuazione in materia di politiche di coesione vanno aggiunte infatti le tante opportunità per il volontariato ed il Terzo Settore da parte di Fondazioni e non solo.

Tutto ciò certamente si inserisce all’interno del più generale ragionamento sull’economia circolare (Bonomi 2017) e sul valore dei beni comuni che, come si è detto in premessa, hanno la capacità di contribuire allo sviluppo economico e sociale delle comunità e alla custodia rigeneratrice (Venturi, Zamagni 2017) dei territori e dei patrimoni (materiali ed immateriali) di cui quegli stessi territori sono dotati. Si lega anche al grande valore della sussidiarietà che stringe in un patto di corresponsabilità e reciprocità cittadini-Stato-mercato, non prescindendo proprio dal destino dei beni comuni di cui l’uso virtuoso è tale solo se condiviso, circolare, inclusivo.

Riferimenti bibliografici

Bruni L., Zamagni S., (2015), L’economia civile, Il Mulino, Bologna
Bonomi A., (2017), La società circolare, Derive Approdi, Roma
Di Maggio, U., Notarstefano. G., Ragusa G., (2018). Ri–conoscere i beni confiscati. Un percorso tra partecipazione, condivisione e trasparenza – in Economia, organizzazioni criminali e corruzione di Ingrassia, R. (a cura di), Aracne Editrice, Roma
Venturi P., Zamagni S., (2017), Da Spazi a Luoghi, Aiccon, Short Paper, 13/17, Bologna

Oggi mercoledì 31 maggio 2017

————————————Il commento——————————————–
democraziaoggiCaro Pigliaru, a quando le dimissioni?
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Caro Pigliaru,
ti scrivo con la preoccupazione del cittadino e l’ansia dell’amico. Lo faccio per spirito di servizio verso la Sardegna, di cui per un decennio ho avuto l’onore d’essere rappresentante in Consiglio regionale, e per l’istintivo senso di protezione che si ha verso uno […]
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sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. SardegnaCheFare? Rapporto Crenos 2017: la consegna è sorridere, ma purtroppo la realtà ci dice che non c’è ragione di farlo
UNA QUESTIONE DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ DIFFUSA
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di Marco Zurru, su fb
—————————————Beni Comuni Urbani———————————–
labsusAddio postmoderno, benvenuto expostModerno. A Bari un crowdfunding per #uncinematuttonostro
Giovanna Magistro – 30 maggio 2017, su LabSus.
Ci parlano di un’Italia di giovani disoccupati, Neet e in fuga dal nostro paese. Noi vi vogliamo parlare anche di altri giovani, protagonisti nella società. Giovani rivoluzionari, capaci di avviare esperienze innovative che cambiano il volto delle loro città e di chi le vive.(…)
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SOCIETÀ E POLITICA »GIORNALI DEL GIORNO» ARTICOLI DEL 2017
eddyburgLe buone carte per un gioco truccato
di Norma Rangeri, su il manifesto, ripreso da eddyburg.
«Se è vero che l’Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all’opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto». il manifesto, 30 maggio 2017 (p.d.)
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programma_Unica&Imprese_2017_008
Tutte le informazioni sul sito web di Unica.
********* Registrazione all’evento.
logo_crea-unica-01_trasparente_white-01E’ online il sito web di Crea.Unica.
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linkiesta logoIl lavoro è un diritto, ma se non crea ricchezza sociale non serve a nulla
I militanti del Movimento 5 Stelle sono scesi a manifestare per il “diritto al non lavoro”, il reddito di cittadinanza. Ma il vero problema dell’Italia non è l’articolo 1 della Costituzione, quanto il ripensamento di un modello di società e di mobilità sociale al passo coi tempi
di Francesco Luccisano , Stefano Zorzi, su LinKiesta.

Terzo Rapporto sull’innovazione sociale in Italia

forumpa il pensatoreL’INNOVAZIONE SOCIALE IN ITALIA, TRA GRANDI IMPRESE E PROMOTORI LOCALI
Pubblicato il 14/04/2017 su
logo_il-giornale-delle-fondazioni

di Vittoria Azzarita

Il Centro di Ricerche Internazionali sull’Innovazione Sociale (CERIIS), costituito all’interno dell’Università Luiss Guido Carli e sostenuto dalla Fondazione ItaliaCamp, ha presentato la terza edizione del Rapporto sull’innovazione sociale in Italia. Curato da Matteo Giuliano Caroli e pubblicato da FrancoAngeli, lo studio offre una panoramica delle esperienze innovative e socialmente rilevanti presenti nel nostro Paese, dedicando per la prima volta, una parte del volume ai risultati di un’indagine empirica condotta su un campione di grandi aziende italiane, al fine di comprendere il loro coinvolgimento nell’innovazione sociale. Il Rapporto illustra, inoltre, le fondamentali caratteristiche dell’innovazione sociale in Italia attraverso l’analisi di 578 casi, raccolti e catalogati nel database del CERIIS. A partire da tali dati, lo studio offre numerosi spunti di riflessione sul ruolo che i diversi attori dell’innovazione sociale possono giocare, in un ambito in cui l’eterogeneità delle iniziative rischia di ostacolare la piena comprensione del fenomeno.

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L’innovazione sociale delle grandi imprese è il tema al centro del Terzo rapporto sull’innovazione sociale in Italia[1], a cura del Centro di Ricerche Internazionali sull’Innovazione Sociale (CERIIS), costituito all’interno dell’Università Luiss Guido Carli e sostenuto dalla Fondazione ItaliaCamp. Facendo riferimento alle definizioni maggiormente accreditate, è possibile parlare di innovazione sociale quando un bisogno collettivo riesce ad essere soddisfatto grazie all’identificazione di una nuova soluzione di tipo tecnologico oppure relazionale, più efficiente rispetto a quelle precedenti, e capace di generare un impatto strutturale a vantaggio della società nel suo complesso.

Verso la “Corporate Social Innovation”
Lo studio del CERIIS si apre con la presentazione dei risultati di un’indagine empirica, condotta attraverso la realizzazione di interviste ai manager responsabili delle politiche di sostenibilità di 13 grandi aziende italiane, al fine di rilevare la propensione all’innovazione sociale del sistema delle imprese, solitamente poco considerato negli studi che analizzano la diffusione di questo tipo di interventi sul territorio nazionale. Le realtà produttive di ampie proporzioni rappresentano un oggetto di studio di notevole interesse in quanto vengono percepite come “standard setter”, ossia come attori capaci di influenzare il contesto in cui operano e di definire i parametri di comportamento e qualità del loro settore di riferimento, in virtù del peso economico che esercitano e della rilevanza sociale delle loro attività.

La tesi, sostenuta dagli autori della ricerca, è che le aziende di grandi dimensioni possono produrre innovazione sociale apportando cambiamenti significativi alle loro azioni a favore della sostenibilità. Il ragionamento portato avanti dai ricercatori del CERIIS si fonda sull’idea che le pratiche di responsabilità sociale, già attuate dalle grandi imprese, possano tradursi in quella che loro definiscono “Corporate Social Innovation” quando le soluzioni innovative sviluppate dalle aziende usano una nuova tecnologia e istituiscono modalità progressivamente più avanzate di coinvolgimento degli stakeholders, per produrre un impatto rilevante, diffuso e duraturo nel tempo, rispetto alla dimensione del problema sociale e ambientale che affrontano. Per dirsi tale, un’innovazione sociale introdotta da un importante soggetto imprenditoriale deve attivare un nuovo processo produttivo e una inedita procedura di interazione con fornitori, clienti e finanziatori, con l’intento di rendere la creazione di benefici collettivi un obiettivo intrinseco dell’attività d’impresa.

L’analisi di tipo esplorativo realizzata dal CERIIS ha individuato diverse declinazioni del concetto di innovazione sociale applicato alle imprese di grandi dimensioni, evidenziando un doppio livello di implementazione di tali pratiche da parte delle aziende. Seguendo un approccio di tipo incrementale, è molto probabile che in un primo momento un’impresa decida di introdurre «forme di innovazione sociale basate sulla tecnologia, sulle relazioni e sull’intervento nel modello di business», recependo gli stimoli provenienti dall’esterno. Solo quando queste innovazioni diventano parte integrante dell’intero complesso aziendale, l’impresa è pronta a sviluppare «delle modalità distintive della propria natura atte a distinguerla come soggetto imprenditoriale», e quindi a innovare anche il proprio modello organizzativo e di governance. La ri-progettazione del modello di business e la ri-modulazione delle dinamiche interne, a vantaggio della società nel suo complesso, implica il massimo coinvolgimento di un’azienda nell’innovazione sociale.

Analizzando i diversi tipi di innovazione, lo studio indaga l’innovazione relazionale come progressivo coinvolgimento degli stakeholder da parte delle imprese nelle pratiche di sostenibilità. Questo aspetto non solo denota un’apertura verso l’esterno, ma è sintomatico della volontà di istituire legami stabili per trovare soluzioni a interessi sociali sociali condivisi e creare vantaggio competitivo. Le interviste effettuate evidenziano che nel 50% dei casi le aziende hanno un confronto strutturato con i propri interlocutori di riferimento, discutendo con loro le azioni per la sostenibilità. Tuttavia la ricerca fa notare come risulti ancora «piuttosto scarsa la condivisione degli obiettivi aziendali con gli stakeholder nonché la loro inclusione nella definizione di orientamenti strategici basati sulla sostenibilità. Infatti, nonostante l’importanza delle relazioni con gli stakeholder quale leva del valore, nel campione esaminato resta limitato il numero di imprese che include tale elemento nel processo di definizione del proprio approccio alla sostenibilità».

Sul fronte dell’innovazione tecnologica, la maggior parte delle imprese intervistate (88%) decide in maniera autonoma di introdurre una nuova tecnologia che consente di riformulare alcuni processi aziendali per soddisfare determinate esigenze ambientali e sociali, indipendentemente da particolari previsioni normative. Nel 45% dei casi tali innovazioni tecnologiche riguardano il miglioramento dell’impatto ambientale in generale; seguono la riduzione delle esternalità negative conseguenti alla produzione e/o immissione nel mercato di prodotti/servizi (25%); il miglioramento strutturale delle condizioni di lavoro dei dipendenti e del loro grado di soddisfazione (19%); e il miglioramento dell’accesso ai prodotti/servizi dell’impresa da parte di categorie svantaggiate (13%). Strettamente legata all’innovazione tecnologica risulta essere l’innovazione del modello di business, che rende l’innovazione sociale un’opportunità di mercato, facendola divenire parte integrante dell’orientamento strategico dell’impresa. A questo proposito, la ricerca evidenzia che «la maggior parte delle risposte fornite nelle interviste riguarda la volontà di introdurre la sostenibilità nel proprio concetto di prodotto non solo per soddisfare i clienti, e quindi incrementare il valore economico, ma anche al fine di creare valore sociale per la collettività (53%)».

Con riferimento alle grandi imprese, il maggior grado di maturità dell’innovazione sociale viene raggiunto quando si ha un’innovazione del modello organizzativo e di governance, ossia quando l’innovazione sociale entra nella funzione strategica e decisionale. I risultati dell’indagine indicano che la maggior parte del campione sceglie di introdurre un’innovazione organizzativa orientata alla sostenibilità per motivi riconducibili non solo alla volontà degli attori interni all’impresa (come ad esempio i lavoratori o altri stekeholder), ma anche per incrementare l’impatto collettivo generato (50%), evidenziando un impegno consapevole nei confronti dell’ambiente e della società. Tuttavia, le evidenze riguardo l’innovazione di governance orientata alla sostenibilità mostrano come nel 67% dei casi essa è frutto dell’applicazione di specifiche previsioni normative. Tale risultato dimostra che solo nel 33% dei casi, le aziende decidono di modificare il proprio modello di governance al fine di supportare l’approccio strategico adottato e diventare un esempio per le altre aziende del settore. La ricerca del CERIIS conclude che nonostante «l’innovazione orientata alla sostenibilità rappresenti un elemento ampiamente condiviso dalle imprese e piuttosto formalizzato nel proprio orientamento strategico, è ancora parziale l’impegno diretto che esse assumono verso iniziative sociali innovative e il loro conseguente impatto».

I numeri dell’innovazione sociale in Italia
Il rapporto del CERIIS traccia anche una panoramica delle pratiche di innovazione sociale presenti in Italia, attraverso lo studio di 578 casi sistematizzati in un apposito database. Rispetto alle rilevazioni elaborate nella precedente edizione del rapporto, in cui i casi esaminati erano 462, la ricerca mostra un incremento delle «esperienze in grado di soddisfare un bisogno sociale e/o ambientale, o, comunque, di creare beneficio collettivo, attraverso modalità (relazionali e/o tecnologiche) innovative». In particolare, «dai dati disponibili si evince una maggioranza di innovazioni di tipo relazionale (52%), le quali si sviluppano grazie a reti di organizzazioni e soggetti che si scambiano informazioni, conoscenze e know-how». Interessante notare come, rispetto al tipo di innovazione, l’innovazione relazionale sia diventata la modalità predominante nello scenario italiano: infatti, se nella seconda edizione del rapporto vi era una distribuzione pressoché omogenea tra innovazione di tipo relazionale, innovazione tecnologica e casi in cui erano presenti entrambi i tipi di innovazione, l’ultima indagine pone in evidenza una crescita dell’innovazione relazionale soprattutto a scapito dell’innovazione tecnologica (molto più costosa) che scende dal 35% al 21%, mentre i casi in cui vengono prodotte entrambe le innovazioni passano dal 30% al 27%. Le pratiche socialmente innovative nascono quindi «da nuove forme di collaborazione e di cooperazione tra soggetti di diversa natura che trovano un allineamento di interessi per il raggiungimento di un obiettivo comune, in cui la dimensione relazionale e comunitaria assume un ruolo fondamentale, e fa sì che l’iniziativa raggiunga il maggior numero di beneficiari».

La distribuzione del campione rispetto agli ambiti di intervento, mostra che le quattro categorie più rappresentate risultano essere l’integrazione sociale (16%), l’assistenza sociale (13%), la formazione (11%) e il miglioramento ambientale (11%). Se si confrontano questi dati con quelli dell’anno precedente, si nota come la differenza principale sia dovuta a una diversa denominazione dei settori di appartenenza. Nell’ultima rilevazione sono stati inseriti due nuovi ambiti, denominati rispettivamente “Crowfunding – Microcredito” e “Coworking – Smartworking”, ed è stata eliminata la categoria “sharing and pooling economy” (in cui erano compresi le piattaforme per la condivisione/scambio di beni, le piattaforme per la condivisione di servizi, il trasferimento di competenze e gestione dati, e il crowdfunding e microcredito). Tuttavia sommando le percentuali delle due nuove categorie si ottiene un valore pari al 17%, di fatto molto vicino al 19% totalizzato nel 2015 dalla sharing and pooling economy, mostrando quindi una ripartizione sostanzialmente invariata rispetto agli ambiti di intervento. Anche la cultura si mantiene stabile al 6% da un anno all’altro, lasciando intendere che continuano ad esserci ampi margini di sviluppo per le pratiche di innovazione sociale a base culturale.

Per quanto riguarda la tipologia di attori dell’innovazione sociale, le organizzazioni non profit emergono come protagoniste sia in qualità di attuatori che come promotori delle iniziative. In ogni caso, lo studio evidenzia che in un ambito economico caratterizzato da soggetti non profit, si assiste però a un crescente aumento delle realtà imprenditoriali: infatti se nel 2015 le organizzazioni non profit rappresentavano il 58% del campione, nel 2016 sono il 53%; al contempo le realtà for profit sono passate dal 24% al 33%. «Questo cambiamento di scenario sembrerebbe dovuto al crescente interesse anche da parte del mondo profit verso le tematiche sociali spinte dal contesto di mercato e statale. Vi è sempre più attenzione all’innovazione sociale da parte di tutta la collettività e anche lo Stato, facendosi promotore di questo tipo di iniziative, aiuta lo sviluppo di questa branca dell’economia incentivando la creazione di start-up e imprese».

I principali modelli di innovazione sociale
Tra i numerosi spunti di riflessione e approfondimento, la terza edizione del rapporto CERIIS ospita anche la ricerca condotta da Riccardo Maiolini e Luca Mongelli sui cluster dell’innovazione sociale in Italia, che ha il merito di presentare una possibile sistematizzazione delle pratiche innovative e socialmente rilevanti presenti nel nostro Paese, offrendo una chiave di lettura che facilita la comprensione di un fenomeno ancora poco conosciuto e multi sfaccettato. Utilizzando la tecnica esplorativa della cluster analysis, i due ricercatori hanno cercato di suddividere tutti i casi di innovazione sociale – raccolti del database elaborato dal CERIIS – in un numero ristretto di sottogruppi che presentassero delle caratteristiche omogenee al loro interno, ma che fossero allo stesso tempo sufficientemente diversi gli uni dagli altri. A seguito delle analisi effettuate, gli autori sono giunti all’individuazione di quattro principali modelli in cui è possibile ripartire le esperienze di innovazione sociale attualmente attive in Italia. La caratteristica discriminate di ciascun modello è data dalla natura del promotore, che tende a dar vita a diverse modalità d’azione a seconda che sia un’impresa, una organizzazione non profit, una comunità, oppure un attore pubblico di tipo istituzionale.
A partire da tale distinzione, si possono avere innovazioni sociali: 1) con un modello di business economicamente sostenibile il cui promotore sia un’impresa; 2) di tipo filantropico promosse da enti senza scopo di lucro; 3) di comunità; 4) di tipo istituzionale il cui promotore è un attore pubblico. Nel caso delle innovazioni sociali promosse dalle imprese, la sostenibilità economica risulta essere un fattore peculiare di tali iniziative, rendendole indipendenti e in grado di sostenersi da sole.
Le innovazioni sociali di tipo filantropico sono iniziative con un alto grado di innovatività nell’esecuzione e nel lancio. La maggior parte delle organizzazioni non profit appartenenti a questo cluster sono promotori non solo esecutivi dei progetti ma anche finanziari (come nel caso delle fondazioni). Come messo in evidenza dagli autori della ricerca, nel modello filantropico le logiche di attuazione delle iniziative sono quelle tipiche del Terzo Settore, e come tali seguono le loro logiche e i loro canali di costruzione dei progetti. «Questo aspetto rappresenta una importante opportunità e allo stesso tempo una sfida per il mondo del non profit, che deve cercare di aprirsi verso logiche di mercato per ampliare il proprio raggio di azione».

Le innovazioni sociali di comunità presentano una coincidenza tra promotore e attuatore. «Se si guarda nel dettaglio ai progetti in questo cluster si spiega il perché di questa coincidenza. Le logiche tipiche di una comunità richiedono delle specifiche attuative che soltanto la comunità stessa è in grado di svolgere. Si tratta di categorie di iniziative per la maggior parte afferenti alla condivisione di servizi o beni all’interno della comunità. La comunità è il vettore o il luogo attraverso cui si genera un legame relazionale alla base dello scambio. Tale logica di fiducia relazionale può istituirsi solo all’interno della comunità stessa, per cui si ha la necessità che il promotore e l’attuatore parlino la stessa lingua e seguano le stesse logiche».
Infine le innovazioni sociali di tipo istituzionale, in cui l’attore pubblico svolge il ruolo di promotore, risultano essere le iniziative caratterizzate dal maggior grado di innovatività, in virtù del ruolo abilitante che l’ente pubblico può svolgere in tali processi.

«Nel fenomeno dell’innovazione sociale le reti composte da differenti soggetti sono una peculiarità. Grazie a queste reti, i soggetti che partecipano come sostenitori e/o finanziatori alla creazione delle condizioni per l’attuazione del progetto riescono ad aggregare competenze, conoscenze e risorse e ad amplificare il loro sostegno». Questa interpretazione è rilevante per tutti coloro che affrontano il tema dell’innovazione sociale, cercando di fare sistema. In quest’ottica – proprio perché maggiormente incisivo – l’attore pubblico dovrebbe farsi promotore non solo di nuove pratiche di innovazione sociale, ma anche della scalabilità del fenomeno, incentivando le occasioni di confronto tra diversi attori e mettendo in comunicazione mondi e tipologie organizzative tra loro distanti, al fine di promuovere progetti sempre più inclusivi.

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Ph: William Murphy. Dublin Contemporary 2011. Immagine in licenza Creative Commons

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Nuove soluzioni per nuovi bisogni. Il fenomeno dell’innovazione sociale in Italia
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[1] Il rapporto è liberamente scaricabile dalla piattaforma FrancoAngeli Open Access al seguente link http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/220

Riusiamo l’Italia. Riusiamo la Sardegna. Praticando l’obbiettivo, noi ripartiamo simbolicamente dalla Scuola Popolare di Is Mirrionis

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con Arkimastria
lampada aladin micromicroCon i giovani amici di Arkimastria del Dipartimento di Architettura di Alghero (nella foto, al centro, la presidente Adele Pinna e il vice presidente Pasquale Lotto) e con il prof. Aldo Lino sosteniamo il “Comitato promotore della Consulta Is Mirrionis-Scuola Popolare” per la partecipazione al Bando Culturability. Abbiamo un buon progetto per la “rigenerazione” del nucleo di quartiere dove c’è lo stabile che ospitò la Scuola Popolare di Is Mirrionis negli anni ’70. Quello che progettò Maurizio Sacripanti e che fu realizzato negli anni Cinquanta. Lo porteremo avanti con il pieno coinvolgimento della popolazione dei quartiere e della città. Di seguito alcune elaborazioni (tratte dal sito “riusiamolitalia”) di cui si avvale il progetto allo stato in fase di definizione.
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DOCUMENTAZIONE da RIUSIAMOL’ITALIA
CANTIERE ANIMATO: NUOVI APPROCCI ALLA PROGETTAZIONE
La progettazione del riabitare uno spazio pubblico si basa sempre più su percorsi che attivano incontri tra persone (spesso giovani) interessati al riuso a fini culturali e sociali di spazi vuoti ed Enti proprietari interessati a questo tipo di “rigenerazioni”, anche temporanee.

Oggi i territori vivono una situazione del tutto nuova, con una crescita smisurata di spazi che vengono progressivamente lasciati vuoti, privi di una loro funzione dʼuso. Eʼ un fenomeno particolare che vede il passaggio da “persone senza spazi” a “spazi senza persone”. Ciò sia nelle aree urbane, che nei territori rurali, dove lʼIstat ha mappato (ad aprile 2015) ben 6.000 “paesi fantasma”, intesi come agglomerati abitativi abbandonati.

Molte esperienze in Italia segnalano già il riuso di questi spazi come esperienza di creazione di valore sociale, culturale ed anche economico /occupazionale. Esistono però sia barriere che difficoltà allʼincontro tra giovani (ed in generale cittadini) interessati a questa rigenerazione e chi ha la proprietà / disponibilità di questi beni (nonostante diverse leggi ed in particolare lʼart. 24 dello Sblocca Italia).

Per favorire questi processi, nei Comuni e/o nei quartieri (comprese le periferie) in cui le relazioni e gli incontri tra persone ed istituzioni sono ancora possibili e fondati su un capitale fiduciario, si possono promuovere percorsi di riuso di questi spazi, affinché diventino “beni comuni”. Un concetto diverso sia da quello di bene di proprietà pubblica, che privata, interessante perché dà meno importanza a questa dimensione per privilegiarne la fruizione d’uso che lo spazio assume (“rivolta alla gente comune”). I “beni comuni” sono quindi spazi di proprietà pubblica (o del Terzo settore, ma anche di privati), affidati però – nella gestione – ad organizzazioni esterne. Ciò sempre garantendo una funzione pubblica – da mandato iniziale – occupandosi della governance della gestione / fruizione del bene.

Quando proprietario del bene è l’Ente Pubblico, proprio per garantirne una funzione pubblica, il ruolo diventa quello di partner del soggetto gestore, partecipe delle attività, grazie all’istituzione di una “cabina di regia pubblica / privata”, che si creerebbe ad hoc per la gestione. In questi percorsi possono nascere anche associazioni temporanee o di scopo, fondazioni di partecipazione, ecc. Non solo: se non partono dal basso e spontaneamente questi percorsi di riuso, l’Ente Pubblico assume il ruolo di attivatore di percorsi e la progettazione diventa la gestione del progetto, l’attesa della trasformazione, la programmazione del “frattempo”, in cui succedono però già delle cose. La rigenerazione non è quindi un’opera pubblica, ma diviene un percorso partecipato, che spesso è anche di co-realizzazione di alcune azioni di riuso (es. pulizia, manutenzioni semplici, ecc.).

Lʼottica di queste operazioni di riuso è di permettere prevalentemente (ma non solo) a “giovani appassionati e competenti” di farne una occasione occupazionale. Ciò facilitando il riuso di questi spazi vuoti in tempi brevi (anche temporaneamente) nell’ottica di start up culturali e sociali, con “low budget”. LʼEnte Pubblico infatti si trova generalmente in carenza di risorse, ma può sostenere la progettazione finalizzata ad azioni di fund raising.

Rispetto ad eventuali capitali, i team di giovani possono accedere ad un programma di finanziamento di istituti finanziari del Terzo settore, su logiche di “capitale paziente” proprio per sostenere questi “cantieri di rigenerazione”. Ma possono guardare anche al fund raising, al crowdfunding, ai bandi pubblici e/o di Fondazioni.

Queste operazioni di riuso sono infatti azioni di rigenerazione (rurale o urbana), di aggregazione pubblica, di partecipazione attiva e di cittadinanza, oltre che di inclusione sociale, sempre in ottica di sviluppo occupazionale. Il Terzo settore (o No profit) infatti in questi anni è stato un ambito che è cresciuto dal punto di vista occupazionale, soprattutto coinvolgendo giovani, in prevalenza qualificati. Queste operazioni di riuso spesso diventano anche azioni di sviluppo locale, soprattutto là dove riprendono temi legati al turismo leggero, alla valorizzazione del territorio, al food, alle tradizioni, allʼarte e cultura.

Questi percorsi partono dalla condivisione interna alla P.A. sulle modalità e condizioni di esternalizzazione e procedono poi con la loro promozione, con lʼavvio di un percorso pubblico animativo di formazione / promozione del riuso dello spazio e si concludono con lʼassegnazione della gestione dello spazio, sempre con una evidenza pubblica e con una modalità trasparente. Viene elaborato anche uno “studio di fattibilità” ai fini di individuare – sempre in modo coprogettato – vocazione, funzioni dʼuso, analisi investimenti e sostenibiltà della gestione, elementi per un piano di marketing, reti e partner, nuovi pubblici.

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Il riuso però non è detto che parta sempre e solo dall’Ente pubblico. L’attivatore, a seconda dei territori, può essere un soggetto portatore di un bisogno (es. Terzo settore), un gruppo di persone che si unisce per una causa, un’organizzazione particolarmente sensibile alle questioni.Di conseguenza, anche il percorso di riuso / rigenerazione, può avere più dimensioni, dinamiche diverse, tempi più o meno lunghi.

Nel 2016, le buone prassi sviluppate grazie al lavoro diretto degli autori di “Riusiamo l’Italia” sono state l’avvio del co-working/incubatore a Tortona con Impact Hub in una ex Scuola/spazio pubblico vuoto, a Varese Vitamina-C, il social hub promosso da ACSV in una “terrazza” non utilizzata, a Formigine (Mo) la riprogettazione partecipata di un nuovo spazio per i giovani in uno spazio sotto utilizzato ed in Valle Sabbia (Bs), l’avvio di un nuovo fab lab in un ex convento. Oltre alla co-progettazione, decisivo è stato l’accompagnamento all’avvio della gestione di questi nuovi spazi.

giovanni.campagnoli@riusiamolitalia.it
Sacripanti per web

PERCORSI DI PROGETTAZIONE DI RI-USI PUBBLICI DI SPAZI VUOTI: LO STUDIO DI FATTIBILITÀ E LʼACCOMPAGNAMENTO ALLO START UP
Percorsi di progettazione di ri-usi pubblici di spazi vuoti: lo studio di fattibilità e lʼaccompagnamento allo start up

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Oggi si assiste ad una situazione nuova nel rapporto luoghi/territori. Ci si trova infatti di fronte a contesti dove sempre più gli spazi sono vuoti superano le richieste per eventuali e diverse funzioni dʼuso. Luoghi produttivi dismessi, aree abbandonate, edifici pubblici e para-pubblici vuoti, ma anche Oratori, Stazioni FFSS, cinema, locali commerciali… Sintetizzando, si potrebbe affermare che le politiche giovanili, quelle culturali e quelle urbanistiche dovrebbero darsi lʼobiettivo di riempire questi spazi vuoti con idee e talenti individuali e collettivi, contribuendo alla rinascita delle città e dei territori con nuove energie. A partire da aree interne e periferie. Questa strategia prevede un forte coinvolgimento degli attori locali, anche al fine di valorizzare saperi, tradizioni e know how del territorio, attualizzando magari antiche vocazioni e generando nuovo capitale sociale, indispensabile allo

sviluppo dei territori.

Il punto di partenza è quindi lʼelaborazione, con una fase di ricerca sociale, di uno studio di fattibilità vero e proprio. Finalità di questo lavoro sono quelle di guidare il percorso che porti questi spazi ad essere luoghi di innovazione ed eccellenza nellʼambito specifico delle politiche locali “site specific”, ma comparabili con quelle europee, in quanto pensate e gestite seguendo le linee guida della UE in materia.

A conclusione della fase di ricerca e studio, la fase successiva di questo lavoro è quella di un percorso di accompagnamento con soggetti committenti e gestori. Infatti, una volta definite le caratteristiche, le funzioni dʼuso, il piano marketing ed il budget grazie allo studio di fattibilità, prende avvio la fase di implementazione. Si tratta di un percorso dove formazione, consulenza, accompagnamento, supervisione, analisi di situazioni critiche, si fondono costantemente, in un servizio di tutoring a metà tra momenti dʼaula e lavoro a distanza, con supporto anche rispetto a materiali necessari allo start up del Centro (es. contratti tipo con organizzazioni giovanili, budget dei costi delle attrezzature, selezione dei fornitori, grafiche, ecc.).

2 Lo studio di fattibilità

Lo studio di fattibilità, nell’ambito della progettazione sociale, non sostituisce la redazione del progetto, ma fornisce spunti e indicazioni delle quali chi progetta può tenere conto per organizzare il proprio lavoro.

Per predisporre lo studio, vanno anzitutto raccolti dati, utilizzando diverse fonti informative:

– dati descrittivi del territorio (quanti giovani ci sono, che caratteristiche hanno,quali interessi e competenze, quali sono le attività produttive presenti, ecc…);

– colloqui con testimoni significativi individuati sul territorio (es.: rappresentanti di istituzioni, associazioni, figure educative, operatori economici, gestori di locali, ecc…);

– incontro aperto con tutte le persone potenzialmente interessate all’apertura del Centro;

sopralluogo della struttura, delle sue caratteristiche e della sua collocazione.

Utilizzando i dati raccolti si elabora uno studio di fattibilità ad hoc. Il documento, una volta “approvato” dal committente, viene poi presentato pubblicamente e messo a disposizione

dei soggetti locali interessati, anche alla gestione del Centro. Lo studio diventa, ad esempio per le Amministrazioni locali, il documento progettuale di riferimento in base al quale valutare le offerte in eventuali bandi pubblici.

Lo Studio di fattibilità viene commissionato infatti per definire se un progetto (o un programma) o un’idea di massima:

• produce utilità sociale e culturale;

• può essere realizzato/migliorato dal punto di vista tecnico;

• risulta sostenibile dal punto di vista economico.

Lo studio riguarda una dimensione di futuro (“pro-jecuts”, “verso cosa”) e si basa quindi su delle valutazioni, più che su elementi certi, per cui si devono adottare criteri chiari e trasparenti, in modo da garantire l’obiettività dello studio e dei suoi risultati.

Il prodotto finale dello studio è costituito da un insieme di conclusioni e di raccomandazioni sulla possibile realizzazione e sulla delimitazione degli ambiti, offrendo indicazioni utili a orientarne le priorità, le linee di azione, le strategie e le modalità di lavoro, la pianificazione economica e temporale, le procedure amministrative ed i criteri di valutazione per lʼassegnazione della gestione. Diventa quindi, per il committente, uno strumento conoscitivo utile a supportare le valutazioni relative allʼopportunità di adottare scelte in particolare per quel che riguarda lʼambito di operatività. Infine, oltre alle linee guida per un piano di marketing operativo, lo studio offre un budget degli investimenti necessari alla gestione del centro, insieme ad un budget triennale di gestione, quale strumento utile per accompagnare la fase di start up dello spazio.

Come detto, questo lavoro di ricerca ed elaborazione dello studio di fattibilità deve essere preceduto da un lavoro di analisi sia sulla eventuale documentazione già presente (ad esempio relativa allʼiter di questi centri), sia di ricerca di definizioni e buone prassi inerenti questi spazi, che possano fungere da modelli di confronto. Ma non solo: incontri ed interviste ad hoc, sono le modalità tipiche di lavoro, che prevede incontri/confronti costanti con i committenti e le realtà coinvolte, per la validazione delle ipotesi e/o la

successiva modifica/integrazione.

Infine, ultimo step di questo lavoro, sono i momenti pubblici di divulgazione dei risultati.

2.1 Obiettivi

Obiettivi specifici della fase di ricerca e studio di fattibilità sono:

a livello generale, se si tratta di spazi giovanili, applicare nel contesto locale le linee guida degli di “matrice europea” secondo quanto contenuto nei principali e recenti testi normativi in materia di gioventù;
se si tratta di spazi “ a vocazione indecisa”, seguire i criteri e linee guida delle progettazioni di riuso / rigenerazione contenute nella letteratura più innovativa in materia di rigenerazione / riuso;
– individuare – facendo emergere desideri e bisogni locali, tramite la ricerca sociale – l’identità/mission (o “vocazione”) dello, “costruirla” in un percorso di condivisione, comunicarla e renderla comprensibile alla comunità locale (giovani e non solo);

– predisporre, a questo fine, un adeguato piano di marketing e comunicazione;

– elaborare uno studio di fattibilità individuando le condizioni di equilibrio tra sostenibilità economica (budget triennale di gestione e di investimenti) ed utilità sociale dello specifico centro, le relative linee guida di un piano marketing e quelle per un procedimento amministrativo utile allʼindividuazione di un soggetto gestore. La gestione dello spazio, ai fini stessi dellʼefficienza economica, dovrà essere caratterizzata dal costante coinvolgimento dei soggetti ospitati e di nuove proposte, ottenendo valore economico dai processi aggregativi.

Il tutto parte da una fase di studio dei documenti istitutivi o storiografici dei progetti di realizzazione già redatti dalle realtà locali e/o dallʼanalisi di ricerche ad hoc già disponibili.

2.2 Precisazioni necessarie

Lʼapproccio metodologico adottato tende ad essere “generativo” ovvero punta a determinare un equilibrio più virtuoso tenendo conto da una parte del calo progressivo di risorse pubbliche da dedicare e dallʼaltra delle potenzialità e capacità di generare flussi di ricavi ed appropriate economie di scala da affidare a profili gestionali di tipo imprenditoriale.

Ne risulta automaticamente che lʼanalisi degli spazi, delle funzioni da introdurre, degli usi da adottare porti sempre a risultati diversi da quelli per i quali erano stati progettati. Ciò avviene non solo con le strutture le cui funzioni originarie sono cessate, modificate e trasferite in altre sedi, ma anche con contenitori nuovi, di recente e qualificata costruzione, dove le destinazioni dʼuso erano di fatto già riconducibili in tutto o in parte a quelle della nuova vocazione.

Nella conduzione di uno studio di fattibilità e nella gestione del dialogo con lʼente committente ci si trova di fronte a due modelli molto diversi: quello del passato che postulava la capacità del soggetto pubblico di gestire la struttura secondo una specifica visione pianificata e programmata e quello del presente che tenta invece di innescare meccanismi di “leva” economica in tutto o in parte finanziati da soggetti utilizzatori e /o gestori degli spazi.

Nonostante questa diversità di presupposti, lʼesigenza di modifiche agli organismi edilizi solitamente viene ipotizzata a livelli minimi e strettamente indispensabili (anche per il massimo contenimento dei costi), per fattori variegati quali principalmente:

• lʼadeguamento normativo necessario per lʼintroduzione di alcuni funzioni generatrici di reddito (es. il bar e servizi igienici connessi);

• lʼintroduzione di funzioni speciali tipicamente collegate ai target di nuovo pubblico che si intende coinvolgere (es. gli universi giovanili e non sempre presenti nei programmi funzionali originari, ad es. spazi per laboratori ed attività artistiche ed espressive in genere,

skatepark, sale prove musica, ecc.);

• la valorizzazione di alcune soluzioni spaziali di particolare appeal spaziale o emozionale: soppalchi, visuali, rapporto interno/esterno, verde, elementi di design, colori, ecc.;

• conferimento di elasticità e flessibilità ad alcuni specifici comparti del complesso edilizio, anche in termini di arredi e funzionalità varie;

• particolari esigenze di dimensionamento collegata al raggiungimento di standard funzionali o target prestazionali indispensabili per gli specifici obiettivi gestionali.

Si tenga anche conto che proprio in quanto studi di fattibilità, lʼanalisi dello stato dei luoghi e degli spazi avviene attraverso sopralluoghi ed analisi degli elaborati grafici di progetto. Da questo punto di vista, le soluzioni proposte possono essere suscettibili di insufficienti approfondimenti di tipo strutturale e impiantistico. È quindi opportuno ricomprendere prima o durante lʼelaborazione degli studi di fattibilità momenti di confronto con, a seconda dei

casi, i progettisti, i manutentori o i detentori della memoria storica della costruzione e dei luoghi. Partendo dalla condivisione di dati e informazioni ed assicurando un buon livello di dialogo tra i vari portatori di conoscenze si possono ottenere i migliori risultati. Infine, anche lʼanalisi ed i budget delle soluzioni tecniche proposte in riferimento ad arredi ed attrezzature, deriva da elementi di altre realtà che già hanno adottato quanto proposto e che sono comunque comparabili con quelle oggetto di studio. Di conseguenza, tutte le

soluzioni proposte devono poi essere oggetto di approfondimento in sede di acquisto.

3 L’accompagnamento allo start up

In questo ambito, è utile prevedere un accompagnamento formativo/consulenziale alle fasi di start up del centro giovani, con il coinvolgimento attivo delle persone responsabili dellʼorganizzazione che si occupa della gestione, gli operatori, gli “attivi”, altro personale

professionale, referenti istituzionali. Il percorso formativo è molto calato nella situazione e prevede metodologie di apprendimento attivo, sperimentazioni, visite guidate, bench marking, innovazione sociale per arrivare ad una gestione di “successo” di un nuovo modello di centro giovani, su base delle recenti indicazioni europee in materia di gioventù.

3.1 Il contesto

Uno spazio giovani (nuovo o che si rinnova) in fase di avvio, affronta una serie di tappe delicate in quanto incidono e connotano le fasi ed i tempi successivi dello sviluppo del centro.

I requisiti base per il successo nella fase dellʼavvio di uno spazio sono lʼalta partecipazione di cittadini (e/o giovani) – fin dalla fase iniziale – ed una start up giovanile o una organizzazione “matura” in grado di garantire gli aspetti fiscali/gestionali/amministrativi, oltre che alla presenza attenta delle istituzioni.

La presenza contemporanea di questi elementi è il punto di partenza per lʼavvio degli spazi: la sfida è che da queste premesse nasca un progetto operativo gestionale che porti a garantire lʼapertura e lʼavvio del nuovo spazio o nel più breve tempo possibile, definendone anche aspetti di microprogettazione, quali la scelta di arredo ed attrezzatura, programmazione, attività, comunicazione, apertura, nuove azioni sperimentali, ecc.

Lʼipotesi base è che lʼavvio avvenga fin da subito con il coinvolgimento di operatori professionisti, giovani attivi e responsabili istituzionali.

Di conseguenza gli attori coinvolti in questo progetto sono i giovani stessi, gli operatori dellʼorganizzazione che ha la mission di avviare il centro, i responsabili istituzionali delle Amministrazioni coinvolte.

Il progetto si articola su un doppio binario:

– lʼaccompagnamento allʼavvio del centro (con supervisione anche nellʼattrezzaggio, marketing e comunicazione, microprogettazione, supervisione alla fasi gestionali)

– percorso formativo parallelo impostato sullʼacquisizione di conoscenze e competenze relative alla gestione di un centro giovani, alla assunzione di un ruolo, alla condivisione di obiettivi e finalità comuni.

Il percorso formativo prevede quindi momenti dʼaula comuni ed “assetti variabili”, visite guidate ad altre esperienze con alcune sperimentazioni in situazione, bench marking.

I contenuti del percorso devono essere veramente innovativi: ed il progetto formativo prevede quindi che sia garantito un accompagnamento ed una formazione allo start up di questi spazi, affinché diventino “luoghi” significativi per la comunità locale (a partire dai giovani), con un forte ruolo di “attrattore” per le nuove generazioni, unito a quelle capacità di progettazione che sanno cogliere le innovazioni di cui i giovani (e/o gli start uppers sociali e culturali) sono naturali “portatori” e che vengono richieste a chi “sa stare” ogni giorno con loro.

Va quindi tradotta in nuova progettualità tutta la “freschezza e l’attualità”, le novità, le mode, le innovazioni, i bisogni e desideri che si colgono in questi percorsi di partecipazione. Si vede come oggi i tempi sono maturi affinché le comunità locali, i territori, si impegnino invece a gestire situazioni di crisi e difficoltà, sapendo recuperare risorse e valori, per costruire nuovi “beni comuni”, attualizzando le domande ed organizzando risposte in modo innovativo ed al tempo stesso sostenibile, prevedendo – per questi luoghi – anche un investimento iniziale, un piano di rientro e sviluppando al contempo una funzione di “fund raising” locale.

3.2 Le attività da realizzare

Le attività da realizzare riguardano momenti formativi e consulenziali al gruppo, seguendo lʼavvio del centro, dalle prime fasi pre apertura, fino allʼinaugurazione ed allʼavvio. Questa supervisione riguarda il team di cui si è detto prima.

Il percorso formativo è basato su “assetti variabili” e, prevedendo anche momenti di visite, la partecipazione varia a seconda dei temi trattati, pur mantenendo il nucleo di partecipanti legati alla consulenza, attorno al quale – in questa fase formativa “non convenzionale” – possono appunto ruotare altri start uppers, operatori, referenti di istituzioni.

Il percorso si articola in un numero contenuto di incontri ed in breve lasso di tempo (ad es. 12 incontri in sei mesi) sei mesi.

3.3 Contenuti del percorso di accompagnamento allʼavvio di un nuovo spazio

Il team di lavoro che si occupa di un percorso di questo tipo, deve comprendere formatori con competenze diverse, dallʼanimazione sociale alla cultura, dalla creatività al welfare. I contenuti in relazione alle fasi sono:

Microprogettazione

> Individuazione del luogo: caratteristiche interne e localizzazione

> Il business plan, il budget dellʼinvestimento, la sostenibilità ed il punto di pareggio

> Realizzazione dello spazio: progettazione interna e co-progettazione con il territorio

> Attrezzature tecniche, strumentazioni ed allestimento interno

> Il marketing degli spazi rigenerati: il valore del brand, l’investimento in comunicazione e promozione ed obiettivi di ritorno sullʼinvestimento

> Naming, arredi, colori, lay out, attrezzature da interni (e da esterni) da prevedere nella progettazione egli spazi giovanili. La tecnica del “rendering” condiviso e le professionalità da coinvolgere

> I ruoli, le funzioni ed i compiti per la gestione dello spazio. L’avvio e la gestione

> La formula di gestione: diretta, concessione e partnership con altre organizzazioni.

> Dall’avvio all’evento di inaugurazione, dalla progettazione dello spazio, alla programmazione delle attività

> Processi di comunicazione e creazione di valore nella progettazione e sviluppo di spazi giovanili: ricerca di visibilità nella comunità locale

> Informazione e comunicazione, tra free cards e social networks

> La stima dei costi e degli investimenti in promozione e comunicazione, nelle varie fasi di sviluppo dello spazio

> Costruire reti di partnership, dalla comunità locale all’Europa, e con le realtà già presenti. La ricerca del coinvolgimento e della partecipazione diretta, dall’aggregazione al lavoro.

> Fund raising, crown funding, locale, marketing e Pubbliche relazioni a sostegno degli spazi giovanili nella comunità locale

> Finanziare la rigenerazione: opportunità nazionali, europee e locali. Il ruolo ed i finanziamenti dei programmi europei. La funzione di “fund raising” locale. Il ricorso al microcredito ed al prestito diffuso

> Entrare e stare nelle reti di spazi giovanili: costi e ritorno sugli investimenti. Verifica e valutazione

> Riprogettare spazi ed interventi generativi di utilità sociale e di risorse economiche

> La definizione e la valutazione valore sociale ed economico creato

> La valutazione come processo di attribuzione di significato, come momento di condivisione e riprogettazione.

La teoria delle “finestre rotte” e i processi di sensemaking: il caso della statua di Carlo Felice

carlo ferocefelice mag 2016 foto FMdi Giuseppe Melis Giordano*

1. L’abitudine di convivere con le finestre rotte. La teoria delle “finestre rotte” fa riferimento a un esperimento di psicologia sociale, condotto nel 1969 presso l’Università di Stanford, dal prof. Philip Zimbaldo. Lo studioso dimostrò che non è la povertà ad innescare comportamenti criminali ma il senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza che si genera su una situazione qualsiasi, tale per cui si diffonde la percezione che i codici di convivenza, una volta rotti, inducano le persone a pensare che le regole e più in generale qualsiasi codice di regolazione sociale sia del tutto inutile, generando in questo modo un progressivo deterioramento delle stesse.

L’esempio è proprio quello di un vetro che si rompe e non viene riparato, dando luogo ad un progressivo decadimento dell’edificio, tale per cui dopo il primo vetro rotto, se ne rompe un altro, e così via tutti gli altri elementi dell’edificio. Ecco perché quando non si interviene subito per rimettere in ordine una situazione negativa, presto si innescherà un processo di decadimento senza fine. “Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi” (http://www.unitresorrentina.org/foto/24-forum/85-la-teoria-delle-finestre-rotte).

Dal punto di vista di questo scritto, la non conoscenza della storia della Sardegna, è come una finestra rotta di casa che non viene aggiustata e che fa deperire la casa. Fuor di metafora, i Sardi cresciuti senza conoscere la storia della propria terra e dei propri antenati (ma che non conoscono pure la geografia, la fauna, la flora, la geologia, ecc.) concorrono a far deperire la propria casa: non la conoscono e non la rispettano, non la conoscono e si abituano a non conoscerla e pertanto non sanno di non sapere.

Non solo, ma se non la conosci non la ami e se non la ami ti è indifferente. Se poi invece dicessi di amarla, quanto questo amore è consapevole o piuttosto superficiale ed effimero (basato solo sul mare azzurro, sul sole cocente, sui panorami mozzafiato, ma non su nuraghi e chiese, piuttosto che su pittori e scultori, ecc.). L’abitudine a convivere con la non conoscenza della propria storia, fa si che le persone possano interagire con il reale affidandosi esclusivamente a ciò che essi vedono e sentono nel contingente, seguendo il vento del momento al pari di una moda. In altre parole mancano di radici, cioè quegli agganci alla propria terra che rende le persone consapevoli di ciò che hanno ma anche di ciò che servirebbe per stare meglio.

È sulla base di queste considerazioni che così come non si avverte la mancata conoscenza della propria storia come una lacuna da colmare, analogamente non si avverte neppure la necessità di conoscere la propria lingua, non si avverte la necessità di tutelare il proprio patrimonio culturale, naturale, ecc. E non avvertendo queste necessità, non ci si rende di vivere in una casa con le finestre rotte e, di converso, ci si abitua a questo modo di vivere tanto che giorno dopo giorno quella casa deperisce, viene meno cioè l’attaccamento alla propria terra e ai valori che essa possiede, sostituiti, forse, da altri valori, comunque estranei ad essa.

Ecco perchè molte persone in generale e giovani di oggi in particolare, di sardo hanno solo la città di nascita, e siccome poi fanno difficoltà ad interagire in modo corretto con questa terra, prima di tutto perché non sono nella condizione di “inventarsi” un lavoro, accade con sempre più frequenza che ci sia chi la percepisce come matrigna, giungendo alla conclusione che per essi c’è solo una via d’uscita: quella di scappare, di fuggire, perché le condizioni di esistenza sono tali per cui non si trova soddisfazione alle proprie ambizioni lavorative, non si sente di appartenere a questa terra, non c’è nulla che li tenga legati, neppure gli affetti che in molti casi paiono effimeri e utilitaristici.

Di fronte a questa situazione chi ha responsabilità di qualsiasi tipo dovrebbe chiedersi: perché ci siamo abituati a vivere con le finestre rotte? Perché una finestra rotta non genera “fastidio”, “dolore”, tali per cui ci si impegna per “aggiustarle”. Cosa si può fare perché si inverta questa cattiva abitudine?

2. Conoscere la storia per riconoscere noi stessi. Il bambino impara a riconoscersi attraverso una sequenza ripetuta di azioni volte a vedersi allo specchio, ad ascoltare la propria voce, a toccare la propria pelle. Nello stesso tempo impara a riconoscere il contesto che gli sta intorno sempre attraverso i propri sensi che sollecitati generano la memoria della sua esperienza. La combinazione di questi atti di riconoscimento interni ed esterni plasma l’identità dell’individuo, la sua personalità, che quindi è, nel contempo, relazionale, posizionale e contestuale. Ciascuno di noi, pertanto, è il prodotto storico delle quotidiane esperienze di relazione con il mondo.

Ciò permette di dire che ciascuno ha una propria identità frutto di questo processo storico ma, a questo punto, si può anche affermare che la formazione di questa identità è fortemente condizionata, per esempio, dall’aver vissuto in una casa con le finestre rotte. Ecco perché tanti Sardi non sentono la mancanza di determinate conoscenze. Perché ci è mancato e ci manca ancora oggi il rapporto con una parte di mondo, quello della storia della nostra terra, nelle sue diverse declinazioni della storia, della geografia, della lingua, ecc..

Se poi accade che le esperienze di apprendimento cui siamo stati sottoposti (a scuola in modo particolare) sono le storie di “altri”, è molto probabile che il processo di auto identificazione avvenga secondo quei modelli “altri”. Il risultato è che tanti sardi sono “apolidi” nella terra che li ha visti nascere e crescere e ciò ha fatto maturare in essi un senso di rapporto schizofrenico, di amore (spesso effimero e superficiale) e odio (rappresentato dalla voglia di scappare).

È ovvio che chi non sa, non ha consapevolezza di non sapere ed è qui che spetterebbe alle classi dirigenti più consapevoli intervenire con appropriati investimenti “infrastrutturali” volti ad “aggiustare” la gran mole di case con le finestre rotte con le quali ci siamo, purtroppo, abituati a convivere: infrastrutturazione che dovrebbe avvenire prima di tutto e soprattutto nelle scuole con l’insegnamento della storia di questa terra, ma anche della lingua sarda.

3. La conoscenza della propria storia come base di processi di sensemaking. Se si conosce la propria storia, si è in grado di riconoscere meglio se stessi e il contesto circostante, si dispone cioè di nuovi codici atti ad identificare la realtà in modo differente. Il che vuol dire che ciò che si osserva viene letto e interpretato in base a nuovi codici e questo vale in generale e vale per i contesti in cui viviamo. Conoscere la propria storia ci rende consapevoli dei vetri rotti con cui si è convissuto fino a quel momento ed è ovvio che in questo modo nasce un fastidio per qualcosa che si capisce dovrebbe essere diverso.

Ecco pertanto che quanto si viene a scoprire che in una delle strade principali della città in cui si vive si trova una statua dedicata ad un personaggio che, grazie al processo di studio della storia, si scopre non essere stato un benefattore ma un tiranno che ha soggiogato la popolazione, l’ha sfruttata per il solo proprio interesse e piacere, allora sorge spontanea la domanda: ma perché a costui è dedicata una statua? E perché addirittura gli è stata dedicata una strada?

Se poi si scopre che la decisione di realizzare la statua nasce in seno a organismi dediti ad acquisire la benevolenza del sovrano per tutelare propri interessi e poi si scopre che tutta la toponomastica di quelle aree venne modificata proprio in quel periodo di dominazione come modo per affermare la sovranità di un regno e sottomettere anche in questo modo la popolazione residente, allora le domande dovrebbero generare un “dolore” ancora più acuto.

Ed è qui che si inseriscono i processi di “sensemaking” di cui è autore lo studioso Karl Weick (1995) che sviluppò le proprie riflessioni intorno ai processi organizzativi e, in quest’ambito, ai processi cognitivi. Questi ultimi “sono quei processi, messi in atto da un soggetto (sia esso un individuo o un’organizzazione), che gli consentono di conferire senso ai propri flussi di esperienza” (Bartezzaghi, 2010). Secondo Weick, pertanto, i processi di creazione di senso (sensemaking) coincidono esattamente con i processi di organizzazione (organizing). In altre parole, organizzare corrisponde a dare senso ai flussi di esperienza”(Bartezzaghi, 2010).

Questo significa, per esempio, che le scelte di una comunità, attraverso le sue istituzioni rappresentative, sono l’esito di un processo di sensemaking, perché conferiscono significato ai luoghi e alle relazioni tra luoghi e persone. E questo implica che se una comunità ritiene consapevolmente che alcuni dei significati ereditati dal passato siano inadeguati o controproducenti possa porre in campo delle strategie volte a ridefinire il senso di quegli spazi. Operazioni come queste non solo sono legittime ma sono auspicabili perché è tramite l’attivazione di un ambiente desiderato è possibile favorire una diversa presa di coscienza della comunità residente in quel contesto e, di conseguenza, un’identità più consapevole di ciò che essa vuole essere anche rispetto a terzi con cui entra in relazione.

Va da sé che è proprio la Politica, quella con la P maiuscola, che operando delle scelte nel territorio di sua competenza, che possono essere di fare e di non fare, conferisce un senso a quel contesto, un senso che può essere di comunità consapevole della propria storia proiettata verso il futuro, oppure comunità semplicemente localizzata in un territorio, ma senza legami col passato, che pure vuole costruire un futuro ma lo fa senza radici, da apolide.

Chiaramente, il Consiglio comunale, in quanto rappresentante della popolazione, dovrebbe avere sempre una attenzione particolare nei confronti del territorio e della popolazione che rappresenta, non essendo stato investito con una delega in bianco.

4. Il sensemaking territoriale tra innovazione e barriere culturali. Il termine “Innovazione” è uno di quei concetti ripetuti come non mai, ma proprio per questo rischia di essere abusato e svuotato di significati: si pensi che nel 2014, questa parola è comparsa in più di 14.000 articoli pubblicati in Svizzera, secondo la banca dati dei media elvetici SMD. Letteralmente, “innovazione” significa “novità”, “rinnovamento” ed etimologicamente la parola deriva dal latino “novus” (nuovo) e “innovatio” (equivalente di “qualcosa di nuovo”).

In economia, per esempio, l’innovazione è connaturata all’esistenza dell’impresa: Joseph Schumpeter definiva l’imprenditore come colui che innova, per significare che se manca questa attività non esiste l’imprenditore e non esiste l’impresa. Ora, innovare implica cambiare, eppure quando si deve cambiare si va incontro a difficoltà enormi: accade cioè che anche chi parla di cambiamento, lo pensa per gli altri e quasi mai per se stesso, di conseguenza ci sono persone che entrano in ansia, che vivono il cambiamento come un trauma, come spiegano bene gli psicologi, così come ci sono quelli contrari ai cambiamenti perché dalla situazione esistente traggono dei benefici personali, anche se vanno a discapito di interessi più generali.

Per quanto riguarda la paura del cambiamento essa deriva, essenzialmente, dal timore di uscire dal proprio ambiente “protetto”, anche quando non è considerato perfetto e soddisfacente. Ciò impedisce a molti non solo di vivere il nuovo, ma di allargare gli orizzonti della mente. Eppure è noto che un ambiente protetto, se immobile nel tempo, a lungo andare rischia di diventare una prigione; “c’è chi, per non cambiarlo, preferisce reprimere i propri sentimenti e le proprie esigenze, non volendo rendersi conto che l’affrontare una situazione nuova è un’ulteriore possibilità di migliorarsi, mettersi in gioco, evolvere, dare ascolto ai propri bisogni e desideri” (Steri, 2011).

Ciò che più spaventa spesso è la paura di lasciare il vecchio, il passato, piuttosto che scoprire e costruire il futuro, oltre che aver timore di fallire, magari per l’ennesima volta. Sul piano individuale ci possono essere diverse soluzioni che portano a vincere la paura del cambiamento e a migliorarsi: “lavorare sulla propria autostima per conoscere e scoprire le proprie risorse; non essere impulsivi e vedere nel cambiamento una possibilità di miglioramento; capire che la vita è dinamica e che cambiare significa maturare; allargare i propri orizzonti e darsi una piacevole opportunità di sperimentare e conoscere altro” (Steri, 2011).

Ora, se questo sul piano individuale è un fenomeno di cui si occupano psicologi, come lo si può considerare invece sul piano collettivo, di una comunità insediata in un certo territorio? In altre parole, perché un’azione di innovazione che intende creare nuovi significati in uno spazio urbano, crea paura, ansia, fastidio, terrore addirittura e, conseguentemente, fiera opposizione? Se una comunità per il tramite delle sue istituzioni rappresentative decide di intervenire su un certo spazio per ridisegnare il senso dello stesso, perché questo genera reazioni negative che tendono a contrastare il cambiamento, l’innovazione, l’attivazione di nuovi significati?

E perché mai un’azione legittima di questo tipo dovrebbe configurarsi come un’operazione di “cancellazione” del passato e non come un’ulteriore “stratificazione storica” volta a mettere in ordine qualcosa (aggiustare le finestre rotte) di cui si è presa consapevolezza?

5. Proposte per una riprogettazione consapevole dello spazio occupato dalla statua di Carlo Felice. I punti trattati in precedenza costituiscono l’impianto concettuale su cui si basa la petizione “spostiamo la statua di Carlo Felice”, iniziativa con la quale si chiede all’istituzione municipale di Cagliari di ragionare sul senso dello spazio oggi denominato “Largo Carlo Felice”.

I presupposti da cui nasce l’iniziativa sono da ascrivere alla necessità di aggiustare le “finestre rotte” mettendo in ordine fatti avvenuti nel passato secondo criteri che restituiscano a questo popolo di cagliaritani e sardi la fierezza di chi avendo patito tirannie di ogni tipo, oggi vuole guardare al presente e al futuro conscio del proprio passato. In altre parole, mostrare in modo acritico simboli negativi, nella toponomastica e negli arredi urbani, significa perpetuare l’idea della convivenza con le “finestre rotte” cui si è fatto cenno inizialmente.

Se si vuole intervenire ricostruendo il senso di quegli spazi è necessario essere conseguenti, riposizionando, non cancellando, i simboli di quel passato in contesti più adeguati per poterli riconoscere meglio e ricordare per non cadere più nella tentazione di accettare l’idea della sottomissione al tiranno di turno che ciclicamente la storia mette di fronte, spesso sotto le suadenti spoglie di “benefattori” che pensano solo al proprio interesse (come dimostra peraltro la storia dell’industrializzazione della Sardegna). In concreto cosa significa tutto questo?

In sintesi:

Occorre che la municipalità consideri come elemento indispensabile e irrinunciabile la formazione dei propri giovani alla storia della città e della Sardegna tutta, a partire dalle scuole elementari fino a tutta la scuola dell’obbligo. Ciò nasce dalla constatazione in base alla quale i programmi ministeriali dello stato italiano non contemplano la nostra isola nello studio della storia. Questo è gravissimo per la formazione di un’identità consapevole, che traendo spunto da quanto di bene e di male accadde nei secoli trascorsi generi quelle motivazioni volte a sentire la responsabilità di migliorarsi, di guardare con fiducia al futuro, di considerare le proprie radici importanti sia per la crescita individuale di ogni individuo che per sviluppare il senso di appartenenza al popolo sardo.
La presa di coscienza della propria storia ha come conseguenza quella di mettere ordine tra eventi positivi e negativi. Gli storici ci raccontano che il periodo della dominazione sabauda è stato caratterizzato da condizioni di vita sociale di povertà e arretratezza, di incapacità dei sovrani di capire la natura delle richieste provenienti da diversi strati della popolazione e dalla conseguente adozione di misure volte a reprimere pesantemente, anche con il sangue, ogni anelito di rivendicazione di condizioni di vita migliori. La casa Savoia, inoltre, per imporre la propria presenza adottò tra i diversi provvedimenti anche quello di modificare la toponomastica dei centri abitati tra cui Cagliari: “Nelle intitolazioni delle vie di Cagliari (ma anche delle altre città sarde) è incisa la biografia della nostra nazione, e della sua abdicazione rispetto a se stessa” (Mongili, 2016). È da queste considerazioni che allora emerge (o dovrebbe emergere) quella consapevolezza volta a riprendere in mano il proprio destino, dando un senso più consono a quei luoghi, un senso coerente con l’orgoglio di chi rifiuta la tirannia: questo può avvenire cambiando il nome della strada da “largo Carlo Felice” in, per esempio, “largo 28 aprile 1794. Die de sa Sardigna”. In questa modifica si sostanzia il fulcro dell’operazione di sensemaking richiamato in precedenza.
La logica conseguenza della presa di coscienza che si dovrebbe sostanziare nel riprogettare il significato di quello spazio dal punto di vista simbolico modificando la toponomastica della strada, dovrebbe poi trovare completamento con lo spostamento della statua di Carlo Felice in luogo più consono alla conservazione di una statua rappresentativa di un tiranno. In particolare, per far si che non si dimentichino le gesta di questo tiranno si propone la sistemazione della statua in uno spazio museale nel quale, corredata di appropriata didascalia, possa veicolare il giusto messaggio di conoscenza a quanti vengono a visitare la città, a partire dai suoi residenti e in particolare dagli studenti che dovrebbero essere istruiti adeguatamente come indicato nel precedente punto 1.
Così come sul piano della toponomastica si sostituisce un richiamo positivo ad uno negativo, analogamente, se si reputa che la collocazione più adeguata della statua di Carlo Felice sia la cittadella dei musei di Cagliari, luogo nel quale a suo tempo venne forgiata, si propone la sostituzione con quella di un personaggio che ha combattuto la tirannia dei Savoia, che potrebbe essere Giovanni Maria Angioy, ma potrebbe essere anche un fatto, sempre riconducibile a Carlo Felice, quale per esempio un monumento ai martiri di Palabanda. Monumento la cui realizzazione potrebbe essere realizzata da un artista sardo e donata alla municipalità cagliaritana.
6. I vincoli di legge e le modalità operative. Le statue si configurano come beni mobili e, quando rivestono interesse dal punto di vista storico culturale, sono assoggettate al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Dal punto di vista di ciò che interessa la proposta, la statua della quale si richiede lo spostamento, è assoggettata ad autorizzazione del Ministero dei beni culturali ai sensi dell’articolo 21 comma 1, lettera b, mentre al comma 5 dello stesso articolo si precisa che “L’autorizzazione è resa su progetto o, qualora sufficiente, su descrizione tecnica dell’intervento, presentati dal richiedente, e può contenere prescrizioni”.

Dal che si evince che il Comune, una volta deliberata la decisione di spostare la statua, deve predisporre, attraverso il proprio ufficio tecnico, un progetto che spieghi le motivazioni culturali che stanno a base della decisione e le modalità tecnico operative per dar seguito a tale decisione.

Peraltro è già accaduto in Italia che si siano assunti provvedimenti di spostamento delle statue (per esempio http://www.quicosenza.it/news/le-notizie-dell-area-urbana-di-cosenza/cosenza/86077-statue-migranti-su-corso-mazzini), il che significa che salvo i casi di rischio di danneggiamento o distruzione non dovrebbe esserci alcun motivo per negare l’autorizzazione, soprattutto perché poi la ricollocazione nello spazio museale citato ne arricchirebbe il valore storico e culturale, permettendo in quella sede di corredare la statua di ogni informazione utile a dare un senso ad oggi inesistente.

Chiaramente si tratta di un insieme di azioni che comportano spese la cui copertura può essere garantita anche da contributi volontari della cittadinanza, visto che tutta l’operazione nasce su iniziativa di un comitato spontaneo che in virtù della rilevanza simbolica attribuita alla stessa si darebbe carico di lanciare una apposita campagna di crowdfunding. Il Comune potrebbe intanto deliberare la volontà di procedere nella direzione auspicata, stabilire una differenziazione degli interventi e fare la stima dei costi, subordinando la realizzazione al recupero di almeno una percentuale significativa delle risorse necessarie per dar seguito all’iniziativa.

7. Percorsi auspicati e percorsi possibili. Il percorso auspicato è ovviamente quello che contempla le quattro richieste della petizione, quale conseguenza della presa di consapevolezza dell’opportunità di ripensare il senso di quello spazio sito al centro della capitale della Sardegna.

Ovviamente ciò che conta per i promotori dell’iniziativa è avviare il processo di acquisizione di consapevolezza che non è né rapido né scontato per chi manifesta sempre dubbi, paure, oppure è contrario per principio o perché quei simboli sono funzionali ad una idea di società basata su chi comanda e chi subisce. Ciò che appare imprescindibile e non rimandabile è la realizzazione dei punti 1 e 2, riguardanti l’insegnamento immediato della storia sarda nelle scuole e la revisione della toponomastica di quello spazio di città.

Quanto ai contrari per principio o per visione ideologica forse vale la pena ricordare che questa iniziativa, oltre ad aver già fatto discutere centinaia di persone, forse migliaia, ha superato i confini della Sardegna, al punto da meritare la replica piccata di uno degli eredi della famiglia Savoia e del rappresentante dell’UMI (Unione Monarchici Italiani), i quali si sono espressi in modo nettamente contrario ad una ipotesi di questo genere.

Evidentemente, l’iniziativa ha colto nel segno, e chi si oppone, al di là di paure e pregiudizi, forse non ha veramente a cuore la crescita consapevole del popolo sardo, che potrà esserci solo se prenderà coscienza della propria storia e delle vessazioni che ha subito nei secoli, non certo per ordire vendette senza senso, ma per ritrovare quell’orgoglio di popolo che vuole uscire con le proprie forze dalla condizione di dipendenza nella quale fino ad ora ha vissuto e di assumersi responsabilmente l’onore e l’onere delle decisioni riguardanti il proprio futuro.

Bibliografia

Bartezzaghi E. (2010). L’organizzazione d’impresa. Etas.

Mongili A. (2016). Carlo Felice e gli altri. www.sardegnasoprattutto.com/archives/10224

Sotgiu G. (1982). L’età dei Savoia. Brigaglia M. (a cura di). La Sardegna. Edizioni della Torre.

Steri C. (2011). Perchè il cambiamento ci fa tanta paura? http://caterinasteri.blog.tiscali.it/2011/10/27/perche-il-cambiamento-ci-fa-tanta-paura/

Weick K. E. (1995). Sensemaking in Organizations, Sage Publications (trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997).
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* By sardegnasoprattutto/ 13 giugno 2016/ Culture/

Studiare, rileggere, ripensare, riscrivere (laddove necessario), la storia della Sardegna per decidere “che fare” oggi

IMPORTANTE! Il traguardo delle 1000 firme è stato raggiunto, ma la campagna di raccolta non si ferma, perché l’obiettivo non è il numero ma la crescita di consapevolezza sulla storia di questa città e di questa terra.
Ogni firma è il risultato faticoso di una paziente attività di dialogo, volto a scardinare i tanti pregiudizi di chi si ferma al titolo della petizione senza neppure voler provare a capire un poco di più. Ma noi siamo pazienti, perché siamo guidati dall’intento di unire, non di dividere la gente di questa terra. Avanti così!

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Dietro il monumento a Carlo Felice. Rileggiamo tutta la storia della Sardegna per aiutarci a decidere “che fare” oggi
Carlo-Feroce-con-preservativo-30-ott-12-168x300Spostare una statua crea o distrugge valore?
di Giuseppe Melis Giordano*

Premessa
Una delle accuse più ingiuste e strumentali fatte ai promotori della petizione per spostare la statua di Carlo Felice è quella in base alla quale si vorrebbe “distruggere il passato”, “cancellare la storia”, “ruspare le gesta di un tempo che non c’è più”, insomma, un gruppo di facinorosi iconoclasti.
Ebbene, niente di più falso. Questo non fa parte della cultura dei proponenti, ma forse abbiamo difettato nella comunicazione, che ha indotto in errore circa le nostre intenzioni. Pertanto ci pare doveroso provare a chiarire, ancora una volta, il nostro punto di vista (uso il plurale perché almeno nelle circa venti persone che hanno dato inizio a questa proposta, quanto sto per scrivere è ampiamente condiviso).

Il valore delle statue e la loro tutela
Le statue da sempre hanno valore celebrativo e/o di abbellimento di uno spazio, pubblico o privato. In molti casi esse hanno un valore simbolico in ciò che rappresentano.
Giuridicamente tali manufatti sono dei “beni culturali” soprattutto quando danno conto della civiltà dei tempi passati e pertanto meritevoli di tutela. Oggi per fortuna ci sono leggi che disciplinano non solo la conservazione ma anche la valorizzazione. Ne discende che quanto da noi proposto avvenga nel rispetto del Codice dei beni culturali e del paesaggio adottato dallo stato italiano (http://www.sbapge.liguria.beniculturali.it/index.php?it/165/codice-dei-beni-culturali-e-del-paesaggio-testo-integrato). In particolare il comma 2 dell’articolo 2 del citato Codice sostiene che:
“Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.”

Il valore della statua di Carlo Felice fino a oggi
Considerato che una statua è un bene mobile – il che non la rende comparabile con i beni immobili (cosa che invece tanti detrattori della petizione hanno finora fatto) – resta da stabilire cosa il soggetto proprietario di questo bene abbia fatto fino a oggi per dare seguito al disposto dell’articolo 3 del sopra citato Codice che recita testualmente:
“Articolo 3 Tutela del patrimonio culturale
1. La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione.
2. L’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale.”

Senza addentrarsi troppo nei meandri della legislazione italiana in tema di beni culturali, credo che si possa concordare sui seguenti punti:
a. Fino ad oggi la statua di Carlo Felice ha rappresentato solo un “arredo urbano” utile per i tifosi del Cagliari per poterlo vestire di rossoblù in occasione di gesta sportive vincenti.
b. Pochi sono i cagliaritani che conoscono (o conoscevano fino a che non è stata lanciata questa iniziativa) le gesta di Carlo Felice.
Eppure nel recente passato ci sono già stati articoli che hanno descritto il personaggio Carlo Felice (ora mi vengono alla mente, in ordine alfabetico, quelli di Francesco Casula, Enrico Lobina, Nicolò Migheli, Ivo Murgia, ma sicuramente ne dimentico qualcuno e di questo mi scuso), ma la lettura di questi contributi è rimasta confinata all’interno di un’ élite, e poco o nulla ha smosso finora, da molti punti di vista.
Stante questa situazione, si può ritenere che siano state rispettate fino ad oggi le finalità del Codice dei beni culturali in tema di “valorizzazione” del bene “statua Carlo Felice”?
La mia risposta è no, perché per fargli acquisire valore, occorre un’operazione di formazione e informazione capace di arricchire il significato di quella statua, qualunque esso sia. Perché a oggi l’unico significato, come scritto in precedenza, è quello di “attaccapanni” rossoblù.

La nostra proposta arricchisce il valore della statua
Contrariamente a quanti attribuiscono al gruppo promotore della petizione intenzioni “talebane”, le proposte della petizione vanno nella direzione di arricchire il valore della statua, certo non quello economico, ma quello simbolico. Ciò almeno per i seguenti motivi:
a. Spostare la statua genera domande anche nelle persone più distratte e quando ci sono domande c’è un processo di apprendimento, perché richiedono risposte;
b. Le risposte devono ricercarsi nella conoscenza della storia di questo sovrano – come documentata dagli storici dell’epoca contemporanea e immediatamente successiva a quella del sovrano sabaudo – e nella storia della statua stessa che è bene conoscere per intero. Ed è proprio per ciò che rappresenta il personaggio che non è accettabile oggi l’idea che la statua rimanga dove è. La sua realizzazione e la sua collocazione, infatti, sono il risultato della sudditanza delle persone coinvolte nei poteri decisionali del tempo (Stamenti), non certo il risultato di un processo democratico.
c. Collocare la statua all’interno di uno spazio museale e, segnatamente, per quanto mi riguarda, questo spazio è la Cittadella dei Musei, il luogo cioè dove la statua è stata forgiata. In particolare essa potrebbe campeggiare ben visibile in un’aiuola (io ne ho già individuata una libera particolarmente adatta), senza piedistallo, con un basamento basso tale da permettere anche una visione migliore del manufatto di bronzo, così da scorgere le fattezze del viso di questo megalomane rappresentato con gli abiti di un condottiero romano. In questo modo si ottempererebbe anche al disposto dell’articolo 38 del citato Codice che tratta il tema dell’accessibilità, cosa che adesso è solo apparente ma non sostanziale, visto che un bene è accessibile se riesce a trasmettere significati, altrimenti è come una formula matematica che se non la sai leggere, se non hai padronanza dei codici linguistici, non ti dice nulla e pertanto non è accessibile;
d. Sostituire la statua di Carlo Felice con quella di Giovanni Maria Angioy permetterebbe altresì di dare valore ad uno degli esponenti sardi che più di altri ha combattuto la tirannia sabauda e concorrerebbe ad accrescere l’autostima di questo popolo che troppe volte invece ha sentito e sente il bisogno di trovare “altrove” simboli cui ispirarsi per dare un senso alla propria voglia di riscatto (sociale, economico, culturale, ecc.). A questo proposito si pensi al significato dello scudetto vinto dal Cagliari, o ad altre imprese che soprattutto nello sport hanno inorgoglito questo popolo per intero.
Allora chiedo io a chi critica o snobba con supponenza questa iniziativa: ma davvero quanto ora indicato si configura come una iniziativa iconoclasta? Ma non sarà che è proprio non facendo nulla (come accaduto finora) che la storia non si conosce e viene cancellata perché fatta morire per inedia? Davvero, credete che siamo noi sostenitori della petizione ad aver avuto un’idea “bizzarra” o non sarà, invece, che proprio perché sta già facendo discutere e pensare, sono altri che vogliono rimanere nell’intorpidimento de “su connotu” e nell’ignavia senza fine?

La nostra iniziativa coniuga tradizione e innovazione
Oggi si fa un gran parlare di innovazione, di cambiamento, e per la gran parte della gente sembra che esso avvenga solo con l’introduzione di nuove “tecnologie”, o che queste debbano riguardare solo il modo di produrre e non anche il modo di essere. Eppure l’innovazione è qualsiasi processo volto a cambiare la realtà, per costruirne una nuova e migliore, se possibile. In questo senso, sono “innovazione” anche le operazioni di “sensemaking” e di “enactment”, che in italiano significano, rispettivamente, attribuzione di significati ad una realtà e attivazione di quella realtà (Weick, 1995).
La nostra iniziativa dà significato alla realtà della statua e a ciò che simbolicamente rappresenta e lo fa attivando un dibattito (cosa che nessuno può negare), un processo di conoscenza, di presa di consapevolezza su fatti storici ineluttabili e di azione volta a ridisegnare consapevolmente una porzione piccolissima della città. A questo proposito vorrei far osservare a chi dice che non si deve modificare l’esistente perché si altererebbe il processo di stratificazione storico, che la realizzazione della statua venne decisa dagli Stamenti sardi (https://it.wikipedia.org/wiki/Stamento) i quali, per quanto fossero delle assemblee rappresentative – di clero, nobili e militari – di fatto rispondevano al sovrano ed erano composti da persone che per lo più avevano come obiettivo quello di imbonirselo per entrare nelle sue grazie, circostanze queste che rendono ogni loro decisione viziata nelle fondamenta: per esempio, faccio la statua per celebrare la decisione di costruire una nuova strada da Cagliari a Porto Torres, non si sa mai che in questo modo il sovrano possa concedermi qualcosa di più. Può pertanto considerarsi questo come qualcosa che contrasta con l’idea che si ha oggi di un contesto democratico? Può considerarsi quel prodotto come qualcosa che non possa essere arricchito di significati e, di conseguenza, sottoposto ad aggiustamenti cognitivi?
La nostra idea è che questa iniziativa è tutt’altro che di retroguardia, essa al contrario vuole essere una vera innovazione culturale, perché non solo non cancella nulla, ma arricchisce ridefinendoli il senso della statua e del luogo nel quale finora essa ha sostato.

Un’operazione di marketing urbano
L’iniziativa insita nella petizione può essere annoverata come un’operazione di “marketing urbano”, perché intende intervenire, democraticamente, sulla gestione della città, riprogettandone una parte, sul piano simbolico prima di tutto e in minima parte sul piano dello spazio fisico. L’operazione proposta, infatti, passa per una decisione del Consiglio comunale che riconoscendo fondate e valide le istanze dei firmatari della petizione, ridefinisce il senso di quello spazio, prima di tutto cambiando il nome alla strada da “Largo Carlo Felice” a “Largo 28 aprile 1794. Die de sa Sardigna”, poi decidendo di sostituire la statua di Carlo Felice con quella di Giovanni Maria Angioy, che simbolicamente rappresenta l’oppositore della tirannide sabauda. Questa statua verrebbe rappresentata in abiti del tempo e non cambierebbe di molto il paesaggio fisico di quello spazio. Aggiungo persino che si potrebbe vestire di rossoblù esattamente come oggi si fa con Carlo Felice, con una differenza simbolica significativa: vestendo di quei colori che per noi sono nobili un tiranno, non si copre lui di ridicolo, ma si ridicolizzano i nostri colori. Giovanni Maria Angioy sarebbe stato invece orgoglioso di celebrare le gesta sportive della squadra della capitale della Sardegna, come lo sono tutti quelli che amano questa terra.
Ancora, la storia è il risultato della stratificazione di ciò che è accaduto col tempo. Le decisioni di oggi saranno la storia di domani, quindi oggi costruiamo la storia per il futuro. Se pertanto si apportano modifiche a spazi pubblici, come nel caso della nostra proposta, si sta aggiungendo uno strato ad altri preesistenti, senza cancellarli ma, come specificato sopra, arricchiti di nuovi significati, considerati oggi più pregnanti e più consoni ad una identità più consapevole, meno evanescente, più radicata e magari più volitiva nel voler costruire un futuro migliore.
A chi poi pone la questione dei costi dico solo che una iniziativa di questo genere si finanzierebbe con la raccolta pubblica di denaro (crowdfunding) e sono certo che tanti in tutto il mondo avrebbero piacere di contribuire, per cui le casse del Comune di Cagliari non sarebbero minimamente intaccate da tutta l’operazione. Al Comune di Cagliari e al suo ufficio tecnico competerebbe il compito di predisporre un progetto per la realizzazione del basamento della statua all’interno della cittadella, di stabilire le modalità della rimozione e del trasporto e le modalità con cui far realizzare la nuova statua, oltre alle nuove targhe per la strada. E anche la progettazione e la realizzazione della nuova statua potrebbe essere un’occasione per i tanti artisti sardi di mettersi in mostra e magari farne dono alla città.
Ripropongo ancora una volta la medesima domanda: davvero si può pensare che dietro questa petizione ci sia furore iconoclasta?
Quel che posso assicurare è che fin dall’inizio di questo percorso l’intento dei promotori è stato quello di “costruire” un significato nuovo, partendo da una migliore conoscenza del nostro passato, iniziativa che non ha e non vuole avere colorazioni partitiche ma si rivolge a tutti coloro che indistintamente hanno interesse a recuperare il senso della storia di questa città e di questa terra.
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Beppe Melis Unica fto micro* Giuseppe Melis Giordano è professore di marketing presso l’Università di Cagliari
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Abbasso Carlo Felice, Viva Giovanni Maria Angioy e i Martiri di Palabanda. Rileggere la storia per decidere “che fare” oggi
carlo ferocefelice mag 2016 foto FMC’è da spostare una statua
di Francesco Casula*

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”.

Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.
- segue –

Studiare, rileggere, ripensare, riscrivere (laddove necessario), la storia della Sardegna per decidere “che fare” oggi

Abbasso Carlo Felice, Viva Giovanni Maria Angioy e i Martiri di Palabanda. Rileggere la storia per decidere “che fare” oggi
carlo ferocefelice mag 2016 foto FMC’è da spostare una statua
di Francesco Casula*

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”.

Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sua proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato “re mitraglia” e, non a caso. L’8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario straordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla al centro di Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia “ricompensa” il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l’ingresso dell’Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l’avventura tragica del Fascismo – fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo – conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto – almeno per la Sardegna – è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna: da dove veniamo, Ed. La Biblioteca dell’Identità, 2013, pagina 154): ”Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi.

Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.

E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo”. Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico): “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani”. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché: “De evidentibus non est disputandum”!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi?

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* Su il manifesto sardo: http://www.manifestosardo.org/ce-spostare-statua/#sthash.y5TCFUHO.dpuf

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Dietro il monumento a Carlo Felice. Rileggiamo tutta la storia della Sardegna per aiutarci a decidere “che fare” oggi
Carlo-Feroce-con-preservativo-30-ott-12-168x300Spostare una statua crea o distrugge valore?
di Giuseppe Melis Giordano*

Premessa
Una delle accuse più ingiuste e strumentali fatte ai promotori della petizione per spostare la statua di Carlo Felice è quella in base alla quale si vorrebbe “distruggere il passato”, “cancellare la storia”, “ruspare le gesta di un tempo che non c’è più”, insomma, un gruppo di facinorosi iconoclasti.
Ebbene, niente di più falso. Questo non fa parte della cultura dei proponenti, ma forse abbiamo difettato nella comunicazione, che ha indotto in errore circa le nostre intenzioni. Pertanto ci pare doveroso provare a chiarire, ancora una volta, il nostro punto di vista (uso il plurale perché almeno nelle circa venti persone che hanno dato inizio a questa proposta, quanto sto per scrivere è ampiamente condiviso).

Il valore delle statue e la loro tutela
Le statue da sempre hanno valore celebrativo e/o di abbellimento di uno spazio, pubblico o privato. In molti casi esse hanno un valore simbolico in ciò che rappresentano.
Giuridicamente tali manufatti sono dei “beni culturali” soprattutto quando danno conto della civiltà dei tempi passati e pertanto meritevoli di tutela. Oggi per fortuna ci sono leggi che disciplinano non solo la conservazione ma anche la valorizzazione. Ne discende che quanto da noi proposto avvenga nel rispetto del Codice dei beni culturali e del paesaggio adottato dallo stato italiano (http://www.sbapge.liguria.beniculturali.it/index.php?it/165/codice-dei-beni-culturali-e-del-paesaggio-testo-integrato). In particolare il comma 2 dell’articolo 2 del citato Codice sostiene che:
“Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.”
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Dietro il monumento a Carlo Felice. Rileggiamo tutta la storia della Sardegna per aiutarci a decidere “che fare” oggi

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Premessa
Una delle accuse più ingiuste e strumentali fatte ai promotori della petizione per spostare la statua di Carlo Felice è quella in base alla quale si vorrebbe “distruggere il passato”, “cancellare la storia”, “ruspare le gesta di un tempo che non c’è più”, insomma, un gruppo di facinorosi iconoclasti.
Ebbene, niente di più falso. Questo non fa parte della cultura dei proponenti, ma forse abbiamo difettato nella comunicazione, che ha indotto in errore circa le nostre intenzioni. Pertanto ci pare doveroso provare a chiarire, ancora una volta, il nostro punto di vista (uso il plurale perché almeno nelle circa venti persone che hanno dato inizio a questa proposta, quanto sto per scrivere è ampiamente condiviso).
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Oggi, martedì 15 marzo 2016

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A Cagliari la campagna crowdfunding di TelecomApprofondimenti e programma.
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