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Quando finisce la notte?
Quando finisce la notte?
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17 settembre 2023
di Tomas Halík
Il 14 settembre Tomas Halík ha tenuto una relazione in occasione della XIII Assemblea generale della Federazione luterana mondiale.
Sorelle e fratelli!
Il cristianesimo è alle soglie di una nuova riforma. Non sarà la prima, né la seconda, né l’ultima. La Chiesa è, secondo le parole di sant’Agostino, “semper reformanda“. Ma, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti e crisi nel nostro mondo, è compito profetico della Chiesa riconoscere e rispondere alla chiamata di Dio in relazione a questi segni dei tempi.
Da Lutero, grande maestro della paradossale saggezza della croce e discepolo dei grandi mistici tedeschi, dobbiamo imparare in questi tempi a essere sensibili a come la potenza di Dio si manifesta: “sub contrario” – nelle nostre crisi e debolezze. “La mia grazia ti basta“: queste parole di Cristo all’apostolo Paolo valgono anche per noi, ogni volta che siamo tentati di perdere la speranza nelle notti buie della storia.
La riforma, la trasformazione della forma, è necessaria quando la forma ostacola il contenuto, quando inibisce il dinamismo del nucleo vivo. Il nucleo del cristianesimo è il Cristo risorto e vivente, che vive nella fede, nella speranza e nell’amore degli uomini e delle donne nella Chiesa e oltre i suoi confini visibili. Questi confini devono essere ampliati e tutte le nostre espressioni esteriori di fede devono essere trasformate se ostacolano il nostro desiderio di ascoltare e comprendere la parola di Dio.
Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna
Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti –
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.
“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.
All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.
Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.
Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.
Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.
A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.
Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.
Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:
Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.
Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:
Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9
La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.
Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
[segue]
Elezioni e oltre
LABORATORIO POLITICO SARDEGNA 2024 – di ANTONIO SECCHI.
- Sep 26, 2023 – CEST, su PoliticaInsieme: https://www.politicainsieme.com/laboratorio-politico-sardegna-2024-di-antonio-secchi/.
Il prossimo anno la Sardegna, quasi senza averne consapevolezza, rappresenterà un laboratorio politico che travalicherà i confini isolani per assumere rilevanza almeno nazionale e per certi aspetti anche europea. Si celebreranno infatti nel primo semestre del 2024 in ordine cronologico, prima le elezioni regionali poi a seguire le amministrative dei grandi comuni e a giugno quelle europee per l’elezione del nuovo Parlamento di Strasburgo.
Ricordando Piera Mossa
Lavorare con Piera è stato piacevole
di Gianni Loy
Io, Maria Piera Mossa non l’ho conosciuta. Tantomeno siamo stati amici. Ma non ho rimpianti, perché nella vita di belle occasioni me ne son perse tante: fa parte della nostra esistenza di viandanti che a volte, ad un crocicchio, imbocchiamo a caso un sentiero piuttosto che un altro, senza sapere cosa ci sia destinato.
Però. Almeno la fortuna di averla incontrata mi è toccata in sorte. È stato quando mi ha chiamato per propormi di collaborare ad una trasmissione radiofonica in costruzione: “Quelli dell’Europa accanto”, un viaggio immaginario nei paesi di un’Europa destinata ad allargare i propri confini. Avrei dovuto illustrare alcuni aspetti di quei paesi, soprattutto per quanto riguarda la condizione dei lavoratori.
Ricordo l’ansietà del primo giorno. Avevo impostato quei 10 minuti quotidiani, che avrei dovuto ripetere per 30 puntate, sulla base di riflessioni personali, concedendo spazio – ad ogni possibile occasione – alla poesia.
Fratelli e sorelle
Lezione domenicale
di Gianni Loy
Sarà perché ho frequentato a lungo la Chiesa, ma ricordo che fin da giovane ho maturato anticorpi, così non mi sono mai lasciato suggestionare, e tantomeno convincere, da chi mi parla con il rosario in mano.
Sarà perché le chiese sono sempre meno frequentate che i missionari di oggi hanno ripreso ad andare per le strade, ad esibire croci, rosario e medagliette della madonna. Cercano di risvegliare il nostro sentimento di pietà, il nostro buon cuore, la nostra solidarietà.
In materia di emigrazione, per esempio. Si presentano – uno in particolar modo – in barba e camicia, per dirci che gli esuli africani e asiatici starebbero meglio a casa loro. Forse per risvegliare, in un sol colpo, pietà e solidarietà. Ma se sul congiuntivo ci ho già fatto la croce, anche il condizionale non mi convince più tanto: stanno meglio o potrebbero star meglio? Se “potrebbero star meglio” significa che a casa loro stanno male, nel senso che soffrono e muoiono, imbarcarli per riportarli indietro non mi pare la soluzione migliore.
Sempre nel nome del Signore, come ai tempi delle vecchie crociate verso il medio-oriente, agitano la guerra santa contro gli scafisti, i nuovi untori che incitano quanti starebbero meglio a casa loro a venirsene in Europa, nel paese di Bengodi. Come a dire che, se non fosse per questi mascalzoni, questi milioni di persone se ne sarebbero rimasti tranquilli a casa loro …
Editoriali
Lezione domenicale
di Gianni Loy
Sarà perché ho frequentato a lungo la Chiesa, ma ricordo che fin da giovane ho maturato anticorpi, così non mi sono mai lasciato suggestionare, e tantomeno convincere, da chi mi parla con il rosario in mano.
Sarà perché le chiese sono sempre meno frequentate che i missionari di oggi hanno ripreso ad andare per le strade, ad esibire croci, rosario e medagliette della madonna. Cercano di risvegliare il nostro sentimento di pietà, il nostro buon cuore, la nostra solidarietà.
In materia di emigrazione, per esempio. Si presentano – uno in particolar modo – in barba e camicia, per dirci che gli esuli africani e asiatici starebbero meglio a casa loro. Forse per risvegliare, in un sol colpo, pietà e solidarietà. Ma se sul congiuntivo ci ho già fatto la croce, anche il condizionale non mi convince più tanto: stanno meglio o potrebbero star meglio? Se “potrebbero star meglio” significa che a casa loro stanno male, nel senso che soffrono e muoiono, imbarcarli per riportarli indietro non mi pare la soluzione migliore.
Sempre nel nome del Signore, come ai tempi delle vecchie crociate verso il medio-oriente, agitano la guerra santa contro gli scafisti, i nuovi untori che incitano quanti starebbero meglio a casa loro a venirsene in Europa, nel paese di Bengodi. Come a dire che, se non fosse per questi mascalzoni, questi milioni di persone se ne sarebbero rimasti tranquilli a casa loro …
Fortuna che, proprio ieri, ho ascoltato la voce di un anticlericale, vestito di bianco, che si è affacciato alla finestra di una piazza romana poco dopo mezzogiorno. Senza mai nominare né Dio né la Madonna, ci ha offerto una ben diversa versione del fenomeno. Ci ha ricordato, prima di tutto, che milioni di persone sono costrette – ha detto proprio costrette – ad abbandonare il proprio paese, la propria casa, per cercare di sopravvivere. E ci ha ricordato che tutte queste persone hanno un diritto di vivere nella loro terra. Un diritto umano, fondamentale. Quel loro diritto viene violato, ogni giorno, da un sistema economico che li costringe ad andar via.
Cosa ci vengono a dire quei predicatori che, con aria compunta e sofferente, vorrebbero convincerci che se cingiamo il mare di filo spinato è solo per il loro bene? Non si tratta, quindi – secondo quell’umile signore che non sembra del tutto sprovveduto in materia di diritto e di economia, – di rispedirli, con le buone o con le cattive, a casa loro. Ma di prendere atto del perché tutto ciò accada, non sulla base della compassione ma dei diritti, e di porvi rimedio, se ne saremo capaci. E poiché si tratta di persone private del diritto di stare a casa loro, in attesa di cambiare il mondo, cioè gli egoismi che lo governano, il minimo che si possa fare è quello di accoglierle dignitosamente queste persone, che, guarda caso, quel predicatore in barba e camicia che sventola il crocifisso, non chiama mai con il loro nome: fratelli e sorelle.
Devo dire che il ragionamento di quel vecchio anticlericale che, con voce sempre più stanca, si affaccia quasi tutte le domeniche da una finestra romana, mi convince.
(25.9.2023) Gianni Loy
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Costituente Terra Newsletter n. 132 del 20 settembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 313 del 20 settembre 2023
LA DIFESA DEI CONFINI
Cari amici,
il Consiglio dei ministri di lunedì scorso ha inserito nel decreto-legge per gli aiuti al Mezzogiorno nuove norme di contrasto all’immigrazione, ciò che nel linguaggio di Giorgia Meloni significa “la difesa dei confini”. Finora si intendeva come difesa dei confini il contrasto alle invasioni armate. Ma i profughi non sbarcano sulle nostre coste facendosi ragione con le armi, quindi non si possono mandare le Frecce Tricolori a bombardare i barchini, né fare con le navi da guerra il blocco navale, né spedire la Folgore per sbarrare i porti né si possono schierare i carri armati Ariete e Leopard sulla spiaggia dell’isola dei Conigli a Lampedusa, dove a sbarcare sono le tartarughe che vengono a deporvi le uova. Sicché, venuta meno la difesa avanzata dei confini, il governo ha deciso una difesa arretrata decretando l’istituzione in tutte le regioni, di concerto con il ministro della Difesa, di centri di detenzione che dovranno essere messi “in località scarsamente popolate”, facili a delimitare e “facilmente sorvegliabili”, cioè in prigioni o lager dove i reclusi potranno essere ristretti fino a un anno e mezzo, prima dell’espulsione. C’è però un problema, che si è posto il prefetto di Agrigento dopo che due o trecento profughi erano scappati dal centro di Porto Empedocle per cercare cibo ed acqua nella città vicina; poiché tecnicamente gli evasi non erano in stato di detenzione, si è chiesto il prefetto, come faccio a riacchiapparli? E così si scopre che è stata istituita una nuova figura giuridica, quella di detenuti con diritto di fuga, salvo ad essere poi riacciuffati dalla polizia, se no si disperdono nel territorio.
Che cosa si intende quindi per “difesa dei confini”? L’immagine più rappresentativa è quella che la Stampa ha definito “un video-choc”, della polizia francese che aggredisce una famiglia ivoriana con donna incinta e un bambino in braccio al padre sul treno Cuneo-Ventimiglia per farli scendere alla stazione di Breil. Altri modi di difendere i confini sono quelli della polizia di frontiera francese che respinge ed espelle decine di minori non accompagnati falsificandone perfino i dati anagrafici per spacciarli come maggiorenni.
Ma poi c’è l’invenzione della Meloni e della Von der Meyen di dare soldi in cambio di migranti al presidente tunisino, e di fare accordi per ricollocare i profughi comunque sbarcati in Europa nei lager libici o ributtarli nel deserto del Sahara; e queste sono due donne che orgogliosamente rivendicano di essere madri, la Meloni se ne gloria in spagnolo (“yo soi madre”), la Von der Meyen ha sette figli tra cui due gemelle: esse giustamente difendono la natalità e la famiglia, ma la loro, non quella delle altre. C’è poi da dire che le nuove misure decretate in Italia dal governo hanno anche un sapore razzista perché destinate a colpire soprattutto profughi di pelle scura, e bisogna stare attenti a questo in tempi in cui in Europa ci si scambia accuse di nazismo.
Ma se la risposta alla tragedia dei migranti viene iscritta nel capitolo della difesa dei confini, è proprio l’istituto dei confini, celebrati finora come sacri e inviolabili, che bisogna riformare. Finora la riforma è stata quella di liberalizzare e aprire le frontiere alle ricchezze e alle merci, ma non alle persone; ora si tratta di destinare i confini non a circondare territori chiusi e presidiati da sovrani l’un contro l’altro armati, che si sbranano tra loro come oggi accade, ma a delimitare dei grandi spazi giuridici, degli ordinamenti comunicanti tra loro, dotati di legislazioni specifiche ma subordinate a un costituzionalismo di diritti e di garanzie fondamentali a tutti comune. In questo quadro, la libertà di movimento dovrebbe essere riconosciuta come un diritto fondamentale tra questi spazi giuridici aperti. E per evitare migrazioni di massa occorrerebbe una bonifica dei rapporti economici tra gli stati, compreso il debito, in prospettiva mondiale. A vigilare sulla sicurezza dei confini dovrebbero essere eserciti anche nazionali, ma nella forma dei caschi blu come sono previsti dal capitolo VII dello Statuto dell’Onu. A questo compito è chiamata la politica, e a proporlo come nuovo modello per il mondo può essere un grande soggetto politico: e proprio questo dovrebbe essere l’Europa, se si converte, e proprio questo è il cimento a cui essa dovrebbe essere chiamata nella prossima competizione europea.
Non è la sostituzione etnica che si dovrebbe temere, ma piuttosto la catastrofe etica dei valori universalisti dell’Europa e dell’Occidente.
Costituente Terra
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Nel sito di Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri viene pubblicato l’importante discorso sull’armonia tra le religioni, pronunciato da papa Francesco al recente incontro interreligioso in Mongolia.
Con i più cordiali saluti,
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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È online il numero 19/2023 di Rocca
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È online il n.19 della Rivista Rocca, a cui ci lega un antico e sempre attuale rapporto di collaborazione. Su gentile concessione del nostro amico direttore Mariano Borgognoni, che ringraziamo, ne pubblichiamo l’editoriale.
Memoria e politica
di Mariano Borgognoni su Rocca 19/2023
(21 Settembre 2023)
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di Marco Meloni Lai
In Italia si sta normalizzando e legalizzando l’inumanità e la violazione dei diritti umani più elementari.
I migranti sono persone. I migranti minorenni sono persone minorenni. Le invasioni nazi-fasciste sono venute ad opera militare dopo che buona parte dell’Occidente aveva normalizzato, accettato e riprodotto logiche razziste e suprematiste provenienti da Italia prima e Germania dopo, non da parte di chi fugge da un continente affamato da secoli di colonialismo, guerre e sfruttamento.
Alessandra Todde: un endorsement* convinto, seppur non richiesto.
di Franco Meloni
Per formazione e vita politica ultracinquantennale, sempre a sinistra, sono stato e sono tuttora distante dal Movimento 5 Stelle, che ho votato solo una volta per la credibilità di un amico candidato. Non mi è quasi mai piaciuto il Movimento – a cui peraltro riconosco meriti storici (tra questi il reddito di cittadinanza, pur migliorabile) – soprattutto nella sua fase di straordinario successo e consenso popolare. Oggi, dopo varie debacle che lo hanno ridimensionato, devo dire che mi è più simpatico, forse perché nel bene si è riorganizzato come un normale partito, anche nel male: vero, ma di questo non voglio parlare. Fatta questa premessa, mi sento libero e non attaccabile di partigianeria per le cose che di seguito dico. L’argomento è “elezioni sarde” e specificamente la “scelta del candidato/a alla presidenza della regione”. Bene, io credo, anzi ribadisco, che la priorità da dare negli incontri dell’alleanza di centro-sinistra sia allo stato attuale la scelta del candidato/a. Perché è lui (o lei) che deve condurre le trattative per la definizione del programma e l’indicazione dei criteri per la formazione delle diverse liste, partendo da una fondamentale base comune e nel rispetto delle differenze delle diverse liste in coalizione, compatibili con la stessa. Le persone in grado di assumere questo importantissimo ruolo vi sono eccome. Ne elenco alcune in ordine alfabetico: Piero Comandini, Desirè Manca,
Paolo Maninchedda, Graziano Milia, Alessandra Todde, e tanti altri/e. Tuttavia dichiaro che la mia preferenza va a Alessandra Todde. E poco mi importa che il suo nome sia gradito e suggerito dalle segreterie romane dei partiti italiani. Che problema ci sarebbe? Lesa maestà per i sardi? Ma non scherziamo. Ricordo che Emilio Lussu e altri proposero alla Consulta sarda e all’Assemblea costituente italiana che la Sardegna adottasse lo Statuto siciliano, stante la perentoria scadenza che vedeva i rappresentanti della Sardegna non concordi su uno Statuto cucinato in proprio. Apriti cielo! Come si sa, andò a finire che per la Sardegna fu adottato uno Statuto di gran lunga meno autonomista di quello siciliano! Nel nostro caso la scelta “romana” dovrebbe/potrebbe coincidere con quella autonoma sarda. Questo è il mio auspicio. Non ne siete convinti? Ovviamente legittimo, ma prima di esprimere la vostra opinione definitiva, per favore leggete il curriculum vitae di Alessandra Todde (lo trovate su Wikipedia e comunque lo riporto più avanti). Unito alla sua esperienza e alle sue posizioni politiche di dominio pubblico, per me basta e avanza!
Alessandra Todde su Wikipedia
Biografia
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Nata il 6 febbraio 1969 a Nuoro, si è laureata in Ingegneria informatica all’Università di Pisa e, dopo aver conseguito una laurea magistrale, ha vissuto per 11 anni negli Stati Uniti, dove si è occupata di energia ed evoluzione digitale.
Dove finiremo?
Costituente Terra Newsletter n. 131 del 13 settembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 312 del 13 settembre 2023
INVECE DELLA RAGIONE
Cari amici,
è sempre più difficile dire come potremo uscire dalla tragedia universale che stiamo vivendo, perché siamo vittime non solo della protervia dei potenti che si sono arrogati il diritto di decidere della nostra sorte e della stessa vita del mondo, ma della loro condotta del tutto irrazionale, e per conseguenza incoerente e ingannevole. Nel nostro orgoglio di occidentali nipotini di Kant, credevamo che la ragione ci avrebbe salvato, e invece è proprio l’eclissi della ragione che ci sta perdendo.
Il primo esempio di questo agire senza ragione sta nell’origine stessa della guerra d’Ucraina; ora sappiamo perché essa è scoppiata, e come sarebbe stato facile, e addirittura ovvio, evitarla. Ci ha spiegato perché non l’hanno fatto il segretario generale della NATO, Stoltenberg, parlando in una sede istituzionale e ufficiale come la Commissione Affari Esteri del Parlamento europeo. È forse per la sua genialità che egli è stato confermato per un altro anno alla testa della Forza Armata dell’Occidente.
“Nell’autunno del 2021 – ha rivelato – il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la NATO firmasse l’impegno a non allargarsi più”. Bisogna notare che a quella data la NATO aveva già inglobato, dopo il fatidico ’89, la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia, l’Albania, la Croazia, il Montenegro, la Macedonia del Nord, Paesi non tanto lontani dai confini della Russia, su cui pertanto la NATO poteva già abbaiare a suo piacere. “Inoltre – ha aggiunto Stoltenberg – voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la NATO dall’Europa centrale e Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Ovviamente non abbiamo firmato, e lui è andato alla guerra per evitare di avere confini più vicini alla NATO, ottenendo l’esatto contrario».
Commentando queste dichiarazioni su “Il Fatto Quotidiano”, Salvatore Cannavò fornisce altri particolari su quel tentativo di accordo fallito: Il documento con le “proposte concrete” di Putin, presentato il 15 dicembre 2021 “fu accolto in Occidente come un diktat, anche se gli uomini di Putin lo consideravano comunque una bozza su cui avviare la trattativa. I nove articoli muovevano da un preambolo che citava vari trattati, da quello di Helsinki del 1975 sino alla Carta per la sicurezza europea del 1999 per poi sostenere l’impegno delle parti a “non partecipare o sostenere attività che incidano sulla sicurezza dell’altra parte “, a “non usare il territorio di altri Stati per preparare o effettuare un attacco armato” o ad azioni che ledano “la sicurezza essenziale” reciproca facendo in modo che le alleanze militari o le coalizioni di cui fanno parte rispettino “i principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite”. Propositi a nostro parere sacrosanti.
L’articolo 4 era quello tendente a escludere l’ulteriore espansione della NATO ad Est, e l’ammissione ad essa degli Stati che facevano parte dell’Unione Sovietica; gli Stati Uniti non avrebbero dovuto installare basi militari sul territorio degli Stati già membri dell’URSS né avrebbero dovuto stabilire con loro una cooperazione militare bilaterale. Tale proposta non metteva in discussione tutto l’Est europeo ma i soli Paesi baltici, Estonia Lettonia e Lituania entrati nell’alleanza nel 2004. La Russia chiedeva poi di non schierare missili terrestri a raggio corto e intermedio se questi minacciassero l’altra parte e di “evitare il dispiegamento di armi nucleari”. C’era poi l’impegno che le parti non avrebbero dovuto creare “condizioni o situazioni che costituiscano o possano essere percepite come una minaccia alla sicurezza nazionale di altre parti”, con una certa “moderazione” nell’organizzazione delle esercitazioni. Per la risoluzione delle controversie si rimandava ai rapporti bilaterali e al consiglio Nato-Russia, con la richiesta di creare hotline di emergenza. Per quanto in particolare riguardava l’Ucraina la richiesta era che tutti gli Stati membri della NATO si astenessero dal suo ulteriore allargamento compresa l’adesione dell’Ucraina e di altri Stati, e non conducessero alcuna attività militare sul territorio dell’Ucraina e di altri Stati dell’Europa orientale, del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale”. Il rifiuto di queste proposte arrivò subito, già il giorno dopo, il 16 dicembre, in una conferenza stampa di Stoltenberg con il presidente ucraino Zelenski. La posizione degli Stati Uniti, di Biden, di Stoltenberg, ribadita in più sedi, era che “è la NATO che decide chi aderisce all’Alleanza e non la Russia”, e l’Europa tacque del tutto.
Un altro esempio di un comportamento “alienum a ratione”, per dirla con papa Giovanni XXIII, ossia “fuori della ragione” se non di follia, sta nella posizione assunta dall’Ucraina come l’ha enunciata il portavoce ufficiale di Zelenski, Mikhailo Podolyak. Egli prima ha liquidato papa Francesco, dicendo: “Non ha senso parlare di un mediatore chiamato papa, se questi assume una posizione filorussa… Se una persona promuove chiaramente il diritto della Russia di uccidere i cittadini di un altro Paese…sta promuovendo la guerra… Il Vaticano non può avere alcuna funzione di mediazione: ingannerebbe l’Ucraina o la giustizia”. Marco Politi ha definito queste dichiarazioni “uno schiaffo pesante” al papa, paragonandolo allo “schiaffo di Anagni”. Poi Podolyak ha descritto il mondo come l’Ucraina di Zelensky se lo immagina oggi e dopo la vittoria sulla Russia: “Smettetela di assecondare i mostri” (rivolto a Lula che aveva detto che non avrebbe fatto arrestare Putin se andrà al prossimo G20 del 2024 a Rio de Janeiro), “Smettetela di flirtare con i maniaci ignorando le loro vere intenzioni. Smettetela di pensare che sia possibile negoziare con la Russia e che sia importante. La decisione sulla Russia deve ancora essere presa: isolamento geopolitico, status di terrorista, sospensione dall’appartenenza a istituzioni globali, mandati di arresto individuali per alti funzionari. E soprattutto la sconfitta nella guerra seguita dalla trasformazione interna” (dal Corriere della Sera dell’11 settembre). Povera Ucraina e poveri noi in un mondo così.
La terza performance insensata è quella di Biden che è andato in Vietnam, teatro di quella guerra che gli Stati Uniti non hanno accettato di concludere con un negoziato cercando invece la vittoria, e ne sono usciti sconfitti fuggendo da Saigon, per proporre una qualche partnership nell’Indopacifico, ignorando forse che il Vietnam, dopo la dura esperienza da cui è uscito, è ora il Paese “dei quattro NO”: no alle alleanze militari, no a schierarsi con un Paese contro un altro, no alle basi militari straniere, no all’uso della forza nei rapporti internazionali. Fossimo anche noi come il Vietnam! E a Pechino Biden ha detto: “Non voglio il contenimento della Cina. Voglio solo assicurare che ci sia una relazione onesta e chiara”. Peccato che nella “Strategia della sicurezza nazionale americana”, da lui firmata nell’ottobre scorso, c’è scritto che il maggiore “competitore strategico” degli Stati Uniti è la Cina, che rappresenta la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio, e sempre più spesso ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.
Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, specificava che “la Repubblica Popolare Cinese ha ampliato e modernizzato quasi ogni aspetto dell’Esercito Popolare di Liberazione, concentrandosi sullo sforzo di riequilibrare le superiorità militari statunitensi. La Cina è quindi la sfida suprema per il Dipartimento della Difesa”. Lloyd Austin illustrava poi come l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; egli sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”. Nonostante tutti i processi alle intenzioni, decisive motivazioni sul perché si debba fare della Cina l’ultimo Nemico in una guerra finale con lei, non erano date. Sono queste alcune delle ragioni che stanno alla base dell’Appello “Terra, Pace Dignità”, rivolto anche ai destinatari di questa newsletter, appello che pubblichiamo nel sito e di cui si potranno poi seguire gli sviluppi. Si tratta di dare una rappresentanza politica a tre soggetti ideali, tre ordinamenti, che non l’hanno o l’hanno perduta: la Terra, la Pace e la Dignità di tutte le creature; è la via, che non elude la dura prova della politica, per giungere infine, ripudiata sul piano mondiale la guerra, a quel costituzionalismo mondiale che è il nostro obiettivo e la ragione del nostro impegno.
Nel sito, nel giorno (12 settembre) in cui si sono registrati 5112 sbarchi di migranti sulle coste di Lampedusa pubblichiamo anche una drammatica lettera di don Mattia Ferrari, che assiste quanti sono impegnati nella salvezza dei profughi con la nave “Mediterranea”. Pubblichiamo inoltre l’articolo di Marco Politi sullo “schiaffo ucraino” al Papa, e un altro sulla carneficina in atto in Ucraina.
Con i più cordiali saluti,
Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
(Raniero La Valle)
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La guerra che verrà
di Bertolt Brecht
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
Faceva la fame. Fra i vincitori
Faceva la fame la povera gente egualmente.
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Verso le elezioni sarde. Torniamo a votare
IL CONVITATO DI PIETRA E L’ARABA FENICE: uno sguardo sulle elezioni regionali
di Tonino Secchi
In questo fine agosto 2023, memorabile per le calure storiche e gli incendi devastanti in diverse aree del Mediterraneo, si respira in Sardegna una sorta di stordimento della memoria soprattutto nell’ambito della politica che ha chiuso i battenti prima delle “vacanze estive” con due vicende significative: l’assemblea del campo largo del centrosinistra al Molentargius e l’imbarazzo del centrodestra alla ricerca affannosa di un nuovo leader. I giocatori di questa partita sembrano non accorgersi di un convitato di pietra che quasi li osserva dispiaciuto e incredulo dagli spalti quasi a ricordare che i giochi sono già fatti e che a vincere può essere proprio lui:
POLITICA e CULTURA
In continuità con lo spazio/editoriale precedente proponiamo di soffermarci sul pensiero illuminante di Mario Tronti (nella foto), morto il 7 agosto u.s. all’età di 92 anni. Lo facciamo utilizzando i materiali degli ultimi numeri della rivista Rocca, a cui ci lega un rapporto di collaborazione, ringraziando il suo direttore, l’amico Mariano Borgognoni, per questa preziosa concessione (f.m.).
Tronti e la necessaria «autonomia del politico»
di Luigi Pandolfi su Rocca.
È stata una storia intellettuale e politica controversa, quella di Mario Tronti, scomparso a novantadue anni lo scorso 7 agosto. Teorico dell’operaismo italiano (nel 1966 esce Operai e capitale, per i tipi di Einaudi), poi dell’«autonomia del politico», la sua esperienza di dirigente politico e di uomo delle istituzioni è stato un conclamato caso di incoerenza tra pensiero e azione, almeno nell’ultima stagione del suo impegno in parlamento. È sufficiente ricordare, a tal proposito, il suo voto favorevole, da senatore del PD renziano, al Jobs Act, provvedimento che ha reso ancora più precario il lavoro nel nostro Paese, e all’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Ma lui, fino alla fine, ha vissuto tutto questo con curioso spirito di separazione, come se quei voti, quella corresponsabilità in determinate scelte, fossero di un altro Mario Tronti. Solo qualche settimana prima della sua dipartita, in un’intervista a Marco Bevilacqua proprio su Rocca, diceva che «la sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica», quasi ironizzando sulle suggestioni “americane” del Partito democratico. La conclusione era che «il potere vero è ormai nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta». Nessuna autocritica, ma l’analisi, presa a sé stante, era sensata. Economia e politica, conflitto e mediazione: il cuore della sua riflessione sulla politica moderna, entrata definitivamente e irrimediabilmente in crisi dopo il fallimento del socialismo reale in Urss e nei paesi dell’est, che ha tirato giù anche i benefici del compromesso keynesiano ad ovest. Vale la pena ritornarci su questo argomento. Ciò che, dal mio punto di vista, rimane di più vivo del lungo, e composito, comunque importantissimo, lavoro dell’intellettuale Mario Tronti.
La politica e il moderno
Il Novecento è stato il secolo della politica. La politica che contende il terreno all’economia, palmo a palmo, provando, e a volte riuscendovi, a cambiare il corso della storia. Rivoluzioni e riforme, lotte sociali e politicizzazione delle masse, partecipazione dei ceti popolari alla vita pubblica, l’irruzione nella società dei partiti di massa. Sono i tratti salienti della modernità, che per Tronti finisce per coincidere con la politica stessa. Ma il Novecento si è chiuso facendo fare all’Occidente un salto all’indietro. «Un ritorno di Ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo», scrive Tronti in La politica al tramonto (Einaudi, 1998). È la fine dell’età della politica, «l’unica che poteva impensierire l’idea moderna di dominio fondata sull’economico». La crisi sarebbe iniziata all’inizio degli anni Settanta, col ’68 e le sue lotte a sugellarne l’epilogo. Da quel momento in poi, secondo Tronti, sarebbe iniziata la «storia minore del Novecento», nella quale, al conflitto, si sarebbe sostituito il basso compromesso, mentre al posto delle appartenenze si sarebbero imposte le cosiddette contaminazioni. Solo la rivoluzione femminile avrebbe «depositato pensiero» e fatto politica con la P maiuscola, cambiando con le lotte le leggi e, fin dove possibile, il senso comune. Lo stesso governo è diventato «amministrazione della casa», in assenza di conflitto tra visioni alternative del mondo e della società. C’entra molto, nella fine della politica, la caduta dell’idea di comunismo. Tronti non si è mai sottratto al confronto con la storia, grande e terribile, del tentativo di costruzione di una società alternativa a quella capitalistica. Ma, al contempo, ha sempre contrastato la vulgata secondo cui comunismo e fascismo/nazismo sarebbero stati due varianti di un medesimo fenomeno, quello del totalitarismo. Il nazismo, fino al parossismo, ha realizzato le sue idee, mentre il comunismo le ha tradite, è la sua condivisibile conclusione. Ancorché quello comunista non sia stato il governo politico della normalità, bensì dell’eccezionalità, a fronte della mancata rivoluzione in Occidente. Che fallisce nella sua impresa quando sposta sul terreno economico la competizione col mondo capitalistico. «Il socialismo, sottratto al conflitto politico e costretto alla competizione economica, lì ha perso», è la conclusione di Tronti. Non c’era partita. Un’inutile rincorsa. Ma ad ovest, lo spauracchio della dittatura del proletariato ha prodotto i suoi effetti. Si chiede Tronti, giustamente: «Ci sarebbe stato comunque il welfare state», senza lo spettro incombente di un diverso modello di società che aveva provato a farsi storia? E, infatti, proprio la fine del socialismo reale sciolse le briglie del neo-liberismo, fino a quel punto contenuto da una politica in grado di esercitare la propria autonomia, in un rapporto «agonico» con le forze dell’economia e della finanza.
Il Tronti attuale
Il nostro tempo è ancora più segnato dall’assenza di politica. La differenza tra gli schieramenti che si alternano alla guida dei governi è solo di superficie. Nessuno, da destra a sinistra, mette più in discussione le fondamenta di una società che produce «scarti», alienazione consumistica alimentata dal debito, nuove e più insidiose forme di sfruttamento del lavoro, distruzione dell’ambiente, precarietà lavorativa ed esistenziale, guerra. Quest’ultima è anche una delle leve che il capitalismo utilizza per far fronte alla propria tendenza al ristagno (molto attuale su questo la lezione dell’economista americano Paul Sweezy). Così si spiega l’esplosione delle spese militari (Nel 2022, la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 2.240 miliardi di dollari, con gli Usa che ne rappresentano il 40%). Ma, a parte alcune minoranze, politiche ed intellettuali, o il Pontefice, chi si oppone seriamente a tutto questo? «Da quando, gli schieramenti non si distinguono più per il senso diverso che dànno alla politica?», si sarebbe chiesto il nostro. Eppure, senza politica il mondo non ha che la catastrofe dinanzi a sé. In essenza di una nuova soggettività capace di «deviare il corso del fiume», l’umanità è destinata a soccombere. È di nuovo tempo di grandi visioni, di progetti alternativi di società. Per la cui elaborazione servono soggetti collettivi portatori di «una ragione o di più ragioni» di contrasto allo stato di cose presente. Non è solo un problema Italiano, dove la spoliticizzazione della democrazia ha coinciso con la totale scomparsa delle forze politiche di riferimento del movimento operaio. È una questione globale. Tanto più che la partita principale, oggi, si gioca sul terreno geopolitico. Proprio Tronti, in una recente intervista rilasciata al quotidiano Il Riformista faceva notare che «la vecchia politica di potenza di paesi-nazione si muta in geopolitica, che vede protagonisti interessi di nazioni-continente», in un quadro, più generale, dove l’asse del mondo tende a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico. Aspirazioni, legittime, di potenze emergenti che si scontrano con l’accanita resistenza di un impero decadente, quello a stelle e strisce. In mezzo, l’assenza dell’Europa, che è assenza di una politica europea. Una «unione economica con l’elmetto della Nato», che rischia la deindustrializzazione. La «grande politica» – usiamo ancora un’espressione di Mario Tronti – oggi sarebbe pertanto una politica di pace, contro l’economia di guerra, la corsa alle spese militari, per salvare il mondo dalla catastrofe atomica e indirizzare l’economia verso la produzione di «valori d’uso» sociali e ambientali. «Grande politica» contro la «piccola politica», che tende ad «annullare, comprimere, mascherare, i conflitti», ma giustifica la guerra in nome di sacri principi che non mancano mai alla bisogna. Come anche la guerra d’Ucraina sta dimostrando.
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La morte annunciata di una sinistra senza storia
di Marco Bevilacqua
8 Agosto 2023
Conversazione con Mario Tronti
Non solo in Italia, ma in generale nel mondo occidentale, oggi la sinistra sembra in crisi di identità, di rappresentanza, di credibilità. Ci si potrebbe chiedere: ha ancora senso una sinistra nel ventunesimo secolo? Ne parliamo con Mario Tronti, grande saggio del marxismo operaista, ex senatore della Repubblica e già parlamentare del Pd.
Professore, esiste ancora la sinistra?
La sua è una domanda difficile. La sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica. Tale distanza può essere più o meno marcata a seconda del Paese. Negli Stati Uniti la sinistra, senza mai definirsi come tale, si è sempre identificata nel partito democratico, e comunque ha esercitato una certa forza attrattiva nei confronti della sinistra europea. In Europa, la socialdemocrazia tedesca possiede ancora sia la solidità organizzativa, sia la capacità di esercitare una presenza reale nel sistema politico. In Francia la sinistra si è ripresentata in forme nuove, in Spagna c’è un partito socialista al governo. Esiste pure un partito socialista europeo, che a me sembra un morto che cammina. In generale, è pur vero che il panorama è un po’ desolante, ma ci sono anche delle eccezioni in controtendenza, come il partito socialista portoghese, che sta portando qualche segnale di freschezza.
E in Italia che succede?
Succede che il Pd voleva somigliare ai democratici americani, e pur nella sua breve vita ha finito con il non riuscire più a rappresentare la sinistra italiana. Poi esiste una galassia di sinistre minoritarie che non riescono a incidere nella vita reale. Una situazione molto frastagliata, poco leggibile. Il problema è che bisognerebbe ridefinire ciò che si intende per sinistra.
Qual è l’aspetto dirimente per poter definire la sinistra?
Da vecchio militante del Pci, ho sempre creduto in un progetto chiaro, definito, organico. In un partito che non aveva bisogno di definirsi: il nome parlava chiaro, senza fraintendimenti circa la sua collocazione politica. La sua stessa evoluzione in Pds, poi Ds e infine Pd, non ha mai esercitato la forza attrattiva, vorrei quasi dire evocativa, che quel nome storico possedeva. Il cammino affrettato, e per certi aspetti raffazzonato, da Pci a Pd ha molto disorientato l’elettorato, che non ha più compreso di che si trattava. Perciò vengo alla sua domanda: la sinistra per me è qualcosa che deve avere un passato, un percorso storico, un radicamento sociale. Il movimento operaio non è più riproponibile, nelle forme storiche in cui si è manifestato, perché oggi l’industria tradizionale non è più centrale nel capitalismo. Però l’errore è stato pensare che la storia del movimento operaio si fosse conclusa con la disintegrazione, dopo settant’anni, del tentativo di costruzione del socialismo cosiddetto reale. Un esperimento fallito che però non portava alla fine della storia. Il movimento operaio ha una storia molto più lunga, nata a fine Settecento con la prima rivoluzione industriale e proseguita per i due secoli successivi attraverso tante esperienze di mutualismo, associazionismo e di lotta organizzata, e non doveva essere liquidato così grossolanamente. Tanto più che il movimento operaio si è espresso e sviluppato in profondità anche nel mondo cattolico. Ecco, se la sinistra, pur mutando le forme, non si porta dietro questa lunga storia, fatta di cura e assistenza quotidiana alle persone che lavorano, di lotta antagonista, di alternativa all’ordine costituito, allora non ha più senso definirla tale. E invece, dagli anni ‘80 in poi, sembra che l’unica preoccupazione dei vertici della sinistra sia stata quella di demonizzare il passato, di emanciparsene, di aprirsi al nuovo che avanza. Ma non si sono accorti che il nuovo che avanza è sempre lo stesso: la ragione capitalistica, che oggi si chiama neoliberismo.
Quindi, l’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca…
(Ride). Sì, è andata proprio così. Si potrebbe anche dire che, nell’ansia di legittimarsi, hanno tagliato il ramo su cui erano seduti. Dimenticando per sempre la propria storia e il fatto che la grande rivoluzione del 1917 aveva ben altre premesse di quelle poi costruite dallo Stato sovietico, che le ha in buona parte deluse e contraddette. E hanno anche dimenticato che il conflitto, la critica allo stato delle cose, di cui oggi hanno paura, è sempre stato l’anima del movimento operaio.
Nell’Italia oggi governata dal centrodestra, quale realistico obiettivo possono porsi le forze di centrosinistra in campo, così diverse fra loro, per progettare un’alternativa credibile?
Porrei l’attenzione su un fatto: per la prima volta al governo dell’Italia non c’è il centrodestra, ma la destra tout court. Si è esaurito il ruolo di garanzia che ha avuto per decenni il centro, prima espresso dalla Dc e poi in parte dal berlusconismo. Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che a contrapporsi a una vera destra ci sia una sinistra altrettanto vera. Non c’è più bisogno del centrosinistra. Ecco perché falliscono tutti i tentativi di coagulare un centro, il famoso “terzo polo”, che non ha più un senso politico. La situazione si è radicalizzata (guardiamo cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nella stessa Francia) e richiede svolte radicali, non pateracchi e soluzioni nebulose. Se da sinistra non si coglie questo passaggio, non si può proporre un’alternativa strutturata e attendibile.
Si può dire che la sinistra ha rinunciato a portare avanti le sue istanze “tradizionali”, lasciando così campo libero al populismo emotivo della destra, che ha così tanta presa nelle grandi periferie?
Più che populismo, lo definirei sentimento antipolitico. È lo stesso che ha sciaguratamente cavalcato il movimento Cinque Stelle, che con il suo “uno vale uno” ha diffuso demagogia, approssimazione, incompetenza e superficialità. Tutte cose che non devono appartenere a una sinistra seria, che al contrario, per sua natura, dovrebbe perseguire una conflittualità sociale riconoscibile e affidarsi alla sua vocazione di responsabilità sociale e capacità di analisi. Non a caso Conte si guarda bene dal dichiararsi di sinistra e parla sempre d’altro, di un concetto generico di “popolo”. Il M5S si è sempre definito “né di destra né di sinistra”. Secondo me, chi si definisce così è sempre di destra… Mi ricorda tanto il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.
Ma il Pd è diventato veramente il partito delle Ztl?
Quando scrissi Il popolo perduto, uscito all’indomani del grande exploit elettorale del M5S nel 2018, sottolineai come il Pd avesse perso l’elettorato della sinistra, essendo un partito composto da persone mediamente benestanti, ma anche mediamente benpensanti, che ambiscono a una vita tranquilla e tutelata. Poco a che vedere con gli abitanti delle grandi periferie metropolitane, delle città medio-piccole e delle campagne, che infatti hanno cominciato a votare a destra. Il popolo del Pci, così come quello della Dc, era un popolo politico; con la disgregazione di questi due grandi partiti, anche il popolo si è disorientato. Dunque, non solo il Pd ha perso il suo popolo, ma il popolo stesso si è perduto: ora che è diventato “antipolitico”, è costituito da una moltitudine di individui dominati da umori e impressioni fugaci, poco interessati alla consapevolezza e all’approfondimento e caratterizzati da un’aperta ostilità verso il ceto politico, giudicato come depositario del potere. Ma in realtà il potere vero è nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta.
Sui social l’emotività ha soppiantato l’autorevolezza e la credibilità dei contenuti. I messaggi politici si riducono a dichiarazioni ad effetto, prive di sostanza eppure efficaci nel colpire il bersaglio. Il medium è il messaggio, diceva McLuhan. Perché la destra (un esempio per tutti: l’ex presidente Trump) sembra più a suo agio nel maneggiare i nuovi media?
È l’effetto della cosiddetta dittatura della comunicazione, in base alla quale non è tanto importante cosa comunico, ma come lo faccio. Il concetto di demagogia è profondamente di destra, per questo alla destra riesce molto bene produrre una grande mole di messaggi adatti ai social. Ma non è una novità, cambia solo lo scenario: anche negli anni Trenta la propaganda fascista e nazista si serviva massicciamente del medium più diffuso e innovativo dell’epoca, la radio. Un recente articolo del sociologo Giuseppe De Rita ragionava sul fatto che le persone siano sempre più orientate dall’opinione più che dalla coscienza o dal senso di appartenenza a un campo, a uno schieramento. Impera l’emotività, l’attrazione per la novità: in campo elettorale, è successo con Berlusconi, e poi con altre meteore del firmamento politico, come Grillo, Salvini, Renzi, gente che ha fatto dello spettacolo della novità la sua vera cifra politica. Gli elettori sono governati da innamoramenti sempre più fugaci, totalmente scissi dalla profondità e della credibilità del messaggio. Anche la Meloni sta godendo di questo stesso sentimento, fondato sull’equivoco del “nuovo”. E pure la Schlein, se ci pensiamo, è salita alla ribalta grazie alla fascinazione per il cambiamento. Diamole un po’ di tempo, prima di giudicarla. Sta di fatto che l’opinione pubblica oggi non è più orientata dai partiti, dalle ideologie, da sentimenti forti di analisi della realtà, ma vive di impressioni fugaci, di brevi suggestioni, di equivoci, di battibecchi sui talk show. [continua]
Che succede?
Aiuto!
EUROPA TERRA METICCIA
di Raniero La Valle (Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri)
Negli ultimi giorni si sono moltiplicati i naufragi e gli approdi dell’ormai immenso popolo dei migranti, vittima del nostro genocidio. In un naufragio a Lampedusa ci sono stati 41 morti, al largo di Marettimo 2 morti e due “dispersi”, cioè annegati, nei pressi della Tunisia, a Sidi Mansour, 18 morti, altri 12 al largo di Sfax e un naufragio anche nella Manica, con 6 vittime che i francesi hanno sepolto a Calais. Il cimitero del mare: ma un cimitero ancora più grande, ha detto papa Francesco tornando da Lisbona, è il Nordafrica, dove prima dei naufragi, i profughi finiscono nei lager. Ormai flottiglie intere attraversano il Mediterraneo, perfino la Guardia costiera, nonostante Salvini, è costretta a chiedere aiuto alle navi umanitarie altrimenti sequestrate o mandate dal governo in porti lontani.