Risultato della ricerca: fondi europei

La saggezza di Francesco

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Cari amici,
In attesa che qualcuno la colga, alta sul mondo sventola la gloriosa bandiera bianca di Papa Francesco.
Se il Papa, rispondendo alla Televisione svizzera, avesse parlato solo del negoziato, come fa incessantemente da quando è scoppiata la guerra, presentandolo come un dovere morale, oltre che politico, nessuno lo sarebbe stato a sentire, perché ormai le parole di buon senso non si possono più nemmeno pronunciare in questo mondo (occidentale) a una sola dimensione (la guerra). Invece ha preso in carico la metafora offertagli dall’intervistatore, e ha parlato di bandiera bianca, e tutti si sono indignati, soprattutto quelli, come Biden e i nostri giornali, che alla guerra ci mandano gli altri.
Ma al bianco era dedicata tutta l’intervista, come simbolo della purezza, della mitezza e della bontà, ed è venuta fuori perfino la ragione, a tutti ignota, per la quale il Papa è vestito di bianco, che non è quella di mostrarlo senza peccato (perché io pecco come gli altri, ha spiegato Francesco, uomo e non vicario di Dio, che di Vicari non ne ha sulla terra, o meglio ne ha otto miliardi, quanti siamo nel mondo) ma è semplicemente quella che Pio V era un domenicano, e perciò aveva l’abito bianco, e da allora è invalsa la tradizione di vestire di bianco anche i suoi successori (lo fa per la prima volta il cerimoniere, prima di annunziare che “habemus papam”).
Così, grazie alla simbologia del bianco, che non vuol dire affatto la resa, ma anzi il coraggio di restare umani quando si associa alla bandiera, tutti hanno dovuto raccogliere l’unica voce nel mondo, che mentre i più inneggiano all’impossibile e immancabile vittoria delle armate di Kiev, sempre più zeppe di armi e sempre più deprivate di uomini (e donne), dice che il re è nudo, quando il re (e ahimè, quale re!) è nudo davvero. E perfino il Nunzio è stato convocato a Kiev, come l’ultimo degli ambasciatori, per fargli sapere che l’unica bandiera dell’Ucraina è giallo-blu, anche se purtroppo, oggi e chissà per quanto tempo voluto dai suoi “governanti”, è a mezz’asta.
La cosa singolare è poi che mentre Biden si è permesso di dire a Netanyahu che sta facendo la rovina del suo popolo (e anzi di tutti gli Ebrei sparsi nel mondo), e nessuno gli ha dato sulla voce, anche perché è sacrosantemente vero, tutti se la sono presa con papa Francesco che laicamente ha fatto anche un discorso di sapienza e convenienza politica.
Messo tutto insieme, quello che ne viene fuori è che nella demenza pandemica, che sembra essere la vera seconda epidemia di questo inizio secolo, i poteri che ci governano stanno tornando al 1939, quando la Germania, cominciando dalla Polonia, voleva arrivare a Mosca, e diede avvio alla guerra mondiale, che allora era la seconda. Come la Germania di allora, la NATO si spinge verso Est e il ministro degli Esteri polacco ha rivelato che “il personale militante della Nato è già presente in Ucraina” (europei compresi) e, siccome il mondo si è allargato, mentre si ammassano fascine per la guerra contro la Russia, il progetto è, dopo la Russia, di eliminare la Cina. Ma oggi in più c’è l’atomica, i missili, i droni, e anche la carne da cannone è aumentata, dato che sulla Terra siamo, appunto, in otto miliardi. Allora gli Stati Uniti non volevano intervenire, c’è voluta Pearl Harbour, mentre ora sono già qui, e un po’ di fascismo viene avanti anche da loro, e da noi c’è una cultura fascista al potere.
C’è chi esplicitamente si richiama al ’39, e rimpiange come a Roma ci sia papa Francesco, non uno come Pio XII (pensato come cappellano dell’Occidente): ma dalle carte segrete della Santa Sede pubblicate dopo la guerra risulta che Tardini, Sostituto segretario di Stato, voleva e scriveva che la guerra doveva finire non solo con la sconfitta della Germania nazista, ma anche con la liquidazione dell’Unione Sovietica e del suo comunismo.
In questa situazione chiedere di avere il coraggio di negoziare, “per non portare il Paese al suicidio” (e questo vale anche per Hamas con i palestinesi), non è una bestemmia, è un invito alla salvezza, un barlume di verità.
Nel sito pubblichiamo l’intervista del Papa e due testimonianze sulla tragedia in corso a Gaza: “Non c’è più verde a Gaza” e “Se questo non è un genocidio”.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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La tragedia di Gaza
SE QUESTO NON È UN GENOCIDIO

13 MARZO 2024 / EDITORE / DICONO I FATTI / 0 COMMENT
Più di 10 bambini al giorno hanno perso un arto e a più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate le gambe, ma Israele non fa entrare le protesi. I nuovi nati vengono al mondo affetti da malattie genetiche. I progetti di assistenza sanitaria

Della cooperante Giuditta di “Fonti di Pace” pubblichiamo una testimonianza su Gaza al ritorno da una missione al Cairo:

“Torno da una missione al Cairo, dal 3 all’8 marzo, per fare acquisti di materiali da portare e distribuire nella striscia di Gaza. Tutto legato al cessate il fuoco che sembrava oramai prossimo; purtroppo così non è stato.

Tuttavia la missione è stata utile per approfondire i tempi e le modalità sia per gli acquisti dei materiali che per il progetto finanziato con l’8X1000 della Chiesa Valdese.

Ho incontrato il dr. Aed Yaghi, direttore del Palestinian Medical Relief Society a Gaza, e insieme abbiamo discusso delle modalità per portare sollievo alla popolazione. Purtroppo, la richiesta iniziale di acquistare carrozzine e stampelle per i tanti che hanno perso le gambe causa i bombardamenti – un rapporto di Save the Children del 8 gennaio scorso dichiarava che “in media, più di 10 bambini al giorno hanno perso un arto. In 3 mesi a più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate una o entrambe le gambe, senza neanche l’anestesia.” – non è risultata percorribile. I controlli a cui Israele sottopone i convogli destinati alla popolazione di Gaza vietano l’ingresso di alcuni materiali in particolare di “metallo”.

Il direttore del Palestinian Medical Relief Society ha fatto presente le necessità di tanti neonati che presentano malattie di origine genetica, che hanno bisogno di particolari alimenti.

Si tratta di neonati affetti da fenilchetonuria (una patologia del metabolismo degli aminoacidi che compare nei bambini nati senza la capacità di degradare la fenilalanina che, tossica per il cervello, si accumula nel sangue). Per loro è stata richiesta la fornitura di latte in polvere arricchito con ferro, perché questo tipo di alimento aiuta a compensare la carenza di enzimi che causano nel neonato la disfunzione nel controllo del movimento, nella capacità di memorizzare e su altre funzioni cognitive. Anche per i bambini affetti da stessa malattia metabolica è stato richiesto l’acquisto di specifici alimenti.

A Gaza questi casi erano seguiti dal World Food Program, servizio oggi in parte interrotto. Si tratta di neonati e bambini già vulnerabili che corrono il maggior rischio di complicanze sanitarie e di morte se non ricevono adeguate cure.

A causa dell’aggressione israeliana, la malnutrizione acuta nella Striscia di Gaza sta raggiungendo livelli importanti: c’è bisogno di un accesso continuo a cibi sani, acqua pulita e servizi sanitari.

La mancanza di acqua potabile, così come l’insufficienza di acqua per cucinare e per l’igiene, aggravano la condizione di vita, lavarsi e cucinare. In media, le famiglie hanno accesso a meno di un litro di acqua sicura per persona al giorno. Secondo gli standard umanitari, la quantità minima di acqua sicura necessaria in caso di emergenza è di tre litri per persona al giorno, mentre lo standard generale è di 15 litri per persona, che comprende quantità sufficienti per bere lavarsi e cucinare.

Oggi a Gaza siamo in presenza di civili affamati, assetati e deboli. La fame e le malattie sono una combinazione letale che, uniti ad una situazione igienico sanitaria insostenibile, vede l’espandersi di infezioni intestinali e respiratorie, malattie contagiose, vaiolo, meningiti, epatite. “C’è il rischio che muoiano più persone a causa di malattie che a causa dei bombardamenti a Gaza se il sistema sanitario del territorio non viene rimesso in piedi rapidamente” ha dichiarato Margaret Harris portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’Associazione Fonti di Pace in sintonia con il partner P.M.R.S. cercherà di arrivare a Gaza per portare gli aiuti richiesti.

Durante gli incontri con il direttore del P.M.R.S. si è discusso anche del progetto approvato lo scorso mese di settembre e finanziato con l’8X1000 della Chiesa Valdese.

Il progetto entrava nel suo terzo anno di attività: offrivamo servizi di riabilitazione a bambini ed adulti con disabilità che vivono nel governatorato di Khan Yunis; purtroppo, a causa dell’aggressione israeliana in corso non ci sono le condizioni per sviluppare ulteriormente il progetto che avrebbe avuto la durata di 9 mesi.

Ci sono difficoltà a trovare le famiglie inserite nel progetto – oltre 1.700.000 sono gli sfollati nella striscia di Gaza e di questi 1 milione si sono trasferiti tra Khan Yunis e Rafah – e il Centro di Riabilitazione del P.M.R.S. a Khan Yunis si trova in un’area fortemente sottoposta a bombardamenti e all’ occupazione dell’esercito israeliano. Il centro è irraggiungibile e non sappiamo se ha subito danni. Anche gli spostamenti delle persone sono altamente a rischio causa la presenza di cecchini israeliani e posti di blocco.

Rivedere il progetto è stato quindi necessario. Molti i bisogni rappresentati, ma soprattutto abbiamo discusso della fattibilità di creare e gestire un progetto.

Si è convenuto che la priorità resta quella di offrire servizi sanitari di base alle persone sfollate e che hanno trovato sistemazione nelle scuole Unrwa o nelle tendopoli. Abbiamo quindi preso in considerazione la necessità di arrivare alle persone ferite che dopo un intervento non possono restare negli ospedali, i quali sono sottoposti a bombardamenti, occupazione da parte dell’esercito e spesso evacuati forzatamente. Nella striscia di Gaza di 36 ospedali attualmente solo 6 sono parzialmente operativi. Dei feriti tanti sono i bambini – al 5 marzo scorso i dati del Ministero della salute di Gaza riportano che 9.179 sono bambini feriti. Queste persone ferite vengono dimesse quando ancora avrebbero bisogno di cure.

Si è pertanto definito di rimodulare il progetto per portare servizi di assistenza sanitaria-infermieristica ai civili feriti con particolare attenzione ai bambini.

Un team composto da un medico generico, un’ infermiera, un fisioterapista e uno psicologo visiterà i feriti che vivono nelle tendopoli e nelle scuole Unrwa. Sul posto il team medico porterà farmaci e materiali sanitari per le cure necessarie. Lo psicologo affronterà gli eventi traumatici che hanno colpito le persone e che hanno determinato in tanti casi un cambiamento radicale nella loro vita. Lavorerà in sinergia con il fisioterapista-riabilitatore in quanto questa condivisione di servizi si è già dimostrata efficace per il buon esito del programma terapeutico complessivo. Il team del P.M.R.S. sarà in contatto con il personale sanitario degli ospedali ancora operativi e presenti nei governatorati di Khan Yunis e Rafah, i quali forniranno le informazioni utili a raggiungere i feriti dimessi.

I servizi di assistenza primaria sanitaria saranno svolti nelle “aree mediche” identificate nelle scuole dell’Unrwa e nelle tende già allestite dal P.M.R.S. nei centri degli sfollati. Il personale sanitario si sposterà sul territorio con un mezzo che verrà preso a noleggio, stante che nel corso dei bombardamenti il P.M.R.S. ha perso diversi mezzi. Le attività del progetto inizieranno il prossimo mese di maggio, avranno la durata di 5 mesi e almeno 3.500 feriti beneficeranno dei servizi…

A Gaza, intanto, gli attacchi sono incessanti. La popolazione continua a spostarsi senza un posto sicuro dove andare. I bambini continuano a sperimentare orrori indicibili. La Gaza Resistente ci chiede aiuto, ci chiede di sostenere i loro diritti: Terra, Libertà ma soprattutto Giustizia. Senza Giustizia l’impunità di Israele continua.
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Rocca e’ online

img_6379Venti di guerra continuano a percorrere tre tra il mondo portando morte, distruzione, catene di odio seminate per le generazioni future. Fiorisce il commercio delle armi e ci si dota di leggi per nasconderlo. Ritorna l’idea nefasta e storicamente falsificata del si vis pacem para bellum. Insomma a sopravvivere oltre l’ideologia del libero mercato come longa manus capace di governare il mondo verso magnifiche sorti e progressive, torna con forza la sua speculare sorella, secondo la quale la sicurezza si realizza blindandosi tutti dentro la corazza d’acciaio di sistemi d’armi sempre più sofisticati, letali, costosi. Ringraziamo Amaro Rafael De Charvalho (Amaro della Quercia) per l’opera che ci ha consentito di utilizzare per la nostra copertina e salutiamo con lui Alberto Maggi e Ricardo Perez Marquez che animano l’esperienza preziosa e amica del Centro Studi Biblici “Giovanni Vannucci” di Montefano (Mc). L’immagine ci restituisce con grande e drammatica forza la disperazione, il dolore e insieme la volontà di vita a Gaza e nelle altre zone di guerra. Una guerra che ormai e sempre più uccide i civili, le donne che danno e curano la vita, i vecchi nella stagione del loro riposo e soprattutto i bambini ammazzati o mutilati mentre proteggono i loro amici animali o i loro giocattoli animati.

La via della guerra e del riarmo uccide in molti modi: distruggendo persone e cose (e quante macabre riunioni per posizionarsi bene alla roulette esclusiva della ricostruzione); seminando odio e rancore che solitamente definiamo bestiali ma che in realtà nessuna bestia prova ma che possono essere solo tragicamente umani; creando povertà con la concentrazione di grandi risorse verso le spese militari. Per le quali non ci sono mai i vincoli di bilancio che limitano gli investimenti per la salute, l’istruzione, il sostegno a chi sopravvive ai limiti della miseria.

Di fronte a ciò è veramente necessario che la richiesta di cessate il fuoco e di vie negoziali sia sospinta da una decisa e ampia mobilitazione nonviolenta contro l’aumento delle spese militari, per la loro trasparenza, per la ricostruzione di una grammatica della pace, capace di garantire buon vivere e sicurezza assai più delle armi. D’altra parte quanto più gigantesca si fa la sproporzione delle forze tanto più la via della nonviolenza diventa quella attraverso cui i popoli possono far sentire la propria voce e far pesare il proprio bisogno di pace, di libertà e di uguaglianza. Parole desuete, vecchie bandiere da ritirar su dalla fanghiglia ideologica in cui erano state abbandonate.

Dentro questo difficile orizzonte si può rilanciare una forte stagione europeista, secondo l’ispirazione immaginata a Ventotene nel periodo nero delle dittature e del suicidio di questo antico continente. Pensare un’Europa che in crescente autonomia sia tra i protagonisti del mondo multipolare che già si delinea. Numerosi, autorevoli contributi, approfondiscono in questo numero i temi qui appena accennati.

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In Italia si accresce lo stillicidio di morti sul lavoro, a Firenze e in ogni parte del Paese. Soprattutto ma non solo nel settore dell’edilizia. Di solito alla base vi è una feroce logica di sfruttamento, di lavoro nero, di evasione contributiva, di risparmio sui presidi di sicurezza. I controlli quasi non ci sono. La medicina del lavoro è pressoché morta. I subappalti a cascata fanno il resto. E alla fine nessuno paga, le aziende peggiori competono slealmente con quelle migliori. Gli immigrati “cattivi” diventano buone risorse da fatica e da schiavitù. Se compiono reati bisogna metterli dentro e buttar via la chiave si dice, se i reati li compiono imprenditori nostrani senza scrupoli facendoli lavorare in scarsa sicurezza e pochi soldi, ciccia. Tutto ciò è parte di una generale svalutazione del lavoro, in particolare di quello operaio e produttivo. E sarebbe ora che chi pensa di rappresentarlo si desse una mossa, imponendo con la lotta (e come se no?), misure efficaci e controlli severi. Le proposte ci sono, per ora manca la volontà.

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img_6008 Alessandra Todde *

Ultime dalla Sardegna. Su populu sardu ha deciso di cambiare. Una scelta coraggiosa l’elezione di una donna, competente, combattiva. Un segnale pesante per il centralismo romano che pensa di calare come un falco sui territori (ma che diavolo di autonomia differenziata è!). Un segnale incoraggiante non tanto per un generico campo largo ma per un campo di forze aperto, capace di procedere senza schemi rigidi, cogliendo le peculiarità dei territori, costruendo una tensione unitaria che via via sia capace di darsi un convincente programma di governo. Ma non bisogna dimenticare che anche in Sardegna la metà degli aventi diritto non è andata a votare. C’è ancora molto lavoro da fare per ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e politica. O meglio per riportare i cittadini all’impegno politico e civile.
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*Alessandra Todde

Si laurea all’Università di Pisa in Ingegneria informatica, successivamente consegue una laurea in Scienze della Formazione.

Fondatrice e CEO di Energeya, acquisita da FIS Global nel 2015, ha ricoperto il ruolo di Senior Advisor Energy Markets in FIS Global. E’ stata Sales Director South & Eastern Europe in Sungard e Client Relationship Manager Sud Europa in Nexant.

Amministratrice delegata di Olidata, si è poi dimessa perché candidata alle elezioni europee con il Movimento 5 stelle.

A dicembre 2014 la delegazione sarda di AIDDA (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti di Azienda) la premia come imprenditrice dell’anno.

A dicembre 2018 è stata nominata tra le Inspiring Fifty italiane, riconoscimento alle 50 donne italiane considerate più influenti nel mondo della tecnologia.

Cari sardi abbiamo un’opportunità storica : competenza , onestà e finalmente una Presidente donna ❤
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Oggi lunedì 20 novembre 2023

img_3099 Transizione ecologica e Agenda 2030: a che punto è l’Italia?
14-11-2023 – di: Margherita (Rita) Corona su Volerelaluna.

Sono usciti nei giorni scorsi due Rapporti sull’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel settembre 2015 dai governi dei 193 paesi membri dell’Onu: uno (Rapporto ASviS 2023 – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile https://asvis.it/rapporto-2023), predisposto dall’ASvIS (che riunisce più di 220 istituzioni e reti della società civile italiana ed è unica in Europa), monitora la situazione globale (mondo, Europa, Italia) rispetto al raggiungimento degli Obiettivi previsti; l’altro (Ecosistema Urbano 2023: https://www.legambiente.it/rapporti-e-osservatori/rapporti-in-evidenza/ecosistema-urbano/), stilato da Legambiente, Ambiente Italia, “Il Sole 24 ore” fornisce una visione puntuale (facilitata da grafici interattivi) sulle performance ambientali delle 105 province/città metropolitane italiane, in base a 19 indicatori ambientali.

Immigrazione

img_3857COMUNICATO STAMPA
Tavolo Asilo e Immigrazione: l’accordo con la Tunisia è contro il diritto internazionale e i diritti umani

ROMA, 20 LUGLIO 2023 – Non c’è nulla di reale nelle dichiarazioni di rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani e della dignità delle persone, contenute nelle poche pagine del Memorandum of Understanding siglato il 16 luglio scorso tra l’UE e la Tunisia di Kais Saied.

Che succede nel Pianeta?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 126 del 19 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 306 del 19 luglio 2023

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QUALE SOVRANO

Cari amici,
dal vertice di Roma del novembre 1991 quando la NATO decise di volgersi ad opere di pace a quello di Washington dell’aprile 1999 in piena guerra jugoslava, e a quelli successivi, ogni riunione apicale della NATO ha segnato un cambiamento di fase. Ma il vertice di Vilnius dell’11 luglio ha segnato un cambiamento d’epoca. E che questo non sia solo programmato, ma già stabilito, e consista nell’istituzione di un sovrano universale, lo veniamo a sapere dal comunicato stampa diramato a conclusione del vertice. I comunicati stampa danno notizia non di cose che verranno ma di cose già avvenute, e di queste, a Vilnius, ben oltre la pura e semplice informazione sull’evento, ne sono state registrate molte: si tratta infatti di un “comunicato” che in inglese consta di 33 pagine e 13.289 parole. Nessuno lo conosce perché, al di là delle decisioni sull’Ucraina, non è stato pubblicato sui giornali, perciò ve lo riferiamo qui [https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-comunicato-stampa-del-vertice-di-vilnius/].
Il comunicato sostanzialmente è, con i dovuti adattamenti, la ricezione e la condivisione da parte di tutti gli Stati membri della NATO (ci siamo anche noi) delle due dichiarazioni di intenti americane sul mondo prossimo venturo, emanate dalla Casa Bianca e dal Pentagono nell’ottobre scorso, la “Strategia della sicurezza nazionale” e la “Strategia della difesa nazionale” degli Stati Uniti. E il cambiamento d’epoca consiste in questo, che si chiude il lungo periodo storico in cui la guerra, secondo il detto di Eraclito (VI sec. a. C.), è stata sovrana del mondo, “re e padre di tutte le cose”, e se ne apre un altro in cui la guerra istituisce come suo vicario un sovrano universale che mediante la guerra governa il mondo come se il suo fosse l’unico mondo, conformato a un sistema di guerra e fatto a sua immagine. Questo sovrano, ed è questa la novità di Vilnius, non sono gli Stati Uniti, come una facile polemica sosteneva fin qui, ma è, con gli Stati Uniti, “l’impareggiabile rete di alleanze e partner dell’America”, come viene chiamata, altrimenti detta “area euro-atlantica” o “Occidente allargato”. Questa area è formata anzitutto dai 33 Stati membri dell’Alleanza riunitisi a Vilnius, che con la Finlandia e ben presto la Svezia si attestano ormai molti “centimetri quadrati” più a Est dei territori originari, e non si arresta ai confini della Russia, ma abbraccia la Georgia, la Repubblica di Moldova, la Bosnia Erzegovina, Israele e si proietta nell’altro emisfero, attraendo nella sua orbita l’altro mare, l’Indo-Pacifico, fino all’Australia, alla Nuova Zelanda, al Giappone, alla Corea del Sud, i cui capi erano pure convocati e presenti a Vilnius e altri che verranno in futuro.
Gli Stati che formano il corpo di questo sovrano non hanno in comune né lingua, né costumi, né religioni, né ordinamenti; la sola cosa che li unisce è il vincolo militare, e il sistema di cui si fanno eredi e che rendono perpetuo è un sistema di dominio e di guerra. Tale sistema, che deve sussistere anche in “tempo di pace”, ha bisogno comunque che una guerra ci sia, che la guerra se ne faccia “costituente”. Il vertice di Vilnius riconosce questa funzione alla guerra d’Ucraina, per la quale viene attivato un meccanismo tale per cui essa non deve finire mai, e comunque non col negoziato, secondo il dettato di Kiev; ed il meccanismo è questo: l’Ucraina è pienamente integrata nella NATO, già è realizzata l’”interoperabilità” tra le sue Forze Armate e quelle della NATO, e questa la riempie di armi, fino alle bombe a grappolo e ai missili a lunga gittata o ad uranio impoverito, però essa non deve essere oggi nella NATO, perché questo vorrebbe dire la guerra tra l’America e almeno gli Stati europei dell’Alleanza contro la Russia, cosa che nessuno vuol fare, per non costringere Putin a usare l’atomica; si assicura però che l’ingresso anche formale dell’Ucraina nell’Alleanza avverrà appena la guerra sia finita e la democrazia del Paese comprovata, ed è per questo che la guerra non deve finire. È una finzione, di quelle così care al potere e alla ragion di Stato, ma anche la Russia deve stare al gioco.
La guerra d’Ucraina ha dunque una feroce veste militare e una funzione politica, serve ai fini di una persuasione di massa di un’opinione pubblica renitente, perciò ha una così straordinaria copertura mediatica, come l’hanno avuta solo la prima guerra del Golfo e quella del Vietnam, e in casa nostra la lunga agonia di Moro, per convincere tutti che la guerra si deve fare, col nemico non si tratta, che c’è sempre una vittima ma è per il bene di tutti, e questa è la cosa buona e giusta da fare; e la sovranità così innalzata sul trono è piena di valori, dei “nostri valori”, in continuità con la dismessa, vecchia “cristianità”.
Secondo il “comunicato stampa” tutto ciò è già storia in atto, non una nuova storia da imporre. Ma è così? Il nostro governo lo sa? Il Parlamento lo ha deliberato? Il Presidente della Repubblica lo ha promulgato? In realtà quanto a legittimazione democratica siamo ancora solo alla firma e alla ratifica parlamentare del Patto atlantico del 1949.
Non è vero che di tutto ciò ci sia solo da prendere atto. C’è un altro rovesciamento da fare, dobbiamo deporre ogni preteso sovrano universale dal trono e fare sovrana la pace. È lei la madre e “il” re di tutte le cose. È lei che deve farsi soggetto costituente, che deve essere fatta sistema. Alla politica, interna e internazionale, il compito di provvedervi.
Nel sito pubblichiamo il comunicato del vertice di Vilnius “Il nuovo sovrano universale” e un articolo molto allarmante sulla sorte dei migranti colpiti dagli accordi con la Tunisia patrocinati dall’Italia e dall’Europa, e, in morte di Mons. Luigi Bettazzi, alcune testimonianze in ricordo di lui.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
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Il nuovo sovrano universale
IL “COMUNICATO STAMPA” DEL VERTICE DI VILNIUS
19 LUGLIO 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI /
Si tratta del documento rilasciato dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della NATO a seguito della riunione del Consiglio Nord Atlantico tenutasi a Vilnius l’11 luglio 2023

Quello che segue è il “comunicato stampa” diffuso al termine della riunione di vertice della NATO a Vilnius; in realtà non si tratta di una informazione, ma di un documento di indirizzo politico, apparentemente obbligante almeno per i Capi di Stato e di Governo che l’hanno rilasciato. Ne pubblichiamo una traduzione italiana, non sempre corretta: trattandosi di una nostra copia di lavoro, essa reca evidenziazioni in neretto di cui si può non tenere conto

Il Paese invitato ad aderire all’Alleanza si associa al presente comunicato.

1. Noi, Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, uniti dai nostri valori comuni di libertà individuale, diritti umani, democrazia e stato di diritto, siamo riuniti a Vilnius mentre la guerra nel continente europeo continua, al fine di riaffermare l’immutabilità del nostro legame transatlantico, della nostra unità, della nostra coesione e della nostra solidarietà in un momento critico per la nostra sicurezza e per la pace e la stabilità internazionale. La NATO è un’alleanza difensiva. È il forum transatlantico unico, essenziale e indispensabile per la consultazione, il coordinamento e l’azione su tutte le questioni relative alla nostra sicurezza individuale e collettiva. Riaffermiamo il nostro fermo impegno a difenderci reciprocamente e a difendere ogni centimetro quadrato del territorio dell’Alleanza in ogni momento, a proteggere il miliardo di persone delle nostre nazioni e a preservarvi la libertà e la democrazia, conformemente all’articolo 5 del Trattato di Washington. Continueremo a garantire la nostra difesa collettiva contro tutte le minacce, indipendentemente dalla loro origine, seguendo un approccio a 360 gradi per l’adempimento dei tre compiti fondamentali della NATO: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa. Aderiamo al diritto internazionale e agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e siamo determinati a preservare l’ordine internazionale basato sulle regole.

La guerra sempre più europea sempre più mondiale

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30-05-2023 – di: Domenico Gallo

Il coinvolgimento dell’Unione Europea nella guerra prosegue a pieno regime. Dopo il Consiglio Europeo del 23 marzo, che si è posto l’obiettivo di fornire all’Ucraina «entro i prossimi dodici mesi, un milione di munizioni di artiglieria nell’ambito di uno sforzo congiunto», adesso la Commissione ha formulato la proposta di un atto legislativo, indicato con l’acronimo di Asap (Act to Support Ammunition Production). Secondo il commissario europeo Thierry Breton, si tratta di un piano «mirato a sostenere direttamente, con i fondi UE, lo sviluppo dell’industria della difesa, per l’Ucraina e per la nostra sicurezza». Una produzione, di straordinaria necessità e urgenza, che deve essere velocizzata al punto da consentire deroghe alla legislazione ordinaria perché le fabbriche di armi e munizioni possano funzionare giorno e notte, sette giorni su sette, entrando in «modalità economia di guerra». In pratica, per sostenere le imprese della difesa nella produzione di munizioni e missili destinati all’Ucraina, il provvedimento in questione preveda la possibilità di disapplicare le norme in materia ambientale, di tutela della salute umana e della sicurezza sul luogo di lavoro. Per il finanziamento di questa missione bellica, l’Asap permette agli Stati membri di utilizzare il Fondo di coesione, il Fondo sociale europeo e il Pnrr.

In verità il Trattato sull’Unione Europea esclude che, in materia di politica estera e di sicurezza comune si possano adottare atti legislativi, ed esclude la competenza della Corte di Giustizia dell’Unione, trattandosi di un settore di collaborazione intergovernativa, in cui le eventuali decisioni possono essere adottate solo dal Consiglio europeo e dal Consiglio, che deliberano all’unanimità (art. 21 TUE). Il Fondo Europeo di coesione, il Fondo sociale europeo e i fondi stanziati per il Pnrr sono destinati a finalità sociali per incrementare il benessere dei popoli europei, non possono essere distratti per la guerra o, nella migliore delle ipotesi, per incrementare i profitti dell’industria bellica. Senonché, come dicono i francesi: À la guerre comme à la guerre! Quando siamo coinvolti in una guerra, non si può andare troppo per il sottile, bisogna stringersi a Corte. Le regole del diritto sono le prime ad essere calpestate, i diritti sociali possono, anzi debbono essere sacrificati alle esigenze della produzione bellica, non ci si può preoccupare di tutelare l’ambiente o la salute dei lavoratori: più cannoni e meno diritti. E non si può neanche protestare senza il rischio di essere linciati come antinazionali.

Il Parlamento Europeo ha condiviso l’esigenza di fare presto (As soon as possible) e ha votato il 9 maggio per adottare, con procedure d’urgenza, l’atto legislativo (inammissibile secondo il TUE), con 518 voti a favore, 59 contrari e 31 astenuti. Secondo le cronache, fra gli italiani hanno votato contro solo i deputati del Movimento 5 stelle e l’on. Massimiliano Smeriglio del PD, in dissenso dal suo Gruppo. Per effetto della procedura d’urgenza, il Parlamento Europeo voterà sul disegno di legge durante la prossima sessione, che si terrà dal 31 maggio al 1° giugno a Bruxelles. Questo voto del Parlamento europeo sarà l’ulteriore certificazione che l’Unione Europea e tutti i suoi paesi membri sono coinvolti a pieno titolo nella guerra e sono pienamente impegnati ad alimentarla e a proseguirla, fino alla vittoria finale, come pretende Zelensky (https://volerelaluna.it/mondo/2023/05/22/vincere-il-sinistro-ritornello-di-zelensky/).

In un documento pubblicato dal New York Times del 16 maggio, firmato da 15 esperti – analisti, docenti, ex diplomatici, ex consiglieri per la sicurezza nazionale e soprattutto ex militari di grado elevato – viene rivolto un pressante appello al Presidente degli Stati Uniti e al Congresso perché si ponga fine al più presto alla guerra con la diplomazia. I firmatari denunciano «il disastro assoluto della guerra russo-ucraina», con «centinaia di migliaia di persone uccise o ferite, milioni di sfollati, incalcolabili distruzioni dell’ambiente e dell’economia» e il rischio di «devastazioni esponenzialmente più grandi dal momento che le potenze si avvicinano a una guerra aperta». Ricordano l’osservazione di John F. Kennedy, 60 anni fa: «Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva». Della saggezza di Kennedy non è trapelato nulla nella zucca dei leaders politici europei. Per costoro la guerra non è un disastro assoluto, che bisogna fermare al più presto. La pretesa di realizzare la pace attraverso la vittoria punta proprio a quello che Kennedy voleva evitare, cioè mettere l’avversario dinanzi alla scelta di ritirarsi umiliato o di usare le armi nucleari (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/08/ripudiare-la-pace-e-giocare-a-scacchi-con-la-morte/).

Se oggi ci troviamo di fronte a un’urgenza indifferibile, questa non è velocizzare la produzione delle bombe. Come sostengono i firmatari dell’appello americano, l’impegno genuino deve essere quello a «un immediato cessate il fuoco e negoziati senza precondizioni squalificanti e proibitive. Provocazioni deliberate hanno portato alla guerra Russia-Ucraina. Allo stesso modo, una deliberata diplomazia può porvi fine».
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Rocca ha un nuovo sito web:
Benvenuti sul nuovo sito di Rocca

di Mariano Borgognoni
31 Maggio 2023

Carissime amiche e carissimi amici,

come vedete è attivo il nuovo sito della nostra Rivista.

Con la sua attivazione ed il suo progressivo arricchimento e “aggiustamento” vogliamo mettere a disposizione di voi tutti uno strumento dove siano contenute più notizie e riflessioni, offrire una modalità di lettura più agevole e dare la possibilità di definire online abbonamenti o acquisto di libri ed altri materiali.
Presto troverete anche uno spazio che ospiterà lettere, considerazioni e suggerimenti da parte di abbonati, lettori e naviganti in cerca di un luogo di confronto libero e critico.
Siamo consapevoli che Rocca cartaceo è assolutamente fondamentale ma che ad esso sia bene affiancare uno spazio di comunicazione che faccia vivere quotidianamente il nostro modo di leggere il mondo, la società, le dinamiche ecclesiali con una visione laica di ispirazione cristiana.
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Appelli. Per un uso di pace dei fondi del Recovery Plan. Insieme per la Costituzione.

img_9731La resilienza non è economia di guerra

al Parlamento Europeo
al Consiglio dell’Unione
al Parlamento italiano

Negli ultimi anni si è rafforzato un processo di militarizzazione dell’Unione europea, con scelte che hanno portato all’istituzione di un Fondo europeo per la Difesa e di uno Strumento “per la Pace” che in realtà è funzionale all’invio di armamenti e alla cooperazione di natura militare, senza un coinvolgimento del Parlamento e dei cittadini europei su una questione tanto delicata e che tocca le fondamenta dello stesso Trattato di Lisbona.

Per la prima volta dalla sua fondazione come percorso di pace, l’UE ha destinato miliardi di euro – mascherati da linee di finanziamento industriali e con meccanismi decisionali e di controllo opachi fin dai progetti preparatori – al sostegno dell’industria militare, senza un dibattito serio sulla propria politica estera e di difesa. E con il rischio, in parte già concretizzato, sia di distogliere risorse a interventi di natura sociale e cooperativa più utili sia di alimentare una pericolosa corsa agli armamenti.

La recente proposta della Commissione europea di permettere agli Stati membri di utilizzare il Fondo di coesione UE e il PNRR per sostenere le imprese della difesa nella produzione di munizioni e missili destinati all’Ucraina mostra la volontà di trasformare la tragedia della guerra in Europa in occasione di profitto per le multinazionali delle armi e, al tempo stesso – con una base giuridica più che dubbia – propone di rimettere in discussione il senso originario del Recovery fund, concepito specificamente per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza dopo la pandemia.

L’Act to Support Ammunition Production (ASAP), nelle parole del commissario europeo Thierry Breton, è un piano «mirato a sostenere direttamente, con i fondi UE, lo sviluppo dell’industria della difesa, per l’Ucraina e per la nostra sicurezza», da velocizzare al punto da chiedere deroghe perché le fabbriche di armi e munizioni possano funzionare giorno e notte, sette giorni su sette, entrando in «modalità economia di guerra».

Questa nuova misura – non diversamente da quella già all’esame del Parlamento europeo, relativa agli acquisti coordinati per la difesa – è strumentale alla realizzazione di strategie in materia di difesa, elaborate senza la partecipazione del Parlamento europeo e con un intervento quanto meno dubbio dei Parlamenti nazionali. Anche dopo Lisbona, i Trattati riservano alle politiche di difesa un regime speciale che esclude il ruolo decisionale del Parlamento europeo, impedisce il ricorso a strumenti legislativi, non garantisce un pieno rispetto dei diritti fondamentali e limita il ruolo della Corte di Giustizia.

Il testo viene presentato come una proposta di politica industriale e mercato interno, mentre persegue di fatto obiettivi collegati alla sicurezza dell’UE, per la quale il Trattato non ammette l’adozione di misure legislative. Davanti alla sfida rappresentata dalla guerra in Ucraina, la risposta del Parlamento europeo e della Commissione deve tener conto dei rischi che l’escalation militare può produrre e delle conseguenze che la scelta del sostegno militare, anziché la scelta del negoziato, possono costituire per il futuro dell’Europa.

La strada deve essere quella di una democratizzazione della politica di difesa europea, nella volontà di condizionarla al rispetto dello Stato di diritto, non quella della strumentalizzazione delle politiche europee e delle risorse dei contribuenti dell’Unione. Consideriamo ingiustificato il fatto che il provvedimento in questione preveda la possibilità di disapplicare le norme in materia ambientale, di tutela della salute umana e della sicurezza sul luogo di lavoro.

Chiediamo che il Parlamento europeo, che ne discuterà a Bruxelles il prossimo 31 maggio, non accetti di rimettere in discussione le misure di solidarietà già decise attraverso il PNRR, affermando che, in materia di difesa, i nuovi fondi possono essere utilizzati solo con il ruolo determinante del Parlamento, nel rispetto dei valori e dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Carta delle Nazioni Unite. Non bisogna ripetere gli errori commessi sugli altri fondi legati all’industria militare, per i quali il Parlamento europeo ha rinunciato nella pratica alle proprie prerogative di controllo in piena trasparenza.

Chiediamo perciò che nell’ambito delle iniziative dell’Unione sulle politiche di finanza sostenibile, le armi controverse – oggetto di convenzioni internazionali che ne vietano lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio, l’impiego, il trasferimento e la fornitura – siano considerate incompatibili con la sostenibilità sociale.

Chiediamo che il settore sia soggetto a un rigoroso controllo normativo da parte degli Stati membri per quanto riguarda il trasferimento e l’esportazione di prodotti militari e a duplice uso. Chiediamo la creazione di un comitato di collegamento tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali, nel quadro delle loro competenze ai sensi dell’art. 12 del TUE per il monitoraggio della messa in opera di queste disposizioni.

Chiediamo di vigilare affinché l’industria bellica non possa esercitare un’influenza indebita – come invece già avvenuto fin dall’istituzione dei programmi precursori del Fondo europeo per la Difesa – sulle agende politiche nazionali in materia di difesa e sicurezza e perché, nel rischio di un progressivo scivolamento verso un’“Europa delle Patrie”, l’industria bellica non diventi un mostruoso “motore di crescita”, cinica declinazione dei concetti di “ripresa” e “resilienza”.

23 maggio 2023
Libertà e Giustizia
Rete Italiana Pace e Disarmo
ANPI
ARCI

Pubblicato 2 giorni fa su il manifesto
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Insieme per la Costituzione
Ambiente Diritti Lavoro Salute Pace. Difendiamo la Costituzione che va attuata e non stravolta
La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne), a partire da:
• il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità – fulcro di un modello di sviluppo sostenibile – superando la precarietà dilagante, contrastando il lavoro povero e sfruttato, aumentando i salari e le pensioni.
• il diritto alla salute e un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario – pubblico, solidale e universale – a cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e valorizzare il lavoro di cura; investimento sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà e valorizzi le professionalità; sostegno alle persone non autosufficienti; tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della prevenzione.
• il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e tutte e per tutto l’arco della vita.
• il contrasto a povertà e diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale, garantendo il diritto all’abitare e un reddito per una vita dignitosa.
• il diritto a un ambiente sano e sicuro in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi.
• una politica di pace intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione
civile e nonviolenta.
Questi diritti possono essere riaffermati e rafforzati solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più per garantire a tutti e a tutte un sistema di welfare pubblico e universalistico che protegga e liberi dai bisogni, a cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile. Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia “nell’interesse delle future generazioni”, come recita l’art. 9 della nostra Costituzione.
Questo modello sociale – fondato su uguaglianza, solidarietà e partecipazione – costituisce l’antitesi del modello che vuole realizzare l’attuale maggioranza di Governo con le prime scelte che ha già compiuto e, soprattutto, con le misure che si appresta a varare, a partire da quelle che – se non fermate – sono destinate a scardinare le fondamenta stesse dell’impianto della Repubblica, come:
• l’autonomia differenziata, rilanciata con il DDL Calderoli, che porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori;
• il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) che ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.
La Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – nel riconoscere il lavoro come elemento fondativo, la sovranità del popolo, la responsabilità delle istituzioni pubbliche di garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone, i diritti delle donne, il dovere della solidarietà, la centralità della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – ha delineato un assetto istituzionale che, attraverso la centralità del Parlamento, fosse il più idoneo ad assicurare questi principi costitutivi e a realizzare un rapporto tra cittadini/e e istituzioni che non si esaurisce nel solo esercizio periodico del voto ma si sviluppa quotidianamente nella dialettica democratica e nella costante partecipazione collettiva della rappresentanza in tutte le sue declinazioni politiche, sociali e civili.
Per contrastare la deriva in corso e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che – a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno – rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando.
Per queste ragioni, ci impegniamo a realizzare:
• il 24 giugno una grande manifestazione nazionale a Roma in difesa del diritto alla salute delle persone e nei luoghi di lavoro e per la difesa e rilancio del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico e universale.
• Il 30 settembre una grande manifestazione nazionale a Roma per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.
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In Italia e nel Mondo

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023

STEREOTIPI CADUTI

Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,

Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Dati drammatici
L’INVIO DELLE ARMI IN UCRAINA È STATO UN FALLIMENTO
19 APRILE 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
Invece di far diminuire le vittime l’invio delle armi in Ucraina le ha accresciute al punto tale che oggi è ufficialmente vietato dalle autorità fornire i dati. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa.

Alessandro Marescotti*
Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente
Mai come ora, dopo l’inutile strage di Bakhmut, la guerra si sta dimostrando un fallimento, per entrambi gli attori.
Su Youtube si susseguono dibattiti e approfondimenti fra esperti militari. C’è modo di documentarsi da una pluralità di fonti bucando il muro della propaganda a reti unificate. Si trova di tutto su Internet, con aggiornamenti quotidiani. Cartine digitali dell’Ucraina, mappe geolocalizzate del Donbass, dettagliate ricostruzioni dei combattimenti con l’uso dei satelliti. E poi testimonianze oculari raccolte da giornalisti freelance, inchieste di approfondimento della stampa internazionale. Dopo mesi e mesi di attenta ricerca, osservazione e verifica ho imparato a distinguere le fonti più affidabili da quelle che non lo sono.
Top secret il numero dei morti
Tantissimi elementi consentono di comprendere quello che avviene sui campi di battaglia. Possiamo conoscere giorno per giorno i movimenti delle truppe con una precisione straordinaria. I morti invece no: quelli non ce li dicono. Sono segreto militare. Né i governi occidentali li chiedono. Non li conoscono i parlamentari, i quali votano l’invio delle armi come puro atto di fede, senza alcuna possibilità di sapere se quelle armi hanno effettivamente salvato le vite umane degli aggrediti tenendo alla larga gli aggressori. Se non si hanno i dati dei morti in guerra nessuna verifica è possibile circa l’efficacia dell’invio delle armi, né si può verificare la coerenza degli effetti dell’invio delle armi rispetto ai fini auspicati in origine. Piaccia o non piaccia, anche la guerra ha una sua scienza statistica e si possono fare sofisticati calcoli prendendo come riferimento copiosi database con i dati delle vittime subite e di quelle inferte.
Il vero scopo dell’invio delle armi
Il fatto che non ci vengano comunicati i dati delle vittime la dice lunga sui veri fini della guerra e dell’invio delle armi. Che non sono più quelli di una romantica difesa della popolazione. Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente, il tutto in palese contraddizione con quanto dicono di voler fare i nostri governanti europei con l’invio delle armi.
Quello che emerge è drammaticamente evidente nell’assurdità di ciò che si è consumato a Bakhmut. Quelle armi inviate dall’Occidente sono servite per mandare allo sbaraglio e alla morte un numero impressionante e imprecisato di giovani, spesso privi di esperienza.
Lo sgomento degli esperti militari
Mai come ora gli esperti militari sono imbarazzati di fronte all’insensata serie di scelte fatte in questa lunghissima battaglia condotta alla fine per mere ragioni di immagine, senza rilevanza militare. Con effetti persino controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati e perseguiti settimana dopo settimana. Gli esperti e gli stessi militari – di ottimo livello tecnico – che partecipano a questi webinar sono stupiti e avviliti per l’insensata sequenza di scelte compiute con enormi sacrifici umani. Scelte compiute a volte varcando il labile confine che divide la ragion militare dall’idiozia. Noi pacifisti questa strage la vediamo sotto il profilo della “crudeltà”. Loro, gli esperti della guerra, la vedono sotto il profilo dell’inefficacia ai fini pratici del successo militare. Perché questa guerra è un affastellarsi di frustrazioni dall’una e dall’altra parte, con risultati attesi che non arrivano a fronte di enormi perdite umane e di mezzi.
Dall’una e dall’altra parte vengono annunciate offensive e controffensive che si traducono in avanzate di poche centinaia di metri alla settimana e in capovolgimenti militari di modesta rilevanza che le vanificano. E nel frattempo si scavano doppie e triple linee di trincee. Lo spettro che si profila è quello di una guerra infinita. Altro che difesa della popolazione civile, si raschierà il fondo andando ad arruolare vecchi barbuti e giovani imberbi per buttarli nel tritacarne.
La guerra: da medicina amara a veleno
Quello che sta accadendo è il disvelamento dell’assurdità. La guerra, proposta come medicina amara ma necessaria, si sta rivelando veleno. Dopo averla trangugiata fa morire il paziente invece di guarirlo.
C’è materia di riflessione per gli interventisti democratici che, dopo oltre un secolo dalla fine della prima guerra mondiale, ricalcano oggi pari pari gli errori di cent’anni fa. L’interventismo democratico che spaccò il fronte del socialismo pacifista europeo risorge oggi per commettere gli stessi errori, come se la storia non fosse mai stata studiata.
Elly Schlein e il “Washington Post”
Contrariamente a ciò che alcuni avevano sperato, la nuova segretaria del PD continua a sostenere le ragioni dell’invio delle armi. Lo scopo è apparentemente semplice e non sembra fare una grinza: fermare l’aggressore e proteggere l’aggredito.
Nella lettera aperta a Elly Schlein ho cercato tuttavia di fornire qualche elemento di riflessione: le ho scritto (senza ottenere ad oggi risposta) evidenziando che le armi inviate, alla lunga, non hanno fermato il massacro ma hanno illuso Zelensky della vittoria. E da questa illusione nasce la mostruosa situazione descritta dal Washington Post. Battaglioni di 500 uomini, con 100 morti e 400 feriti, rimpiazzati da ragazzi di leva che, quando possono, scappano. Tutte cose a cui occorre dare risposta perché se l’obiettivo dell’invio delle armi è quello di difendere le persone in Ucraina allora esiste un solo modo di verifica: conteggiare le vittime. Ma le vittime della guerra sono coperte dal segreto di Stato in Ucraina. Perché se ci fosse una verifica trasparente e oggettiva si vedrebbe che all’aumentare dell’invio di armi non è seguita una diminuzione delle morti ma al contrario un crescendo impressionante. Stiamo proteggendo l’aggredito o lo stiamo mandando allo sbaraglio?
I dati drammatici del “Kyiv Independent”
L’invio di armi doveva difendere i civili ma è diventata la ragione di nuovi arruolamenti forzati che avvengono rastrellando i giovani a Kiev e in altre città dell’Ucraina. Sono tantissimi i giovani che fuggono alla leva e che stanno diventando renitenti. Se ne parla poco ma il problema c’è, ed è vasto
Qualcuno dirà che quei giovani servono a difendere altri civili indifesi. La verità è un’altra. Vengono impiegati in missioni suicide simili a quelle che ordinava il generale Cadorna nella prima guerra mondiale. Ecco qui qualche sprazzo di questa lucida follia. “Il battaglione è arrivato a metà dicembre… tra tutti i plotoni eravamo 500”, racconta Borys, un medico militare della regione di Odessa che combatte intorno a Bakhmut. “Un mese fa eravamo letteralmente 150”, confessa a The Kyiv Independent. “Quando si va in posizione, non c’è nemmeno il 50% di possibilità di uscirne vivi”, afferma un altro soldato. È più un 30/70″.
Capovolgere la narrazione
Più si fa ricerca e più si scopre che la narrazione della guerra si discosta dalla realtà della stessa. E la contraddice.
E’ pertanto il momento di rivendicare orgogliosi la nostra scelta di pacifisti. Occorre capovolgere la narrazione della guerra come scelta dolorosa ma necessaria, perché quella narrazione oggi non regge più alle dure smentite dell’evidenza. Siamo nel pieno di una “battle of narrative”, e la Nato presta molta attenzione allo storytelling della guerra.
La giusta “guerra di difesa”, la retorica dell’aggressore e dell’aggredito, tutto sta saltando perché la guerra diventa pluriennale, rischia di diventare come la prima guerra mondiale. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa e spiace vedere gente intelligente, che ha scritto libri, perdersi di brutto pensando per di più di indicare la strada agli altri.
Persino Luttwak è sconfortato dallo stallo militare e ha parlato di referendum nelle zone di guerra per uscire dal pantano. Ci hanno illuso che bastassero poche settimane di sanzioni per far collassare economicamente la Russia e l’invio delle armi doveva servire il tempo necessario ad aspettare che arrivasse l’effetto delle sanzioni. Non è stato così.
La tenuta militare della Russia
La Russia – basta studiare, ricercare e approfondire i dati – ha armi, uomini, consenso e risorse economiche per continuare per molto tempo. Ha dimostrato una resilienza notevole. Il resto è propaganda per convincerci che Putin si può scalzare e che un altro invio di armi o altre sanzioni possano fare la differenza. L’unica differenza è se entrano in campo gli F-16 o i missili a lungo raggio per colpire la Crimea o le basi nel territorio della Russia. Ma in questo caso andiamo dritti verso lo scontro nucleare. Dunque la guerra contro la Russia non può essere vinta. E va chiusa al più presto perché non ha senso mandare al massacro altri soldati per non ottenere alcun risultato, tanti costi per zero benefici. I militari lo dicono, lo dice lo stesso generale Milley, capo del Pentagono.
Gli anarchici interventisti
Per concludere, un cenno a chi – di fronte all’aggressione russa verso l’Ucraina – ha sentito sinceramente intollerabile la situazione fino al punto di rinnegare i propri principi pacifisti pur di salvare gli aggrediti.
Di fronte alla prima guerra mondiale, oltre alla fine dell’internazionale socialista, si verificò un’altra crisi interna ad un fronte che tradizionalmente era contro gli eserciti: gli anarchici. La Germania invase il Belgio neutrale e lo devastò brutalmente. Lo definirono “lo stupro del Belgio”. La cosa scosse chi credeva nella neutralità. Fu così che Pëtr Kropotkin e altri 15 intellettuali anarchici si espressero a favore della guerra contro la Germania, sostenendo che la Germania rappresentava una minaccia per la libertà e la democrazia, e che l’intervento alleato sarebbe stato giustificato per difendere l’Europa dal militarismo tedesco. Fu criticato dall’anarchico italiano Errico Malatesta.
Quante similitudini!
Kropotkin poi si pentì. Ma ormai era troppo tardi.

* Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
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Eventi segnalati
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna

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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Internazionale

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023

STEREOTIPI CADUTI

Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,

Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Dati drammatici
L’INVIO DELLE ARMI IN UCRAINA È STATO UN FALLIMENTO
19 APRILE 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
Invece di far diminuire le vittime l’invio delle armi in Ucraina le ha accresciute al punto tale che oggi è ufficialmente vietato dalle autorità fornire i dati. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa.

Alessandro Marescotti*
Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente
Mai come ora, dopo l’inutile strage di Bakhmut, la guerra si sta dimostrando un fallimento, per entrambi gli attori.
Su Youtube si susseguono dibattiti e approfondimenti fra esperti militari. C’è modo di documentarsi da una pluralità di fonti bucando il muro della propaganda a reti unificate. Si trova di tutto su Internet, con aggiornamenti quotidiani. Cartine digitali dell’Ucraina, mappe geolocalizzate del Donbass, dettagliate ricostruzioni dei combattimenti con l’uso dei satelliti. E poi testimonianze oculari raccolte da giornalisti freelance, inchieste di approfondimento della stampa internazionale. Dopo mesi e mesi di attenta ricerca, osservazione e verifica ho imparato a distinguere le fonti più affidabili da quelle che non lo sono.
Top secret il numero dei morti
Tantissimi elementi consentono di comprendere quello che avviene sui campi di battaglia. Possiamo conoscere giorno per giorno i movimenti delle truppe con una precisione straordinaria. I morti invece no: quelli non ce li dicono. Sono segreto militare. Né i governi occidentali li chiedono. Non li conoscono i parlamentari, i quali votano l’invio delle armi come puro atto di fede, senza alcuna possibilità di sapere se quelle armi hanno effettivamente salvato le vite umane degli aggrediti tenendo alla larga gli aggressori. Se non si hanno i dati dei morti in guerra nessuna verifica è possibile circa l’efficacia dell’invio delle armi, né si può verificare la coerenza degli effetti dell’invio delle armi rispetto ai fini auspicati in origine. Piaccia o non piaccia, anche la guerra ha una sua scienza statistica e si possono fare sofisticati calcoli prendendo come riferimento copiosi database con i dati delle vittime subite e di quelle inferte.
Il vero scopo dell’invio delle armi
Il fatto che non ci vengano comunicati i dati delle vittime la dice lunga sui veri fini della guerra e dell’invio delle armi. Che non sono più quelli di una romantica difesa della popolazione. Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente, il tutto in palese contraddizione con quanto dicono di voler fare i nostri governanti europei con l’invio delle armi.
Quello che emerge è drammaticamente evidente nell’assurdità di ciò che si è consumato a Bakhmut. Quelle armi inviate dall’Occidente sono servite per mandare allo sbaraglio e alla morte un numero impressionante e imprecisato di giovani, spesso privi di esperienza.
Lo sgomento degli esperti militari
Mai come ora gli esperti militari sono imbarazzati di fronte all’insensata serie di scelte fatte in questa lunghissima battaglia condotta alla fine per mere ragioni di immagine, senza rilevanza militare. Con effetti persino controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati e perseguiti settimana dopo settimana. Gli esperti e gli stessi militari – di ottimo livello tecnico – che partecipano a questi webinar sono stupiti e avviliti per l’insensata sequenza di scelte compiute con enormi sacrifici umani. Scelte compiute a volte varcando il labile confine che divide la ragion militare dall’idiozia. Noi pacifisti questa strage la vediamo sotto il profilo della “crudeltà”. Loro, gli esperti della guerra, la vedono sotto il profilo dell’inefficacia ai fini pratici del successo militare. Perché questa guerra è un affastellarsi di frustrazioni dall’una e dall’altra parte, con risultati attesi che non arrivano a fronte di enormi perdite umane e di mezzi.
Dall’una e dall’altra parte vengono annunciate offensive e controffensive che si traducono in avanzate di poche centinaia di metri alla settimana e in capovolgimenti militari di modesta rilevanza che le vanificano. E nel frattempo si scavano doppie e triple linee di trincee. Lo spettro che si profila è quello di una guerra infinita. Altro che difesa della popolazione civile, si raschierà il fondo andando ad arruolare vecchi barbuti e giovani imberbi per buttarli nel tritacarne.
La guerra: da medicina amara a veleno
Quello che sta accadendo è il disvelamento dell’assurdità. La guerra, proposta come medicina amara ma necessaria, si sta rivelando veleno. Dopo averla trangugiata fa morire il paziente invece di guarirlo.
C’è materia di riflessione per gli interventisti democratici che, dopo oltre un secolo dalla fine della prima guerra mondiale, ricalcano oggi pari pari gli errori di cent’anni fa. L’interventismo democratico che spaccò il fronte del socialismo pacifista europeo risorge oggi per commettere gli stessi errori, come se la storia non fosse mai stata studiata.
Elly Schlein e il “Washington Post”
Contrariamente a ciò che alcuni avevano sperato, la nuova segretaria del PD continua a sostenere le ragioni dell’invio delle armi. Lo scopo è apparentemente semplice e non sembra fare una grinza: fermare l’aggressore e proteggere l’aggredito.
Nella lettera aperta a Elly Schlein ho cercato tuttavia di fornire qualche elemento di riflessione: le ho scritto (senza ottenere ad oggi risposta) evidenziando che le armi inviate, alla lunga, non hanno fermato il massacro ma hanno illuso Zelensky della vittoria. E da questa illusione nasce la mostruosa situazione descritta dal Washington Post. Battaglioni di 500 uomini, con 100 morti e 400 feriti, rimpiazzati da ragazzi di leva che, quando possono, scappano. Tutte cose a cui occorre dare risposta perché se l’obiettivo dell’invio delle armi è quello di difendere le persone in Ucraina allora esiste un solo modo di verifica: conteggiare le vittime. Ma le vittime della guerra sono coperte dal segreto di Stato in Ucraina. Perché se ci fosse una verifica trasparente e oggettiva si vedrebbe che all’aumentare dell’invio di armi non è seguita una diminuzione delle morti ma al contrario un crescendo impressionante. Stiamo proteggendo l’aggredito o lo stiamo mandando allo sbaraglio?
I dati drammatici del “Kyiv Independent”
L’invio di armi doveva difendere i civili ma è diventata la ragione di nuovi arruolamenti forzati che avvengono rastrellando i giovani a Kiev e in altre città dell’Ucraina. Sono tantissimi i giovani che fuggono alla leva e che stanno diventando renitenti. Se ne parla poco ma il problema c’è, ed è vasto
Qualcuno dirà che quei giovani servono a difendere altri civili indifesi. La verità è un’altra. Vengono impiegati in missioni suicide simili a quelle che ordinava il generale Cadorna nella prima guerra mondiale. Ecco qui qualche sprazzo di questa lucida follia. “Il battaglione è arrivato a metà dicembre… tra tutti i plotoni eravamo 500”, racconta Borys, un medico militare della regione di Odessa che combatte intorno a Bakhmut. “Un mese fa eravamo letteralmente 150”, confessa a The Kyiv Independent. “Quando si va in posizione, non c’è nemmeno il 50% di possibilità di uscirne vivi”, afferma un altro soldato. È più un 30/70″.
Capovolgere la narrazione
Più si fa ricerca e più si scopre che la narrazione della guerra si discosta dalla realtà della stessa. E la contraddice.
E’ pertanto il momento di rivendicare orgogliosi la nostra scelta di pacifisti. Occorre capovolgere la narrazione della guerra come scelta dolorosa ma necessaria, perché quella narrazione oggi non regge più alle dure smentite dell’evidenza. Siamo nel pieno di una “battle of narrative”, e la Nato presta molta attenzione allo storytelling della guerra.
La giusta “guerra di difesa”, la retorica dell’aggressore e dell’aggredito, tutto sta saltando perché la guerra diventa pluriennale, rischia di diventare come la prima guerra mondiale. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa e spiace vedere gente intelligente, che ha scritto libri, perdersi di brutto pensando per di più di indicare la strada agli altri.
Persino Luttwak è sconfortato dallo stallo militare e ha parlato di referendum nelle zone di guerra per uscire dal pantano. Ci hanno illuso che bastassero poche settimane di sanzioni per far collassare economicamente la Russia e l’invio delle armi doveva servire il tempo necessario ad aspettare che arrivasse l’effetto delle sanzioni. Non è stato così.
La tenuta militare della Russia
La Russia – basta studiare, ricercare e approfondire i dati – ha armi, uomini, consenso e risorse economiche per continuare per molto tempo. Ha dimostrato una resilienza notevole. Il resto è propaganda per convincerci che Putin si può scalzare e che un altro invio di armi o altre sanzioni possano fare la differenza. L’unica differenza è se entrano in campo gli F-16 o i missili a lungo raggio per colpire la Crimea o le basi nel territorio della Russia. Ma in questo caso andiamo dritti verso lo scontro nucleare. Dunque la guerra contro la Russia non può essere vinta. E va chiusa al più presto perché non ha senso mandare al massacro altri soldati per non ottenere alcun risultato, tanti costi per zero benefici. I militari lo dicono, lo dice lo stesso generale Milley, capo del Pentagono.
Gli anarchici interventisti
Per concludere, un cenno a chi – di fronte all’aggressione russa verso l’Ucraina – ha sentito sinceramente intollerabile la situazione fino al punto di rinnegare i propri principi pacifisti pur di salvare gli aggrediti.
Di fronte alla prima guerra mondiale, oltre alla fine dell’internazionale socialista, si verificò un’altra crisi interna ad un fronte che tradizionalmente era contro gli eserciti: gli anarchici. La Germania invase il Belgio neutrale e lo devastò brutalmente. Lo definirono “lo stupro del Belgio”. La cosa scosse chi credeva nella neutralità. Fu così che Pëtr Kropotkin e altri 15 intellettuali anarchici si espressero a favore della guerra contro la Germania, sostenendo che la Germania rappresentava una minaccia per la libertà e la democrazia, e che l’intervento alleato sarebbe stato giustificato per difendere l’Europa dal militarismo tedesco. Fu criticato dall’anarchico italiano Errico Malatesta.
Quante similitudini!
Kropotkin poi si pentì. Ma ormai era troppo tardi.

* Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
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Eventi segnalati
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Giovedì 20 aprile 2023 verso Sa Die.
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna

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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Auguri di buona Pasqua di Resurrezione con l’ottimismo della volontà

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di Franco Meloni
Piova, grandini, nevichi o splenda il sole, faccia freddo o caldo… Auguri! In situazioni di tremenda guerra perché finisca o nella serenità della Pace perché continui… Auguri! Comunque Auguri di Pasqua di Resurrezione! Che per tutti possa essere Resurrezione! Che il Cristo risorto possa portare a tutti la Pace! In certa misura dipende da ciascuno di noi. Almeno per un momento in questa Santa Pasqua troviamo gioia e conforto nel sentirci fratelli e sorelle, in sintonia nella Terra nostra patria.
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Sappiamo bene quanto questo comune anelito di Pace contrasti con le situazioni di conflittualità diffuse nel Pianeta. Non solo quindi nell’Ucraina, sconvolta da un’inutile sanguinosa guerra cominciata formalmente un anno fa con l’aggressione russa. Tra tutti i conflitti soffermiamoci di quello in atto in Israele e Palestina.
Tutti gli osservatori internazionali da tempo sostengono che sarà sempre peggio. E così è! L’ultimo attentato terroristico di venerdì, dove è rimasto vittima il nostro connazionale, con almeno sette feriti, lo conferma. Condanna senza attenuanti dell’atto terroristico, di quanti lo hanno attuato e provocato. E insieme richiesta pressante perché cessino i comportamenti di quanti determinano i presupposti della situazione conflittuale. In modo particolare evidentemente ci riferiamo alle politiche del governo israeliano, che vanno in direzione contraria alla ricerca della pacifica convivenza dei popoli di Israele e Palestina. Per quanto ci riguarda, come italiani, chiediamo che il nostro governo si attivi in tal senso, quello virtuoso, del rispetto dei diritti democratici, unitamente agli altri governi europei. Ieri il nostro ministro degli Esteri ha dichiarato: “Fino a quando Hamas continua a soffiare sul fuoco c’è il rischio di una impennata” rimarcando che “bisogna lavorare affinché ciò non accada” e “fare di tutto perché la situazione sia meno tesa”. Ma non si tratta solo di Hamas. Considerando le forze in campo, il primo che deve assumersi tale responsabilità è appunto il governo israeliano! In questa direzione anche noi ci esprimiamo in sintonia con i movimenti pacifisti israeliani e palestinesi. E di tutto il mondo. In argomento vogliano ancora una volta fare nostre le parole di mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, nel messaggio inviato di recente a una comunità ecumenica di Bergamo, impegnata a sostegno della Pace in Israele e Palestina.

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“Voglio unirmi a voi qui da Gerusalemme per la vostra preghiera per la pace in Terrasanta. Una pace molto attesa e voluta, non so se sempre da tutti ricercata, e che comunque resta il bene più prezioso che ci manca e di cui abbiamo estremo bisogno. La vostra preghiera è un momento di grande solidarietà che apprezziamo, di cui abbiamo bisogno e che forse è l’unica risorsa che in questo momento abbiamo.

Divisioni e violenza
Stiamo vivendo momenti difficili dal punto di vista politico e sociale: si va verso un deterioramento delle già quasi inesistenti relazioni tra i due popoli e soprattutto a una frammentazione della vita sociale.

Abbiamo da un lato – ed è la cosa che più preoccupa – una sempre più profonda sfiducia tra le due popolazioni, quella israeliana e palestinese. Ormai, è molto difficile parlare di pace, prospettive, speranza. Sono cose necessarie ma è difficile essere credibili quando si parla di questo proprio a causa della profonda sfiducia che è frutto di tanti fallimenti, tradimenti anche, dei cosiddetti accordi di pace.

I due popoli sono divisi e divise sono al loro interno la comunità israeliana e quella palestinese
Preoccupa anche la divisione all’interno delle due società: di quella israeliana spaccata in due, tra religiosi e laici, non soltanto per motivi partitici ma soprattutto per la divisione sull’idea stessa della identità che lo Stato d’Israele deve avere. Ma anche nella società palestinese: la frammentazione ormai è sempre più evidente non solo fra Gaza e la Cisgiordania ma anche all’interno della Cisgiordania.

Ecco, questa situazione alimenta una sempre maggiore violenza. In questo periodo abbiamo avuto un numero di morti che ci riporta ai tempi della seconda Intifada e purtroppo temo che la violenza continuerà e aumenterà di molto. Non sarà una nuova Intifada come l’abbiamo vista nelle due precedenti ma sarà comunque una violenza organizzata dai diversi gruppi a causa proprio della frammentazione di cui parlavo e della mancanza di una leadership unitaria da entrambi i lati.

In questa situazione, i cristiani
Tutto questo è preoccupante e pone alla nostra piccola comunità cristiana tanti problemi e domande: come stare dentro queste situazioni? Cosa deve dire come Chiesa? Abbiamo già parlato tanto ma possiamo ripetere sempre le stesse cose contro l’occupazione, a favore della sicurezza e così via? Siamo in una fase in cui un po’ tutti sentiamo il bisogno di ripensare il linguaggio e ripensare anche il nostro atteggiamento dentro queste vicende molto gravi e difficili. Però non disperiamo.

Ho visto e continuo a vedere – visitando le parrocchie e le realtà del territorio – tantissime associazioni, movimenti, persone che hanno voglia di mettersi in gioco, che non rinunciano a voler credere che si possa fare qualcosa, nei quali la sfiducia non ha attecchito. La preoccupazione principale è proprio questa, che la sfiducia, che la violenza entri dentro il cuore delle persone e diventi un modo di pensare.

Bisogna mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio
Credo che la prima cosa che dobbiamo fare sia lavorare con tutte le persone possibili – cristiani, ebrei, musulmani – perché si possa mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio che, nonostante tutto, lavorano non per costruire barriere ideologiche o fisiche ma per dare vita a relazioni e in futuro serviranno a ricostruire le prospettive di questo Paese, in modo diverso da quelle del passato. Un futuro con l’idea di due popoli, quello ebraico e palestinese, che non sono destinati ma chiamati dalla Provvidenza a vivere l’uno accanto all’altro nel modo più pacifico e sereno possibile.

La vostra preghiera è dunque molto importante. Celebriamo quest’anno i sessant’anni della Pacem in Terris, che è stato il documento che ha cambiato il modo della Chiesa di stare nel mondo e di parlare della pace e noi oggi, a distanza di allora, dobbiamo essere figli credibili di quel documento, che è stato così importante e che ancora oggi accompagna la vita di molte comunità. Sono sicuro che anche da Bergamo potremo ricevere contributi nella riflessione e soprattutto nella preghiera, perché questa piccola comunità di Terrasanta possa continuare a dare la sua piccola ma bella testimonianza di fede ma soprattutto di speranza.
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Buona Pasqua a tutte e tutti con i *14 GRAZIE* con cui Papa Francesco ha voluto concludere la via Crucis del venerdi santo:
*Grazie*, Signore Gesù, per la mitezza che confonde la prepotenza.
*Grazie*, per il coraggio con cui hai abbracciato la croce.
*Grazie*, per la pace che sgorga dalle tue ferite.
*Grazie*, per averci donato come nostra Madre la tua santa Madre.
*Grazie*, per l’amore mostrato davanti al tradimento.
*Grazie*, per aver mutato le lacrime in sorriso.
*Grazie*, per aver amato tutti senza escludere nessuno.
*Grazie*, per la speranza che infondi nell’ora della prova.
*Grazie*, per la misericordia che risana le miserie.
*Grazie*, per esserti spogliato di tutto per arricchirci.
*Grazie*, per aver mutato la croce in albero di vita.
*Grazie*, per il perdono che hai offerto ai tuoi uccisori.
*Grazie*, per avere sconfitto la morte.
*Grazie*, Signore Gesù, per la luce che hai acceso nelle nostre notti e riconciliando ogni divisione ci ha reso
tutti fratelli, figli dello stesso Padre che sta nei cieli.

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Israele e Palestina
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Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
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e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO

UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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f23ce055-7b07-470f-80aa-a68917feb7f1Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.
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———Eventi segnalati————————-
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ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Verso il peggio

La guerra in Ucraina, le responsabilità dell’Occidente
24-03-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna
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Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, il saggio dello storico americano Benjamin Abelow, è un documento indispensabile per comprendere le vere cause e le origini profonde della disastrosa guerra che sta devastando l’Ucraina e sta portando il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare. Sono solo 70 pagine, è un manuale denso di informazioni essenziali, una specie di Bignami sul contesto politico e i retroscena internazionali nei quali si inserisce la tragedia della guerra. Tutto ciò che è necessario per comprendere come la sciagurata avventura militare di Putin, che ha varcato il Rubicone la mattina del 24 febbraio 2022, costituisca una risposta del tutto prevedibile, e perciò prevenibile, a una trentennale storia di provocazioni alla Russia, cominciate durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica e proseguite, in un crescendo inarrestabile, fino all’inizio del conflitto attuale. Una storia di provocazioni, di accumulo di minacce militari, e di sfide politiche che è stata completamente oscurata, ignorata e cancellata dai leader politici delle nazioni europee e dai mass media, che hanno presentato lo scatenamento del conflitto (azione certamente ingiustificabile e criminale come tutte le guerre), come un fatto inspiegabile, frutto dell’impazzimento di un novello Hitler, deciso a soggiogare tutta l’Europa, in preda a un delirio di potenza.

Abelow elenca, in estrema sintesi, otto categorie di eventi che hanno inciso profondamente sugli interessi di sicurezza della Russia e sul rapporto di fiducia con l’Occidente, creando un allarme diffuso a cui la mediocre classe dirigente russa non ha saputo dare altra risposta che non fosse il ricorso all’uso della forza. Non si tratta soltanto dell’allargamento della NATO di oltre 1600 chilometri ad est. Le insidie contro la sicurezza della Russia si sono manifestate anche con il ritiro unilaterale degli USA dal trattato sui missili antibalistici. A seguito del ritiro gli USA hanno installato una base ABM in Romania (e ne stanno installando un’altra in Polonia). I sistemi ABM schierati dagli americani non contemplano solo il lancio di missili antibalistici, ma consentono l’utilizzo di armi offensive con testata nucleare, come i missili Tomahawk che hanno una gittata di oltre 2.400 km. Nel 2019 gli USA si sono ritirati unilateralmente anche dal Trattato del 1987 sulle armi nucleari a raggio intermedio e quindi hanno creato le condizioni per poter posizionare armi nucleari a breve distanza dalla Russia, che – a sua volta – non può reagire allo stesso modo. In questo contesto un ruolo centrale assume la vicenda dell’Ucraina, dove gli USA hanno favorito nel 2014 un colpo di Stato che ha portato al governo forze di estrema destra fortemente ostili alla Russia e alla minoranza russofona. Gli USA hanno deciso di estendere la NATO al territorio dell’Ucraina, sebbene già dal 2008 la Russia aveva fatto intendere di considerarlo inaccettabile. A ciò si aggiungano le ripetute manovre militari ai confini della Russia e nel Mar Nero con esercitazioni a fuoco vivo. Anche quando è stato chiaro che la Russia stava preparando una risposta militare, non si è voluto fare nulla per abbassare i toni della sfida: fino all’ultimo gli USA e gli alleati europei (compresa l’Italia) hanno insistito sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO, presentandolo come un principio non negoziabile.

Il merito del libro di Abelow è di far comprendere che non si possono valutare gli eventi internazionali se non si è capaci di mettersi nei panni dell’altro. Il libro stimola il lettore a porsi una domanda di una semplicità disarmante: «Come reagirebbe Washington se la Russia stringesse un’alleanza militare con il Canada e poi piazzasse basi missilistiche a cento chilometri dal confine con gli Stati Uniti?».

Il punto fondamentale è chiedersi se la narrazione occidentale sulla guerra in Ucraina sia corretta o meno. Se l’avanzata russa in Ucraina viene considerata al pari dell’aggressione nazista, allora la politica occidentale di alimentare una guerra senza quartiere fino alla totale sconfitta dell’aggressore ha un senso, anche se comporta un fortissimo rischio di olocausto nucleare. Ma se questa narrazione fosse totalmente sbagliata perché fondata su false premesse, come ci dimostra, in poche battute la rievocazione storica di Abelow, allora una soluzione negoziata sarebbe possibile in tempi brevi e consentirebbe di risparmiare una insensata carneficina e di scongiurare il rischio di un’escalation nucleare.

Per completare il quadro, Abelow richiama l’allarme lanciato dagli esperti di politica estera americani, come George Kennan (uno dei più autorevoli teorici della guerra fredda) in ordine ai pericoli derivanti dall’insensata scelta di allargamento a Est della NATO. La scelta, attraverso l’allargamento della NATO, di ricostruire quel nemico che la dissoluzione dell’URSS aveva fatto venire meno, fu considerata da Kennan come una profezia che si autoavvera. Le minacce e le insidie agli interessi di sicurezza della Russia avrebbero sicuramente provocato una reazione negativa e ricreato in futuro la possibilità dello scoppio di un conflitto, com’è puntualmente avvenuto. In conclusione, osserva Abelow, «la minaccia esistenziale che la Russia percepisce da un’Ucraina, armata, addestrata e militarmente integrata nell’Occidente, avrebbe dovuto essere chiara a Washington fin dall’inizio. Quale persona sana di mente poteva credere che piazzare un arsenale occidentale al confine con la Russia non avrebbe scatenato una risposta vigorosa?».

Se gli Stati Uniti hanno agito secondo una logica imperiale, che mira a indebolire e fiaccare la Russia, è assurda la cecità dei leader europei che hanno agito con un «livello di deferenza e di codardia tali da essere quasi inconcepibili». Eppure proprio questo è il problema dell’Europa, la deferenza (verso gli USA) e la codardia dei leader europei, che sono stati talmente sciocchi da infilarsi nelle sabbie mobili del conflitto ed è difficile che possano trovare la saggezza per uscire da quelle sabbie mobili prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi.
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Ripudiare la guerra per la paceCostituente Terra Newsletter n. 109 del 22 marzo 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 290
del 22 marzo 2023.
Le guerre promesse
Cari amici,
Ci sono molte “ultime notizie” che prefigurano un mondo a perdere.
La prima è che nella pianificazione nucleare degli Stati Uniti pubblicata dal Pentagono si dice: “abbiamo condotto un’analisi approfondita di un’ampia gamma di opzioni per la politica nucleare, comprese le politiche No First Use (non ricorso alle atomiche prima di un attacco nucleare altrui) e Single Purpose (uso limitato a una singola finalità) e abbiamo concluso che tali approcci si tradurrebbero in un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari di concorrenti che potrebbero infliggere danni a livello strategico agli Stati Uniti e ai suoi alleati e partner”. Al riparo della minaccia nucleare si potrà invece “proiettare potenza” e combattere guerre convenzionali senza arrivare all’uso dell’atomica.
La viceministra inglese della Difesa, Annabel Goldie ha annunciato la volontà di Londra di fornire a Kiev proiettili all’uranio impoverito per la guerra anticarro, Putin ha risposto che se l’Inghilterra manderà “armi con componenti nucleari la Russia sarà costretta a rispondere”. Dunque la guerra nucleare è stata sdoganata.
Biden ha respinto le proposte della Cina per un “cessate il fuoco” in Ucraina e un dialogo per un nuovo ordine mondiale, dando inizio di fatto all’annunciata “competizione” a tutto campo degli Stati Uniti e del campo atlantico con la Cina.
La Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato contro Putin condannandolo di fatto agli arresti domiciliari: se lascerà la Russia per andare in qualsiasi Paese, tranne quelli che non riconoscono la giurisdizione della Corte, verrà imprigionato e processato.

Ha scritto Domenico Gallo

: “l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Corte Penale Internazionale deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi”. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: l’incriminazione di Putin di fatto sopprime, e in ogni caso sospende, l’ONU.
In Israele il governo Netanyahu ha rilanciato la colonizzazione in Palestina e legalizzato nuovi insediamenti “selvaggi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito “Sionismo religioso” ha affermato in un discorso a Parigi che “i palestinesi non esistono”, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa”. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Gli Stati Uniti hanno redarguito l’esponente sionista e l’Unione europea, tramite il capo della sua diplomazia Josep Borrell ha invitato il governo israeliano a sconfessare il suo ministro.
La Presidente italiana Giorgia Meloni ha per la seconda volta detto di “avere la coscienza a posto” per la strage dei migranti a Cutro, ma non ha receduto dalle politiche di cui essi sono vittima, “la difesa dei confini” e la lotta contro la “sostituzione etnica”. Ma la sostituzione etnica è quella che ha fatto l’Europa e le due Americhe, mentre quelle politiche sono rivolte contro gruppi di profughi più o meno numerosi solo in ragione della loro provenienza da terre straniere. Ma la Convenzione contro il genocidio vieta non solo gli atti che colpiscono tutti i membri di un gruppo, ma anche una parte di loro in quanto appartenenti a “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” come tale. Pertanto le politiche che conducono alla loro “distruzione fisica, totale o parziale”, e fanno del Mediterraneo un cimitero, sono, coscienti o no, politiche di genocidio.
Con queste politiche e questi “che sono considerati i governanti delle nazioni e dominano su di esse” (Marco 10, 42), abbiamo di che temere il futuro, l’esilio del diritto, e il bando della pace.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)
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QUEL MANDATO D’ARRESTO PER PUTIN BLOCCA LA PACE
22 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
L’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della Corte Penale Internazionale perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra e a tutti i suoi delitti

di Domenico Gallo

Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinchè non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale Internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin per un presunto crimine, consistente nella deportazione di numerosi bambini dai territori occupati dell’Ucraina. Non v’è dubbio che la feroce guerra in corso farà lavorare per anni la Corte penale internazionale per prendere conoscenza della valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti e che verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto è una barriera molto fragile. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). L’istituzione della Corte penale Internazionale, frutto del Trattato di Roma del 1998, mirava a rafforzare il fragile diritto umanitario, assicurando la garanzia di una giurisdizione universale a sua tutela. Proprio per questo, hanno rifiutato la giurisdizione della Corte quegli Stati che sono più adusi a commettere crimini internazionali e/o che non accettano limitazioni alla propria sovranità (USA, Israele, Iran, Turchia, Russia e Cina).

Pochi giorni fa è stato reso noto il rapporto di una Commissione Internazionale Indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’ONU, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra, che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Tuttavia all’epoca nessuno pensò di incriminare George Bush, responsabile politico di quella tragedia, né di inviare armi al paese aggredito per consentirgli di difendersi dall’aggressore. L’esperienza della guerra in Jugoslavia ci ha fatto toccare con mano come la giustizia internazionale possa essere strumentalizzata ai fini della guerra, per delegittimare ed indebolire l’avversario. Così la NATO, dopo aver impedito alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui crimini commessi dalle sue forze militari durante la campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia del 1999, si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria della Corte, pretendendo la consegna di Milosevic. In definitiva, grazie anche all’attitudine filoatlantica del suo Procuratore (la svizzera Carla del Ponte) la Corte per l’ex Jugoslavia finì per diventare un organo gregario della NATO.

Orbene, l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della CPI deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte penale internazionale non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.

Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la versione del conflitto come una sorta di guerra santa contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.

In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte.

Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.

Domenico Gallo

(articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2023 con il titolo: Quel mandato d’arresto per Putin blocca la pace)
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Impegni per lunedì 27 marzo 2023. Il Parco di Molentargius e la riattivazione della salina: una straordinaria opportunità per accrescerne la valorizzazione ambientale

79c26e5e-c070-4df5-9788-98dc17eb492eIl Parco di Molentargius e la riattivazione della salina: una straordinaria opportunità per accrescerne la valorizzazione ambientale
Lunedì 27 marzo 2023 Edificio Sali scelti
Viale La Palma Cagliari Sala Conferenze Helmar Schenk
Parco Naturale Regionale di Molentargius-Saline Il convegno

Cattolici e Politica: un indispensabile Dibattito esteso e vivace ma tuttora nascosto

cattolici-e-politica
c3dem_banner_04Cattolici e politica, una presenza contraddittoria
6 Febbraio 2023 by Fabio | su C3dem
di Luigi Viviani
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L’autore, già sindacalista ed ex senatore del Partito Democratico, interviene sul dibattito cattolici e politica in una situazione di crisi e grande trasformazione del Paese, per un contributo sulle sfide da assumere.
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Alcuni aspetti dell’esperienza veneta
In questa fase di ripensamento sul futuro della Chiesa, sollecitato dalla multiforme pastorale di Papa Francesco e anche dalla recente scomparsa di papa Ratzinger, l’esame non può che riguardare anche la politica, dove, in modo più evidente, si addensano i problemi e l’inadeguatezza della presenza e del ruolo dei cattolici. Tutte le ricerche sul campo testimoniano che tale presenza è distribuita su tutto l’arco dei partiti che formano il sistema politico, ma varie risultano le modalità con le quali, nei diversi schieramenti, i cattolici testimoniano la loro fede. Assodata la conquista storica della laicità come metodo essenziale con il quale si pratica la politica da parte degli stessi cattolici, la situazione del nostro Paese presenta alcune specificità. In particolare, in una Regione come il Veneto, nella quale, data la configurazione religiosa di partenza, i processi di cambiamento si sono manifestati con maggiore profondità ed evidenza. Nella società veneta del dopoguerra, dove la maggioranza della popolazione costituiva il popolo cattolico, e in politica la Dc gestiva praticamente tutto il potere sul territorio, con una schiera di ministri nel governo nazionale, una nutrita rappresentanza parlamentare, e la stragrande maggioranza dei sindaci del territorio, si manifestarono una serie di processi interessanti. Nella prima fase postbellica, il partito cattolico possedeva una classe dirigente di una certa qualità. In parte proveniente dal Partito popolare di Sturzo, temprata e selezionata attraverso gli orrori della guerra e, in gran parte, tramite la partecipazione alla Resistenza, per cui si impegnò a ricostruire la società sul territorio e ad avviare lo sviluppo, frenando progressivamente il processo di emigrazione verso altre zone del Paese e all’estero. Uno degli aspetti positivi che emerse in quel periodo, fu che, in generale, a guidare le istituzioni locali si scelsero gli uomini migliori, indipendentemente dalla loro posizione nel partito. A Verona, per esempio, pur essendo la provincia con la Dc più a destra della Regione, per le maggiori cariche istituzionali si scelsero amministratori locali in maggioranza di centrosinistra. Anche in tal modo si crearono le condizioni per un vero avvio del miracolo economico con la nascita di tante nuove imprese e una crescita spettacolare dell’occupazione. Ma negli anni successivi, naturalmente con le ovvie eccezioni, le nuove classi dirigenti, concentrate nella gestione del potere, persero progressivamente la spinta iniziale ad innovare, e il processo di sviluppo incominciò a registrare limiti e contraddizioni. In questa fase, in seguito all’accelerata secolarizzazione della società, la sostanziale ispirazione cristiana della politica si sfilacciò, tanto che il processo di rinnovamento conciliare interessò soltanto un’esigua minoranza della politica militante e qualche centro culturale ad essa collegato. Una importante occasione persa, frutto anche dei limiti dell’azione pastorale della Chiesa veneta, che nei confronti della politica mantenne un atteggiamento essenzialmente diplomatico, e si accontentò di un cristianesimo di semplice schieramento, consistente, nell’affermazione di alcuni principi accompagnata da qualche scontro con gli avversari. Fu in questa fase che in Veneto si rafforzò l’opposizione ad alcune scelte nazionali della Dc, come l’apertura a sinistra che Moro, anche se non compreso dalla maggioranza della gerarchia cattolica, concepì e cercò di realizzare per riprodurre un clima di collaborazione tra le maggiori forze politiche, analogo a quello della Costituente. Nella Dc veneta tale scelta provocò un duro scontro, con una divisione che determinerà situazioni di progressivo sfrangiamento delle posizioni dei cattolici, e, nel tempo, diventerà un terreno favorevole al radicamento e all’espansione della Lega. I canoni della politica leghista fondati su una propagandata autonomia territoriale che, nei fatti si dimostrò una forma di egoismo collettivo sulla gestione delle risorse del territorio, in un contesto di chiusura verso l’esterno fino a forme di vero e proprio razzismo antimeridionale e antimigranti. Valutata in sede storica la politica della Lega, non solo non ha favorito le diverse possibilità di sviluppo territoriale delle aree della Regione, ma ha determinato una loro progressiva contrazione riducendo le opportunità di relazione e di collaborazione con altri territori italiani ed europei. Il recente ridimensionamento elettorale manifesta tale sostanziale fallimento. che la perdurante popolarità di Zaia, frutto del suo attivismo, rallenta ma non riesce a invertire. Nella Lega la presenza cattolica è numerosa ma in termini prevalenti di appoggio passivo, con qualche sollecitazione a favore delle chiese locali, ma mai capace di influenzare in modo significativo la linea strategica del Carroccio. I cattolici sono stati pure presenti nel centrodestra in alcuni raggruppamenti post-democristiani come Ccd e Cdu, e soprattutto in Forza Italia contribuendo a rafforzare la maggioranza della coalizione, sostanzialmente con la medesima funzione di presenza più o meno subalterna, preoccupandosi di fare qualche battaglia a sostegno formale dei valori cristiani tradizionali, come la famiglia e l’aborto. Le recenti elezioni politiche del settembre 2022 hanno registrato una forte sostituzione di FdI alla Lega nel consenso dei veneti, e ha fatto una certa impressione che, in alcuni paesini della montagna veneta, FdI abbia raggiunto il 30% dei voti. Ora il dibattito politico regionale si sta concentrando sulla questione dell’Autonomia regionale che la Lega rivendica e cerca di realizzare in tempi brevi, forzando la situazione politica con la condizione per cui, o si realizza la riforma o cade il governo. In sintesi, dentro tali processi nel centrodestra i cattolici vivono normalmente inseriti nei diversi partiti, spesso senza particolari esigenze di testimonianza quando non svolgono un ruolo di copertura ideologica di posizioni non sempre conciliabili con i principi evangelici. In quest’area il problema del ruolo dei cattolici in politica non viene sostanzialmente percepito, perché la loro presenza, ancorché marginale, è considerata sufficiente, in un contesto ritenuto, nel complesso, favorevole ai principi cristiani, anche se la scelta religiosa si riduce spesso a semplice e utile corredo dell’identità politica. Del tutto diversa l’esperienza dei cattolici nel centrosinistra. Dopo lo sbandamento postdemocristiano e l’avvio di qualche esperienza di dialogo con la sinistra, molti cattolici aderirono con convinzione all’Ulivo di Prodi ma la sua breve esistenza li ricacciò in una specie di limbo politico, che la successiva nascita della Margherita solo in parte è riuscita a rappresentare. Da ultimo il Pd, che nel Veneto, sia per l’assenza di significativi leader locali che pet una precedente, profonda divisione ideologica tra gli aderenti alle due culture chiamate a realizzare una nuova sintesi, non è mai riuscito a raggiungere una identità significativa né una dimensione organizzativa all’altezza delle aspettative. Inoltre, la diffusa logica delle correnti, peraltro strettamente dipendenti dal livello nazionale, si è tradotta in un ulteriore impoverimento dell’azione del partito. Pur con questi limiti, oggi i cattolici e la cultura cattolico-democratica sono chiamati a dare un contributo per costruire identità e strategia del Pd. Un compito di particolare rilevanza che tuttavia contrasta con il ruolo avuto finora da gran parte dei cattolici in quest’area, che quasi sempre non sono riusciti ad affrancarsi da una partecipazione ad una redistribuzione dei posti di potere in un contesto di diffusa minoranza.

Cattolici e sinistra, il dovere di fronte alla storia
In Veneto il problema del rapporto tra cattolici e politica nel Partito democratico acquista un particolare valore anche perché, in questo territorio. esso può più concretamente contribuire a far uscire il partito da una crisi profonda che lo ha ridotto ai minimi termini. Va ricordato che alle ultime elezioni esso e arrivato al 16 % nettamente sotto il pur negativo risultato nazionale, frutto di una gestione de partito subordinata essenzialmente agli interessi delle diverse correnti nei territori provinciali. Qui probabilmente più che altrove ha pesato una incapacità delle due culture di riferimento, quella della sinistra storica e quella cattolico-democratica, di operare una sintesi in direzione di una identità definita del partito. Lo stesso Congresso, anche per il depotenziamento politico operato da Letta con la sua dichiarata volontà di non ricandidarsi, da assise costituente si è progressivamente trasformato in un percorso elettorale tra i candidati, e lo stesso “Manifesto del nuovo Pd nel 2030” non ha aggiunto granché agli analoghi documenti precedenti. Lo strumento delle primarie aperte, per eleggere il nuovo segretario, ha dato avvio a un dibattito circa la contraddizione tra l’elezione del segretario come atto essenziale di democrazia rappresentativa, e l’ammissione al voto dei non iscritti, con evidente disincentivo all’iscrizione al partito. Dibattito che dovrebbe concludersi con un ripristino della differenza di funzioni e poteri tra iscritti e no, mentre le primarie possono diventare un importante strumento di partecipazione aperta anche ai non iscritti se vengono usate per consultare il popolo del Pd sulle più importanti scelte politiche del partito (primarie tematiche). La realtà attuale del Pd manifesta quindi che questo partito non ha risolto i suoi problemi perché finora ha scelto la strada sbagliata di definire le regole di funzionamento interno, e di selezione della sua classe dirigente in un contesto rigidamente correntizio. Ciò interroga la cultura cattolico-democratica come parte in causa per contribuire a superare tale limite. L’esperienza di un corretto funzionamento del partito ci suggerisce che la via migliore per conquistare una identità politica definita, rimane quella di un confronto approfondito con la realtà nella quale esso è chiamato a operare. Per il Pd tale obiettivo si concretizza nella costruzione di una nuova sinistra idonea a interpretare e governare la realtà di oggi. Una sinistra ad un tempo riformista, inclusiva e di governo, del tutto diversa da quella del ‘900. Tanto più che negli ultimi anni si è operata, in Italia e nel mondo, una trasformazione che per profondità ed estensione appare tra le più rilevanti nella storia dell’umanità. Essa si avvale di due motori fondamentali: lo sviluppo scientifico e tecnologico e la globalizzazione dell’economia, che intervengono nei diversi aspetti della vita personale e sociale. La novità di tale processo richiede, a sinistra, nuove mediazioni, decisamente diverse dal passato, tra i valori di libertà, uguaglianza e solidarietà e la nuova realtà in trasformazione. Serviranno quindi meno ideologia e più capacità di comprensione e di sperimentazione di nuove politiche. In particolare, sarà necessario un nuovo rapporto con il capitalismo fondato sulla capacità di intervenire sulle sue contraddizioni come via di rafforzamento della democrazia. In questo ambito la cultura cattolico-democratica essendo stata meno coinvolta nelle esperienze della sinistra del passato, può favorire più concretamente gli aspetti di novità. Operando in contesto di pluralismo e laicità, il politico cattolico, per svolgere il ruolo richiesto, deve essere dotato di formazione cristiana integrale, capacità di interpretare la realtà sulla quale intervenire, assumere il coraggio di proporre, sulle questioni in discussione, soluzioni di ispirazione cristiana, che spesso non traducono direttamente i principi cristiani ma ne rappresentano una mediazione parziale, che il politico cristiano assume con la sua piena responsabilità. In tal modo egli compie un dovere di testimonianza dentro la storia del suo tempo, accettandone tutte le conseguenze, forse anche con un rapporto difficile con la Chiesa.

La Chiesa e la politica
La fase che si sta aprendo nella vita del nostro Paese richiede una riflessione particolare della Chiesa italiana nei confronti della politica, sulla base di una riconsiderazione critica di tale realtà e dei rapporti intrattenuti con essa in precedenza. Il punto di partenza rimane la considerazione della politica come particolare testimonianza cristiana a servizio dei bene comune. Essa è stata definita dagli stessi vescovi, ad un tempo : impegnativa testimonianza di fede, l’organizzazione della speranza e la forma più esigente di carità. Quindi una via particolarmente impegnativa di vivere il cristianesimo secondo una vocazione rivolta al bene dell’intera società. Nel corso degli ultimi decenni è cresciuto il divario tra il valore di questa vocazione e la prassi politica concreta di tanti cattolici per cui, mentre in passato, nelle fasi migliori della Dc. la politica, nella classe dirigente più impegnata, rappresentava un ambito avanzato di testimonianza cristiana da parte dei laici, con particolari livelli di coerenza e responsabilità, la politica di oggi diviene spesso veicolo di diffusione di forme di presenza cristiana contrassegnate da incoerenza e prioritaria attenzione a raggiungere posizioni di potere, ancorché marginali. Tanto che, credo, non sia esagerato affermare che la politica oggi appare l’ambito nel quale il ruolo dei laici nella Chiesa indicato dal Concilio risulta largamente disatteso. Una situazione frutto della difficoltà particolare di esprimere e vivere scelte di ispirazione cristiana nel contesto della politica di oggi, e anche di un insufficiente rapporto e dell’assenza di una adeguata pastorale da parte della Chiesa gerarchica nei loro confronti. Se è vero che l’impegno politico, sempre più necessario per il futuro della nostra comunità, richiede un grado particolarmente elevato di virtù cristiane per rendere più consapevole ed efficace la presenza dei cattolici in questa attività, diventa indispensabile che la Chiesa, riconosca il particolare valore di questa vocazione e la sostenga con una specifica azione pastorale tesa a favorire una formazione cristiana idonea a tale compito. Non credo che a questo scopo siano sufficienti le antiche scuole fondate sui principi della dottrina sociale della Chiesa, né tanto meno scuole di generica formazione politica realizzate in ambito ecclesiale. Serve invece una formazione cristiana, qualificata in direziona di questa particolare vocazione, con un rapporto di sostegno successivo dei partecipanti, unito a un giudizio esigente sul loro operato. In tal senso mi pare che alcuni segnali positivi provengano, sulla scia di Papa Francesco, dal rapporto che il presidente della Cei cardinale Zuppi, dimostra di voler intrattenere con il mondo politico e i suoi problemi, fondato su un rigoroso rispetto dell’autonomia della politica unito a un interesse più ravvicinato alla sua realtà.

Finita definitivamente l’era del Dc, caratterizzata da una egemonia politica dei cattolici, per effetto della trasformazione del rapporto tra fede e modernità, è subentrata una dispersione dell’impegno dei cattolici nei vari schieramenti politici secondo criteri in gran parte di preferenza personale o di piccoli gruppi. Ciò ha comportato oltre che una evidente marginalizzazione complessiva dei cattolici nelle scelte politiche fondamentali oltre che una progressiva riduzione dell’ispirazione cristiana nell’azione politica, proprio nella fase in cui la Chiesa ha cercato di elaborare, sulla base dei segni dei tempi, una proposta teologica e pastorale nei confronti della modernità con il Concilio Vaticano II. Così, mentre in passato la politica era anche un fronte avanzato ed esposto del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società ,per cui, ad esempio, politici cattolici di particolare qualità, come De Gasperi e Moro, ebbero talvolta rapporti difficili con la gerarchia ecclesiastica circa scelte essenziali e strategiche nella loro azione politica, oggi, specie negli ultimi tempi, assistiamo allo spettacolo poco edificante di una politica, anche dei cattolici, divenuta veicolo di diffusione in gran parte di forme di presenza, magari formalmente riferite ai principi cristiani, ma lontane da una loro testimonianza autentica e di segno anticonciliare. L’esito complessivo di tale processo, accanto al permanere di una presenza largamente minoritaria di cristiani autentici, peraltro quasi sempre politicamente ai margini, è che l’incidenza dei cattolici nel processo politico risulta sempre più insignificante, quando non si riduce a copertura ideologica di posizioni del tutto lontane dallo spirito del Vangelo. Una situazione di particolare gravità che chiama in causa gli stessi vescovi, che nel nostro Paese, nonostante gli stimoli e le sollecitazioni di alcune voci profetiche, hanno in generale non sempre compreso il significato e il valore della politica per il futuro umano e civile dell’Italia, e tenuto nei confronti del potere politico un atteggiamento informato in prevalenza a rapporti diplomatici, accontentandosi troppo spesso che il ruolo dei cattolici si limitasse ad una adesione di massima ai valori cristiani. Oggi, nella situazione di crisi e di grande trasformazione del Paese, operare per ridare senso, valore e risultati concreti al ruolo dei cattolici in politica diventa un problema di tutta la Chiesa. Nel rigoroso rispetto della laicità della politica e delle distinte funzioni dei diversi soggetti, ognuno deve è chiamato a dare un concreto contributo per rendere il ruolo dei cattolici fattore positivo nella costruzione di un futuro di benessere e di pace dell’Italia.
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Punta de billete, Save the date, Prendi nota. Venerdì 17 marzo pv, presso l’aula magna della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, di pomeriggio/sera è previsto un Convegno su La Chiesa oggi in Italia (titolo da definire). Tra gli organizzatori il gruppo “Amici in cammino sinodale – Amici sardi in cammino sinodale”. A presto per tutti i dettagli.
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Emergenza/Disastro Sanità

sanita
di Fiorella Farinelli*
Coprono i buchi di organico, fanno turni notturni e festivi di 12 ore filate, operano in luoghi spesso difficili, cambiano frequentemente sede, non hanno contratti stabili, ferie e malattia sono a loro carico. Il ritratto perfetto dei «lavoratori poveri», quelli con retribuzioni insufficienti che a quel tipo di prestazione sono costretti in mancanza di meglio. Ma non è così per la maggioranza dei «gettonisti» della sanità, i tanti medici a cui da qualche tempo ricorrono le Asl e gli ospedali che non hanno abbastanza anestesisti per le sale operatorie e le terapie intensive, specialisti in medicina d’urgenza per i pronto soccorso, ostetrici, ginecologi, pediatri ed altri profili. A fornirli, a caro prezzo, sono cooperative che ingaggiano neolaureati, pensionati, professionisti privati che «arrotondano», e tanti altri che nel servizio sanitario pubblico non vogliono entrare o che lo abbandonano perché stremati dal troppo lavoro degli anni del Covid, dalle ferie non godute, dagli straordinari sottopagati, dai turni resi massacranti dai deficit di organici, da retribuzioni considerate troppo basse rispetto alle aspettative maturate in un percorso di formazione generale e specialistico di almeno undici anni. Dal punto di vista economico è in effetti un affare. Conti alla mano, e calcolando i 267 giorni annuali di lavoro con turni giornalieri di 6 ore e 20 minuti, un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 Euro lordi l’ora, un medico a gettone una media di 87. Se il primo arriva a una retribuzione annuale di 85.000 Euro, al secondo bastano 84 turni (di 12 ore) per arrivare a 87.000. Grazie alla flat tax introdotta dalla legge di bilancio 2023 che dà importanti vantaggi fiscali ai lavoratori autonomi, pagherà inoltre anche meno tasse, a parità di stipendio, dei colleghi che sono lavoratori dipendenti.

i rischi per i pazienti
Ci sono rischi per i pazienti. Manca infatti ancora una regolamentazione nazionale che assicuri buoni ed omogenei standard di efficienza e qualità. Quindi la lucidità, la prontezza, la capacità di adattarsi all’organizzazione, la competenza diagnostica e operativa del medico turnista dipendono dalla serietà delle cooperative. Di dubbi ce ne sono tanti. Una recente indagine dei Nas che tra novembre e dicembre scorso ha svolto verifiche a campione su più di 1500 medici delle cooperative in tutta Italia, ha trovato parecchie cose che non vanno, medici arruolati senza le giuste competenze, dipendenti di altri ospedali che fanno i doppi turni di nascosto per fare un po’ di soldi, medici ultrasettantenni, giovani inesperti. La medicina pubblica perde ogni giorno in umanità e attenzione alle persone, la discontinuità delle prestazioni minaccia la bontà delle diagnosi e delle cure. Secondo un’indagine di Report (corriere.it), il fenomeno è molto esteso. Nel 2022 solo i turni appaltati in quattro regioni del Nord (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) sono stati più di 100.000. Con costi altissimi per le casse regionali. Ciononostante, i prontosoccorso sono ingorgati e le liste di attesa lunghissime. Ogni giorno le cronache danno conto di pazienti esasperati e il personale più esposto chiede presidi delle forze dell’ordine, telecamere di sorveglianza, perfino corsi di autodifesa. E molti malati, sempre di più, devono ricorrere alla medicina privata, o rinunciare alle cure.

la carenza di specialisti ed infermieri
Le cause sono note, ma i rimedi sono una sfida ancora terribilmente incerta, di sicuro non rapida, difficilmente risolutiva. Perché la crisi è sistemica, e risolverla richiede una svolta insieme politica, finanziaria, organizzativa che ancora non si vede. A differenza di quello che spesso si dice, in Italia non ci sono meno medici rispetto ad altri Paesi europei (4,1 ogni 1000 abitanti, un tasso superiore a Francia, Germania, Regno Unito), mancano semmai i profili meno attrattivi delle postazioni più stressanti, come la medicina d’urgenza, gli anestesisti, gli specialisti in rianimazione, che non consentono la combinazione tra lavoro dipendente e autonomo e non prevedono agevoli percorsi di carriera, il personale medico si concentra inoltre nelle aree urbane lasciando sprovvisti i piccoli centri, le differenze territoriali sono molto consistenti. Le carenze numeriche più gravi riguardano il personale infermieristico, 5,4 su 1000 abitanti (in altri Paesi il tasso è di molto superiore, in Svizzera più del doppio). Ma il drammatico sottofinanziamento delle aziende sanitarie e il Patto di stabilità che nel 2009 ha bloccato la spesa pubblica sanitaria al livello del 2004 hanno fatto perdere al Servizio nazionale, tra il 2010 e il 2018, 45.000 unità di personale, solo parzialmente recuperato con le 17.000 assunzioni in deroga per l’emergenza Covid. Il tetto alle assunzioni è comunque ancora in vigore, le retribuzioni sono significativamente più basse che in altri Paesi europei, la contrattazione collettiva (sono tre i contratti per i 700.000 sanitari in forza al servizio pubblico) è sempre in grave ritardo, siamo nel 2023 e si sono appena stipulati accordi relativi al 2019-21. Il resto lo hanno fatto i pensionamenti anticipati, la «grande fuga» dal servizio pubblico del dopo Covid, l’incremento dei costi delle forniture e dell’energia spinto dall’inflazione e dalla guerra in Ucraina.

la scarsità delle risorse e la speranza del pnrr
Le risorse del Fondo Sanitario nazionale, tra quello che si è perso e quello che si è recuperato, sono state e restano insufficienti ad assicurare una crescita normale della spesa sanitaria, richiesta anche dall’invecchiamento della popolazione e relativo incremento del bisogno di cure specialistiche e terapie riabilitative lunghe e costose. Alcune Regioni corrono ai ripari, oltre che appaltando all’esterno parte dei servizi, anche introducendo indennità per il personale dipendente, lo fanno soprattutto quelle a statuto speciale come Val d’Aosta, Trento e Bolzano, Friuli che hanno più autonomia organizzativa e di spesa, ma anche in Veneto ci sono incentivi per frenare le fughe verso condizioni di lavoro e retributive migliori (ma intanto molti infermieri del Nord della Lombardia vanno a lavorare in Svizzera). La strategia più importante che è stata delineata, decisiva per allentare l’impatto sulle strutture ospedaliere, è quella, finanziata con i 20 miliardi del Pnrr, del potenziamento della medicina generale e della pediatria di base. La cosiddetta medicina di «prossimità» a più bassa intensità e complessità di diagnosi e di cura che passa attraverso la costituzione di 1430 «Case di comunità sanitaria», che si stanno in effetti costruendo, ristrutturando e anche inaugurando in tutta Italia. Ma per renderle tutte funzionanti H24 e sette giorni alla settimana, ci vorrà del tempo, e forti investimenti in attrezzature sanitarie e in personale. Perché al loro funzionamento dovranno concorrere anche i medici cosiddetti di famiglia che, come si è visto nelle fasi acute della pandemia, sono anch’essi un comparto in piena crisi, di numeri, efficienza, nuovi ingressi. Non solo perché i neolaureati accedono sempre meno a questi percorsi di specializzazione ma perché va radicalmente modificato il modello di impiego attualmente vigente, quello per cui il medico di base è un professionista in rapporto convenzionato con le Regioni, con un obbligo di presenza in studio limitato a sole 15 ore settimanali su cinque giorni che lascia i malati privi di assistenza di notte, nei giorni festivi e prefestivi. Un corpo professionale invecchiato che opera in sedi per lo più sprovviste dei più elementari strumenti diagnostici, che deve sbrigare una quantità enorme di richieste di prescrizione farmaci e di visite specialistiche, che può avere fino a 1.500 pazienti e qualche volta ne ha molti di più. Nelle «Case di comunità» dovranno esserci anche loro, oltre a specialisti di vario tipo, infermieri, tecnici di laboratorio, amministrativi. Occorrono quindi nuove modalità di impiego, nuove assunzioni, nuove forme di integrazione tra diversi servizi sanitari e di interazione tra questi e i servizi sociali. Un disegno non impossibile, che promette un importante rilancio e riqualificazione del servizio sanitario nazionale e della professione medica che potrebbe rimotivare molti giovani medici. Perché il livello di retribuzione è una cosa importante ma non è tutto, conta anche l’orgoglio del lavoro ben fatto, la soddisfazione di essere messi nelle condizioni di crescere professionalmente, di poter essere fedeli ai principi di un servizio essenziale e davvero universalistico, di contribuire a un bene comune su cui si fonda il sentimento stesso di appartenenza a una comunità di eguali.

il ritardo nella consapevolezza politica
A che punto siamo? Dopo la terribile stagione del Covid, che ha messo a durissima prova gli ospedali pubblici ma ha anche reso del tutto evidente alla pubblica opinione la straordinaria importanza di una sanità capace di misurarsi sia con l’emergenza che con la normalità, erano in molti ad aspettarsi che le sue criticità, già acute prima della pandemia, fossero messe finalmente al centro dell’azione politica. Non è andata così. La legge di bilancio per il 2023 presenta ancora una volta un finanziamento della sanità largamente inadeguato e, quel che è forse ancora peggio, una scarsa consapevolezza della gravità dei suoi problemi. Come tutti gli osservatori indipendenti hanno fatto osservare, mancano 1 miliardo e 200 milioni all’indiscutibile e preliminare obiettivo di preservare il suo potere d’acquisto dall’impatto dell’inflazione e dell’incremento dei costi energetici. Non solo. Non è stato rimosso il tetto di spesa che impedisce l’assunzione di nuovo personale, in primis infermieristico, non ci sono risorse per intervenire sul disagio dei settori più in difficoltà come la medicina d’urgenza, per asciugare le liste di attesa, per aggiornare l’elenco e gli standard delle prestazioni essenziali, per definire con le Regioni il nuovo Patto per la Salute 2022-24 che dovrebbe accompagnare e supportare l’attuazione della strategia del Pnrr sulla medicina territoriale. «Si poteva fare di più», ha riconosciuto la presidente del consiglio Meloni. Appunto. Ma come si spiegano, in questo quadro, gli investimenti a favore del calcio, i vantaggi fiscali a certe categorie, i pensionamenti anticipati che premiano alcuni gruppi e così via? La tempesta resta perfetta, e i rischi per la coesione sociale del Paese non possono che acuirsi. Almeno finché, anche in altri luoghi della politica, a partire da quelli territoriali, non ci si decida a cambiare passo, priorità, idee, linguaggio.

* Fiorella Farinelli su Rocca n.4 del 15 febbraio 2023.
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E in Sardegna?
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Sanremo: non sono solo canzonette
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Zelensky a Sanremo? No! Invece messaggi di Pace.
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna

Da tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.
[segue]

La guerra vicina, che già ci coinvolge

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Pagliarulo ANPI: “Siamo vicini a scenari catastrofici, dovremo essere in tanti alle nostre manifestazioni con Europe for Peace del 24/26 febbraio”
4 Febbraio 2023

Lettera del Presidente nazionale ANPI agli iscritti all’Associazione: “La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani”

Care amiche e cari amici iscritti all’ANPI, care compagne e cari compagni,

vi invio questo messaggio che, mi rendo conto, è piuttosto inusuale, perché vorrei farvi partecipi di una preoccupazione, meglio, di un vero allarme per quello che sta succedendo e che può succedere in un prossimo futuro nel nostro Paese, in Europa, nel mondo.

Come avevamo previsto nel nostro Congresso nazionale nel marzo dell’anno scorso, stiamo assistendo all’impazzimento della guerra avviata dalla irresponsabile invasione russa dell’Ucraina. Da quel momento abbiamo assistito a una continua escalation con una tragica espansione di vittime e di distruzioni.

Ma ciò che sta avvenendo da qualche settimana avvicina ancora di più la possibilità di scenari catastrofici. Da un lato la Federazione russa aumenta costantemente il numero di militari e di armamenti in Ucraina intensificando gli attacchi e i bombardamenti; dall’altro crescono i rifornimenti militari occidentali al governo ucraino con armamenti sempre più offensivi. Dall’Europa e dall’America arriveranno vari tipi di carri armati; Zelensky chiede i cacciabombardieri F16 e i sommergibili; si riparla sempre più in modo irresponsabile dell’uso di armi nucleari “tattiche”. In questa situazione il ministro della Difesa Crosetto si è spinto a dire che se i russi arrivano a Kiev scoppia la terza guerra mondiale.

Dall’Iran ad Israele ai territori palestinesi alla Siria vengono notizie di un incendio che dilaga.

Le spese di riarmo crescono in modo osceno ovunque, come avvenne prima delle due guerre mondiali, mentre i governi europei – compreso il nostro – diventano sempre più autoritari verso chiunque si permetta di criticare questa mostruosa deriva bellicista, nonostante i sondaggi dicano che la maggioranza degli italiani (e anche degli europei) è contraria all’invio di armi e all’intervento della NATO. Nelle carceri russe sono reclusi centinaia e centinaia di dissidenti ed una durissima repressione è in corso in Russia ormai da molto tempo.

Intanto a causa del gioco fra sanzioni e controsanzioni è aumentata l’inflazione a livelli sconosciuti nel nuovo secolo, il costo dell’energia ha generato difficoltà enormi ad imprese e famiglie ed in generale sono peggiorate le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini europei e italiani.

Non basta: il presidente degli Stati Uniti e il segretario generale della NATO indicano nella Cina il prossimo e più potente nemico da affrontare, se necessario, anche sul piano militare.

Anche di questo discuteremo nell’assemblea nazionale dell’ANPI che svolgeremo fra pochi giorni a Cervia; ma ci tenevo ad anticiparvi un quadro drammatico a cui non si può rispondere né con la rassegnazione né col fatalismo. Occorre razionalmente prendere atto di questa realtà e di impegnarsi in ogni modo per contrastarla, per far andare indietro le lancette dell’ora X della guerra nucleare, che nei giorni scorsi gli scienziati del mondo hanno immaginato alla metaforica e ravvicinatissima distanza di 9 minuti.

C’è bisogno dell’impegno consapevole, piccolo o grande che sia, da parte di tutte e di tutti, per fermare il treno della follia e della morte che sta correndo a tutta velocità verso l’autodistruzione.

Per questo mi permetto di invitarvi a partecipare ad ogni iniziativa che abbia come obiettivo finale il ristabilimento della pace. L’impegno più immediato è per il 24 febbraio, primo anniversario dell’invasione russa, e per i due giorni successivi. Si svolgeranno manifestazioni in tante capitali europee. In queste tre giornate l’ANPI darà vita assieme a Europe for Peace a una rete di iniziative locali in tutta Italia. Ma non ci fermeremo qui. Cercheremo sempre la più larga unità con tutti coloro che, pur con opinioni diverse sulle responsabilità di questa guerra, sull’invio o meno di armi, sull’erogazione o meno di sanzioni, condividano il nostro allarme attuale: fermiamo la guerra.

L’ONU deve essere la sede istituzionale necessaria, il suo Consiglio di Sicurezza è lo spazio per tracciare la strada verso un trattato internazionale che ponga fine alla guerra e ristabilisca un pacifico ordine mondiale.

L’ANPI propone che il governo italiano e l’Unione Europea avanzino finalmente una seria proposta di avvio di negoziati, cosa mai avvenuta fino ad oggi, per trovare un realistico punto di incontro fra le parti e comunque per frenare la frenetica escalation in corso; propone una Conferenza internazionale per concordare la sicurezza di tutti i Paesi coinvolti; propone che si avvii la smilitarizzazione dei confini fra la Russia e gli altri Paesi europei con l’obiettivo di una progressiva diminuzione di tutti gli armamenti nucleari; propone, in sostanza, di ricostruire un clima di coesistenza pacifica e di collaborazione fra gli Stati e i popoli in Europa e nel mondo.

La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani.

Lo ha detto Papa Francesco: “Questa guerra è una follia”. Aiutiamoci tutti, l’uno con l’altro, a fermarla. Ne va del futuro dell’umanità.

Un abbraccio,

Il Presidente nazionale dell’ANPI
Gianfranco Pagliarulo

1 febbraio 2023

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Non sono solo canzonette
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna

Da tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.

Proprio per questa sua funzione mediatico-popolare, ci inquieta profondamente apprendere che, in una delle serate clou dell’evento, presumibilmente sabato 11 febbraio, interverrà Volodymyr Zelenskij, capo di Stato di uno dei due paesi che oggi si affrontano in una guerra sanguinosa e atroce. Da Zelensky, impegnato in una guerra senza quartiere contro la Russia per conto della NATO e degli USA, possiamo attenderci solo parole di esaltazione della guerra e di odio mortale contro il nemico. Un odio così profondo da fargli rifiutare ogni negoziato e accettare qualunque sacrificio della sua gente per prolungare la guerra, inseguendo il sogno di una vittoria impossibile contro una potenza nucleare. In questo modo in una manifestazione di cultura popolare verrebbe innestata una assurda apologia della guerra. Durante il fascismo si educavano le giovani generazioni con lo slogan “libro e moschetto”, adesso rischiamo di orientare la cultura popolare verso l’esaltazione della guerra. Dal 24 febbraio dell’anno scorso i principali mass media hanno indossato l’elmetto e ogni giorno hanno cercato di anestetizzare nella coscienza collettiva l’orrore dei massacri, riabilitando la guerra come cosa buona e giusta, con una campagna martellante per arruolare l’opinione pubblica nel conflitto attraverso l’identificazione manichea amico/nemico. Questa propaganda di guerra a reti unificate non ha avuto un effetto travolgente se il popolo italiano, a differenza di altri popoli europei, resta in maggioranza contrario all’invio di armi e all’incremento delle spese militari. Sanremo, evidentemente, è un’occasione ghiotta per accrescere l’influenza del pensiero unico sulla guerra nella coscienza popolare.

Da più parti si sono levate voci contrarie alla partecipazione di Zelensky a Sanremo, anche da parte di esponenti del partito della guerra. La motivazione prevalente è che non è accettabile mischiare la guerra con i cugini di campagna, che non si può accostare il sacro (l’orrore della guerra) con il profano (le canzonette). Ebbene, non è questo il problema. Sanremo e gli altri eventi musicali non sono solo canzonette. Da sempre attraverso la musica (e le parole) vengono trasmessi sentimenti profondi che albergano nell’animo umano, non solo l’amore in senso erotico, ma anche l’amore per l’umanità, la compassione per le sofferenze causate dalle guerre, la speranza collettiva per una società liberata dagli oltraggi della violenza e del potere, l’aspirazione profonda alla pace che unisce gli umani al di là delle bandiere. Possiamo forse dimenticare che la lotta dei giovani americani contro la guerra nel Vietnam è stata scandita sulle note di Where have all the flowers gone, cantata da Joan Baez e di Blowing in the wind, cantata da Bob Dylan? Temi e sentimenti ripresi anche da interpreti italiani, come Gianni Morandi, con C’era un ragazzo, che ha portato il ripudio della guerra anche nel mondo delle canzonette. Possiamo dimenticare l’insegnamento poetico di Fabrizio De André con motivi intramontabili come La guerra di Piero o Se verrà la guerra? (Girotondo)
Gli stessi sentimenti sono stati interpretati e resi popolari dal poeta e cantautore Vladimir Semënovič Vysockij, con la sua canzone Dal fronte non è più tornato, mirabilmente interpretata in italiano da Eugenio Finardi, che esprime lo sgomento per la vita dei giovani sacrificati in guerra. Infine l’aspirazione dell’umanità alla pace e il sogno di un mondo libero da ogni oppressione non poteva essere meglio espressa che da Imagine di John Lennon, un vero inno internazionale alla pace.

In questi tempi oscuri in cui si costruiscono nuovi cimiteri a ritmo forsennato e due popoli fratelli sono precipitati in un vortice di distruzione e morte, da un evento musicale importante come Sanremo ci saremmo aspettati non messaggi preregistrati di propaganda bellica, ma parole di speranza, come quelle di Fabrizio De André: «Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente».

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CHE FARE?
Il tempo delle rivolte

23-01-2023 – di: Marco Sansoè su Volerelaluna.

Anche qui come altrove nel mondo occidentale la democrazia sembra assumere le forme di un sistema ambiguo e vuoto di prospettive. Pare che la società contemporanea non abbia più bisogno delle garanzie della democrazia, anzi una democrazia autoritaria e armata pare lo strumento più efficace per dare forza all’accumulazione capitalista. La precarizzazione del lavoro, la frammentazione della società, le piazze digitali dei social media, le piazze fittizie dei centri commerciali, la gentrificazione delle città, i sistemi di videosorveglianza, tracciamenti telematici e Big Data, il daspo e i divieti preventivi alle manifestazioni politiche sembrano le normali pratiche di gestione della vita quotidiana dei cittadini: strumenti per il controllo personale, politico e sociale. La politica appare lo strumento di gestione di piani economici globali internazionali oppure l’operatrice del controllo sociale ravvicinato. Esibizione autoreferenziale di un potere che risponde a interessi economici diversi e si riproduce attraverso un consenso elettorale sempre più ristretto ma garantito dalle alchimie istituzionali dei premi di maggioranza.

Da qualche tempo partecipa alle elezioni poco più della metà degli aventi diritto; governano coalizioni che non rappresentano la metà +1 degli elettori, perché le leggi elettorali attribuiscono ai vincitori più peso parlamentare di quello che gli è stato dato dai cittadini. La coalizione che governa oggi in Italia non ha ottenuto il 50%+1 dei consensi ma occupa 2/3 del Parlamento; il partito di maggioranza relativa ha ottenuto più o meno il 16% dei consensi degli aventi diritto al voto, ma occupa un terzo circa dei seggi parlamentari. Se questi sono “i trucchi” per tenere in vita la democrazia rappresentativa è evidente che c’è qualcosa che non va. Se poi al Parlamento vengono sistematicamente sottratte le proprie funzioni, impedendo che sia il luogo della discussione e del confronto sulle leggi, relegando la discussione alle Commissioni parlamentari e ricorrendo poi al voto di fiducia (come sta avvenendo da molto tempo), di quale democrazia rappresentativa stiamo parlando?

La politica si avvita su se stessa, si associa, si separa, si mescola, si traveste con il solo obbiettivo della governabilità. Ha perso l’orizzonte del progetto di trasformazione o anche solo di riforma, si addestra esclusivamente alla gestione del compito prestabilito, che passa uguale di governo in governo, dando vita a un’oligarchia, solo in superficie multiforme, presente a vari livelli nelle istituzioni politiche, economiche e giudiziarie. Così la tecnica sostituisce la politica perché il suo compito è solo quello di soddisfare le compatibilità del sistema: la libertà del mercato, la competizione, la meritocrazia, l’identità nazionale, la fedeltà atlantica; e di far rientrare nei ranghi ciò e chi sta fuori, per mantenere intatto il quadro generale. Non serve nemmeno più lo sforzo di produrre una ideologia che giustifichi tutto questo, ci pensa il mercato con la sua forza di persuasione e il potere pervasivo dei media digitali. La politica è morta, sostituita da un meccanismo di comando che discende direttamente da quelli che vengono considerati gli interessi del sistema. Il popolo non è più il fondamento della democrazia, è una variabile dipendente dalle scelte dominanti, espresse da una vasta oligarchia senza cultura, omologata e modulare.

La crisi dei partiti ha aperto la crisi della democrazia rappresentativa: un processo irreversibile che ha bisogno di risposte coraggiose. Ormai sono molti quelli che pensano che l’unico “voto utile” sia quello di non andare a votare. Una decisione sofferta, soprattutto per chi crede nella forza culturale e politica della nostra Carta costituzionale, ma necessaria. Un ultimo grido di dolore e di rivolta nei confronti della politica così come si manifesta nei palazzi diffusi nel paese, nei quali si esercita in vario modo il potere.

Si deve avere il coraggio di dichiarare che si è chiuso un ciclo storico, quello nato dalla Rivoluzione francese, che ha dato vita ai partiti, alle istituzioni democratiche, alla democrazia rappresentativa. La politica deve essere riscritta, non può più essere intesa come uno strumento o una pratica di gestione del potere. Bisogna ricercare, con rigore e fantasia nuove forme di democrazia e percorrere strade, anche inesplorate, che possano garantire la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Ma non ci sono tavoli intorno ai quali si possa ricomporre un nuovo disegno democratico o ricostruire coalizioni politiche. Solo la pratica dei conflitti, capace di tenere insieme persone, bisogni e territori, può aprire spazi alla costruzione di nuove pratiche democratiche partecipate e disarmate. Solo le rivolte possono mettere fine al declino della democrazia e dare spazio ad esperienze capaci di riscrivere i contorni della politica. Ma le rivolte non si programmano, non hanno luoghi in cui si decidono, non hanno “gruppi dirigenti” né “avanguardie” che le guidino. Le rivolte stanno dentro le classi, dentro i gruppi sociali che vivono una comune condizione, che hanno un desiderio e/o uno scopo. Si possono mettere insieme le persone, averne cura, comprendere le condizioni comuni, far crescere i desideri, condividere le esperienze, praticare la critica della società contemporanea, dare vita ai conflitti, aprire vertenze, lottare, dare corpo alle rivolte. Questo si può fare. I tempi della politica che cambia sono lunghi, non hanno scorciatoie, sono da inventare, saranno difficili.

In testa, proposto da Volerelaluna: Honoré Daumier, La rivolta, 1860, olio su tela, Phillips Collection, Washington

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