Risultato della ricerca: reddito di cittadinanza

Costituzione via Maestra. Grande Manifestazione a Roma

img_4024“La Via Maestra”. Una grande manifestazione il 7 ottobre 2023

Oggi sabato 7 ottobre si terrà a Roma la grande manifestazione nazionale de “La Via Maestra” indetta, tra gli altri, dalla Cgil e a cui hanno aderito centinaia di organizzazioni: due cortei (il primo da piazza della Repubblica, il secondo da piazzale Ostiense) confluiranno alle 15.00 a piazza San Giovanni dove parleranno i rappresentanti della Cgil e gli esponenti delle associazioni e delle campagne. Per sottolineare l’importanza della manifestazione pubblichiamo l’appello su cui è stata organizzata. (la redazione)

La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne), a partire da:

► il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità – fulcro di un modello di sviluppo sostenibile fondato su nuove politiche industriali – superando la precarietà dilagante, contrastando il lavoro povero e sfruttato, aumentando i salari, col rinnovo dei contratti, e le pensioni oltre al superamento della Legge Fornero. È il momento di introdurre il salario minimo, dare valore generale ai contratti, approvare la legge sulla rappresentanza, strumenti essenziali per contrastare i contratti pirata;

► il diritto alla salute e un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario pubblico, solidale e universale, a cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e valorizzare il lavoro di cura; investimento sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà e valorizzi le professionalità; sostegno alle persone non autosufficienti; tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della prevenzione. Solo così si garantisce la piena applicazione dell’articolo 32 della Costituzione;

► il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e tutte e per tutto l’arco della vita.

► il contrasto a povertà e diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale, garantendo il diritto all’abitare e un reddito per una vita dignitosa. Il Governo va in altra direzione e cancella il reddito di cittadinanza lasciando tante persone senza alcun sostegno;

► il diritto a un ambiente sano e sicuro in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi. Per questo è grave aver tolto dal PNRR le risorse sul dissesto idrogeologico, tanto più a fronte delle alluvioni che hanno colpito alcune regioni del Paese e di una crisi climatica che va affrontata con una transizione ecologica fondata sulla difesa e valorizzazione del lavoro e di un’economia rinnovata e sostenibile;

► una politica di pace intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione civile e nonviolenta.

Questi diritti possono essere riaffermati e rafforzati solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più per garantire a tutti e a tutte un sistema di welfare pubblico e universalistico che protegga e liberi dai bisogni, a cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile. Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia «nell’interesse delle future generazioni», come recita l’art. 9 della nostra Costituzione.

Questo modello sociale – fondato su uguaglianza, solidarietà, accoglienza, e partecipazione – costituisce l’antitesi del modello che vuole realizzare l’attuale maggioranza di Governo con le prime scelte che ha già compiuto e, soprattutto, con le misure che si appresta a varare, a partire da quelle che – se non fermate – sono destinate a scardinare le fondamenta stesse dell’impianto della Repubblica, come:

► l’autonomia differenziata, rilanciata con il disegno di legge Calderoli, che porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori;

► il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) che ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.

La Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – nel riconoscere il lavoro come elemento fondativo, la sovranità del popolo, la responsabilità delle istituzioni pubbliche di garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone, i diritti delle donne, il dovere della solidarietà, la centralità della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – ha delineato un assetto istituzionale che, attraverso la centralità del Parlamento, fosse il più idoneo ad assicurare questi principi costitutivi e a realizzare un rapporto tra cittadini/e e istituzioni che non si esaurisce nel solo esercizio periodico del voto ma si sviluppa quotidianamente nella dialettica democratica e nella costante partecipazione collettiva della rappresentanza in tutte le sue declinazioni politiche, sociali e civili.

Per contrastare la deriva in corso e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che – a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno – rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando.

Per queste ragioni e a sostegno dell’insieme delle proposte indicate, ci impegniamo a realizzare il 7 ottobre una grande manifestazione nazionale a Roma per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.

Per tutto il materiale: collettiva.it/speciali/la-via-maestra
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(Da Volerelaluna)

Alessandra Todde: un endorsement* convinto, seppur non richiesto.

img_3442di Franco Meloni
img_4411Per formazione e vita politica ultracinquantennale, sempre a sinistra, sono stato e sono tuttora distante dal Movimento 5 Stelle, che ho votato solo una volta per la credibilità di un amico candidato. Non mi è quasi mai piaciuto il Movimento – a cui peraltro riconosco meriti storici (tra questi il reddito di cittadinanza, pur migliorabile) – soprattutto nella sua fase di straordinario successo e consenso popolare. Oggi, dopo varie debacle che lo hanno ridimensionato, devo dire che mi è più simpatico, forse perché nel bene si è riorganizzato come un normale partito, anche nel male: vero, ma di questo non voglio parlare. Fatta questa premessa, mi sento libero e non attaccabile di partigianeria per le cose che di seguito dico. L’argomento è “elezioni sarde” e specificamente la “scelta del candidato/a alla presidenza della regione”. Bene, io credo, anzi ribadisco, che la priorità da dare negli incontri dell’alleanza di centro-sinistra sia allo stato attuale la scelta del candidato/a. Perché è lui (o lei) che deve condurre le trattative per la definizione del programma e l’indicazione dei criteri per la formazione delle diverse liste, partendo da una fondamentale base comune e nel rispetto delle differenze delle diverse liste in coalizione, compatibili con la stessa. Le persone in grado di assumere questo importantissimo ruolo vi sono eccome. Ne elenco alcune in ordine alfabetico: Piero Comandini, Desirè Manca, Paolo Maninchedda, Graziano Milia, Alessandra Todde, e tanti altri/e. Tuttavia dichiaro che la mia preferenza va a Alessandra Todde. E poco mi importa che il suo nome sia gradito e suggerito dalle segreterie romane dei partiti italiani. Che problema ci sarebbe? Lesa maestà per i sardi? Ma non scherziamo. Ricordo che Emilio Lussu e altri proposero alla Consulta sarda e all’Assemblea costituente italiana che la Sardegna adottasse lo Statuto siciliano, stante la perentoria scadenza che vedeva i rappresentanti della Sardegna non concordi su uno Statuto cucinato in proprio. Apriti cielo! Come si sa, andò a finire che per la Sardegna fu adottato uno Statuto di gran lunga meno autonomista di quello siciliano! Nel nostro caso la scelta “romana” dovrebbe/potrebbe coincidere con quella autonoma sarda. Questo è il img_4403mio auspicio. Non ne siete convinti? Ovviamente legittimo, ma prima di esprimere la vostra opinione definitiva, per favore leggete il curriculum vitae di Alessandra Todde (lo trovate su Wikipedia e comunque lo riporto più avanti). Unito alla sua esperienza e alle sue posizioni politiche di dominio pubblico, per me basta e avanza!
Alessandra Todde su Wikipedia
Biografia
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Nata il 6 febbraio 1969 a Nuoro, si è laureata in Ingegneria informatica all’Università di Pisa e, dopo aver conseguito una laurea magistrale, ha vissuto per 11 anni negli Stati Uniti, dove si è occupata di energia ed evoluzione digitale.

È morto Domenico De Masi

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Oggi 9 settembre è morto a Roma Domenico De Masi. Aveva 85 anni. Sociologo di fama internazionale, era molto conosciuto e apprezzato, anche in Sardegna, dove aveva insegnato all’Universita’ di Sassari e dove spesso veniva per occasioni di convegni, soprattutto a Cagliari.
Di lui fa un “ricordo” Franco Meloni, che lo ha incontrato diverse volte a Roma e a Cagliari.
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Mi rattrista molto la morte di Domenico De Masi, sociologo di rilievo internazionale, lucido intellettuale, sempre aperto all’innovazione e capace di una formidabile produzione di pensiero, che lui metteva, come si diceva un tempo, “al servizio dei lavoratori e delle masse popolari”. Dotato di uno spiccato senso dell’ironia, molto napoletano, facile alla battuta fulminante, aveva poi il gusto della provocazione, solo apparentemente innocente e non sempre capita dall’interlocutore.

Oggi domenica 27 agosto 2023

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Regionali: l’unità contro la destra e la difesa dei principi
27 Agosto 2023
A.P. su Democraziaoggi
In Sardegna, in vista delle elezioni regionali del prossimo febbraio si ripropone in piccolo il tema che ha agitato la sinistra e le forze democratiche in passaggi cruciali della storia. Basta ricordare che la stessa lotta al fascismo fu caratterizzata nella fase iniziale dalla teoria del socialfascismo, e cioè erano sostanzialmente filofascisti quanti non si […]
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La strada maestra di Sbilanciamoci! a Como venerdì 1° e sabato 2 settembre 2023
25.08.23 – Como – Ecoinformazioni e su Pressenza.

Oggi lunedì 7 agosto 2023

img_3099 Reddito e Pnrr, se la destra scopre le carte
7 Agosto 2023
Massimo Villone su Democraziaoggi
Le scelte che negli ultimi giorni da Palazzo Chigi hanno
colpito i percettori del reddito di cittadinanza e i
progetti di molte amministrazioni locali volti soprattutto a
riqualificare periferie degradate e difficili danno il segno di
qual è l’indirizzo di un governo di destra. È un segno
chiaro: gli ultimi rimangano tali.
A Napoli la tensione è rimasta alta. E […]
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Oggi venerdì 4 agosto 2023

img_3099 Tridico: «Meloni fa una cinica guerra ai poveri»
di Massimo Franchi.

30 Luglio 2023 | Sezione: Lavoro, Nella rete e su Sbilanciamoci.
Il «padre» del Reddito di cittadinanza: il governo cancella l’unico sussidio esistente a 600 mila persone. E si tagliano 4 miliardi. Oltre ai 250 mila di venerdì, dal 2024 altri 350 mila perderanno ogni tutela. E la «presa in carico» promessa è una presa in giro. Da il manifesto.
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Verso il baratro – Difendiamo la Costituzione

f7186f23-aa17-47cd-af69-66f402df157fRipudiare la pace e giocare a scacchi con la morte
08-05-2023 – Domenico Gallo su Volerelaluna.
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L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico. Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali. Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399). Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.

L’art. 11 della Costituzione è una disposizione complessa: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È formata da tre proposizioni collegate all’interno dello stesso periodo. Essa contiene una norma di scopo (che vincola la Repubblica italiana a perseguire la pace e la giustizia fra le Nazioni) e tre norme strumentali (il ripudio della guerra, l’accettazione di limitazioni di sovranità finalizzate alla pace e alla giustizia e il favore per le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo). Il ripudio della guerra, come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, non è separabile dall’impegno per la pace e la giustizia fra le Nazioni, o meglio la costruzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni presuppone il ripudio della guerra, in conformità allo Statuto delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri ad astenersi dall’uso e dalla minaccia dell’uso della forza.

Sebbene sia intimamente legato all’identità dell’Italia, il principio pacifista di cui all’art. 11 è andato incontro a un progressivo deperimento, di pari passo con il progressivo imbarbarimento delle relazioni internazionali. Seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori, politici e giuristi hanno banalizzato sempre di più il principio pacifista, fino ad ipotizzare la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo). Con la prima guerra del Golfo (1991) si è cominciato a separare il ripudio della guerra dal resto della disposizione, leggendo il fine di favorire le organizzazioni internazionali come prevalente sul ripudio della guerra, e la guerra stessa è stata mascherata come operazione di “polizia internazionale”. Dopo lo scoppio della guerra, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è stato tirato in ballo il principio pacifista, letto alla luce dell’art. 51 dello Statuto ONU, che riconosce il diritto naturale di autotutela, individuale e collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, e dell’art. 52 della Costituzione, che pone la difesa della Patria come unica eccezione al ripudio della guerra. Quando l’Italia ha deciso di rompere la neutralità e inviare le armi all’Ucraina, molti giuristi, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, si sono levati per darci l’interpretazione giusta del principio pacifista e spiegarci che la partecipazione indiretta dell’Italia alla guerra è consentita, se non costituisce addirittura un obbligo costituzionale. Peccato che quando la NATO ha aggredito l’ex Jugoslavia nel 1999, bombardandola per 78 giorni, coloro che adesso impugnano l’art. 11 per legittimare le armi italiane, sono rimasti assolutamente silenti, hanno steso un velo pietoso sul principio pacifista, dimenticandosi persino della sua esistenza nel dibattito pubblico. Del resto, il Governo dell’epoca ha nascosto accuratamente la partecipazione dell’Italia alle missioni di bombardamento sulla Serbia. Soltanto qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato del contributo del nostro paese alla guerra. L’Italia ha partecipato ai bombardamenti con l’utilizzo di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato «115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16» (così Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002). Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati.

Da quando è iniziata la tragedia della guerra il 24 febbraio, non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. Dalla condanna unanime, secca e senza appello dell’aggressione russa all’Ucraina, si è passati velocemente all’acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Il dissenso non è tollerato perché giova al nemico. La narrazione ufficiale della guerra, imposta come pensiero unico è quella dello scontro di civiltà, dei regimi autocratici che odiano la democrazia e vogliono distruggerla.

La guerra non si combatte solo con le armi, da noi si combatte soprattutto con le parole della politica e dei media. Così l’ANPI, Associazione italiana dei partigiani, colpevole di non essersi accodata al coro bellico, viene tradotta dal Corriere della Sera in Associazione Nazionale Putiniani d’Italia. L’ANPI è fastidiosa perché tramanda il patrimonio morale della resistenza, ci ricorda il principio costituzionale del ripudio della guerra, una petizione di principio che Galli della Loggia non sapeva se qualificare «più bizzarra o più patetica», osservando sul primo numero di Limes (1993) che la norma sul ripudio della guerra: «cerca di cancellare il dato storico di ovvia evidenza che vede da sempre la guerra come il fuoco concettuale e pratico della politica internazionale […]. È come dire l’Italia ripudia l’esistenza dell’ossigeno». La favola della guerra come scontro fra la Democrazia e l’Autocrazia, ha come posta l’obiettivo di sdoganare la guerra come strumento ordinario e necessario della politica e quindi di ripudiare il ripudio della guerra: la guerra come ossigeno dei popoli, secondo Galli della Loggia.

Ovviamente non possiamo ignorare, il «diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite», riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU. Lo Statuto dell’ONU riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di Sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il Preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace. Tant’è vero che il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava il piano di pace in 15 punti che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Ebbene quella possibilità di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, realizzabile con il massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di USA, GB, UE e di altri paesi occidentali.

Dal 17 marzo 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina a un’aggressione altrui, ed è diventata una guerra in cui un’alleanza di oltre 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare a un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Eppure la Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo, non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è un evento diabolico che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. La pretesa della NATO, dell’UE e degli altri paesi della Santa alleanza occidentale di fornire un crescendo di aiuti militari all’Ucraina per consentirle di vincere rapidamente la guerra ha come unico sbocco la continuazione di una strage insensata e senza fine. Ciononostante ci stiamo muovendo verso un’intensificazione dello scontro militare. Gli ucraini prevedono il lancio di una controffensiva di primavera con l’obiettivo di travolgere le forze d’occupazione russe e di recuperare tutti i territori persi nel 2014, ivi compresa la Crimea, che da 9 anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Stiamo fornendo l’Ucraina di sistemi d’arma sempre più performanti, ma se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Senza volerlo e senza rendercene conto ci stiamo avviando sulla via per Harmageddon. Secondo l’Apocalisse gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia andarono dai Re di tutta la terra per radunarli «per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente». Essi radunarono i Re nel luogo che in ebraico si chiama Harmageddon (Apocalisse, 16,1). L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui. Per arrestare questa marcia verso Harmageddon, la cosa più urgente è fermare il conflitto in Ucraina, spegnere l’incendio prima che si estenda al resto del mondo.
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CHE FARE?
Dopo il 25 aprile in difesa della Costituzione. Un appello

08-05-2023 – Su Volerelaluna.

Il 78° anniversario della Liberazione dal nazifascismo si è svolto, quest’anno, a sei mesi di distanza dall’insediamento del governo più di destra della storia dell’Italia repubblicana. Il Governo Meloni, pur non rappresentando la maggioranza degli italiani (ma solo il 43% dei votanti e il 26% degli elettori), si è legittimamente insediato alla guida del nostro Paese grazie alla combinazione perversa di due fattori: un fattore istituzionale, rappresentato dall’iniqua quota maggioritaria prevista dalla pessima legge elettorale vigente, e un fattore politico, determinato dalla divisione e dalle ambiguità del cosiddetto “campo progressista” a fronte di una sostanziale unità del “campo reazionario”.

Tutti i primi atti del Governo Meloni e della maggioranza parlamentare che lo sostiene rivelano – pur tra pasticci e correzioni successive, dovute a dilettantismo, contraddizioni interne alla maggioranza o a veti europei – un disegno di restaurazione autoritaria sul piano socio-economico, istituzionale e culturale, che punta, più o meno esplicitamente, a stravolgere la nostra Costituzione: dalla scelta dei Presidenti di Camera e Senato, ai discorsi programmatici della Presidente del Consiglio e alle continue indifendibili esternazioni dei ministri Valditara, Piantedosi, Lollobrigida e del Presidente La Russa; dal decreto di regolamentazione delle ONG per ostacolarne le attività di salvataggio dei migranti alle mai chiarite responsabilità del drammatico naufragio di Cutro e al successivo decreto che, lungi dal prevenire analoghe tragedie e dal colpire i veri trafficanti, punta a restringere i criteri di assegnazione della protezione speciale; dal decreto anti-rave alla dichiarazione dello stato di emergenza per gli sbarchi; dalla manovra di bilancio al Documento di Economia e Finanza (DEF), che riducono la spesa per la sanità e per l’istruzione.

La Presidente del Consiglio ha ribadito più volte come obiettivo prioritario di questa legislatura una forma di presidenzialismo plebiscitario, che per sua natura tende a subordinare al potere esecutivo il potere del Parlamento e il potere giudiziario. Non a caso la riforma della giustizia prefigurata dal ministro Carlo Nordio tende a smantellare le garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura, per non parlare del grave abbassamento della guardia sul contrasto alla mafia e alla corruzione, conseguente al ridimensionamento delle intercettazioni, al nuovo codice degli appalti, alla disincentivazione dei collaboratori di giustizia e alla cancellazione dei reati commessi dai colletti bianchi, a riprova di un falso “garantismo” utilizzato strumentalmente in difesa delle classi dirigenti. Le norme antimafia, conquistate negli anni a caro prezzo, dopo gli omicidi e le stragi mafiose dei nostri martiri, vanno difese e applicate nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), e qualsiasi riforma della giustizia non deve intaccare il delicato equilibrio previsto nel titolo IV della Costituzione, che nel complesso garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e lo svolgimento di un “giusto processo”. D’altra parte la riforma fiscale prefigurata dalla flat tax contraddice il principio costituzionale di progressività del sistema tributario, esasperando le già crescenti disuguaglianze sociali, acuite dall’irragionevole cancellazione del “reddito di cittadinanza” e dagli incentivi all’evasione fiscale (condoni e innalzamento del tetto all’uso del contante); mentre il regionalismo differenziato che chiede maggiori risorse e maggiori poteri per le regioni più ricche e più forti, accentua le disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud del Paese, rompe il modello universalistico e solidaristico del welfare, che secondo il dettato costituzionale dovrebbe garantire “pari dignità sociale” (sanità, istruzione, lavoro, sicurezza sociale) per tutti i cittadini.

Inoltre le suddette politiche sull’immigrazione stravolgono anche i diritti umani fondamentali, quindi non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri e dei migranti, per i quali la Costituzione prevede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», oltre che il rispetto delle norme e dei trattati internazionali. A completare il quadro, il progetto meloniano di un “europeismo conservatore”, condizionato, per un verso, dal sovranismo nazionalista condiviso con i suoi alleati del Gruppo di Visegrad (il sostegno italiano all’Ungheria che discrimina le persone Lgbtq ne è un indicatore), e, per l’altro, dalla totale subordinazione al Patto Atlantico e agli USA, contraddice lo spirito della Costituzione, che «ripudia la guerra» e «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (cioè tipo l’ONU e l’UE, ma non tipo la NATO). Ma sul punto, per la verità, non si può non rilevare che il problema della dubbia compatibilità con l’art. 11 della Costituzione della partecipazione dell’Italia agli “interventi armati a fini umanitari” (Kosovo, 1999), alle guerre di difesa “globale” (Afghanistan, 2001) o “preventiva” (Irak, 2003), ed oggi all’invio di armi all’Ucraina (che si difende legittimamente dall’aggressione russa), non riguarda certamente solo l’attuale governo di destra, ma anche quelli di diverso colore politico che l’hanno preceduto.

Questo disegno complessivo di stravolgimento della Costituzione mette in pericolo la nostra democrazia. Il rischio non ci pare quello di un ritorno al fascismo storico, anche se Giorgia Meloni ed altri esponenti di spicco di Fratelli d’Italia – partito che rivendica l’eredità del MSI – non sembrano aver fatto, fino in fondo, i conti con la storia di quel partito e con i suoi intrecci col neofascismo eversivo, che ha indiscutibilmente svolto un ruolo importante in quel magma di servizi deviati italiani e stranieri, massoneria, mafie e referenti istituzionali e politici che ha dato vita alla “strategia della tensione” che ha insanguinato l’Italia, con il precedente di Portella della Ginestra nel 1947, da piazza Fontana fino alle stragi del ’92-’93. Ma il rischio concreto che corriamo oggi è quello di una trasformazione strisciante del nostro sistema democratico in senso autoritario, in una “democratura” simile a quella polacca o ungherese. Come ha scritto il costituzionalista Gaetano Azzariti, «la destra al potere dà seguito alla sua storia e l’accoppiata elezione diretta del Presidente della Repubblica (obiettivo perseguito sin dal tempo del MSI) e autonomia differenziata (versione temperata delle tendenze secessioniste della originaria Lega bossiana) rappresenta il naturale e decisivo traguardo».

Per queste ragioni riteniamo che le forze democratiche e progressiste, già da tempo divise e in crisi identitaria, debbano convergere nella battaglia di opposizione a questo disegno. L’elezione diretta di un uomo o di una donna solo/a al comando, sia nella versione presidenzialista (USA) che in quella semipresidenzialista (Francia), ha già dimostrato la sua fragilità democratica di fronte alle tendenze populiste e nazionaliste del “trumpismo” o del “lepenismo”. Così come l’idea che l’obiettivo della governabilità e della stabilità dei governi possa essere raggiunto, secondo i sistemi elettorali maggioritari, a scapito della rappresentatività dei parlamenti, si è già rivelata fallimentare non solo nell’ormai lunga transizione italiana, successiva alla crisi della “prima repubblica”, ma persino nel consolidato “modello Westminster” britannico. Se a queste considerazioni di merito, aggiungiamo il fatto che il governo Meloni vorrebbe fare dei cambiamenti così importanti della Costituzione, quali la forma di governo e la forma di Stato, in un Parlamento così poco rappresentativo, magari con l’appoggio di qualche pezzo dell’opposizione (la proposta del Sindaco d’Italia di Azione-Italia Viva già lo prefigura), per tentare di raccattare la maggioranza dei due terzi ed evitare il ricorso al referendum popolare, l’allarme non dovrebbe essere sottovalutato da nessun sincero democratico.

Ma è importante sottolineare che non si tratta di una battaglia puramente difensiva. Nello scorso settembre, durante la campagna elettorale, nella Lettera aperta ai delusi dalla politica della sinistra si auspicava che «le forze progressiste, nonostante le attuali divisioni, dovranno combattere una battaglia comune non solo per la difesa della Costituzione ma per una sua piena attuazione, per lo sviluppo di una democrazia progressiva che rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale consenta la realizzazione di un’effettiva uguaglianza dei cittadini». Anche noi riteniamo, come ha detto Liliana Segre nel discorso del 13 ottobre al Senato, che «la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma […] se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice». E condividiamo l’appello rivolto dopo la sconfitta elettorale a tutte le forze di sinistra e di progresso, da un gruppo di elettrici ed elettori di differenti culture, storie politiche e civili (tra cui Rosy Bindi, Vannino Chiti, Domenico De Masi, Gad Lerner, Tomaso Montanari, Giulia Rodano ecc.) per proporre di «assumere quale comune stella polare, ideale e programmatica, l’ancoraggio ai valori della Costituzione, la dignità del lavoro, la giustizia sociale e ambientale, la pace e il disarmo, la lotta contro le disuguaglianze, la cittadinanza dei ‘nuovi italiani’. Convinti come siamo che astensione ed esito del voto sono frutto di un divario profondo tra la vivacità del paese e la sua traduzione nella politica organizzata, consideriamo urgente fornire un solido riferimento politico alle istanze serie e radicali di cambiamento che vengono espresse da tante realtà civiche e sociali, in particolare delle donne e dei giovani».

Per tutte queste ragioni, da semplici cittadini, il 25 aprile abbiamo manifestato con l’ANPI, l’ARCI e la CGIL per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione nata dalla resistenza antifascista. E, adesso, vogliamo rivolgere un appello a tutti coloro che condividono lo spirito e i contenuti di questo documento perché contribuiscano alla realizzazione di momenti di confronto e convergenza tra tutte le espressioni dell’associazionismo e del volontariato laico e religioso, che già operano nei territori, per attuare concretamente i valori della Carta. Crediamo, infatti, che questa battaglia non potrà svolgersi soltanto nelle istituzioni, ma dovrà essere sostenuta da una partecipazione dal basso, dal conflitto sociale indispensabile a mantenere e sviluppare quel modello di democrazia progressiva configurato dalla nostra Costituzione, per farla vivere nei territori, partendo dalle “esperienze esemplari”, dalle “buone pratiche” già esistenti per diffonderle e generalizzarle ovunque sia possibile.

Palermo, maggio 2023

Giovanni Abbagnato, Leo Alagna, Riccardo Alessandro, Marina Allotta, Mario Azzolini Tommaso Baris, Giovanni Bellia, Augusto Cavadi, Beppe Cipolla, Gaetano Cipolla, Maria Adele Cipolla, Enrico Colajanni, Mari D’Agostino, Raffaella De Pasquale, Alessandra Dino, Vincenzo Gervasi, Filippo Grippi, Antonella Leto, Jesse Marsh, Ernesto Melluso, Giancarlo Minaldi, Francesco Petruzzella, Antonio Riolo, Claudio Riolo, Rosana Rizzo, Pippo Russo, Gaetano Sabatino, Alessandra Sciurba, Bonaventura Zizzo

Prime adesioni: Enzo Abbinanti, Monica Bacchi, Giuseppe Cabibbo, Rosanna Cataldo, Salvatore Cavaleri, Salvatore Cernigliaro, Rosanna Cataldo, Saverio Cipriano, Amalia Collisani, Giacomo Costadura, Andrea Cozzo, Clara Denaro, Pippo Di Falco, Daniela Dioguardi, Gabriella Filippazzo, Marina Gaziano, Maximo Ismael Ghioldi, Alfonso Maurizio Iacono, Fabio Lanfranca, Anna Leone, Renato Li Donni, Santo Lombino, Liborio Martorana, Alfio Mastropaolo, Calogero Messina, Clara Monroy, Daniela Musumeci, Giuseppe Nicolaci, Katia Orlando, Leoluca Orlando, Antonina Palazzotto, Manoela Patti, Dino Paternostro, Leonardo Aldo Penna, Vincenzo Pinello, Carmelo Piparo, Marco Pomar, Anna Puglisi, Rosario Rappa, Rossella Reyes, Giuseppe Riccio, Mario Ridulfo, Elio Rindone, Maria Concetta Rindone, Francesca Riolo, Francesco Paolo Riolo, Umberto Santino, Salvatore Saporito, Gioacchino Scaduto, Adele Sciacca, Giuseppe Silvestri, Nicola Sinopoli, Armando Sorrentino, Dario Sulis, Sandra Teroni, Pino Toro, Chiara Venturella, Roberto Zampardi, Franco Meloni.

Per sottoscrivere il documento inviare una mail a difesaattuazionecostituzione9@gmail.com
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Indegnità

Da via Rasella al 25 aprile:
quali altri attacchi alla Costituzione
e all’antifascismo?
di Ottavio Olita

All’indomani dell’indegna dichiarazione del Presidente del Senato Ignazio La Russa sull’attentato del 23 marzo 1944 di Via Rasella a Roma la prima domanda che viene da porsi, con urgenza, è: ma su che cosa hanno giurato questi nuovi rappresentanti istituzionali? Su carta straccia o sul documento su cui si fonda la nostra comunità nazionale, la nostra ragione di stare insieme, la nostra stessa storia?

Cattolici e Politica

fab13692-65ba-4cf8-9561-3e94a3b11907145007e6-b00c-4cc4-a60e-dcce3785d78aImpegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il  “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici  devono  impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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* Anche su L’Unione Sarda/Il dibattito, del 1° aprile 2023 (pag. 44)
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i-carec3dem_banner_04L’etica della cura: una nuova prospettiva.
26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi

Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.

Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).

Che succede? Rassegna stampa C3dem

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Dopo la tragedia di Cutro, le non risposte
20 Marzo 2023
di Alberto Guariso su C3dem
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Il Congresso della CGIL, l’unità sindacale e l’unità della sinistra.
20 Marzo 2023
di Sandro Antoniazzi su C3dem
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[segue]

Che succede? Rassegna stampa C3dem

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Terremoto in Siria e Turchia
12 Febbraio 2023 Il terremoto non è finito
Vincenzo Passerini, Teniamo gli occhi aperti sul dopo terremoto (Vita Trentina). Tonio dell’Olio, Il terremoto non è finito (Mosaico di pace).
[segue]

Internazionale e non solo

39bbdcae-c64f-42ad-866b-9a570327b12bDemocrazia, autoritarismo, neoliberismo: Bolsonaro e non solo
16-01-2023 – di Alessandra Algostino su Volerelaluna.
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L’attacco ai luoghi delle istituzioni democratiche avvenuto a Brasilia l’8 gennaio (e il suo inevitabile parallelismo con l’assalto al Congresso degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021, per tacere del nostrano attacco alla sede della CGIL del 9 ottobre 2021), mostra il volto violento della lacerazione del Paese uscita dalle urne. Il modello Bolsonaro è tutt’altro che perdente, in Brasile, ma come non pensare anche all’Ungheria, alla Polonia, alla Svezia, all’Italia, a Israele, al trumpismo? È una macchia nera che sta dilagando. Nuovi fascismi? Non lo so, ma in ogni caso si registra un’unione avvelenata di autoritarismo e neoliberismo, ammantata da evocazioni nazionaliste e conservatrici (la triade “Dio, patria e famiglia”), utili a compattare e neutralizzare anche solo l’idea del conflitto sociale.

Il “modello Bolsonaro” suggerisce quattro brevi spunti.

Primo. Si diffonde il ricorso alla necropolitica (Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, 2016), come politica che ha il sapore della lotta di classe al contrario. La necropolitica in Brasile si concretizza nelle politiche nei confronti dei popoli indigeni così come nella gestione del Covid-19; in Italia e in Europa riguarda in prima battuta le politiche migratorie, il genocidio dei migranti (nel Mediterraneo, nella rotta balcanica, nell’esternalizzazione delle frontiere e delocalizzazione della tortura). La necropolitica si declina anche come aparofobia, paura e odio verso i poveri: in Brasile in particolare nei confronti della popolazione nera e degli abitanti delle favelas; in Italia, per limitarsi ad un esempio, verso i percettori del reddito di cittadinanza. è necropolitica, in senso ampio, l’indifferenza alla sorte delle “vite di scarto” (Bauman), per cui – mi limito ad un esempio – si definanzia la sanità, favorendo la privatizzazione e la diseguaglianza sanitaria; ovvero, si abbandona ogni progetto di emancipazione sociale, pur prescritta, in Italia, dall’art. 3, comma 2, Costituzione. La regressione nella garanzia dei diritti sociali è, appunto, lotta di classe al contrario. Infine è necropolitica (e il Brasile di Bolsonaro ne è emblema, anche se non il solo) la devastazione ambientale, la corsa suicida al riscaldamento climatico, la distruzione della biodiversità. La necropolitica è una lotta di classe, a partire dalla considerazione che «l’oppressione etnica e razziale non è accidentalmente correlata al capitalismo, è strutturalmente integrata a esso» (Fraser), così come ogni forma di estrattivismo.

Secondo. Alla necropolitica si accompagna la colpevolizzazione dei poveri, come dei migranti, dei popoli indigeni; al più si tollera un capitalismo neoliberale compassionevole, quando non tout court un filantrocapitalismo che lucra sulla povertà (Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020). Si allontanano così le responsabilità delle diseguaglianze e il “rischio” che esse generino rivolte, si espellono (Sassen) le classi subalterne, ovvero si negano le contraddizioni e il lato oscuro del modello neoliberista e si reprime il dissenso, arroccando la democrazia in una cittadella vieppiù autoritaria.

Terzo. In questo contesto, il nazionalismo e la triade “Dio, Patria e famiglia” (brasiliana e nostrana: si pensi all’insistenza sul termine nazione nel discorso sulla fiducia di Meloni del 25 ottobre 2022) e non solo, forniscono una copertura identitaria che riempie il vuoto, riscalda il freddo del neoliberismo con la sua competitività sfrenata e la solitudine dell’imprenditore di se stesso, fornisce una identità artificiale contro la materialità degli interessi comuni del conflitto sociale, distraendo dalle diseguaglianze e dalle loro origini.

Quattro. Il modello Bolsonaro, come accennato, unisce autoritarismo e neoliberismo. In altri termini, riprendendo Polanyi e Gramsci, ricorda l’assonanza tra il fascismo e la plutocrazia, ovvero, restando in America Latina, richiama come emblematico il golpe neoliberista di Pinochet, la sperimentazione dei Chicago Boys contro Allende. È un modello che porta al grande interrogativo della compatibilità tra capitalismo e democrazia. Il capitalismo può convivere con la democrazia, ma vive meglio in una autocrazia? o in una democrazia vuota, che mantiene il passaggio elettorale come un rito sterile? La rivoluzione passiva ci sta conducendo a un neoliberismo autoritario? Mentre la democrazia contiene in sé l’uguaglianza, il neoliberismo produce strutturalmente diseguaglianza, si fonda su sopraffazione e dominio e, creando diseguaglianze, depredando e devastando l’ambiente, ha bisogno di altra sopraffazione e dominio per garantire la propria autoconservazione. La via per invertire la rotta è sempre la stessa: radicare una alternativa, dal basso. Senza una trasformazione effettiva, profonda, consapevole, anche le vittorie sono fragili ed effimere. Affidarsi all’uomo del destino, chiunque sia, non è la soluzione: non a caso l’unione fra neoliberismo e autoritarismo è benedetta da un populismo facile preda di false suggestioni, cieco (neanche una necropolitica grossolana come quella di Bolsonaro è bastata per aprire gli occhi), Ricordiamolo, quando (cioè, ora), riforme presidenzialiste aleggiano su una democrazia già sufficientemente martoriata da una pratica quotidiana che la neutralizza.

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IN PRIMO PIANO
I paradossi della democrazia: da Teheran a Brasilia
13-01-2023 – di Domenico Gallo su Volerelaluna.

«Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello […]. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. [...] Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. «Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. [...] A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. […] Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora. […] Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti».

Le notizie delle impiccagioni che si susseguono in Iran, che derubano della vita i giovanissimi manifestanti, come il 22enne Mohammad Karami e il 20enne Mohammad Hosseini, accusati di “inimicizia contro Dio”, mi hanno fatto tornare alla mente l’episodio terribile riportato da Elie Wiesel nel libro La notte in cui rende testimonianza della sua esperienza di deportato ad Auschwitz. Mi sono chiesto quanto è durata la resistenza alla morte di questi giovani, se anch’essi sono restati a lottare fra la vita e la morte sotto gli occhi impassibili del loro boia. La crudeltà del regime iraniano, non ha niente a che invidiare rispetto a quella praticata dalle S.S. Anche nella prigione di Teheran deve essere risuonata la domanda di Auschwitz: «Dio dov’è?». La risposta è la stessa che avvertì il giovane Wiesel: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».

Malgrado la brutalità della repressione operata dal regime nazi-islamico degli Ayatollah, la resistenza del popolo iraniano, che non accetta più di essere soggiogato dalla struttura autoritaria e disumana del potere teocratico, non è stata spezzata. In questa parte del mondo si lotta e si affrontano sofferenze inaudite per smantellare quelle strutture autoritarie del potere che soffocano i diritti umani e oltraggiano la dignità della persona. In altre parole è in atto una lotta, analoga alla Resistenza, per conquistare la libertà e insediare delle istituzioni democratiche.

Invece, in altre parti del mondo, dove la libertà è stata insediata e garantita da Costituzioni democratiche, in vario modo realizzate nella Storia, la democrazia viene erosa da un male oscuro, vilipesa, infamata; esplodono delle vere e proprie ribellioni popolari che aggrediscono le istituzioni e i simboli stessi della democrazia costituzionale. L’episodio più eclatante è stato l’assalto squadristico compiuto domenica scorsa dai seguaci di Bolsonaro, che hanno assaltato il Parlamento, la Corte costituzionale e il palazzo del Governo per cercare di rovesciare un governo democraticamente eletto, guidato da persone di provata fede democratica. Si è trattato di una replica della “marcia su Roma”, che non ha ottenuto l’effetto sperato perché in Brasile mancava un Re, che potesse dare una mano ai golpisti. Quello che è avvenuto in Brasile, però non è un fatto isolato, basti pensare all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Un po’ dappertutto ci sono rigurgiti di fascismo che assediano democrazie consolidate e mettono in discussione i valori fondamentali portati dalle Costituzioni e dalle carte dei diritti. Il sentimento di dispregio della democrazia è penetrato anche nel ridotto dell’Unione Europea, dove stiamo sperimentando, in Ungheria e in Polonia, un nuovo modello di “democrazia illiberale”, che rischia di essere imitato dai nuovi governi di Svezia e Italia. Il paradosso è che, mentre in alcune parti del mondo si lotta per abbassare le forche, in altre parti del mondo, dove la civiltà giuridica le ha abbassate, si lotta per ripristinarle. Dobbiamo chiederci da dove viene questo male oscuro, quali sono le sue cause profonde? Quando è cominciato questo percorso di indebolimento della democrazia e cosa lo ha generato? Forse quando abbiamo accettato l’unione incestuosa fra la democrazia e la guerra!

L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano del 13 gennaio con il titolo : “Le democrazie: il male oscuro”.

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La Chiesa spaccata
La Repubblica – 16 Gennaio 2023 – Blog di Enzo Bianchi.
di Enzo Bianchi
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Questi sono giorni in cui emergono in modo molto più evidente i contrasti, le conflittualità e le “guerre” all’interno della chiesa cattolica. La morte di Benedetto XVI, l’incauta rivelazione postuma di alcune delle sue parole e dei suoi sentimenti da parte del segretario particolare e lo svelamento dell’identità dell’autore del memoriale attribuito al Cardinal Pell – vero grido di allarme sulla situazione della chiesa –, sono fatti che hanno scosso e scuotono i credenti quotidiani, che non sempre comprendono la materia diventata tanto conflittuale, ma soffrono di questa situazione così nuova per “la gente cattolica”, in balìa del chiacchiericcio delle sacrestie e delle denunce fatte dai media.

L’esito – va detto – non sarà il tanto temuto e paventato “scisma” di una porzione di cattolici, perché questo non è più tempo di fondazioni, ma sarà un silenzioso abbandono della chiesa da parte di molti che si sentono frustrati, stanchi e sovente amareggiati da tante liti fraterne che si consumano con schizofrenia ipocrita: da un lato una corsa al dialogo con i non cattolici, con i credenti delle altre religioni, e si realizzano cooperazioni tra chiese mai viste nella storia del cristianesimo; dall’altro lato c’è intolleranza, non sopportazione di chi, pur cattolico, condivide la stessa fede con uno stile diverso nella liturgia o nel modo di collocarsi nel mondo. Qui la lotta, l’antagonismo sono feroci con delegittimazione reciproca e impossibilità di riconoscere la fraternità che pure ha fondamento nell’unico battesimo.

In una vita ecclesiale così attraversata da polarizzazioni c’è però una novità: gli attacchi, il rigetto, l’insulto verso il papa, attualmente Francesco. La critica al papa era già presente nella chiesa degli ultimi tempi, critica aperta almeno dal pontificato di Paolo VI e poi dei suoi successori, ma le accuse o erano morali (e a tanto si giunse con l’integro papa Montini!), o erano critiche per il governo. Con Papa Francesco invece gli attacchi sono diretti alla sua fede, viene attaccato proprio quello che è il suo carisma: confermare nella fede i fratelli, e si arriva fino alla delegittimazione e all’insulto.

Perché ci si spinge fino ad affermazioni che lo dicono papa eretico, idolatra della dea pagana Pachamama, un papa che distrugge la chiesa? C’è una sola risposta: perché papa Francesco ha osato e osa essere solo un servo del Signore, un cristiano obbediente unicamente all’Evangelo, un esperto di umanità, un uomo che non ha paura dei potenti di questo mondo! Quanto più Francesco fa apparire il Vangelo nella sua nudità tanto più scatenerà le potenze avverse contro di lui e contro la chiesa della quale è al servizio della quale è pastore e servo della comunione.

Nessuna adulazione! Anche papa Francesco, come ogni uomo, ha i suoi difetti, il suo carattere che può non piacere, il suo modo di parlare che può essere più o meno attraente, il suo modo di governare la chiesa che può essere criticato, ma per i cattolici è il successore di Pietro, è colui per il quale Gesù ha assicurato di pregare, è l’uomo fragile e limitato che va giudicato solo per come annuncia il Vangelo e presiede alla comunione plurale della chiesa. Lo sappiamo dai Vangeli: colui che è la “Pietra”, cioè il fondamento della fede, può diventare un fuscello, ma sappiamo anche che ci sarà un gallo che canterà e lo richiamerà.
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E SI È FATTO UOMO …

1e5df2df-c732-4205-85f6-245fc4a696abRiflessioni sulla pastorale del lavoro di mons. Ottorino Alberti
Gianni Loy

Racconta mons. Miglio, ora cardinale, che nel giorno in cui avrebbe dovuto prendere possesso della diocesi di Iglesias in qualità di vescovo venne accompagnato in auto dall’allora arcivescovo di Cagliari, mons. Ottorino Alberti. Il comitato organizzatore lo attendeva sul sagrato dell’episcopio per dare avvio alla cerimonia di insediamento. Solo che l’auto rimase bloccata in piazza Sella, occupata dai lavoratori che partecipavano ad una grande manifestazioni sindacale per difendere il posto di lavoro. La prima reazione, la più istintiva, fu quella di trovare un percorso alternativo che consentisse all’auto di raggiungere la meta. Ed invece, mons. Alberti disse a mons. Miglio che sarebbe dovuto scendere dall’auto ed andar loro incontro. Il nuovo vescovo ubbidì, scese dall’auto e si confuse con la lotta di quei lavoratori che, poco dopo, lo scortarono in episcopio per consegnarlo nelle mani dei fedeli in attesa. […]

Che succede?

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CATTOLICI DEMOCRATICI ALLO SCOPERTO
23 Dicembre 2022 su C3dem
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Antonio Floridia interviene sul Manifesto a proposito delle posizioni espresse dai popolari di Pierluigi Castagnetti (vedi Rassegna dei giorni precedenti): “Cattolici democratici e fantasma dell’identità”. Sul tema anche Carlo Trigilia: “Perché l’esperienza del Pd non ha funzionato?” (Domani) e, con diversa posizione, Giuliano Cazzola: “Il peccato originale del Pd: l’impossibile convivenza di cattolici e comunisti” (Il Quotidiano del Sud). Sul Pd e l’incontro dei tre candidati di ieri con il gruppo degli ex veltroniani: la ricostruzione un po’ beffarda di Andrea Carugati: “Nel Natale in casa Pd parenti litigano sul conflitto di classe” (Manifesto) e altre più serie: Roberta D’Angelo, “Pd, i tre sfidanti provano a dare la scossa” (Avvenire); Luca De Carolis, “‘Non si ritorni ai Ds’: i paletti ai candidati dei fu veltroniani” (Il Fatto); Lorenzo De Cicco, “Euroscandalo e sondaggi negativi, il Pd a rischio irrilevanza” (Repubblica); Maria Teresa Meli, “Passo indietro di Letta sulla carta dei valori, deciderà il nuovo Pd” (Corriere della sera); Emilia Patta, “Pd, Letta disinnesca la mina Manifesto: sarà completato dopo il Congresso” (Sole 24 ore). Claudio Querques ricorda: “Mezzo partito appeso a Cuperlo” (Il Tempo). Dice Roberto Morassut: “Torniamo a Gramsci, non alla sua icona ma al suo pensiero” (intervista a Il Riformista). Un’ampia ricostruzione in Ettore Maria Colombo, “Il Pd cerca di fermare il suo cupio dissolvi” (l’uovo di Colombo). Elly Schlein, “Il Pd ritrovi l’identità e apra le porte” (intervista a La Stampa). Sergio Cofferati, “Redistribuire ricchezza. Il Pd ha una missione” (intervista a Repubblica).
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L’ITALIA DEL 2023: VITALITA’ E RISCHI

23 Dicembre 2022
Marcello Sorgi, “Finanziaria senza capo né coda” (La Stampa). Giuseppe Pisauro, “La manovra rivela la vera cultura fiscale di questa destra” (Domani). Valentina Iorio, “Reddito di cittadinanza: i vincoli per poterlo ricevere” (Corriere della sera). Luigino Bruni, “La retorica dell’offerta ‘congrua’ e l’ideologia della povertà come colpa” (Domani). Massimo Franco, “Le regionali come test dell’onda lunga del 25 settembre” (Corriere della sera). Mauro Magatti, “Guerra, inflazione, lavoro. Il declino del ceto medio” (Corriere della sera). Romano Prodi, “L’Italia che verrà” (Messaggero). Federico Fubini, “L’Italia verso il 2023: vitalità e rischi” (Corriere della sera). Giorgia Serughetti, “Il populismo non è morto ed è qui per restare” (Domani). Luigi Manconi, “Hasib rom e sordomuto, il bersaglio perfetto” (La Stampa). Gianfranco Ravasi intervistato da Walter Veltroni: “Il nemico di oggi è la solitudine” (Corriere della sera). Francesco Paolo Casavola, “All’Italia serve coesione e una capitale più forte. No ai nuovi campanilismi” (intervista al Messaggero).
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PD, DISAGI E AVVERTIMENTI DI MOLTI EX DC

22 Dicembre 2022
L’intervento di Stefano Ceccanti alla presentazione del documento “Per una vera fase costituente del Pd”. Su l’incontro dell’associazione I Popolari, Marcello Sorgi: “L’inascoltato grido di dolore Dc” (La Stampa). Pier Luigi Castagnetti, “Non siamo noi a lasciare ma gli elettori che vanno via” (intervista a Il Tempo). Arturo Parisi, “Due ex Dc stanno riportando il Pd alla Livorno del 1921” (intervista a Repubblica). Ferdinando Adornato, “Il Pd alla sfida del ritorno al riformismo” (Messaggero). Walter Verini, “Il Pd riparta dal Lingotto. Ora più passione e meno correnti” (intervista a Il Riformista). Fabrizio Barca e Antonio Floridia in dialogo: “Il Pd da rifare” (La Stampa). Ettore Maria Colombo, “Il Pd scivola nei sondaggi. Cresce la richiesta di anticipare il congresso” (Qn). Quale futuro per il Pd? La risposta di Vannino Chiti; la risposta di Stefano Ceccanti (Circolo solo riformisti). GOVERNO: Stefano Folli, “Il potere logora la coalizione di governo” (Repubblica). Massimo Franco, “La divergenza Calenda-Renzi nel dialogo con il governo” (Corriere della sera). Paolo Pombeni, “L’autonomia differenziata e la ricaduta sulle regioni” (Messaggero). Francesco Riccardi, “Se ‘congruo’ è solo l’interesse della maggioranza e non il lavoro” (Avvenire). Il parere di un gruppo di economisti contrari al governo ma anche al Mes: “L’unica riforma necessaria per il Mes è l’abolizione”. INOLTRE: Marco Bentivogli, “Lavorare meno, ma meglio” (Repubblica). Paolo Pombeni, “Giorgia Meloni e la necessità di un Partito conservatore” (IL Quotidiano). Claudio Cerasa, “Ci sono buone notizie nel 2022” (Foglio). Simonetta Fiori, “Alberto Asor Rosa, l’ultima lezione del professore” (Repubblica). Giuseppe Lupo, “Asor Rosa, quando lettere e l’ideologia andavano insieme” (Sole 24 ore).

Oggi sabato 24 dicembre 2022

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Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–———————
https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo-del-giorno/15384-aurora-di-un-tempo-nuovo
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NON BASTA LA GRINTA PER GOVERNARE – DI GUIDO PUCCIO
Dic 24, 2022 – 07:55:57 – CET su PoliticaInsieme.
https://www.politicainsieme.com/non-basta-la-grinta-per-governare-di-guido-puccio/

“Avverto spesso una mancanza di competenza e di progettualità. Le due cose sono, insieme, necessarie. La progettualità ad alto livello fornisce il senso e la speranza del futuro; la competenza e invece la capacità di leggere la società e le sue grandi trasformazioni”.
[segue]