Risultato della ricerca: zona franca

La natura dei beni comuni

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a cura di Gianfranco Sabattini
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1. Posizione del problema

Un inquadramento dei problemi concernenti il governo dei beni comuni non è possibile realizzarlo sulla base dei soli assiomi analitici della teoria economica tradizionale; occorre un approccio che integri gli assiomi della teoria economica tradizionale dei cosiddetti beni pubblici con quelli propri di altri approcci all’analisi di specifici aspetti della realtà sociale, quali quelli della teoria giuridica dei diritti, della teoria sociologica, della teoria istituzionale.
Punto centrale dell’inquadramento unitario dei problemi riguardanti i beni comuni e la loro definizione; a tal fine, conviene partire da una loro considerazione come beni sociali, nel senso di beni il cui consumo arreca un beneficio indistintamente a tutti i membri del sistema sociale (A.Nicita, 2003; S.Civitarese Matteucci, 2008). Il maggiore problema concernente tali beni riguarda il fatto d’essere stati sinora governati attraverso procedure che la teoria economica tradizionale ha elaborato con riferimento alla classe onnicomprensiva dei cosiddetti beni pubblici. Conviene, perciò, partire preliminarmente dalla sistematizzazione teorica di questi ultimi, fornita dai contributi di P.A.Samuelson (1993), J.M.Buchanan (1969), R.A.Musgrave (1995) e J.Head (1974).
Secondo questa sistematizzazione, i beni pubblici sono quei beni il cui consumo a livello individuale si riferisce al totale consumato da un’intera comunità di individui secondo una condizione di parità e non di somma, come avverrebbe nel caso di beni di consumo privati.
Un noto teorema di economia del benessere, recita che quando in un sistema economico a decisioni decentrate coesistono beni di consumo privati e beni di consumo pubblici, è possibile una configurazione di equilibrio ottimale del mercato in senso paretiano solo se tutti i soggetti economici, dal lato del consumo, rivelano le loro preferenze (le loro funzioni di domanda individuali e quindi le disponibilità a pagare per le diverse quantità possibili dei beni stessi) e quando, dal lato dell’offerta, i produttori, in funzione delle preferenze rivelate, producono ed offrono i beni pubblici domandati.
[segue]

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA OGGI IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948 – 26 FEBBRAIO 2018.

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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA OGGI IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI
DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948-26 FEBBRAIO 2018
SIG. PRESIDENTE DELLA REPPUBLICA ON. SERGIO MATTARELLA

Benibeniu, Benvenuto, Signor Presidente a Cagliari, capitale dell’Isola di Sardegna, che nell’immaginario collettivo di molti di noi sardi vorremmo capitale della Nazione Sarda dentro un contesto federale della Repubblica Italiana in una Europa dei Popoli. Vorremmo sottoporle alcune problematiche presenti nella nostra isola, di cui difficilmente sentirà parlare nei discorsi ufficiali dei Rappresentanti delle Istituzioni Regionali poiché il rigido protocollo e la brevità della Sua visita non prevede la possibilità di interventi non programmati.
1.LA SARDEGNA E’ OCCUPATA MILITARMENTE da poligoni e basi militari in una percentuale (66%) altissima di suolo pubblico vincolato a servitù militare oltre ogni misura e legalità. Ciò nuoce allo sviluppo della nostra economia in particolare al turismo, all’agricoltura ed all’allevamento. Le recenti conclusioni della Commissione Parlamentare sulla presenza dell’uranio impoverito utilizzato negli armamenti nei poligoni sardi hanno acclarato che non si può escludere un nesso di causalità sui numerosi casi di tumori verificatesi nell’arco di un lungo periodo fino ai nostri giorni sui militari e sulla popolazione civile dei territori interessati dalla presenza delle basi.
2.IN SARDEGNA VI E’ UNA FABBRICA DI BOMBE, la RWM Italia SpA di Domusnovas/Iglesias controllata al 100% dal Gruppo tedesco Rheinmetall, i cui ordigni transitano sul territorio italiano e vengono venduti all’ Arabia Saudita (21 mila bombe nel 2016 ) che li utilizza contro la popolazione inerme dello Yemen, distruggendo città e paesi dove vengono uccisi centinaia di migliaia di civili tra cui numerosissime donne e bambini. Tutto ciò in aperta violazione dell’art.11 della nostra Costituzione -“l’Italia ripudia la guerra”, mentre è al sesto posto della classifica mondiale (fonte Milocca/Milena Libera) degli stati che producono e vendono armi( nel 2016 ha raggiunto i 14,6 miliardi, una crescita dell’85,7% rispetto al 2015 ),e della Legge Italiana Nr.185 del 1990 che vieta espressamente la vendita di armi a Paesi belligeranti, prevedendo inoltre che lo Stato intervenga concretamente nella riconversione delle fabbriche d’armi, come auspicato dal Comitato sardo per la Riconversione della Fabbrica di Domusnovas, divenuto un caso nazionale ed internazionale oggetto di numerose interrogazioni parlamentari ,di una Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti umani dell’ONU e di ben tre deliberazioni della Commissione Europea. La Sardegna è un’isola di Pace ed i suoi abitanti ripudiano tutte le guerre ovunque nel mondo e sono aperti all’accoglienza ed inclusione di chi fugge dalle guerre, dalle dittature e dalla miseria. La Città di Cagliari è Medaglia d’oro al valore civile e proprio nel mese di febbraio del 1943- di cui quest’anno ricorre il 75.mo anniversario – ha subito ripetuti bombardamenti dalle Forze Alleate con più di 2 mila morti e la distruzione dell’80 % delle abitazioni civili, delle chiese e dei palazzi pubblici.
3.LA SARDEGNA RISCHIA ANCORA DI ESSERE SCELTA COME IL DEPOSITO UNICO NAZIONALE DELLE SCORIE NUCLEARI. E’ ben vero che il Ministro dell’Ambiente e diverse Autorità negano che vi sia questa volontà e fanno di tutto per rassicurare la popolazione dello scampato pericolo, ma ancora non vi è un pronunciamento ufficiale che allontani definitivamente questo incubo.
4.LA SARDEGNA E’ IN FORTE E PERICOLOSO DECLINO SOCIALE ED ECONOMICO sia a causa dell’alto indice di disoccupazione, sia per lo spopolamento delle zone interne col rischio reale di estinzione di molti paesi sia per il basso tasso di natalità e per la ripresa dell’emigrazione soprattutto dei nostri giovani in cerca di lavoro.
5.LA SARDEGNA REGISTRA ANCORA AD OGGI IL 53,6 % DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE (Fonte Eurostat) Solo recentemente all’inizio della campagna elettorale 2018 per il rinnovamento del Parlamento e ad appena un anno prima delle elezioni regionali del 2019 la Giunta ed il Consiglio Regionale hanno recuperato 100 milioni dal vecchio Piano Sulcis e messo in Bilancio ulteriori 27 milioni da destinare a cantieri per il lavoro (LAVORAS)che assorbiranno in gran parte lavoratori in cassa integrazione a scadenza e purtroppo ancora pochi giovani di primo impiego. La Sardegna, inoltre, è ai primi posti negli indici di povertà relativa a cui si aggiunge l’aumento delle persone costrette a rinunciare alle medicine e cure mediche a causa di una folle riforma sanitaria basata esclusivamente sul fattore economico.
6.LA SARDEGNA HA FALLITO COL VECCHIO PIANO DI SVILUPPO E CHIUDE NEGATIVAMENTE LA SUA ESPERIENZA DI GOVERNI AUTONOMISTI, un piano basato su una industrializzazione di base per Poli ,energivora ed impattante sul territorio dove ha provocato gravi e ampi disastri ambientali e sanitari che non compensano i posti di lavoro creati e che oggi con la crisi ed abbandono del tessuto industriale lasciano spazio alla disoccupazione di massa ed alla cassa integrazione di lunga durata trasformata in puro assistenzialismo per chi ha perso il lavoro e purtroppo nella negazione di ogni speranza per chi cerca nuova occupazione.NE’ CI CONVINCONO LE SCELTE POLITICHE DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE DEL GOVERNO NAZIONALE E REGIONALE che guarda ancora una volta al passato, investendo ingenti risorse di denaro pubblico su Fabbriche fuori mercato e fortemente impattanti sull’ambiente come l’ALCOA nel Sulcis /Iglesiente e l’EURALLUMINA che si vuol far ripartire collegandola ad una CENTRALE A CARBONE progettata a 400 metri dall’abitato di Portoscuso e con il RADDOPPIO DELLE COLLINE E DEL LAGO DEI FANGHI ROSSI ed infine il grande imbroglio della CHIMICA VERDE nel Nord Sardegna a Portotorres ,un vero e proprio Mega-Inceneritore.
7. LA SARDEGNA HA URGENTE BISOGNO DI UN NUOVO PIANO DI RINASCITA SULLA BASE DELL’ART.13 DEL SUO STATUTO SPECIALE per progettare ed attuare UN NUOVO PIANO DI SVILUPPO che deve essere un piano ecocompatibile e sostenibile, rispettoso del territorio e del paesaggio. Esso deve prevedere UN PIANO GENERALE DI BONIFICHE col vincolo europeo di “chi inquina, paga” con cantieri aperti in tutta l’isola ormai devastata in gran parte dalla vecchia industrializzazione e dalla speculazione. Esso deve attuare grandi investimenti sulla Rete Ferroviaria in gran parte da ridisegnare e rifare per consentire ai sardi di uscire dall’isolamento interno. Un PIANO che punta alla modernizzazione e rilancio del Comparto Agroalimentare e Pastorale con industrie di trasformazione e conservazione dei prodotti. Un PIANO che favorisca l’industria turistica diffusa nel territorio e per tutto l’anno e punti su Industrie ad alta innovazione tecnologica e ricerca con investimenti consistenti nell’industria aerospaziale.
8.LA SARDEGNA NON PUO’ ESSERE LA PIATTAFORMA ENERGETICA NAZIONALE perché come isola non ha bisogno di surplus di energia da fonti fossili che già inquinano ( LA SARAS BASTA E AVANZA ) né ha necessità di reti di Gas/Metano che ci vengono imposte tecnologicamente superate e fortemente inaffidabili né tantomeno ha bisogno di RIGASSIFICATORI incredibilmente progettati nelle vicinanze dei centri abitati, come quello a 300 metri dal Villaggio dei Pescatori e a 500 metri dal centro della città di Cagliari. E’ necessario, invece, investire maggiormente sulle fonti energetiche alternative e pulite quali il sole ed il vento, di cui la Sardegna abbonda in tutto l’anno.
9.IN SARDEGNA A 70 ANNI DALLA SUA APPROVAZIONE (26 FEBBRAIO 1948 ) ABBIAMO BISOGNO DI RISCRIVERE LO STATUTO SPECIALE, adeguandolo alla visione europea ed internazionale e alle nuove esigenze delle società moderne, allargando le sue competenze primarie in primo luogo per quanto riguarda le potestà in materia fiscale ,sui beni archeologici, museali e artistici, sulla scuola e sull’insegnamento come materia curriculare della lingua storia e cultura sarda.
10.LA SARDEGNA HA DIRITTO DI ESSERE COLLEGATA E RAGGIUNGIBILE DALL’EUROPA E DAL TUTTO IL MONDO, RICONOSCIUTA E RISPETTATA COME ISOLA TOTALMENTE IN REGIME DI ZONA FRANCA NEI SUOI PORTI, AEROPORTI E TERRITORI.
LA SALUTIAMO DA SARDI CON IL NOSTRO AUGURIO “SALUDI E TRIGU”, SALUTE E ABBONDANZA DI RACCOLTO OVVERO FELICITA’ E BENESSERE ,“FORZA PARIS”, FORZA INSIEME.
Cagliari, 26/02/2018

GIACOMO MELONI SEGRETARIO NAZ. LE CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA-CSS
MARCO MAMELI PRESIDENTE ASSOTZIUS CONSUMADORIS SARDIGNA ONLUS
ANGELO CREMONE – ENNIO CABIDDU COORDINATORI DI SARDEGNA PULITA
RICCARDO PIRAS SEGRETARIO REGIONALE DI ALTRA AGRICOLTURA
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lampada aladin micromicrodi Aladin
Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948 – 26 FEBBRAIO 2018.

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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI
DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948-26 FEBBRAIO 2018
SIG. PRESIDENTE DELLA REPPUBLICA ON. SERGIO MATTARELLA
Benibeniu, Benvenuto, Sig. Presidente a Cagliari, capitale dell’Isola di Sardegna, che nell’immaginario collettivo di molti di noi sardi vorremmo capitale della Nazione Sarda dentro un contesto federale della Repubblica Italiana in una Europa dei Popoli. Vorremmo sottoporle alcune problematiche presenti nella nostra isola, di cui difficilmente sentirà parlare nei discorsi ufficiali dei Rappresentanti delle Istituzioni Regionali poiché il rigido protocollo e la brevità della Sua visita non prevede la possibilità di interventi non programmati.
1.LA SARDEGNA E’ OCCUPATA MILITARMENTE da poligoni e basi militari in una percentuale (66%) altissima di suolo pubblico vincolato a servitù militare oltre ogni misura e legalità. Ciò nuoce allo sviluppo della nostra economia in particolare al turismo, all’agricoltura ed all’allevamento. Le recenti conclusioni della Commissione Parlamentare sulla presenza dell’uranio impoverito utilizzato negli armamenti nei poligoni sardi hanno acclarato che non si può escludere un nesso di causalità sui numerosi casi di tumori verificatesi nell’arco di un lungo periodo fino ai nostri giorni sui militari e sulla popolazione civile dei territori interessati dalla presenza delle basi.
2.IN SARDEGNA VI E’ UNA FABBRICA DI BOMBE, la RWM Italia SpA di Domusnovas/Iglesias controllata al 100% dal Gruppo tedesco Rheinmetall, i cui ordigni transitano sul territorio italiano e vengono venduti all’ Arabia Saudita (21 mila bombe nel 2016 ) che li utilizza contro la popolazione inerme dello Yemen, distruggendo città e paesi dove vengono uccisi centinaia di migliaia di civili tra cui numerosissime donne e bambini. Tutto ciò in aperta violazione dell’art.11 della nostra Costituzione -“l’Italia ripudia la guerra”, mentre è al sesto posto della classifica mondiale (fonte Milocca/Milena Libera) degli stati che producono e vendono armi( nel 2016 ha raggiunto i 14,6 miliardi, una crescita dell’85,7% rispetto al 2015 ),e della Legge Italiana Nr.185 del 1990 che vieta espressamente la vendita di armi a Paesi belligeranti, prevedendo inoltre che lo Stato intervenga concretamente nella riconversione delle fabbriche d’armi, come auspicato dal Comitato sardo per la Riconversione della Fabbrica di Domusnovas, divenuto un caso nazionale ed internazionale oggetto di numerose interrogazioni parlamentari ,di una Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti umani dell’ONU e di ben tre deliberazioni della Commissione Europea. La Sardegna è un’isola di Pace ed i suoi abitanti ripudiano tutte le guerre ovunque nel mondo e sono aperti all’accoglienza ed inclusione di chi fugge dalle guerre, dalle dittature e dalla miseria. La Città di Cagliari è Medaglia d’oro al valore civile e proprio nel mese di febbraio del 1943- di cui quest’anno ricorre il 75.mo anniversario – ha subito ripetuti bombardamenti dalle Forze Alleate con più di 2 mila morti e la distruzione dell’80 % delle abitazioni civili, delle chiese e dei palazzi pubblici.
3.LA SARDEGNA RISCHIA ANCORA DI ESSERE SCELTA COME IL DEPOSITO UNICO NAZIONALE DELLE SCORIE NUCLEARI. E’ ben vero che il Ministro dell’Ambiente e diverse Autorità negano che vi sia questa volontà e fanno di tutto per rassicurare la popolazione dello scampato pericolo, ma ancora non vi è un pronunciamento ufficiale che allontani definitivamente questo incubo.
4.LA SARDEGNA E’ IN FORTE E PERICOLOSO DECLINO SOCIALE ED ECONOMICO sia a causa dell’alto indice di disoccupazione, sia per lo spopolamento delle zone interne col rischio reale di estinzione di molti paesi sia per il basso tasso di natalità e per la ripresa dell’emigrazione soprattutto dei nostri giovani in cerca di lavoro.
5.LA SARDEGNA REGISTRA ANCORA AD OGGI IL 53,6 % DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE (Fonte Eurostat) Solo recentemente all’inizio della campagna elettorale 2018 per il rinnovamento del Parlamento e ad appena un anno prima delle elezioni regionali del 2019 la Giunta ed il Consiglio Regionale hanno recuperato 100 milioni dal vecchio Piano Sulcis e messo in Bilancio ulteriori 27 milioni da destinare a cantieri per il lavoro (LAVORAS)che assorbiranno in gran parte lavoratori in cassa integrazione a scadenza e purtroppo ancora pochi giovani di primo impiego. La Sardegna, inoltre, è ai primi posti negli indici di povertà relativa a cui si aggiunge l’aumento delle persone costrette a rinunciare alle medicine e cure mediche a causa di una folle riforma sanitaria basata esclusivamente sul fattore economico.
6.LA SARDEGNA HA FALLITO COL VECCHIO PIANO DI SVILUPPO E CHIUDE NEGATIVAMENTE LA SUA ESPERIENZA DI GOVERNI AUTONOMISTI, un piano basato su una industrializzazione di base per Poli ,energivora ed impattante sul territorio dove ha provocato gravi e ampi disastri ambientali e sanitari che non compensano i posti di lavoro creati e che oggi con la crisi ed abbandono del tessuto industriale lasciano spazio alla disoccupazione di massa ed alla cassa integrazione di lunga durata trasformata in puro assistenzialismo per chi ha perso il lavoro e purtroppo nella negazione di ogni speranza per chi cerca nuova occupazione.NE’ CI CONVINCONO LE SCELTE POLITICHE DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE DEL GOVERNO NAZIONALE E REGIONALE che guarda ancora una volta al passato, investendo ingenti risorse di denaro pubblico su Fabbriche fuori mercato e fortemente impattanti sull’ambiente come l’ALCOA nel Sulcis /Iglesiente e l’EURALLUMINA che si vuol far ripartire collegandola ad una CENTRALE A CARBONE progettata a 400 metri dall’abitato di Portoscuso e con il RADDOPPIO DELLE COLLINE E DEL LAGO DEI FANGHI ROSSI ed infine il grande imbroglio della CHIMICA VERDE nel Nord Sardegna a Portotorres ,un vero e proprio Mega-Inceneritore.
7. LA SARDEGNA HA URGENTE BISOGNO DI UN NUOVO PIANO DI RINASCITA SULLA BASE DELL’ART.13 DEL SUO STATUTO SPECIALE per progettare ed attuare UN NUOVO PIANO DI SVILUPPO che deve essere un piano ecocompatibile e sostenibile, rispettoso del territorio e del paesaggio. Esso deve prevedere UN PIANO GENERALE DI BONIFICHE col vincolo europeo di “chi inquina, paga” con cantieri aperti in tutta l’isola ormai devastata in gran parte dalla vecchia industrializzazione e dalla speculazione. Esso deve attuare grandi investimenti sulla Rete Ferroviaria in gran parte da ridisegnare e rifare per consentire ai sardi di uscire dall’isolamento interno. Un PIANO che punta alla modernizzazione e rilancio del Comparto Agroalimentare e Pastorale con industrie di trasformazione e conservazione dei prodotti. Un PIANO che favorisca l’industria turistica diffusa nel territorio e per tutto l’anno e punti su Industrie ad alta innovazione tecnologica e ricerca con investimenti consistenti nell’industria aerospaziale.
8.LA SARDEGNA NON PUO’ ESSERE LA PIATTAFORMA ENERGETICA NAZIONALE perché come isola non ha bisogno di surplus di energia da fonti fossili che già inquinano ( LA SARAS BASTA E AVANZA ) né ha necessità di reti di Gas/Metano che ci vengono imposte tecnologicamente superate e fortemente inaffidabili né tantomeno ha bisogno di RIGASSIFICATORI incredibilmente progettati nelle vicinanze dei centri abitati, come quello a 300 metri dal Villaggio dei Pescatori e a 500 metri dal centro della città di Cagliari. E’ necessario, invece, investire maggiormente sulle fonti energetiche alternative e pulite quali il sole ed il vento, di cui la Sardegna abbonda in tutto l’anno.
9.IN SARDEGNA A 70 ANNI DALLA SUA APPROVAZIONE (26 FEBBRAIO 1948 ) ABBIAMO BISOGNO DI RISCRIVERE LO STATUTO SPECIALE, adeguandolo alla visione europea ed internazionale e alle nuove esigenze delle società moderne, allargando le sue competenze primarie in primo luogo per quanto riguarda le potestà in materia fiscale ,sui beni archeologici, museali e artistici, sulla scuola e sull’insegnamento come materia curriculare della lingua storia e cultura sarda.
10.LA SARDEGNA HA DIRITTO DI ESSERE COLLEGATA E RAGGIUNGIBILE DALL’EUROPA E DAL TUTTO IL MONDO, RICONOSCIUTA E RISPETTATA COME ISOLA TOTALMENTE IN REGIME DI ZONA FRANCA NEI SUOI PORTI, AEROPORTI E TERRITORI.
LA SALUTIAMO DA SARDI CON IL NOSTRO AUGURIO “SALUDI E TRIGU”, SALUTE E ABBONDANZA DI RACCOLTO OVVERO FELICITA’ E BENESSERE ,“FORZA PARIS”, FORZA INSIEME.
Cagliari, 26/02/2018

GIACOMO MELONI SEGRETARIO NAZ. LE CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA-CSS
MARCO MAMELI PRESIDENTE ASSOTZIUS CONSUMADORIS SARDIGNA ONLUS
ANGELO CREMONE – ENNIO CABIDDU COORDINATORI DI SARDEGNA PULITA
RICCARDO PIRAS SEGRETARIO REGIONALE DI ALTRA AGRICOLTURA
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lampada aladin micromicrodi Aladin
Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»

Caro Presidente

img_4843LETTERA APERTA AL PRESIDENTE
SERGIO MATTARELLA
IN VISITA A CAGLIARI PER I
70 ANNI DELLO STATUTO SARDO
26 FEBBRAIO 1948 –
26 FEBBRAIO 2018.
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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI
DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948-26 FEBBRAIO 2018
SIG.PRESIDENTE DELLA REPPUBLICA ON. SERGIO MATTARELLA
Benibeniu, Benvenuto, Sig. Presidente a Cagliari, capitale dell’Isola di Sardegna, che nell’immaginario collettivo di molti di noi sardi vorremmo capitale della Nazione Sarda dentro un contesto federale della Repubblica Italiana in una Europa dei Popoli. Vorremmo sottoporle alcune problematiche presenti nella nostra isola, di cui difficilmente sentirà parlare nei discorsi ufficiali dei Rappresentanti delle Istituzioni Regionali poiché il rigido protocollo e la brevità della Sua visita non prevede la possibilità di interventi non programmati.
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Materiali del Convegno per il Lavoro.

locandina-convegno-2Intervento di Giacomo Meloni al Convegno “Lavorare meno. Lavorare meglio. Lavorare tutti”
Cagliari 4-5 ottobre 2017

giacomo-mNon vi parlerò come sindacalista, ma, viste le polemiche di questi giorni, voglio precisare che sono contro ogni intervento dei Governi sui sindacati, che devono necessariamente riformarsi ed adeguarsi alla società contemporanea.
La vera riforma del sindacato è quella di regolare per legge la rappresentanza, affidandola a libere elezioni tra i lavoratori col sistema proporzionale.
(segue)

Oggi lunedì 7 agosto 2017

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. Avviso ai naviganti. Considerato il periodo estivo l’aggiornamento del sito potrebbe non essere regolare. Ma il sito non chiude per ferie. Buone vacanze a tutti!

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democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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LA ZONA FRANCA DOGANALE DI CAGLIARI: una presa per il sedere dei nostri amministratori politici regionali. Vittima il popolo sardo.
Pinocchio visto da Enrico Mazzanti di Firenze anno 1883IL CIABATTINO PIGLIARU (della zona franca). Durante la prima guerra mondiale un soldato sardo portò ad aggiustare i propri stivali ad un ciabattino di Asiago, il quale, dopo averne valutato lo stato e l’entità delle riparazioni da fare, disse: “Va bene, torna tra quindici giorni”. E li ripose in uno scaffale alle sue spalle. Il soldato se ne andò soddisfatto, ma non tornò dopo quindici giorni, avendo dimenticato i suoi stivali, forse perché impegnato a salvare la pelle, come per fortuna gli riuscì. Se ne ricordò d’un tratto ben tre anni dopo, quando, a guerra finita, tornato ad Asiago, questa volta in visita turistica, mentre passeggiava nella città riconobbe la bottega del calzolaio. Entrò, si presentò e chiese dei suoi stivali. “Mi ricordo benissimo”, disse il calzolaio, tirando fuori dallo scaffale gli stivali impolverati, esattamente nello stato in cui il soldato glieli aveva consegnati tre anni prima. “Ma non ricordo cosa le avevo promesso”. “Beh – disse l’ex soldato – mi aveva detto di ripassare dopo quindici giorni che me li avrebbe consegnati tornati a nuovo”. “Ah! Ora mi ricordo” – disse il calzolaio. “E allora?” – chiese l’ex soldato. “Esattamente come le avevo promesso – rispose il ciabattino – Torni tra quindici giorni”.
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eddyburgCITTÀ E TERRITORIO » TEMI E PROBLEMI » ABUSIVISMO
Mafia, affari e cemento: l’Odissea delle spiagge italiane
di ELENA KANIADAKIS
«Lo studio presentato dai Verdi:sotto attacco seimila chilometri di costa sequestrati 110 stabilimenti alle organizzazioni criminali». la Repubblica, ripreso da eddyburg e da aladinews, 2 agosto 2017 (c.m.c.)
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Perché solo la partecipazione popolare salva le nostre città

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QUARTIERE È POTERE
di Franco La Cecla, su La Repubblica 15 luglio 2012.
Quando i gay di San Francisco tra il 1980 ed il 1985 hanno cominciato ad espandersi dal quartiere di Castro a quelli vicini, la Mission Discrict abitata dai latinos, la Fillmore tradizionalmente nera, si è sentito per la prima volta parlare di “gentrification”, un neologismo che vuol dire letteralmente “imborghesimento”, essendo la “gentry” la “gente per bene”, anzi per esattezza «gente con una buona posizione sociale vicina ma inferiore a quella della nobiltà». I gay, in piena ascesa sociale allora – poco dopo sarebbe scoppiata l’Aids decimandone e impoverendone la popolazione – volevano abitare in quartieri “chic”, col verde ben curato, una buona dose di sicurezza per strada, e negozi e boutique che riflettessero il loro gusto quello “slick” che in italiano significa un po’ “leccato”. I neri e i latini reagirono e a volte violentemente. L’Aids bloccò tutto, ma verso la fine del secolo apparvero nuovi ricchi, i “dot.com”, i giovani di Silicon Valley che avevano fatto un sacco di soldi con la rivoluzione informatica. Comprarono le case della Missione di Fillmore al primo prezzo richiesto loro e uccisero per sempre quelli che erano stati i quartieri della bohème vera di San Francisco. La bolla immobiliare creata da loro fece lievitare talmente i prezzi che buona parte dei ristoranti e dei negozi, delle gallerie d’arte e dei posti che facevano musica chiusero. E la città nel suo insieme divenne un dormitorio per annoiati pendolari tra la Silicon Valley e San Francisco. Questo è un processo tipico della gentrification, secondo la definizione che la sociologa Ruth Glass ne diede nel 1964, una invasione dei quartieri della working class da parte delle classi medie. Ne rimane fuori però la molla scatenante. Perché i “borghesi” vogliano trasferirsi in un quartiere un po’ malandato e popolare ci vuole l’effetto che solo recentemente – una decina di anni fa – è stato definito “creative city”. La borghesia è attirata dalla vitalità dei quartieri più poveri, ma creativi, quelli dove ci stanno ancora i posti in cui si mangia bene, l’atmosfera è informale e per le strade c’è gente, artisti, musicisti, giovani, nullafacenti, e gente che si inventa maniere di vivere un po’ diverse o le ha per tradizione. A Parigi può essere la zona di Menilmontant o di Barbes, a Roma la Trastevere di un tempo e il Pigneto di oggi, a Milano via Paolo Sarpi o il quartiere Isola. Ma la borghesia alla fine detesta proprio i motivi per cui è attirata da un quartiere: vuole i locali, ma poi non vuole essere disturbata nel sonno, vuole l’animazione, ma non vuole vederne troppa, vuole la multietnicità, ma ne ha paura. E allora l’effetto “creative city” si trasforma presto in città dormitorio. La gentrification finisce per uccidere ciò che ama. È quello che sta succedendo a Berlino, non solo nel quartiere molto vivo di Kreuzberg, tradizionalmente uno dei più poveri della ex Berlino Ovest, ma in tutti i quartieri della ex Berlino Est come Mitte che fino a poco tempo fa erano considerati “limite” dove affitti bassi, difficoltà di accesso ed una popolazione mista di immigrati e giovani anarchici e post-hippie avevano inventato una maniera di vivere piuttosto sperimentale. Il Guggenheim finanziato dalla BMW voleva installare a Kreuzberg una architettura provvisoria ideata dall’atelier Bow-Wow e i propri laboratori ma questo ha suscitato le proteste della popolazione che vi vedeva una mossa da “gentrification”. Alla fine le proteste hanno avuto successo – niente architettura provvisoria, ma un laboratorio fiume da oggi al 25 luglio su “Come fare le città”, con dentro tutte le tematiche scottanti, gentrification, smart cities, partecipazione, governance. A Berlino si sente che il successo della città delle gallerie d’arte e della mondanità ha ucciso la parte più dark, trasgressiva, underground della città. La città attira il turismo in cerca di posti trendy, ma si trasforma in un posto sempre più per bene. Se questo è un esempio del problema però è vero che le cose spesso sono più complicate. Uno dei casi tipici è Barcellona, la Barcellona di fino a sei anni fa, di quando tutti i giovani europei volevano andarci a stare, una zona franca di libertà, simpatia, convivialità e pazzia. L’origine era il modo con cui la città aveva affrontato il dopo-Franco, dandosi una configurazione pensata proprio in funzione di un rilancio internazionale. Un grande sindaco, un gruppo geniale di architetti avevano “risanato” il centro storico, luogo di una secolare miseria, ma anche di una intensissima vita popolare, avevano creato un lungomare ed una spiaggia, interrato le arterie di grande traffico, offerto alle imprese immobiliari l’occasione di costruire, se provvedevano anche al decoro degli spazi pubblici. Ovviamente si trattava di “gentrification” e una parte della gente – dei poveri – che abitavano nel centro storico se ne dovettero andare, non perché cacciati via, ma perché il costo della vita si era improvvisamente quintuplicato. L’effetto è stata una Barcellona bella, internazionale, ma che consumava ad un ritmo veloce proprio i valori che propagandava: la convivialità distrutta dall’arrivo di troppi turisti, la vita di quartiere devastata dai nuovi compratori, i tradizionali luoghi di ritrovo trasformati in “tiendas” chic e care. Chi ha sbagliato? Tutti e nessuno: la gentrification risponde all’esigenza di rendere le città più vivibili, meno degradate, ma è vero che questo processo di upgrading inevitabilmente elimina le opportunità che un quartiere povero e popolare offre a chi ci sta. La “bohème” o come la chiamano oggi i comunicatori “la creative city” ha sempre attirato quelli che pensano di poterla comprare, ma che non dormirebbero mai nella soffitta di Mimì. È la dialettica tra rinnovamento urbano e conservazione sociale, una dialettica difficile da gestire in modo che non si trasformi in un meccanismo distruttore. Josip Acebillo, l’architetto geniale che di Barcellona è l’inventore, sa di avere creato un po’ un mostro che alla fine è crollato con l’esplosione della bolla immobiliare. Eppure viene chiamato a ripetere l’esempio Barcellona a Singapore, in Russia, negli Emirati. E oggi come non mai il verbo delle “creative cities” e delle “smart cities” non fa altro che inventare altre definizioni per una questione che rimane aperta. “Smart city” sarebbe una città “eco-sostenibile”, “socialmente innovativa”, “partecipativa”, che ha risolto i problemi della mobilità e quelli della conflittualità e che ha un governo misto pubblico-privato. Tutto molto interessante, ma il verbo rimane sempre innovazione e questa spesso si scontra con i valori prodotti da chi già ha abitato la città, rendendola un posto bello e vivibile. Le città sono creative e furbe se mantengono quel condensato di vita sociale informale e autoprodotta che soltanto i quartieri ad alta densità – rapporti vis-à-vis, botteghe artigianali, bambini che giocano per strada, presenza di anziani fuori dalla porta, mercati e cibo all’aperto, panni stesi ad asciugare – possono assicurare. Shanghai e Pechino sono l’esempio di come il potere centrale e il nuovo vangelo dell’arricchimento condanna proprio gli “utong” e gli “shikumen”, i vicoli e le strade della Cina conviviale e popolare. E nello stesso tempo cancella quello che invece riconosce come un patrimonio, almeno dal punto di vista turistico. Che soluzioni ci sono? Probabilmente una ridefinizione di “rinnovamento urbano” che tenga conto della necessaria componente di compattezza e densità sociale. Anni fa mi ero battuto perché qualcuno calcolasse il valore aggiunto prodotto dall’abitare bene – socialmente, collettivamente – un posto. La gentrification è attirata proprio da quel valore, da quella che io chiamo “Mente Locale” la relazione di identità tra abitanti e luoghi dell’abitare. È questa la ricchezza prodotta da una città che non deve essere spazzata via dalla gentrification.
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FRANCO LA CECLA
15 luglio 2012 Archivio La Repubblica online.

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- Gentrification a Cagliari, nel quartiere di Villanova.
MAURIZIO MEMOLI – ALBERTO PISANO – MATTEO PUTTILLI. GENTRIFICATION E COSMOPOLITISMO A CAGLIARI: IL QUARTIERE DI VILLANOVA
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Gentrification: se ne parlò anche a Cagliari.

Il percorso verso le elezioni regionali sarde è ancora lungo. Come impiegare bene il tempo, da qui ad allora.

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di Antonio Dessì

Mentre il decorso del tempo ci avvicina rapidamente alle elezioni politiche generali, che, anticipate o meno, avverranno entro gli inizi della primavera del 2018, la politica sarda sembra aver cominciato i movimenti in vista delle prossime elezioni regionali, che però si terranno nel 2019.
La data della consultazione regionale è abbastanza lontana, a dire il vero e alcuni movimenti sono stati anticipati dai rumors di possibili dimissioni del Presidente della Regione, recentemente e, credo, definitivamente smentiti.
La XV legislatura regionale scorrerà, immagino, fino alla scadenza naturale: salute -sul piano personale, con sincerità, auspicabilmente- permettendo, carattere, orgoglio e senso di responsabilità di Francesco Pigliaru non mi hanno mai indotto a ritenerlo persona che getti facilmente la spugna.
Non prevedo tuttavia che conosceremo particolari colpi d’ala dell’esperienza in corso: il combustibile politico e programmatico, ma prima ancora l’humus culturale del centrosinistra-sovranista non era particolarmente innovativo in partenza e mi pare ormai francamente esausto.
Si può inoltre prevedere abbastanza facilmente che influiranno sulla politica sarda le vicende italiane: le dinamiche del PD, in particolare, non potranno non avere riflessi sulla maggiore forza politica della coalizione e quelle dinamiche sono strettamente collegate alle prospettive elettorali italiane, dal cui risultato a sua volta dipenderà il quadro politico di fine legislatura alla Regione.
Direi che specularmente il discorso può estendersi allo schieramento istituzionale di opposizione, quello di centro-destra.
Non è pertanto neppure da prevedersi a breve una modifica della contestatissima legge elettorale regionale: le forze politiche rappresentate nell’Assemblea legislativa la modificheranno soltanto quando sarà chiara l’articolazione dei soggetti in campo a ridosso delle elezioni. La legge vigente sarà modificata, per quanto riguarda premi e sbarramenti, a seconda di questa articolazione e dei possibili, eventuali “patti di sindacato”.
Viene da chiedersi se valga la pena -da parte di chi lo sta facendo- di avviare processi preelettorali così anticipatamente e, da parte di chi li osserva, di commentarli.
Se tuttavia, nel contesto di impotenza della politica e delle istituzioni regionali (non di recente né di meramente autoctona origine) a modificare le condizioni economiche e sociali della Sardegna, la politica stessa si avventurasse sull’unico campo che è di suo pieno dominio, quello delle riforme “istituzionali”, ecco, allora sì che varrebbe la pena di esercitare una vigilanza attenta, anzitutto da parte di chi ha sostenuto la campagna referendaria contro la revisione costituzionale e in specie di chi intende proseguirla in chiave di attuazione e sviluppo del progetto costituzionale.
Mentre non ritengo realistico l’avvio di una rinegoziazione dello Statuto speciale (non ve ne sono minimamente le condizioni interne sarde, nè se ne intravvedono le condizioni parlamentari), resterebbe infatti nella disponibilità regionale la partita interna, quella della cosiddetta “legge statutaria”, concernente, oltre alla materia elettorale, la forma di governo, l’organizzazione della Regione (e dell’ordinamento autonomistico complessivo) e le forme di partecipazione popolare ai processi istituzionali.
A parte il tema elettorale, altre contingenze potrebbero stimolare la politica sarda in questa direzione: in primo luogo la necessità di rivedere lo scombinato assetto delle autonomie locali, prodotto dalla cosiddetta riforma dell’anno scorso, alla luce del risultato referendario che ha confermato le Province tra le articolazioni territoriali della Repubblica.
Credo che sarebbe una distrazione imperdonabile, per quanti continuano a agire al di fuori dell’oligarchia partitica rappresentata in Consiglio, lasciar correre come routinaria qualunque discussione e decisione si sviluppassero eventualmente in sede istituzionale sui temi ordinamentali.
Ogni ipotesi di rifondazione della soggettività istituzionale della Sardegna (uso questo concetto ampio per non perdermi nelle differenziazioni ideali e progettuali che attraversano un campo di opinione e di formazioni d’ispirazione autonomista, sovranista, federalista, indipendentista) secondo me ha infatti come precondizione l’impronta che si vuol dare a quella seppur limitata forma di autogoverno della quale il quadro costituzionale e statutario, nella loro contingente materialità, ci consentono di disporre.
Le questioni da riassumere sono abbastanza note e, se devo immediatamente muovere una critica (mi piacerebbe fosse presa, almeno in questa sede, come mossa da sincero intento costruttivo), alle varie elaborazioni che leggo anche in queste settimane su giornali e social, è una critica alla confusione e alla reticenza proprio su tali questioni.
Recentemente ne ho sollevato una, senza la cui chiara definizione è difficile anche elaborare principi per una proposta di legge elettorale. Si resta nell’opzione di governo presidenzialista, oppure si riesamina la prospettiva di una forma di governo a fondamento parlamentare?
Non è cosa da poco. La forma di governo presidenziale, infatti, costituisce un confine materiale che limita , per esempio, una strutturazione proporzionalista della rappresentanza, postulando la presenza di un premio di maggioranza.
Solleverò in questa sede una questione ordinamentale di ancor maggiore portata.
La Regione che vorremmo (e in nuce la forma di soggettività eventualmente autonoma, distinta, federata o indipendente) che in molti diciamo di indicare come prospettiva, deve avere una struttura centralista, o deve connotarsi come un ordinamento nel quale il potere e le funzioni sono distribuiti fra tutte le articolazioni nelle quali si esprime la sovranità popolare?
Il tema del riassetto delle province, in particolare, torna ad essere cruciale. Perchè da questo dipende largamente la forma della Regione.
Lo Statuto indica programmaticamente, fin dall’origine (art. 44), che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici. La formula è abbastanza antiquata, ma non esclude affatto che anzichè di delega si possa parlare, in legge statutaria, di trasferimento o di attribuzione.
Sappiamo che uno dei maggiori tradimenti del programma statutario è consistito invece proprio nella realizzazione di una Regione centralistica (una brutta copia dello Stato italiano), con un apparato politico e burocratico ipertrofico, verticistico, rigido, lento, non trasparente.
Una tendenza che negli ultimi dieci anni almeno, anzichè invertirsi, si è accentuata.
Vogliamo uscire dal generico e avanzare una proposta radicalmente riformista?
La proposta non può che essere la devoluzione pressochè totale della funzione amministrativa a Province, Città metropolitana e Comuni, accompagnata dal più ampio potere regolamentare, dalle risorse e dal personale occorrenti, che andrebbero corrispondentemente loro trasferiti dalla Regione. Questo presupporrebbe una ridefinizione delle circoscrizioni provinciali e un ritorno pieno alla loro elettività, nonchè una ridistribuzione delle funzioni normativa e amministrativa tale da non ingenerare una gerarchia fra enti intermedi e comuni, ma una cooperazione intersistemica e intersoggettiva orizzontale.
Alla Regione cosa resterebbe?
Intanto resterebbe la funzione di relazione bilaterale, intersoggettiva con lo Stato nell’ambito dell’ordinamento europeo e di quello della Repubblica.
Non è questa la sede per approfondire i contorni di questo amplissimo ambito relazionale. Basti dire, per comprenderne l’ampiezza, che vi rientrano questioni come la partecipazione alle decisioni governative (il Presidente della Regione in Consiglio dei Ministri, il potere della Regione di chiedere la sospensione con decreto legge dei provvedimenti statali lesivi dei propri interessi, la rappresentanza diretta della Regione nelle sedi di elaborazione dei trattati commerciali che incidano sugli scambi di interesse regionale), già oggi contemplate dallo Statuto, ma del tutto ignorate.
Vi rientrano, ancora, il potere di iniziativa legislativa nazionale costituzionale, statutaria, legislativa esercitabile dal Consiglio regionale, unitamente alla facoltà di rivolgere al Parlamento ordini del giorno chiedendone la discussione.
Vi rientrano il concorso con lo Stato per la predisposizione del Piano organico (di rinascita: si, è una terminologia antiquata, ma sempre restano i concetti di piano organico, di concorso, di solidarietà e di aggiuntività delle risorse), nonchè tutta la questione della definizione della partita delle entrate tributarie e dei poteri in materia fiscale, ordinaria e di vantaggio (zona franca).
Insomma, per una Regione che ambisse a “farsi Stato”, ce ne sarebbe d’avanzo, purchè liberata dalla sua compulsione bipolare a farsi invece ora grande e unico Comune, ora Prefettura periferica dell’amministrazione governativa centrale.
Resterebbero poi la potestà legislativa, quella di programmazione e quella di bilancio. Una ridefinizione dei compiti fra soggetti dell’ordinamento avrebbe ripercussioni dirette sulla rispettiva organizzazione, ma anche sulle rispettive competenze in materia di gestione delle risorse.
E’ chiaro anzitutto che una Regione a dimensione e prospettiva “statuale” dovrebbe avere una fisionomia estremamente concentrata sulle funzioni strategiche, che però si “ridurrebbero” alla promozione dello sviluppo economico e dell’occupazione, alla tutela ambientale e paesaggistica, alla pianificazione territoriale, al finanziamento e coordinamento del welfare (istruzione, formazione, sanità, interventi per superare gli squilibri sociali e le povertà).
Il che comporterebbe una struttura politico-amministrativa estremamente ridotta, altamente qualificata, non burocratica: immaginiamoci cinque-sei dicasteri regionali e due o tre agenzie in luogo dei dodici assessorati e della pletora di enti e agenzie attuali.
L’altra conseguenza si avrebbe sulla finanza e sul bilancio regionale. E’ vero che l’articolo 8 e seguenti dello Statuto attribuiscono le entrate erariali alla Regione, non a Province e Comuni, le cui fonti di finanziamento sono tuttora rimesse prevalentemente alle leggi dello Stato (con le conseguenze, in termini di restrizioni, che abbiamo progressivamente conosciuto e alle quali sopperisce solo in parte la Regione). Ma questo non toglie che la funzione della Regione sia quella di restituire le risorse al sistema economico e sociale dal quale sono prelevate. Insomma sono “sue”, le entrate, ma pur sempre in nome e per conto dei contribuenti sardi.
L’idea che mi son fatto è che il bilancio regionale dovrebbe essere riarticolato in sole quattro grandi voci: interventi strategici in economia (piccola e media impresa, agricoltura e zootecnia, attrazione, innovazione e ricerca), welfare (sanità, istruzione e politiche sociali a coordinamento regionale), reti di infrastrutture materiali e immateriali di livello regionale, finanziamento del sistema degli enti locali. Stop.
Non paia operazione concettuale di poco conto.
Una ristrutturazione strategica di tal fatta è la sola che potrebbe consentire, per esempio, di valutare la praticabilità di una misura di redistribuzione (che, ripeto, si configurerebbe pur sempre come una restituzione) delle entrate regionali in una forma non marginale, ma estesa di reddito di cittadinanza.
Mi vado sempre più convincendo che si tratterebbe di una misura utile non solo ai tradizionali fini sociali, di contrasto alla povertà, bensì anche ai fini economici, di rilancio dei consumi come stimolo all’economia e, ai fini territoriali, come contributo a invertire lo spopolamento dei centri interni e minori.
Tuttavia questo davvero comporterebbe una drastica rivisitazione e riconversione della finanza regionale. Chi ha avuto pratica non meramente contabile della materia finanziaria sa che ogni voce, ogni capitolo, ogni comma delle leggi di bilancio e di spesa afferisce a interessi di categorie sociali e di singoli e che questo ne implica una rigidità superabile solo in diretta conseguenza di grandi scelte politiche riformatrici dichiarate, trasparenti, democraticamente condivise, pena una resistenza corporativa o assistenzialistica che non consentirebbe alcuna modifica razionalizzatrice e ridistributiva.
A conclusione del lungo (eppure ancora sintetico) ragionamento, quello che voglio dire è che difficilmente la legislatura in corso affronterà con questo respiro, pur avendone tutti i poteri, le questioni in campo.
Ma se soggetti e movimenti i quali si stanno già predisponendo per contendere all’establishment la rappresentanza e il governo alla Regione non si porranno fin d’ora, anche da una collocazione esterna all’attuale rappresentanza istituzionale, all’altezza di questa sfida, e si avviassero a presentarsi come meri cartelli elettorali, più o meno verniciati di ideologie e più o meno caratterizzati dall’ennesima corsa al “posto al sole” di individui, di gruppi, di sigle, l’interesse, anche elettorale, dei sardi verso di loro, ad onta di ogni velleità, non sarà più alto di quello che progressivamente va scemando nei confronti della politica in generale e concetti quali autonomia, specialità, sovranismo, federalismo, indipendentismo appariranno sempre più vuoti, perfino strumentali e alla fin fine tali da suscitare, più che disinteresse, addirittura ripulsa.

Ammentu de Giuanne Frantziscu Pintore

pintore_lsc_2016_2_simpl-e1474393770510di Francesco Casula.

Il 25 settembre prossimo a San Sperate, a quattro anni dalla sua scomparsa, verrà ricordato Gianfranco Pintore, la sua opera, la sua figura. A parlarne, suoi amici e compagni di tante battaglie, soprattutto per la lingua sarda e il bilinguismo perfetto. Fra gli altri, Diego Corraine (uno degli organizzatori), Mario Carboni e Gesuino Mattana, già sindaco di San Sperate.
GIANFRANCO PINTORE, uno degli intellettuali sardi più significativi degli ultimi decenni è stato giornalista, saggista e scrittore bilingue e identitario. Nasce ad Irgoli (Nuoro) il 31 agosto 1939. Nel 1951 lascia la Sardegna. A Firenze frequenta il ginnasio, il liceo classico e si iscrive all’Università. Ha in testa un’idea: la laurea non serve per il mestiere di giornalista che vuol fare e fa gli esami che gli interessano: in Architettura con Ludovico Quaroni, in Scienze politiche con Giovanni Spadolini, di Giurisprudenza. Intanto, a partire dal 1962 fa il “volontario di cronaca” nella redazione fiorentina di “L’Unità” e nel 1965 è chiamato alla redazione centrale a Roma, per la quale lavora prima nella sezione cronaca e quindi in quella degli esteri. È inviato speciale e per un certo periodo corrispondente da Varsavia. Dopo le sue dimissioni da ”L’Unità” in seguito all’invasione della Cecoslovacchia, lavora nel settimanale “Mondo Nuovo” e quindi, a Milano, nel settimanale “Abc” come inviato e infine come redattore capo.
Nel 1973 stipula con la casa editrice Mazzotta di Milano un contratto per la redazione di un saggio che l’anno successivo è pubblicato con il titolo “Sardegna: regione o colonia?”. È lo studio del rapporto conflittuale fra la comunità di Orgosolo e lo Stato, giocato fra storia, tradizione orale, testimonianze, ed è anche la ricerca di quanto Orgosolo rappresentasse lo spirito dell’intera Sardegna, di quanto in altre parole la Sardegna potesse sentirsi rappresentata dal sentimento comunitario del paese, altrimenti e altrove descritto come “il paese dei banditi”.
All’uscita del libro decide di restare in Sardegna, come corrispondente di “L’Espresso” di Eugenio Scalfari prima e successivamente di “Tempo illustrato” di Lino Jannuzzi. Lavora anche per “La Nuova Sardegna” di cui fa l’inviato e conduce una serie di campagne di stampa. Quella per il bilinguismo e quella per la Zona franca gli costerà il licenziamento in tronco per richiesta esplicita di un dirigente di partito decisamente contrario e all’uno e all’altra. Dirige a Nuoro la prima, e per ora unica, radio libera bilingue, “Radiu Supramonte” e fonda a San Sperate il mensile “Sa Sardigna”, anch’esso bilingue. - segue -

Deficit investimenti pubblici ripresa economica

albero orto capdi Roberta Carlini su Rocca

Parlare di economia del terremoto non è cinico: è essenziale. Perché è anche per vincoli economici, o per sbagliate scelte economiche, che il terremoto del centro Italia ha ucciso tante persone; e perché la distruzione, e la necessaria ricostruzione, ci dicono molto dei dilemmi nei quali la politica economica è impantanata, e delle prospettive che abbiamo per uscire dalla palude.

la fallacia del Pil

Tanto per cominciare, un terremoto è la conferma più tragica e concreta della fallacia del Pil come misura del nostro benessere. Su quest’ultima, vale ancora oggi come testo universale, per la sua semplicità, il discorso di Robert Kennedy agli studenti dell’università del Kansas (18 marzo 1968): «Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. (…) Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari». Seguono altri esempi, in negativo, di quel che non è misurato dal Pil, dalla «bellezza della nostra poesia» alla «onestà dei nostri pubblici dipendenti», per concludere che il Pil «misura tutto, tranne ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Un testo di altissimo impatto emotivo e politico, e solidamente agganciato anche alla teoria economica, che da allora ha sviluppato altri criteri di misurazione del benessere e aperto filoni di ricerca in materia.

anche un terremoto fa salire questo Pil

Ma torniamo alle prime righe: il Pil misura anche le ambulanze per sgomberare le strade dai morti. Se una casa crolla, il senso comune registra una perdita. Il prodotto nazionale invece può registrare un guadagno: perché bisognerà produrre altri materiali da costruzione, pagare gli operai, rifare gli arredi, tutte attività monetizzate e che andranno a far crescere la produzione e i consumi. Napalm e missili, poi, fanno crescere il Pil due o più volte: quando si producono, e quando si ricostruisce sulle macerie che hanno causato. Anche un tifone, un uragano, un terremoto fanno salire il Pil, in questo senso: prima c’è una perdita netta (patrimoniale), ma poi ci saranno i redditi da ricostruzione.
Dal punto di vista di Kennedy e di tutto il filone di critica al Pil – e di costruzione di indicatori alternativi di benessere – questo non vuol dire che allora non si devono ripulire le autostrade, ricostruire, recuperare. Ma che sarebbe sbagliato valutare il conseguente incremento del Pil come un aumento del benessere.

vincoli alla spesa pubblica

In Europa però – nell’Europa dei trattati e del patto di stabilità – c’è un altro effetto perverso dell’ancoraggio alla misurazione del Pil, ed è nei vincoli della spesa pubblica. All’indomani della tragedia di Amatrice e degli altri paesi distrutti dal sisma, le autorità di Bruxelles hanno infatti chiarito che la «flessibilità» accordata ai nostri conti pubblici in conseguenza del terremoto è limitata agli interventi d’emergenza. Dunque lo stretto necessario per riparare il danno: queste spese potranno essere fatte dal governo in deficit, senza però essere contate nel numero chiave della finanza pubblica, ossia il rapporto deficit/Pil annuale.
Se le parole di Kennedy ci invitavano a una visione qualitativa e allargata del benessere al di là del Pil, i trattati europei ci costringono in una logica solamente quantitativa e ristretta del «bene»: è bene ciò che non va in deficit oltre una certa soglia (prima era il 3%, poi è scesa di una misura che si contratta ogni anno), è male tutto il resto. Sul confine tra bene è male, si è aperta da qualche anno una contrattazione annuale che va sotto il nome di «flessibilità»: visto che c’è stata una lunghissima crisi, visto che non ne siamo ancora usciti, visto che il rapporto tra deficit (e debito) e Pil può peggiorare anche per riduzione del denominatore, oltre che per aumento del numeratore… visto tutto ciò, il governo italiano ha chiesto e in parte ottenuto un margine di flessibilità, insomma di potersi un po’ indebitare per rilanciare l’economia. L’intervento pubblico in deficit per contrastare la congiuntura economica negativa (anche eccezionalmente negativa, come la crisi che si è aperta nel 2008), diventa così l’eccezione, da conquistarsi con fatica e prove alla mano, e mesi e mesi di trattativa estenuante se ne vanno per questa procedura, volta ad evitare altre più sgradevoli procedure: come il commissariamento del Paese via troika, che scatterebbe se si finisse in un deficit «eccessivo», cioè non autorizzato.
Il keynesismo, da impostazione della politica economica molto contestata ma di un qualche successo nel Novecento, diventa un accessorio, che si può usare in presenza di gravi e comprovate disgrazie. Ne consegue che per farsi autorizzare al deficit tutto può servire. E così, via via sono stati invocati come buoni motivi per la flessibilità la crisi dei rifugiati, il terrorismo, le guerre del Mediterraneo, e adesso il terremoto.

perché includere nel computo del deficit anche la spesa per investimenti?

Viste dall’alto del nord Europa, tutte queste terribili questioni possono sembrare poco più che pretesti che i furbissimi italiani – e i popoli del Sud in generale – avanzano per farla franca ancora una volta, e far debiti sulle spalle degli Stati con i conti a posto. È la prova lampante della mancanza di quella solidarietà non solo morale, ma anche finanziaria, che sola può reggere un’area monetaria comune, come nota Joseph Stiglitz nel suo libro The Euro – And its Threat to the Future of Europe, che è da poco uscito negli Stati Uniti e tanto rumore sta facendo da noi, visto che profetizza che di questi mali, a breve, l’Unione morirà. È anche la prova di alcuni difetti di fabbricazione non da poco: per esempio, ammesso che sia accettabile e utile l’aver imposto un tetto rigido al rapporto tra deficit e Pil, perché includere nel computo del deficit anche le spese per gli investimenti? Un’impresa, una famiglia, se devono investire si indebitano, contando di ripagare i debiti con i proventi dell’investimento: perché lo Stato non può? Perché gli Stati sono inefficienti e sperperano i soldi delle tasse, spiazzando così l’iniziativa privata, è la risposta della corrente di pensiero che sta alla base dei patti europei. Come dice lo stesso Stiglitz, per la prima volta nella storia gli economisti hanno potuto fare un esperimento dal vivo. Queste teorie sono state sperimentate sul campo, e i numeri ci dicono com’è andata. Negli anni della crisi (2008-2015), il rapporto tra investimenti e Pil nella zona dell’euro è sceso da 23,2 a 20,08. In Italia, il calo è stato più marcato: da 21,24 a 16,52. Sono scesi sia gli investimenti pubblici – bloccati dal patto di stabilità e dal principio dell’austerità fiscale, che, al contrario degli Usa, l’Europa non ha voluto derogare – che quelli privati. Solo nell’ultimo anno, documenta la Bce, c’è stato un segnale di ripresa, che rischia però di essere gelato dall’incertezza del dopo-Brexit. Persino Draghi, in un’audizione al parlamento europeo, ha auspicato investimenti pubblici per aiutare la ripresa. In modo più netto e non solo per l’Europa, la stessa ricetta è stata proposta dal Fondo monetario internazionale.

se gli investimenti pubblici fossero fuori dal Patto di stabilità

Tutto questo ha a che vedere con la tragedia del terremoto. Non è in discussione l’aiuto d’emergenza, e neanche la ricostruzione delle case cadute (speriamo). Ma tutto il resto, e non è poco. Se gli investimenti pubblici fossero fuori dal patto di stabilità, l’Italia potrebbe avviare un piano di manutenzione straordinaria dei suoi paesi e delle sue città: quelle piccole opere di cui parlano gli ambientalisti, quel «rammendo» che auspica da tempo Renzo Piano, quel progetto Casa Italia che adesso il governo ha proposto. E però: l’Europa non si fida, ma noi ci fidiamo? A Bruxelles temono che Casa Italia sia l’espediente per far rientrare dalla finestra il lassismo cacciato dalla porta; qui, più concretamente, temiamo che anche questa volta tutto finisca in progetti, carte, documenti nei cassetti, oppure che le opere si facciano sì, ma al caro prezzo della ripresa di corruzione, appalti pilotati, ruberie. Se è questo l’ostacolo, con un po’ di coraggio istituzionale, da entrambi i lati, forse si potrebbe superare. Per esempio, chiamando direttamente le istituzioni e gli organi tecnici del pianeta Ue (ce ne sono, nelle Dire- zioni generali ma anche nella Banca europea per gli investimenti) a gestire la ricostruzione italiana. A concordare i piani (coinvolgendo le popolazioni locali, e gli autori delle buone pratiche di alcune passate ricostruzioni, dal Friuli all’Umbria), scrivere i capitolati, selezionare le imprese, sorvegliare l’avanzamento dei lavori. Facciamoci commissariare, insomma: forse stavolta può servire.
Roberta Carlini
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Rocca 18 2016
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Il Signore è davvero il mio Redentore?
vescovo nuoro mosè marciadi Mosè Marcia, Vescovo di Nuoro*

Abbiamo davanti a noi due date, 1901-2016.
1901, apertura nuovo secolo, papa Leone XIII, il Papa della “Rerum novarum”, indìce un anno Giubilare dedicato a Gesù Cristo Dio, nostro Redentore!
2016, altro Giubileo indetto da papa Francesco dedicato a Gesu’ Cristo, immagine della Misericordia del Padre.
Due date, due anni giubilari, ambedue dedicati all’infinito amore di Dio per noi.
Il primo pone l’accento sull’evento, liberamente voluto dal Cristo, per noi empi, ancora empi, con la sua morte in croce, dandoci la Redenzione, la liberazione dal peccato e la salvezza!
Abbiamo appena ascoltato Paolo che, scrivendo ai Romani, afferma: «In questo Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». (Rom 5,5-11).
È giusto per noi oggi fare festa e nel contempo «ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione».
Il secondo Giubileo, quello della Misericordia, (Miseri-cordia = Il Cuore, L’Amore rivolto alla Miseria) che viviamo noi oggi, dopo poco più di un secolo, ci richiama a contemplare ancora l’amore di Dio che si china, con la Sua infinita pazienza, sulle nostre miserie, e ci spinge ad essere degni suoi figli, misericordiosi come lui, nostro Padre, amando e riscattando gli altri dalla propria miseria: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36).
Potremo mai gustare il Suo amore infinito, la Sua eterna misericordia, se non avvertiamo – ma perdonatemi – e non vogliamo ammettere la nostra o le nostre miserie?
Siamo malati di egoismo e individualismo esasperato. La nostra cultura ci ha abituati alla competizione: la lotta per i primi posti, la ricerca del profitto, la concorrenza fino ad eliminare chi è percepito come avversario, la raccomandazione a scavalcare altri.
La corruzione per aggirare la legge, la furbizia per non pagare il dovuto e tanti altri comportamenti simili ci sono proposti e diventano con facilità i valori portanti del nostro vivere sociale.
Così possiamo contare 133 guerre dal 1900 ad oggi, 25 dal 2000 e di queste 17 ancora in atto. Solo nelle due guerre mondiali, abbiamo contato 88.469.833 morti.
Il Redentore e il Suo Vangelo insegna tutt’altro, proclama la vera rivoluzione alternativa alle nostre “mode”: orgoglio e autosufficienza sono davanti a Lui negazione della vera sapienza.
Chi usa occhiali dalle lenti rosse, vedrà tutto rosso! Se il nostro metro di misura è il PIL, la ricchezza, il denaro, proprio tornaconto, leggerà con questa ottica anche la distruzione e le morti che un terremoto causa in pochi infiniti attimi!
Invece quegli istanti di distruzione sono capaci di generare tanta solidarietà e ci fanno riscoprire bisognosi l’uno dell’altro. «Amatevi come io ho amato voi», insegna il Redentore! E non possono non farci riflettere sulla nostra precarietà e incapacità di programmarci.
È questo egoismo, questa ricerca del proprio dio-denaro, dio-interesse, a spingerci nel non rispettare il creato: «la nostra casa comune, la nostra sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, la nostra madre bella che ci accoglie tra le sue braccia» (Laudato Sii, 1)
«Questa sorella, continua papa Francesco, protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla». (Laudato Sii, 2)
Fratelli, quanto sarebbe per noi deleterio, inqualificabilmente vergognoso e disumano, se rispondesse a verità che la ricerca di gas o di petrolio nelle profondità della terra, fosse causa o anche semplicemente concausa dei terremoti!
Non bastano 291 morti, ma neanche una sola vita stroncata è mai barattabile con un “barile” di combustibile!
Noi qui, a casa nostra, in Sardegna, non siamo più innocenti delle grandi multinazionali, quando con il fuoco, con gli incendi, distruggiamo migliaia di ettari e condanniamo al rogo migliaia di animali, esseri viventi che formano la nostra fauna!
È solo piromania da curare anche forzatamente, come ogni altra malattia deleteria per la persona e per la società, o è idolatria del nostro dio-interesse?
C’è rispetto del creato o non forse ancora il culto al dio-denaro, con i suoi incomprensibili interessi, e i nostri egoismi, con chissà anche quali sospettabili abusi di potere, quando si vuole cambiare la vocazione di una terra a scapito della piccola imprenditoria, familiari private, e a favore di grandi potenze economiche, fossero anche pubbliche?
È ancora il dio “IO”, l’egoismo, il culto del dio-possesso, del dio-piacere a minare e rovinare la famiglia, unica cellula sociale che veramente forma, genera e regge la società! Dimentichiamo troppo spesso il passo della Genesi che racconta la creazione!
Dio non creò né lo stato, né la politica, né la chiesa, né il clero, ma creò la FAMIGLIA!
«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». (Gen 1, 27).
Il Redentore ci ricorda che Dio è Amore! Ma dov’è l’immagine di Dio-Amore nella famiglia quando per un fazzoletto di terra frutto non del proprio lavoro personale, ma di eredità, si ammazza un proprio fratello? O per un testamento, che mi esclude da un bene su cui forse non ho alcun diritto, viene armata la mano omicida contro due della mia stessa famiglia? È amore o egoismo mascherato di finto amore, che per non soffrire io sopprimo mia madre sofferente?
È mai definibile amore il rapporto famigliare dei due coniugi che sfocia nella violenza e nel femminicidio?
Certo in un contesto del genere non ci colpiscono più i dati riferiti dall’ISTAT come nel 2014 l’indice di separazione in Sardegna è stato di 309,4 ogni 1000 matrimoni, mentre vent’anni fa, nel 1995 era di soli 95,3!
O forse ci meraviglia tanto se in Sardegna, nella nostra isola, ancora dati dell’ISTAT, nel 2013 ben 2.070 donne hanno interrotto volontariamente la gravidanza, generando più di cinque aborti al giorno?
Eppure il Redentore che festeggiamo ci insegna tutt’altro, sia sul valore della vita sia sul senso dello stesso dolore, Lui che volutamente si è fatto uomo nel grembo di una donna e patì la morte per la nostra salvezza!
Credo che dovremo davvero festeggiare di più il nostro Redentore, non tanto con le sfilate che ci vedono ancora discordi e capricciosi, quanto in una sana riflessione sui nostri comportamenti che non sempre mostrano nel vissuto la nostra fede nel Cristo Morto e Risorto per noi!
La Sua Misericordia infinita, porta spalancata del Suo Amore senza limiti, attende da me, solo un atto di fiducia, un atto di fede e di abbandono alla Sua Volontà, questo non vanifica la Sua morte e lo rende mio Redentore.
Queste le riflessioni che mi venivano mentre benedicevo l’epigrafe che il comitato “Ultima spiaggia” ha voluto collocare ai piedi del Redentore, ricordando le due date giubilari: il Giubileo della Redenzione e il Giubileo della Misericordia. Credo che guardando questa targa dobbiamo chiederci se il Signore è davvero il mio Redentore o lo sto cercando altrove.
Così la targa in bronzo ricorda le due date riportando quanto scrisse per noi sardi il papa Leone XIII:
“I Sardi dedicano a Gesù Cristo Dio per la Sua Salvezza”
(“Jesu Christo Deo Restitutae Per Ipsum Salutis Anno MCMI Sardi)
Leo P.P. XIII
e l’incipit della Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia:
“Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”
(Misericordiae Vultus Patris – Annus Sanctus Misericordiae Extraordinarius – Anno MMXVI)
Franciscus.

* Omelia del Vescovo di Nuoro Mosè Marcia in occasione della Festa del Redentore del 29 agosto 2016.
L’attacco all’omelia del giornalista (ex montiamo) Mario Sechi, su Il Foglio.
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DIBATTITO su elezioni del Sindaco e del Consiglio comunale di Cagliari. Voce al dissenso

Torri municipio Cagliari
La cultura politica in frantumi, un pragmatismo elettorale senza anima, anche a Cagliari
di Gianfranco Murtas su Fondazione Sardinia
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Elezioni a Cagliari – La deriva a destra del centro sinistra
di Claudia Zuncheddu, su il manifesto sardo

I candidati sindaci incontrano gli imprenditori

Cagliari oggi 8 mar 16Incontro pubblico con i candidati Sindaco di Cagliari
Giovedì 26 maggio 2016, ore 17,00, sala conferenze Confindustria Sardegna Meridionale
In vista delle prossime elezioni comunali di Cagliari l’Associazione della Confindustria Meridionale Sarda organizza un incontro/confronto tra candidati alla carica di Sindaco del capoluogo, presso la sede associativa di viale Colombo 2, Cagliari.
Il Presidente Maurizio de Pascale comunica che l’incontro si svolgerà il prossimo giovedì 26 maggio 2016 con inizio alle ore 17,00 - segue –

Attivazione zone franche: c’è un piano, piano, piano…

calzolaio (1)IL CIABATTINO PIGLIARU (della zona franca). Durante la prima guerra mondiale un soldato sardo portò ad aggiustare i propri stivali ad un ciabattino di Asiago, il quale, dopo averne valutato lo stato e l’entità delle riparazioni da fare, disse: “Va bene, torna tra quindici giorni”. E li ripose in uno scaffale alle sue spalle. Il soldato se ne andò soddisfatto, ma non tornò dopo quindici giorni, avendo dimenticato i suoi stivali, forse perché impegnato a salvare la pelle, come per fortuna gli riuscì. Se ne ricordò d’un tratto ben tre anni dopo, quando, a guerra finita, tornato ad Asiago, questa volta in visita turistica, mentre passeggiava nella città riconobbe la bottega del calzolaio. Entrò, si presentò e chiese dei suoi stivali. “Mi ricordo benissimo”, disse il calzolaio, tirando fuori dallo scaffale gli stivali impolverati, esattamente nello stato in cui il soldato glieli aveva consegnati tre anni prima. “Ma non ricordo cosa le avevo promesso”. “Beh – disse l’ex soldato – mi aveva detto di ripassare dopo quindici giorni che me li avrebbe consegnati tornati a nuovo”. “Ah! Ora mi ricordo” – disse il calzolaio. “E allora?” – chiese l’ex soldato. “Esattamente come le avevo promesso – rispose il ciabattino – Torni tra quindici giorni”.
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lampada aladin micromicroAlcuni accesi sostenitori della zona franca integrale all’indomani della notizia sull’adozione di alcune delibere in materia di istituzione di zone franche da parte della Giunta regionale avevano esultato, parlando perfino di data storica per la Sardegna. Noi prima di esprimere qualsiasi giudizio abbiamo prudentemente aspettato la pubblicazione di dette delibere, in verità con una certa diffidenza, legittimata dalla poca chiarezza del comunicato stampa della Giunta regionale e dalle dichiarazioni del presidente Pigliaru, anch’esse, come in altre occasioni, abbastanza criptiche, tali comunque da non farci capire che cosa la Giunta regionale avesse precisamente deliberato. Abbiamo pertanto aspettato la pubblicazione delle delibere, da cui si capisce che la Giunta regionale non avesse fino al 15 aprile precisa cognizione dell’argomento zona franca e che finalmente è giunto il momento di cominciare ad interessarsene seriamente. Come? Innanzitutto studiandolo essa stessa e chiedendo ai Comuni di fare altrettanto, per poi formulare le proposte dei relativi piani attuativi. Di preciso quindi un sostanziale rinvio delle decisioni da assumere al fine di dare realizzazione alle previsioni statutarie, con l’eccezione dell’istituzione immediata della zona franca di Olbia, con la modalità “non interclusa” e, forse, della zona franca di Portovesme. Allo stato sembrerebbe però che solo la zona franca di Olbia possa effettivamente realizzarsi, nel caso che la progettazione e le procedure fino ad oggi attuate o da attuare dal Comune di Olbia e dalla Regione consentissero di considerarla effettivamente avviata entro il 1° giugno 2016 (non 1° maggio 2016, come riportato nell’allegato della deliberazione regionale) data in cui entra in vigore il divieto dell’Unione Europea di costituzione di zone franche non intercluse, quale appunto quella prevista per Olbia. Da segnalare come la Giunta giustamente avvii l’iter di abrogazione della demagogica legge regionale 2 agosto 2013, n. 20, frettolosamente approvata da un Consiglio regionale nella fase conclusiva della consiliatura, che contribuiva solo ad aumentare la confusione e a paralizzare le iniziative già in attuazione. Incomprensibile invece il silenzio sullo stato di attuazione della zona franca doganale di Cagliari, unica iniziativa realmente avviata.
Complessivamente emerge pertanto una posizione della Giunta caratterizzata da eccessiva prudenza e esasperante lentezza attuativa, soprattutto con riferimento a quanto già da molto tempo si poteva fare, come nel caso della zona franca di Cagliari. Della serie: “Scusateci, non avevamo capito che la questione fosse tanto complessa; studiate e studiamo come fare queste zone franche previste dallo Statuto sardo. In particolare ci dicano i Comuni cosa vogliono, considerati i limiti imposti dalla normazione europea”. E davvero poco, non credete? E poi, la domanda clou, quella che sta alla base della credibilità dell’operato in materia della Giunta regionale: che cosa si sta facendo per la zona franca doganale di Cagliari? E’ dovere della Giunta regionale darne conto con urgenza!
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DOCUMENTAZIONE
- Il comunicato stampa della Giunta regionale del 15 aprile 2016.
- DELIBERAZIONE N. 21/3 DEL 15.4.2016
con l’allegato.
- DELIBERAZIONE N. 21/4 DEL 15.4.2016
con gli allegati. – segue –

Solite promesse non mantenute e solite promesse da mantenere… Intanto inizia il toto-previsioni…

Unione sada Ca 10 3 16 - segue -

LA SARDEGNA CHE VOGLIAMO. QUALE SVILUPPO PER LA SARDEGNA?

Css loghetto senz atondoConfederazione Sindacale Sarda

    DOCUMENTO DELLA SEGRETERIA GENERALE A CONCLUSIONE DELLA GIORNATA DI MOBILITAZIONE POPOLARE DEL 29 FEBBRAIO 2016
    Via Roma, 72 – 09123 Cagliari
    Tel. 070.650379 – Fax 070.2337182 www.confederazionesindacalesarda.it css.sindacatosardo@tiscali.it
    SINDACADU DE SA NATZIONE SARDA – SINDACATO DELLA NAZIONE SARDA

LA SARDEGNA CHE VOGLIAMO
QUALE SVILUPPO PER LA SARDEGNA?

La CSS ha fortemente voluto lunedì 29 febbraio 2016 la GIORNATA DI RISCOSSA per il lavoro vero, quello che Papa Francesco, parlando ai lavoratori nella sua visita a Cagliari del 22 settembre 2013, ha più volte affermato nel testo scritto, consegnato all’Arcivescovo di Cagliari Mons. Arrigo Miglio col mandato di diffonderlo: “Ho detto lavoro “dignitoso”, e lo sottolineo, perché purtroppo, specialmente quando c’è crisi e il bisogno è forte, aumenta il lavoro disumano, il lavoro-schiavo, il lavoro senza la giusta sicurezza, oppure senza il rispetto del creato, o senza il rispetto del riposo, della festa e della famiglia…”.
GIORNATA DI RISCOSSA – per uno sviluppo eco-sostenibile
Già prima della promulgazione dell’Enciclica “Laudato sì” il 24 maggio 2015, lo stesso Papa Francesco a Cagliari aveva affermato: “Il lavoro dev’essere coniugato con la custodia del creato, perché questo venga preservato con responsabilità per le generazioni future. Il creato non è merce da sfruttare, ma dono da custodire. L’impegno ecologico stesso è occasione di nuova occupazione nei settori ad esso collegati, come l’energia, la prevenzione e l’abbattimento delle diverse forme di inquinamento, la vigilanza sugli incendi del patrimonio boschivo, e così via. Custodire il creato, custodire l’uomo con un lavoro dignitoso sia impegno di tutti. Ecologia…e anche ecologia umana”.
La Confederazione Sindacale Sarda ha chiamato a raccolta tutte le forze politiche, i Movimenti e i Comitati che in questi anni hanno organizzate lotte per l’ambiente pulito, contro i poligoni e le fabbriche di bombe, per il registro tumori ed opposizione al vecchio modello di sviluppo che -ormai fallimentare e morente – altre forze e poteri forti intendono rilanciare con soldi pubblici e inganni.
Per questo motivo la giornata ha visto nella mattinata una Manifestazione sotto l’androne del Palazzo del Consiglio Regionale in via Roma a Cagliari dove sono intervenuti i leader di tutti i Movimenti a commento del grande striscione di 6×3 metri che campeggiava davanti al porticato del Palazzo con la scritta:
“FABBRICHE DI BOMBE – CENTRALI A CARBONE – NON E’ LAVORO MALEDETTI E DELINQUENTI I TRAFFICANTI DI ARMI E CHI FA LE GUERRE”

Nel convegno serale, tenutosi nel salone della Ex-Distilleria/Città dell’Impresa a Pirri, i relatori dr. Massimo Dadea, dr. Vincenzo Migaleddu, Prof. Gianfranco Bottazzi e dr. Marco Meloni hanno svolto il Tema: “LA SARDEGNA CHE VOGLIAMO” e risposto alla domanda: “QUALE SVILUPPO PER LA SARDEGNA?”

La posizione della Confederazione Sindacale Sarda -CSS
LE TRE EMERGENZE
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