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AmbienteSardegnaCheFare?

icendiPer combattere gli incendi è tempo di Prevenzione Civile anziché invocare la Protezione dei Canadair
di Giuseppe Mariano Delogu

By sardegnasoprattutto/ 2 agosto 2017/Città & Campagna/

Viviamo nell’era dei “megaincendi” che non sono solo “mega” per le dimensioni, ma per le caratteristiche brutali della combustione, che li collocano immediatamente nel contesto “fuori controllo” cioè nella impossibilità anche per le migliori organizzazioni di lotta, ipertecnologiche, strutturate, formate, militarizzate, di estinguerli con efficacia. Sono il risultato del modo in cui abbiamo gestito il territorio per decine di anni.

Abbiamo assistito (secondo i dati statistici dell’Inventario Forestale Nazionale) ad un aumento dal 1985 al 2015 da 850.000 ettari a 1.250.000 ettari di terreno occupato da “foreste” in Sardegna. Può questo essere considerato un successo delle politiche ambientali? No, è il risultato di un profondo cambio culturale in negativo, che vede terreni, un tempo agricoli e pastorali, oggi invasi dalla macchia mediterranea in vari stadi di sviluppo. Quella macchia che per millenni era periodicamente pascolata dalle capre e – con cicli che definivano un tipico e storico regime di fuoco – veniva periodicamente bruciata a lembi per rinnovare la capacità nutritiva dei giovani germogli a favore delle capre.

Oggi la macchia mediterranea è “un bene paesistico“, intoccabile, curioso ornamento architettonico per le nuove case turistiche e tabù intoccabile per chi vuole rimettere a coltura i suoli dei propri avi.

La definizione di “bosco” contenuta nella legge forestale sarda (L.R. n° 8/2016, art. 4 comma 5 lett. c)) non lascia dubbi: “Sono assimilabili a bosco”…..”c) le colonizzazioni spontanee di specie arboree o arbustive su terreni precedentemente non boscati, quando il processo in atto ha determinato l’insediamento di un soprassuolo arboreo o arbustivo, la cui copertura, intesa come proiezione al suolo delle chiome, superi il 20 per cento dell’area o, nel caso di terreni sottoposti a vincolo idrogeologico, quando siano trascorsi almeno dieci anni dall’ultima lavorazione documentata“.

Dunque rinnovare la coltura tradizionale su suoli abbandonati per qualche anno richiederebbe l’autorizzazione paesistica e una pletora di documenti progettuali per dimostrare la non compromissione paesaggistica per la nuova attività. E quanti terreni in queste condizioni in giro per la Sardegna? Il Consiglio regionale, con questa definizione, è stato più autolesionista di quanto – fortunatamente – un recente D.P.R. ha inteso attenuare (indicando ai soprintendenti la non necessità per gli ex-coltivi di richieder l’autorizzazione paesistica).

Ci facciamo male da soli! E che dire dei veri boschi? Selvicoltura conservativa, naturalistica, biodiversa,…. Tutto quello che sarebbe necessario non è contenuto nel P.F.A.R. (Piano Forestale Ambientale Regionale), quello che per fare le cose prevede che si facciano altri piani, sempre più di dettaglio. sempre più in fine.

Talmente “in fine “ che la loro attuazione traguarda l’infinito! E che cosa è necessario, per dei boschi inseriti in un contesto di cambio climatico, dove ogni anno che passa si accumulano i combustibili insieme alle onde di calore, la siccità, le energie violente del vento prima delle grandi alluvioni d’autunno? Selvicoltura preventiva, quella che riduce i combustibili, crea un bosco aperto pascolabile, un bosco in cui la distanza tra gli alberi non permette la propagazione del fuoco di chioma, e periodicamente viene pascolato salvo nei momenti (una volta ogni 100 anni) in cui è necessario rinnovarli.

Basta conoscere un poco di storia forestale della Sardegna per richiamare alla mente che i boschi naturali di querce erano definiti “ghiandiferi”, cioè boschi aperti per alimentare il pascolo suino. Oggi le cose sono indubbiamente cambiate, non ultimo il problema dei divieti legati alla peste suina. Ma non abbiamo da inventare chissà quali modelli selvicolturali per la nostra terra, dobbiamo solo recuperare quelli antichi e più resilienti.

Ma oggi impressiona in particolare la totale assenza nel dibattito sulla prossima legge urbanistica dal concetto di “rischio incendio“. Il testo unico sul “governo del territorio”, universalmente oggi sottoposto a critica, non conosce l’incendio come rischio concreto della nostra terra, anche se più di una volta cita quello “idrogeologico” ma senza fornire alcuno strumento pratico della sua riduzione. Sembra che la Sardegna sia una regione della Scandinavia e non del Mediterraneo.

Ma allora tutte le aziende, le case, i villaggi ogni estate minacciati dalle fiamme sono solo un problema di chi non le spegne? O non dovremmo invece pensare a comunità insediative (villaggi, borghi, paesi, città) in cui la vita al confine con il bosco o con i pascoli dia una sensazione di sicurezza piena e non l’ansia della morte? Comunità che si sentano autoprotette da un modello insediativo (vecchio e nuovo che sia, non importa) in cui la gestione del verde diventi non una vicenda ornamentale e ipocrita per nascondere il cemento ma un ambito di gestione metodologica per impedire l’avvicinamento delle fiamme alle case.

L’idea perversa di autorizzare “paesisticamente” le costruzioni “immerse nel verde della macchia mediterranea” per abbattere l’impatto (visivo) aumenta invece l’impatto (reale e non estetico) di chi va ad abitare dentro la benzina che circonda le case. E che dire della assenza dell’obbligo di viabilità di sicurezza, della individuazione di zone sicure di incontro in caso di emergenza?
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Crediamo davvero che i cosiddetti Decreti Bertolaso del 2007 possano per sè stessi mettere in sicurezza i villaggi turistici che vengono sistematicamente “evacuati” ad ogni pericolo (vedere la foto dall’elicottero di Ludduì durante il recente incendio di Budoni)? E pensiamo forse che la mera applicazione delle prescrizioni regionali antincendio ci possano rendere sicuri?

E’ bene applicarle certamente, ma forse debbono essere profondamente riviste per la natura degli incendi di nuova generazione che si propagano non per contatto (radiazione) ma per salti (movimenti convettivi) e dunque la mera previsione di una fascia di 5 metri intorno alle case non può essere sufficiente.

Se il Consiglio regionale, nell’attuale dibattito sull’urbanistica si occupasse un poco di più della concreta sicurezza dei suoi cittadini anziché aprire varchi al cemento farebbe una cosa utile e gradita. E davvero si comincerebbe a parlare di Prevenzione Civile anziché invocare la Protezione dei Canadair. Ma non sembra essere preoccupazione della giunta Pigliaru e dell’attuale Consiglio regionale della Sardegna.

*Professionista forestale
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Ennesimo espediente per aumentare i volumi lungo la fascia costiera
italia-nostra-logodi Italia Nostra Sardenga
Il Consiglio Regionale della Sardegna ha inserito nella legge sul turismo, recentemente approvata, alcune norme urbanistiche che risultano in aperto contrasto con il Piano Paesaggistico Regionale. La legge, che aveva già fatto parlare di sé per l’infelice emendamento dal vago sentore “razzista“, tendente a discriminare le strutture turistiche in base all’etnia degli ospiti, cela di fatto una “norma intrusa”, approvata con bipartisan omertà, che consente la realizzazione nei campeggi di volumetrie equivalenti fino al 35% della capacità ricettiva della struttura. Il tutto camuffato con il ricorso all’escamotage delle “case mobili”.

Così come per il Ddl sul governo del territorio, basato essenzialmente sulla creazione di nuovi volumi sul mare, con l’art. 15 della legge 26/07/2017 il Consiglio Regionale ha trovato l’ennesimo espediente per aumentare le volumetrie lungo la fascia costiera, in alcuni casi sulla battigia. Generalmente queste casette in legno dentro i campeggi sono parte di veri e propri condomini, spesso non condividono neppure i servizi con i campeggiatori. Esiste addirittura un mercato di piazzole e case in vendita sui siti di annunci on line!

Si tratta a tutti gli effetti di volumetrie mascherate che contrastano con le NTA del PPR. Vale la pena rammentare che lo stesso PPR evidenziava inadeguatezza e criticità di buona parte di questi insediamenti “scarsamente dotati di servizi e spesso sono privi di identità urbana e sono caratterizzati da incompletezza e scarsa qualità architettonica” (Art. 88 NTA).

Tali strutture, ricordano le stesse NTA, invece di “conformarsi ai corretti criteri costruttivi ed infrastrutturali connessi alla sostenibilità ed alla compatibilità paesaggistica dei luoghi” accrescono il degrado ambientale delle aree che le ospitano trasformandosi in grandi parcheggi per bungalows e strutture pseudo amovibili, che vengono installate senza nemmeno richiedere le autorizzazioni edilizie e paesaggistiche d’obbligo, ai sensi del Testo unico dell’edilizia (D.P.R. 380/01) e del Codice dei Beni culturali.

Italia Nostra non era a conoscenza della norma, nonostante siano state rilasciate dichiarazioni con le quali si sostiene che la legge sarebbe stata licenziata dopo una presunta lunga discussione in commissione ed un confronto con numerosi stakeholders.

Italia Nostra denuncia ancora una volta la prassi ormai consolidata dell’esclusione sistematica delle associazioni culturali e ambientaliste dal confronto dialettico sui temi che riguardano ambiente e paesaggio.

Insomma, Giunta e Consiglio Regionale preferiscono scegliere gli interlocutori, meglio sarebbe dire le consorterie, che, in funzione degli interessi da tutelare, possano risultare in presumibile sintonia con le norme che si intendono varare.

Inutile negare che la “furbata” di inserire in una legge sul turismo una norma intrusa che concerne di fatto il Governo del territorio, il cui Ddl è attualmente in discussione in Commissione ed oggetto di giustificate critiche, rappresenta l’ennesimo tentativo di aggirare i vincoli imposti dalla normativa edilizia e paesaggistica, contribuendo a deturpare e impoverire un Bene Comune, quale dovrebbe essere considerato il paesaggio costiero sardo.
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In Sardegna non c’è troppo latte, c’è troppo Pecorino Romano
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 7 febbraio 2017/ Città & Campagna/