Tag Archives: analizzare

Coronavirus. Pensare, analizzare, agire. Il contributo dei redattori della rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana di Assisi su: PANDEMIA. La politica economica dell’Unione europea – SCUOLA. I limiti della didattica a distanza – SMART WORKING. Una strada per il futuro.

5dc7074e-ec26-4a4b-951e-7ea81d1db338
86b7fcdb-105b-402a-8ddf-d0fb85e243d1
PANDEMIA. La politica economica dell’Unione europea
di Roberta Carlini su Rocca

Chi governa nello stato di eccezione, e soprattutto di fronte a sfide senza precedenti (ossia senza una qualche esperienza a cui rifarsi), ha una responsabilità enorme ma anche un indubbio vantaggio di popolarità.
Così, in un’epoca di sfiducia crescente nella politica e nei politici, il presidente del consiglio italiano raccoglie un gradimento molto forte: è vero che con i tentennamenti della «fase due» sembra essersi un po’ ridotto, ma è sempre sopra il 60%, a stare ai sondaggi.

riscoperta del ruolo dello Stato
Non c’è solo il fatto che la popolazione, impaurita e incerta, tende a fidarsi. Ma anche un effetto più strutturale della crisi da pandemia: l’emergenza sanitaria prima, ed economica subito dopo, hanno portato a una generale riscoperta del ruolo dello Stato. Così come non ci si può affidare al mercato per avere buoni e funzionanti reparti di terapia intensiva, e così come serve un intervento pubblico di emergenza per integrare il reddito di chi è rimasto senza lavoro; serve, e servirà sempre più, una direzione politica per l’economia del dopo-Covid.
Tutti i governi, di qualsiasi orientamento politico e in tutto il globo, stanno rispondendo alla crisi con iniezioni massicce di intervento pubblico. Magari non durerà, e a un certo punto le strade si diversificheranno, ma per adesso è così. Dalle nostre parti, questo improvviso ritorno del governo si scontra con un enorme ostacolo che sta nella domanda: quale governo? Non pensiamo ai giochi politici attorno al futuro di Conte, ma a qualcosa enormemente più rilevante: l’Europa con la sua Unione senza governo

sospensione del Patto di stabilità
La crisi ci chiede di usare tutti gli strumenti della politica economica, e all’Unione europea manca quello basilare, ossia la leva fiscale. Non solo. In pochissimi giorni la pandemia ha travolto le fondamenta sulle quali l’Unione, pur in assenza di governo, aveva costruito l’identità e la politica europea: una politica fiscale ispirata al rigore, a tenere i conti in ordine e quindi tendenzialmente i bilanci in pareggio; una visione dell’economia ispirata al principio della tutela della concorrenza; una politica monetaria ancorata all’obiettivo della stabilità e della lotta all’inflazione.
La primavera del 2020 ha cambiato i connotati della costituzione materiale dell’Unione europea. Prima è caduto il Patto di stabilità e crescita: per la prima volta nella storia, è stata utilizzata la cosiddetta «escape clause», una clausola di uscita, per cui i governi nazionali dell’area dell’euro non sono più tenuti a rispettare i tetti all’indebitamento e al debito. Questi parametri, sui quali ogni anno si arrovellava la politica di bilancio nei Paesi del Sud – i cosiddetti «spendaccioni» – e si esercitava il controllo severo della Commissione, soprattutto su impulso dei Paesi del Nord – che si sono autonominati «frugali» –, non valgono per quest’anno, e forse non varranno neanche il prossimo. Tutti i governi hanno varato importanti misure di stimolo fiscale, ossia di aumento di spese e riduzione di tasse. L’Italia, che fino a qualche mese fa combatteva strenuamente per fare uno 0,2-0,3% di deficit in più, tenendosi sempre ben sotto il 3% annuo, ha approvato già misure che portano il deficit previsto per il 2020 sopra il 10% del Pil. Ma gli altri non sono da meno. Questo vuol dire che ci sarà un enorme aumento del debito pubblico, finanziato ricorrendo al mercato, ciascun governo per suo conto. E ciascun governo dovrà ripagare quel debito secondo i tassi che sul mercato si fisseranno.

la rete protettiva della Bce
Qui entra in gioco la questione degli spread, ossia la differenza delle condizioni che i governi trovano sul mercato. Il tasso di riferimento è quello tedesco – negativo, fino ai giorni pre-virus – e lo spread misura quanto di più devono pagare tutti gli altri per attirare il risparmio. Nonostante un passo falso iniziale, la Bce di Christine Lagarde ha varato un piano eccezionale per contrastare la speculazione e acquistare titoli, dunque tener bassi gli spread. Il piano si chiama «Pepp» (acronimo che sta per Pandemic Emerging Purchase Program») e grazie ad esso la Bce potrà acquistare nuovi titoli pubblici dalle banche per 750 miliardi. È la continuazione, con aumentata potenza di fuoco, della politica inaugurata da Mario Draghi (con il famoso «bazooka») ai tempi della precedente crisi, grazie alla quale la Bce ha già incamerato 2.500 miliardi di titoli di Stato.
Il risultato di queste prime due mosse (la sospensione del patto di stabilità e la rete protettiva della Bce) è che i governi possono andare a indebitarsi sui mercati, cioè collocare i loro titoli presso risparmiatori e banche; e che la Bce interverrà ad acquistare gli stessi titoli per evitare impennate dei tassi stessi, a danno dei Paesi più deboli, e dunque disinnescare il rischio di crisi finanziarie e fallimenti delle banche o dei governi stessi.

strumenti supplementari: Sure e Mes
Per ora, sono questi i due pilastri dell’intervento europeo post-coronavirus, entrambi non privi di crepe e rischi che vedremo tra poco. Ci sono poi altri due strumenti di intervento-tampone, e un progetto più ambizioso. Come si è già capito, a Bruxelles le sigle piacciono molto, dunque i due strumenti supplementari si chiamano Sure e Mes: il primo (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, ossia: sostegno per mitigare i rischi di disoccupazione in fase di emergenza) è un fondo di 100 miliardi al quale i governi possono accedere per sostenere le spese straordinarie per la disoccu- pazione; si tratta di prestiti garantiti, non di trasferimenti a fondo perduto. Il Mes invece è il «vecchio» meccanismo europeo di stabilità, ed è stato istituito nel 2012 per far fronte alla crisi greca. Anche in questo caso, si tratta di prestiti il cui vantaggio, per i governi, è nel tasso di interesse e nell’essere al riparo dalle oscillazioni degli spread; lo svantaggio è invece nel fatto che lo stesso accesso al Mes indica una condizione di instabilità finanziaria (dunque può allarmare i mercati e le opinioni pubbliche) e nella condizionalità che originariamente il meccanismo aveva con sé. Vale a dire, l’obbligo di seguire un percorso di rientro sorvegliato e imposto dai creditori – la famigerata «trojka» nel caso greco, composta da Commissione europea, Fmi e Bce. Nella revisione post-coronavirus, il Mes è stato modificato con la cancellazione di questa ultima clausola; ma rimane il fatto che i dettagli sull’entità del prestito, sui tempi della concessione e su quelli della restituzione saranno decisivi per indurre un Paese a farvi ricorso o meno – senza contare le polemiche politiche, in Italia molto forti poiché spaccano i due principali partiti al governo, con il Pd timidamente pro-Mes e i Cinque Stelle radicalmente contrari

Recovery Fund un fondo per la ripresa
In ogni caso, sia il fondo temporaneo per la disoccupazione che il Mes sono due strumenti aggiuntivi, due vie (forse) più convenienti che i governi nazionali possono usare per fare debito. Resta lontana invece la prospettiva di un’unione più stretta, che, per i debiti contratti o da contrarre per l’emergenza Covid 19, preveda l’emissione di titoli di debito comuni: i cosiddetti «coronabonds». Sarebbe il passaggio da titoli dei singoli Stati a titoli dell’Unione, o almeno della zona dell’euro. La proposta, sostenuta da 9 Paesi dell’eurozona (tra i quali l’Italia, la Francia, la Spagna e il Portogallo), è stata osteggiata dal gruppo dei nordici, che è guidato dalla Germania ma che è stato rappresentato, nella discussione pubblica, soprattutto dai «falchi» olandesi. Dallo scontro è venuto fuori un compromesso, ossia quello di istituire un Fondo per la ripresa – il Recovery Fund – nell’ambito e a rafforzamento del bilancio europeo. La palla è passata alla Commissione, e anche in questo caso bisognerà aspettare un po’ di tempo per capire se quella che adesso è una realtà assai piccola, ossia il bilancio comune europeo, potrà diventare davvero l’embrione di una politica fiscale comune; in questo, la questione-chiave ancora una volta è quella del debito, ossia la possibilità di questo fondo di ricorrere anche a strumenti finanziari per alimentarsi. Finora infatti il bilancio europeo è formato con i contributi degli Stati membri, e sia i meccanismi del finanziamento che quelli della ripartizione delle spese sono oggetto di negoziati lunghissimi ed estenuanti: stava appunto per partire quello per il prossimo settennato, quando è arrivata la crisi pandemica a cambiare le carte sul tavolo.
A corredo di questi cambiamenti, già in atto o in potenza, c’è la revisione o temporanea sospensione degli altri pilastri della costituzione materiale dell’Unione, con nuove direttive sulla politica della concorrenza e degli aiuti di stato, che dovranno tener conto dell’emergenza. Dunque è possibile – anche se c’è grande discussione su questo – che i guardiani del mercato chiudano un occhio di fronte a fusioni difensive tra i grandi gruppi o ad aiuti di Stato che prima erano considerati una forma di concorrenza sleale (si pensi al trasporto aereo in crisi).

una bomba a tempo
Ci sono dunque tutte le premesse perché l’Unione europea riscriva, di fatto, i suoi trattati e cambi i suoi connotati. Ma anche grandi pericoli. Per esempio, l’allentamento delle regole comuni su concorrenza e aiuti di Stato riflette un ritorno ai poteri nazionali che mal si concilia con lo spirito comunitario che dovrebbe informare tutto il processo. E questo è particolarmente evidente nella questione principe, quella del debito.
Le riserve e ostilità esplicite dei Paesi del Nord verso ogni soluzione mutualistica, vista come un cavallo di Troia per far entrare i nemici di sempre (ossia quelle che sono viste come politiche irresponsabili di Paesi con minor rigore nei conti pubblici), hanno trovato agli inizi di maggio una formidabile arma giuridica nella sentenza della Consulta tedesca che ha dichiarato parzialmente illegittimi gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Non è stato un blocco immediato, ma una bomba a tempo, che potrebbe minare in futuro l’operatività e i piani della Banca centrale e mettere a scompiglio i mercati. Un bazooka giuridico che avrà ripercussioni sulla trattativa politica per il «Recovery fund»: paradossalmente, potrebbe anche aiutarla, spingendo verso soluzioni che puntino di più sulla politica fiscale comune che sulla sola politica monetaria. Ma ancora una volta molto dipenderà dalla scelta dei poteri dei governi più forti in Europa.
Roberta Carlini
———————————
SCUOLA. I limiti della didattica a distanza
di Fiorella Farinelli *
Aver vissuto la pandemia ci farà diventare migliori? Impareremo a non massacrare il pianeta in nome del profitto e del mercato, saremo meno complici di un modello economico e sociale devastante, ci convinceremo che il bene di ciascuno passa dal bene di tutti? Non fa bene, forse, un troppo facile ottimismo. Ma è certo che stiamo reimparando l’essenziale. Come il valore di una scuola di tutti e per tutti, capace di tener conto delle caratteristiche di ciascuno, fiduciosa nella possibilità di chiunque di imparare e di migliorare.
Per molto tempo è stato sottovalutato o distorto, e troppi – proprio come per i sistemi sanitari pubblici e per la ricerca scientifica di base – hanno applaudito distratti e distruttori. Ma ora sappiamo cosa significa avere le scuole chiuse. Sembrava un problema dei soli Paesi poveri, quelli massacrati da guerre infinite o da ricorrenti catastrofi ambientali, quelli sotto il giogo di poteri determinati ad escludere. Oggi è diventata esperienza anche dell’Occidente ricco, evoluto e più o meno democratico.
A marzo l’Unesco, l’Agenzia delle Nazioni Unite che promuove l’istruzione e la cultura, ha calcolato che più di tre quarti del miliardo e 500.000 studenti del mondo erano rimasti senza scuola. Per quanto tempo e con quali prospettive di ritorno alla normalità non è chiaro neanche a maggio. Non era mai successo, con questa durata ed estensione, neppure sotto le bombe o dopo i terremoti.
I costi sociali sono altissimi. Ci sono quelli dei genitori di bambini piccoli, le mamme soprattutto, che non possono lavorare perché i figli sono a casa. E quelli del mancato apprendimento che colpiscono gli studenti, anche se non tutti con la stessa gravità. Secondo alcuni studi, per le troppo lunghe vacanze estive i bambini della scuola primaria perdono tra il 20 e il 50 per cento di quello che imparano in un anno, cosa ci lascerà la lunga chiusura del 2020? Ma non è tutto, la scuola che funziona bene è anche lo spazio pubblico in cui tutti sono eguali «davanti alla legge», e dove talento e impegno possono liberare dal destino sociale iscritto nelle condizioni familiari. E poi le relazioni tra coetanei e con gli adulti, tra poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e disabili, che insegnano intelligenza e solidarietà, e l’equilibrio così prezioso nei due primi decenni di vita tra bisogno di tutela e desiderio di autonomia. Non che la scuola sia l’unica agenzia educativa, ma anche l’educazione familiare ha un gran bisogno del controcanto dell’educazione pubblica. E la seconda di una certa distanza dalla prima.

utilizzo delle tecnologie
Nei paesi che se lo possono permettere, si è cercato di rimediare con la didattica online, detta didattica a distanza. Anche in Italia, dove sembrava più problematico che altrove se non altro per l’alta età media degli insegnanti, tutti hanno dovuto misurarsi con l’utilizzo delle tecnologie. Cantano vittoria gli entusiasti della Dad (dentro, oltre a una parte dei docenti e a un grappolo di pedagogisti, c’è un ampio e variegato mondo di editori, produttori di software, giganti delle telecomunicazioni come Google e Microsoft, enti di formazione). Sostengono che sarà questo il cavallo di Troia per il superamento dell’obsoleto modello trasmissivo dell’insegnamento – lezioni-esercitazioni-verifiche-valutazione – e dell’ingresso trionfale di una didattica creativa, interattiva, liberatoria. Tra gli entusiasti anche la ministra dell’istruzione Azzolina, figlia di un movimento che alle piattaforme telematiche avrebbe voluto consegnare addirittura tutte le carte della partecipazione e del gioco democratico. Sono bastate poche settimane perché apparisse il rovescio della medaglia. Fatto non solo dell’improvvisazione dovuta alle circostanze emergenziali della prima attuazione, ma anche di una diffusa e tenace tentazione di travasare nel «nuovo» gran parte del vecchio: inclusi il disciplinarismo, le valanghe di compiti, le ansie di programmi smisurati. Ma se a questi limiti si potrà porre rimedio più avanti, lavorando sulla falsariga delle esperienze migliori e sull’analisi delle peggiori, la criticità principale sta nell’intreccio forzato tra utilizzo delle nuove tecnologie e homeschooling – cioè nel trasferimento in toto dell’attività scolastica in ambiente domestico. Perché sparendo la «comunità di eguali» dello spazio scolastico pubblico, sull’apprendimento e anche sull’insegnamento si sono scaricate le diseguaglianze della dimensione familiare. Non solo l’ineguale disponibilità di devices e connessioni (che ora si cerca di risolvere con il modesto impegno degli 85 milioni del Decreto Scuola del 17 marzo) ma la variabilità delle abitazioni, in tanti casi prive di spazi dedicabili all’apprendimento, tanto più per la diffusione dello smart working. E poi c’è la differenza fondamentale – già esaltata dall’eccessiva valorizzazione dello «studio individuale», ovvero dei compiti a casa – fatta della diseguale disponibilità di tempo, attenzione, strumenti culturali necessari ai genitori per supportare l’accesso alle piattaforme e la gestione delle attività dei più piccoli, quelli che, pur «nati digitali», non sono ancora autonomi nel rapporto con l’informatica.
Non che non lo si sapesse che una cosa è realizzare nelle scuole «ambienti di apprendimento» per la didattica digitale e un’altra è affidarsi alle risorse familiari (secondo Istat 2019 il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha né computer né tablet, e anche in quelle che ne sono provviste è raro che ce ne siano di individuali per ogni componente), né che le dimensioni medie di un appartamento non superano in Italia gli 81metri quadrati.

diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze
Non è una novità, d’altra parte, che anche tra le fasce più giovani della popolazione, quella con figli in età scolare, decenni di alti tassi di abbandoni precoci e di percorsi scolastici poco capaci di sviluppare e consolidare gli apprendimenti hanno depositato livelli troppo bassi di istruzione e di cultura. E tuttavia molti si sono sorpresi di fronte all’evidenza di una Dad che, nelle condizioni date, scarica altre diseguaglianze su un sistema scolastico peggiore di altri per «equità sociale», cioè per capacità di affrancare il successo scolastico dalle condizioni economiche, sociali, culturali di origine. Diseguaglianze che si aggiungono a diseguaglianze, dunque. In cui a pagare i costi più alti sono i più deboli. I bambini e i ragazzi più poveri, quelli con problemi di disabilità, quelli con back ground migratorio, ben più del 20% ammesso anche da viale Trastevere.
Le notizie che arrivano dalle scuole non sono buone. Troppi gli studenti che non si sono mai connessi, che partecipano sporadicamente alle lezioni a distanza, che stentano a stare al passo, che hanno abbandonato. E troppi, al momento, i limiti di una didattica on line ancora troppo standardizzata rispetto alla pluralità delle caratteristiche e dei bisogni formativi individuali. La situazione più grave, energicamente sollevata dai genitori e dalle loro associazioni, è quella dei ragazzi disabili o con «bisogni educativi speciali», che con la scuola fisica hanno perso anche relazioni preziose e stimoli essenziali, e che hanno spesso enormi difficoltà ad adattarsi alle tecnicalità e alla manualità richiesta dalla Dad. Ma la perdita colpisce tutti.

un’estate insieme
Anche per tutti questi motivi, oltre che per l’esigenza dei genitori di riprendere le attività lavorative, in tutti i Paesi si guarda con ansia alla riapertura delle scuole. A quando e a come bambini e ragazzi potranno ritornarci, sia pure con le precauzioni che dovranno esserci finché non si verrà a capo, con terapie e vaccini, della maledetta pandemia. Un’ansia che in Italia viene alimentata non solo dall’incertezza sul quando e sul come, ma anche dall’evidente sottovalutazione da parte dei responsabili istituzionali del bisogno di recuperare da subito, anche in forme leggere e simboliche, il rapporto fisico con la scuola, i compagni, gli insegnanti. Si potrebbero almeno salutarli
gli studenti, in spazi aperti e nel rispetto della sicurezza, alla fine dell’anno scolastico. Si potrebbe dedicare un po’ di tempo, dopo il 9 giugno, a incontri individuali o di piccoli gruppi con gli insegnanti. Invece niente, neppure per i mesi estivi, quando molti non potranno andare in vacanza perché i genitori devono lavorare e i nonni, questa volta, non potranno occuparsene.
Si dovrebbe fin d’ora organizzare una «estate insieme», come suggeriscono molte associazioni, nelle scuole, negli spazi pubblici, nei parchi, giardini, strutture sportive e musei deserti, con attività di socializzazione, giochi e educazione ambientale. Molti in questi mesi hanno subìto discriminazioni, esclusioni, sofferenze psicologiche, talora anche lutti, non ci si può limitare a prevedere soltanto, a settembre e ottobre, momenti di recupero didattico. E invece niente, dovranno essere i Comuni, le associazioni, il volontariato ad organizzare i «Centri estivi», ma senza impegno alcuno delle scuole e degli insegnanti. Una volta stabilito che, grazie alla Dad, l’anno scolastico è «valido» e che, grazie a passaggi all’anno successivo esenti da bocciature, non ci sarà spazio per possibili ricorsi, viale Trastevere sembra al momento lavarsene le mani. Non va bene. E preoccupa se per settembre non si fosse capaci di prevedere niente altro che un mix tra scuola in presenza e scuola a distanza, con sequenze che potrebbero costringere ancora le famiglie a barcamenarsi tra il lavoro e la cura domestica dei figli e del loro rapporto con le piattaforme telematiche. Cosa succederà ai più piccoli, quelli che a settembre entreranno per la prima volta, senza aver mai visto in faccia gli insegnanti e senza conoscere ancora i loro compagni, nelle scuole per l’infanzia e nella primaria? Anche tra i più convinti delle grandi potenzialità dell’uso didattico delle tecnologie, sono ormai in tanti ad augurarsi che il ricorso alla Dad in alternativa alla didattica «in presenza» non sia necessario, o almeno che vi si debba ricorrere solo in condizioni di assoluta emergenza e per periodi brevi. Anche se questo dovesse richiedere, per una volta, investimenti straordinari in nuovi spazi fisici e in nuove risorse professionali.
——–
*lampadadialadmicromicro1L’articolo di Fiorella Farinelli, che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori – pubblicato sulla rivista Rocca in uscita il 15 maggio – è l’ottavo contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
——————————-
SMART WORKING. Una strada per il futuro
di Ritanna Armeni
È davvero così «smart» questo «working» svolto durante i giorni della quarantena? È stato davvero così allegro, piacevole, attraente il lavoro che uomini e donne, impossibilitati a uscire hanno svolto fra le mura domestiche? E, soprattutto, è stato davvero una comodità per le donne? Alcuni, in nome della modernità, della flessibilità, della produzione comunque sia, dicono di sì. E aggiungono: lo smart working non è stato utile solo durante la forzata quarantena ma ha indicato una strada per il futuro.
I vantaggi sono tanti. Per le aziende che hanno meno costi, perché possono ridurre gli spazi, pagare meno affitti e bollette e mantenere la stessa produttività. Per l’ambiente che diventa meno inquinato. Chi lavora – si dice – non è costretto a muoversi, ci saranno in circolazione meno auto e meno autobus, quindi, meno gas tossici.
E poi si potrà valorizzare il merito. Nello smart working l’importante non è quante ore si trascorrono a tavolino, ma quanto effettivamente si produce. E se per produrre basta meno tempo questo non può che andare a beneficio del lavoratore e della lavoratrice.
E allora? Tutto bene? Possiamo accogliere il lavoro a casa come un’eredità positiva del triste periodo del coronavirus? Non proprio. Quello che è accettabile, o comunque non si può fare a meno di accettare, nell’emergenza va esaminato nuovamente in tempi di normalità. Per tutti, ma soprattutto per le donne.
Per queste ultime il lavoro a casa ai tempi del coronavirus è già stato un girone dell’inferno. Hanno lavorato di più. Lo smart working ha imposto una presenza continua, il computer sempre acceso, il telefonino sempre in funzione. L’orario di lavoro contrattuale è saltato o è diventato straordinariamente e, quasi misteriosamente, più lungo. Orari dei pasti, domeniche, festivi sono stati poco rispettati. Una mail si può ricevere e spedire in qualunque momento e in qualunque giorno. Un colloquio telefonico può avvenire anche nella tarda serata se non c’è un orario da rispettare. Tutto questo – pensateci – è avvenuto, e per molte avviene tuttora, mentre si dovevano seguire le lezioni on line dei bambini, preparare i pasti, mandare la lavatrice, dare una spazzata alla casa perché neppure l’aiuto domestico a ore o la baby sitter potevano venire. E i genitori anziani si proteggevano dal virus rimanendo a casa loro.
È avvenuto così che fra le mura di casa anche durante la pandemia si è misurata, ancora una volta, la disparità fra uomo e donna nella divisione del lavoro domestico.
Dobbiamo ricordare tutto questo quando parliamo di lavoro a casa per il futuro. Perché lo stato di emergenza può portare qualche (qualche) giustificazione, ma poi? Poi si dirà la situazione cambia, con i bambini a scuola, il marito in ufficio, con la possibilità di un aiuto domestico, allora sì che lo smart working può diventare seducente, la soluzione migliore per le donne che da sempre devono adempiere un doppio ruolo. È vero?
Chi scrive ha fatto una piccola personale inchiesta. Da non sottovalutare perché le piccole inchieste, proprio perché consentono di non limitarsi a una domanda ma di andare più a fondo, danno spesso risultati più veritieri dei grandi sondaggi. Ha scoperto che sul lavoro a casa le donne si dividono in due categorie. Le più anziane, come appunto chi scrive, lo considerano una vera iattura. Il lavoro fuori casa ha favorito emancipazione e libertà, ha consentito momenti di socializzazione importante, ha creato nuovi legami e amicizie, ha aperto orizzonti affettivi e culturali. È quindi da difendere strenuamente.
La seconda categoria è formata dalle più giovani che non vedono male l’idea di rimanere a casa, alcune addirittura lo preferirebbero.
L’inchiesta personale, che consente appunto di approfondire e di analizzare le risposte, mi ha fatto capire i motivi di questa scelta. Intanto le giovani donne hanno meno bisogno (o credono di avere meno bisogno) di lavorare fuori casa per essere libere. Ritengono la loro autonomia già ampiamente conquistata. Sbagliano? Può darsi, ma è quello che pensano. Nel giudicare vantaggi e svantaggi tengono anche conto del tempi trascorsi sui mezzi di trasporto e deducono – non con tutti i torti – che è meglio passare due ore a cucinare e a rifare i letti che su un autobus o in metropolitana.
C’è poi un terzo più importante motivo. Oggi il lavoro in ufficio non è così diverso da quello a casa. Le tecnologie, i social lo hanno largamente spersonalizzato, le relazioni fisiche e umane sono state sostituite da quelle sullo schermo del computer o dello smartphone. Che differenza c’è allora fra casa e ufficio? Forse a casa si sta più comode e nel frattempo si può mettere su l’acqua per la pasta e controllare il sugo.
E gli uomini? Non si premia così il disimpegno maschile dal lavoro domestico? La risposta in questo caso è univoca: l’impegno maschile c’è o non c’è a prescindere. In genere non c’è.
C’è poi un ultimo motivo che ha dato a chi scrive motivo di particolare riflessione. Oggi i luoghi di lavoro che le giovani donne frequentano sono scarsamente attraenti anzi in genere sono brutti, dominati dal controllo, dalla competizione, dall’ignavia dei dirigenti, dalla mancanza di criteri seriamente meritocratici, dall’assenza di ogni gioco di squadra, da un’atmosfera di ricatto, dall’assenza di solidarietà. E dal potere e dalla supremazia maschile. Allora è preferibile stare col computer acceso a casa.
Forse concentrando la nostra attenzione sul lavoro che non c’è, sulla disoccupazione, l’abbiamo distolta da ciò che il lavoro è diventato quando c’è. Invece le due condizioni non sono disgiunte. La minaccia della disoccupazione ha reso spiacevoli i luoghi di lavoro. La voglia di molte di rimanere a casa accettando anche gli svantaggi dello smart working ce lo fa comprendere a pieno.
Ritanna Armeni
———————-
rocca-10-15mag20