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Una nuova classe dirigente degna e indipendente per credere sia possibile arrestare ed invertire il declino della Sardegna

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di Andrìa Pili*

Il 2015 sardo si è concluso con le esternazioni trionfalistiche dei massimi esponenti della Giunta Regionale riguardo i dati sull’occupazione nell’isola. Francesco Pigliaru e Raffaele Paci ci informano che il lavoro è cresciuto, la disoccupazione cala, crescono i contratti a tempo indeterminato. Interessante è questa frase del Presidente: “Significa che le imprese puntano di più sull’occupazione, rispondendo positivamente alle politiche del Jobs Act”. Confrontando il terzo trimestre del 2015 e quello del 2014, si contano 28000 posti di lavoro in più, il 68% dei quali nel settore alberghiero e ristorativo e dunque per lo più stagionale.

Perciò gli effetti delle politiche governative sul lavoro sardo saranno riscontrabili chiaramente solo nell’analisi dei prossimi trimestri. Ma al di là di questo, è significativo che Pigliaru si sia richiamato alla riforma renziana del lavoro, quindi alla creazione di occupazione per mezzo della restrizione dei diritti dei lavoratori. Infatti, questa giunta non ha una sua politica sul tema, oltre la mera recezione delle politiche italiane ed europee (Jobs Act, Garanzia Giovani, incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato). Ci sono senza dubbio dei limiti interni: secondo lo Statuto Autonomo, la competenza regionale sul lavoro è di mero accompagnamento (norme di integrazione e attuazione) alle politiche centrali. Tuttavia, possiamo affermare che l’economista condivida le idee del capo del governo del PD. Ciò si è notato non solo per quanto riguarda il lavoro ma anche sull’istruzione: si noti il rifiuto di fare ricorso contro la Buona Scuola, motivato con la presenza di “cose positive”.

Proprio questi due ambiti sono quelli che toccano in maniera particolare la situazione dei giovani sardi; inoltre, sono anche stati i due ambiti attraverso cui le controriforme dei governi italiani degli ultimi venti anni sono venute incontro alle esigenze del capitale italiano, contribuendo in modo decisivo alla redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, ovvero alla crescita delle diseguaglianze sociali, grazie ad uno svilimento continuo dei diritti dei lavoratori ed alla progressiva trasformazione dell’istruzione in uno strumento a servizio del mercato.

Tali controriforme non sono “neutrali”, tese a migliorare la qualità dell’istruzione o la produttività. Sono provvedimenti con una precisa motivazione sociale e politica, per soddisfare gli interessi di una classe sociale specifica. Guardando la struttura dualistica dell’economia italiana, con un divario storico tra un Nord economicamente centrale e le periferie Meridione ed isole, tenendo conto della condotta statale a favore del primo, si può notare come i giovani sardi siano doppiamente vittime: non soltanto come studenti, lavoratori o in entrata nel mercato del lavoro ma anche come membri di una nazionalità in condizione di dipendenza economica, politica, culturale.

Nel secondo trimestre 2014, la disoccupazione era del 50,2% fra i giovani tra i 15 e i 24 anni e al 44,3% tra nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni; dispersione scolastica al 25%; nell’ateneo maggiore dell’isola, a Cagliari, si è verificato un calo degli iscritti (meno 1789) e dei laureati (meno 416) rispetto a tre anni fa. Inoltre, la Sardegna si trova al quintultimo posto tra le regioni europee per percentuale di laureati (13.1% nel 2014). Mettendo assieme la situazione del mercato del lavoro sardo e dell’istruzione, possiamo affermare l’esistenza di un circolo vizioso: da un lato un’educazione al ribasso, dall’altro una realtà che non offre opportunità sufficienti per coloro che sono altamente qualificati. Da qui si comprende la nuova emigrazione: 17.6% gli studenti sardi immatricolati fuori dall’isola nel 2013; dal 2000 i sardi laureati emigrati nel centro-nord sono in continua crescita, a differenza di quanto accade per gli altri titoli di studio; i laureati sono 1/5 di quelli totali, 7200 nel 2014).

Dal 2008 al 2015, l’Università di Cagliari ha perso il 27.1% del FFO; a Sassari, il 24.3%. Come nel caso del turnover dei docenti, si può notare come il Ministero dell’Istruzione abbia agito per favorire gli atenei del Nord e vessare quelli del Sud e delle isole. Si tratta di una politica inserita nel Processo di Bologna, il quale era chiaramente volto alla creazione di poli d’eccellenza e periferie dell’educazione superiore entro l’Unione Europea. Qui si spiega anche il suddetto drenaggio di capitale umano dalla Sardegna al Nord Italia.

Quando si parla di emigrazione è sempre bene ricordare come essa sia sempre stata una risorsa per lo sviluppo capitalistico italiano (rimesse per consumare i prodotti industriali del Nord; lavoro a basso costo nelle industrie settentrionali; cervelli al servizio della parte più sviluppata del “Paese”); dunque, come si può pensare che un qualsiasi governo- a meno che non sia rivoluzionario- possa porre rimedio a questa tragedia tutta delle periferie, private delle menti che dovrebbero servire ad un loro sviluppo endogeno? Davanti a tale evidenza, sono possibili solo due strade: la rassegnazione del colonizzato (giustificare l’emigrazione in realtà più sviluppate in una linea di pensiero che vuole una Sardegna condannata al sottosviluppo e un’Italia come luogo prediletto in cui i sardi di valore possano esprimere le proprie qualità) o il riconoscimento di uno scontro di interessi tra il popolo sardo d lo Stato centrale.

Di fronte ad una situazione sociale con caratteristiche specifiche, in cui la condizione del lavoro e dell’istruzione sono illeggibili se non entro il contesto di dipendenza economica in cui la Sardegna si trova, non è pensabile che la Regione Autonoma possa essere solo una mera esecutrice di politiche del lavoro e dell’istruzione concepite per le esigenze di altre realtà e che non possa intervenire direttamente.

La gioventù sarda dovrebbe organizzarsi per condizionare direttamente un potere con in mano gli strumenti così importanti per migliorare la sua condizione; ora, invece, si ritrova a fronteggiare potere italiano per cui la Sardegna non esiste se non, al massimo, inserita in un Mezzogiorno monolitico quasi quanto la nazione italiana astratta cui lo Stato fa riferimento ed un ceto politico regionale suddito di questo, anche da un punto di vista ideologico. Per questo, la Sardegna ha bisogno di una politica sovrana in materia di lavoro ed istruzione e di una classe dirigente degna ed indipendente dai centri del potere politico ed economico italiano.

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ape-innovativa Del tutto condivisibile l’analisi di Andria. Sicuramente un’ottima base per ulteriori approfondimenti. Per quanto riguarda le Università sarde viene confermata dai dati del recente studio della Fondazione RES, a cui rimando perchè merita di essere letto, divulgato e di cui, a mio parere, è possibile realizzare con immediatezza alcune proposte politiche (ecco il link dello studio ripreso da Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=51203). Concordo con le conclusioni di Andria, cioè sul fatto che occorra una presa di coscienza della gioventù sarda che la porti ad organizzarsi per difendere i propri diritti, protagonista all’interno di un movimento più ampio di riscatto della Sardegna, guidato da “una classe dirigente degna ed indipendente dai centri del potere politico ed economico italiano”. E’ un programma importante, difficile e di non breve periodo… ma che va intrapreso e percorso con determinazione. Gli esempi catalani e corsicani sono al riguardo incoraggianti. Ma le decisioni per quanto ci riguarda sono di noi sardi. E allora, avanti! Con l’incitamento gramsciano del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della nostra volontà!
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* – su il manifesto sardo: http://www.manifestosardo.org/gioventu-sarda-e-dipendenza/#sthash.6fq1EtfY.dpuf. Anche sul sito ufficiale di Cagliari Città Capitale.
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