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Avvenire: il quotidiano cattolico fuori dal coro dell’informazione omologata.

743fcec0-1fdf-446c-8289-db79332f1ba8avvenire-loghettoL’INCONTRO
ROCCA 1 LUGLIO 2022
L’orrore delle armi il realismo della pace
d5f2bdef-9513-4c00-905d-f863e5ee9553 conversazione con Marco Tarquinio*

[a cura di Marco Bevilacqua su Rocca]

Fin dall’inizio del conflitto in Ucraina, Marco Tarquinio non ha avuto dubbi: reagire alla guerra con la guerra non porta alla pace, ma produce come unico risultato una tragica serie di carneficine. Il quotidiano che dirige, l’Avvenire, è schierato con decisione sulla linea pacifista. Recentemente su quelle pagine Luigino Bruni ha scritto: «ci volevano tremila anni di Bibbia e duemila di Cristianesimo per rispondere a un’invasione militare con il mestiere delle armi?». Partendo dall’assunto che l’origine delle guerre va sempre ricercata negli interessi economici, Bruni individua la principale causa del fallimento dell’umanesimo cristiano, in questo e altri drammatici frangenti, nella modalità di selezione delle nuove classi dirigenti: la maggior parte dei manager oggi è formata dalle grandi agenzie globali di consulenza, i cui linguaggi sono di chiara ispirazione militare; per averne conferma basta esaminare le parole-chiave in voga nei corsi di strategia d’impresa, tutti costruiti sul registro maschile e sulla competizione intesa come lotta per vincere (tanto che loser, perdente, è il nuovo insulto in questo mondo). Ebbene, da queste scuole non sono uscite soltanto le élite economiche e bancarie, ma anche buona parte dei politici e dei funzionari che detengono le leve del potere nel mondo.

Direttore, se ne deduce che il capitalismo di oggi, fortemente impregnato del concetto di leadership, sia per sua natura destinato a produrre conflitti…

Tutte le guerre hanno motivazioni di fondo di carattere economico, e anzi vengono combattute con le armi dell’economia. E non mi riferisco soltanto, come nel caso dell’Ucraina, alle sanzioni che vengono imposte in reazione a un’aggressione. Ci sono anche guerre non dichiarate combattute esclusivamente sul piano dell’economia; fra il 2011 e il 2022 ne abbiamo viste di tutti i colori: penso alle aggressioni che ha subìto la Grecia (ma anche l’Italia stessa) da parte del capitalismo finanziarizzato, prima che l’Europa decidesse finalmente di tornare sui suoi passi. I costi umani di guerre come queste non sono i morti sotto le bombe, ma le persone che perdono il lavoro, la casa, la protezione sociale, l’assistenza sanitaria, la dignità. Sono gli effetti del mercato globale così come l’abbiamo costruito, un mercato senz’anima e senza umanesimo, ma retto da logiche di predazione e da una competizione esasperata. Se un tempo si poteva dire che la guerra fosse la prosecuzione della politica con altri mezzi, oggi potremmo dire che la guerra non è altro che la prosecuzione dell’economia.

Quindi sì, questo capitalismo produce conflitti.

L’accumulazione di risorse non è in sé un male assoluto, ma produce effetti diversi a seconda dell’uso che se ne fa e della presenza o meno di controlli e correttivi. Oggi i disequilibri e le disparità sono diventati giganteschi, insostenibili. Mi sembra che abbiamo perso l’ancoraggio al sistema di equità che è elemento fondativo del mercato, è questo il problema vero.

Torniamo alla guerra in Ucraina e alle posizioni del pacifismo. Un paese aggredito e invaso militarmente come dovrebbe reagire nell’immediato se non difendendosi con le armi?

È questo l’interrogativo drammatico cui dobbiamo cercare di dare una risposta. Io penso che esista una forma di resistenza alternativa al ricorso alle armi, che anche quando è puramente difensivo contribuisce ad alimentare il numero delle vittime civili. Sto parlando della difesa nonviolenta, che non significa resa, ma volontà di resistere senza il ricorso alle armi restando al proprio posto, assumendo il rischio della violenza altrui senza contrapporle altra violenza. È la strada indicata da Gandhi, da Martin Luther King, da Nelson Mandela, da papa Francesco. È la strada indicata da Cristo al cospetto di chi veniva a crocifiggerlo. Molti dicono che questa non sia una strada realistica, io invece sostengo che sia iperrealistica, l’unica sensata in un mondo sempre più brutale. È la scelta di chi non vuole che sia immolata una sola vita per rispondere alla prepotenza altrui e sopporta i soprusi, la prevaricazione, l’offesa rifiutando di adottare i metodi dell’aggressore.

La guerra è il male assoluto, dunque, da qualunque motivazione sia mossa.

Dopo aver vissuto, da cronista e da cittadino, decine di guerre in ogni parte del mondo, posso dire che non ho mai visto un conflitto che si concluda con la sconfitta del più ‘cattivo’, con il ristabilimento di una giustizia che assicuri la felicità dei popoli che hanno subìto un’aggressione. La guerra porta sempre non solo morte e distruzione fra gli innocenti, ma anche fratture profonde e irrimediabili. Pensiamo solo a quanto è successo in Iraq, per effetto del conflitto innescato da noi occidentali per ‘esportare’ la democrazia: gli yazidi e i cristiani sono stati vittime quasi invisibili del dopoguerra, i primi annientati dallo stato islamico, i secondi ridotti a una sesta parte di quel che erano. Per non parlare della Siria, dove una guerra alimentata da diverse ambizioni ha finito con il cancellare il mosaico sociale e religioso che esisteva pacificamente, pur sotto la cappa oppressiva del regime degli Assad. I conflitti arricchiscono qualcuno, ma portano all’annientamento di intere comunità, a epurazioni e segregazioni, e provocano ulcerazioni insanabili nei tessuti sociali. Le migliaia di morti che ne sono l’effetto più diretto hanno l’unico scopo di fare da piedistallo ai tavoli sui quali si concludono i negoziati e si siglano i trattati di pace, che potrebbero essere firmati prima delle carneficine, senza sacrificare nessuno al moloch della violenza. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, il grande fallimento di questi decenni è non aver saputo escludere la guerra dall’ordine mondiale, e non per paura dell’arma assoluta di distruzione di massa, ma per il desiderio di realizzare un equilibrio nuovo e diverso.

Se rispondere con le armi alle armi è deleterio, specie quando il conflitto minaccia di estendersi nel tempo e nello spazio, la via delle sanzioni imboccata da una parte della comunità internazionale per isolare la Russia può produrre risultati dirimenti?

Io sulle sanzioni ho un giudizio critico. Tranne che nel caso del Sudafrica, dove l’apartheid alla fine è stata sconfitta anche grazie all’isolamento internazionale, non ho mai visto cadere dittatori e oppressori per effetto di sanzioni. Le sanzioni non piegano i tiranni, ma piagano i popoli. Nel caso dell’Ucraina, per essere efficaci nel tentativo di fermare Putin, avremmo forse dovuto noi fare il sacrificio supremo, cioè chiudere completamente e fin dall’inizio, non gradualmente come si sta facendo, il rubinetto del gas e delle altre fonti fossili provenienti dalla Russia e affrontare scientemente e coraggiosamente la recessione e un prezzo sociale più pesante di quello che in ogni caso pagheremo. I nostri governi avrebbero dovuto spiegare all’opinione pubblica che tale scelta immediata sarebbe stata l’unica che consentisse di non fare il pieno ai carrarmati di Putin con i nostri soldi. Altrimenti si entra nel paradosso che stiamo vivendo: l’Europa sta aiutando l’Ucraina ogni giorno e in mille modi, ma contemporaneamente ogni giorno consegna nelle mani dei russi un miliardo di dollari per acquistare energia. Questa guerra, come sempre accade, sta arricchendo a dismisura i produttori di armi e si prepara a fare altrettanto con chi avrà il compito di ricostruire; e oltre a tutto ciò, nessuno si sogna di sospendere gli affari più lucrosi, quelli connessi al mercato energetico, che procedono come niente fosse. E così, l’aggressore viene esecrato e condannato, ma al tempo stesso resta il partner economico privilegiato.

Quella in Ucraina non è l’unica guerra in corso, purtroppo. Ce ne sono molte altre, in tutti gli angoli del mondo. Il suo giornale ne parla diffusamente, in una sorta di rubrica quasi quotidiana. Quanto è importante darne conto all’opinione pubblica?

India e Pakistan (entrambi potenze nucleari, non va dimenticato) combattono fra loro per il Kashmir da più di 27 mila giorni, con migliaia di morti.
In Congo cinque eserciti si affrontano per il controllo delle terre rare, essenziali per mantenere il sogno digitale delle società opulente. Nel mondo ci sono attualmente 169 conflitti aperti. Conoscerne le motivazioni, poter valutare quali siano le forze in campo e la posta in gioco aiuta a comprendere la realtà, a formarsi un’opinione libera dai luoghi comuni del mainstream. A capire magari che, nel gioco di egemonie fatto sulla pelle dei deboli, quelli che sono i ‘cattivi’ su un fronte talvolta sono anche i buoni soccorritori su un altro.

La guerra in Ucraina è anche un duro banco di prova per l’Europa. Come vede il futuro dell’Unione, alla luce delle sue divisioni interne sempre più marcate?

Temo che l’Unione Europea uscirà con le ossa rotte da questa crisi. Spero naturalmente che non sia così. Spero che, in questa tempesta, fra Mosca e Bruxelles non venga meno la possibilità di costruire un ponte che non escluda Kiev, ma la coinvolga in una forma diversa. L’Europa non deve rinunciare al suo ruolo di grande laboratorio di integrazione pacifica delle differenze, delle etnie, delle culture. Servono coraggio, creatività e coesione. Creare una difesa comune europea, magari chiaramente ispirata ai principi della nonviolenza e affidata in parte a militari e in parte a corpi civili di pace, servirebbe a rompere lo schema del riarmo nazionale e nazionalistico, che oggi rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la stabilità internazionale. Auspico poi che nella crisi ucraina si produca una svolta grazie all’impulso diplomatico di Stati come la Germania e la Francia, specie quest’ultima, dato che è una potenza nucleare ed è membro permanente del consiglio di Sicurezza dell’Onu. Se riusciamo a capire che aiutare gli ucraini a fare la guerra non è l’unico modo di aiutarli, magari questa orribile tragedia potrebbe trasformarsi da macigno che seppellisce l’Europa a volano che ne rilancia il ruolo e il senso.

E l’Italia?

Ai tempi della famigerata Prima Repubblica, in caso di conflitti l’Italia riusciva sempre a tenere aperti canali di comunicazione con tutte le parti in causa, come nel caso di Israele e dei palestinesi. Anche durante i decenni della guerra fredda, i rapporti con Mosca non sono mai stati chiusi, e non solo per merito del Pci e delle sue peculiarità di grande partito di sinistra inserito in una dialettica politica democratica. Ora invece mi pare che per l’Italia questo contributo di dialogo sia venuto meno, per la mancanza di una linea di politica estera ben definita.

Gli Usa sono credibili come nazione guida delle democrazie occidentali e della Nato mentre al loro interno si susseguono con impressionante frequenza le stragi di innocenti causate da una indiscriminata circolazione delle armi? Gli autori delle stragi sono quasi sempre dei disadattati, persone isolate dalla comunità e a loro volta spesso vittime di violenze, segregazione, bullismo. Evidentemente siamo di
fronte a una società che non è in grado di gestire e curare un disagio che poi esplode in modo incontrollato.

Quando circolano tante armi, i disagi si armano. Va ricordato che tre quarti dei morti per arma da fuoco negli Usa sono suicidi, cioè persone fragili che fanno del male a se stesse.
L’America che continua a garantire come elemento di libertà inossidabile il poter disporre liberamente di armi non è certo il paese guida delle democrazie. Lo è però quando si riconosce nelle idee e nell’operato di persone come Robert Kennedy, l’uomo che, da ministro della Giustizia, fu capace di accompagnare la rabbia dei neri dopo l’assassinio di Martin Luther King con le armi della protesta civile, con un grande progetto di integrazione e di pacificazione. È quella l’America in cui mi riconosco: se Bob Kennedy fosse diventato presidente, sono certo che avrebbe indirizzato la parabola della democrazia americana in una direzione storica diversa da quella che poi è stata ed è oggi,
compresa la questione della circolazione di armi. Penso che avremmo potuto anche costruire una globalizzazione
diversa da quella che si è poi verificata. Il solco tracciato da Robert Kennedy (e in misura minore anche, prima di lui, da suo fratello John) attinge alle radici più belle e vigorose della democrazia e attende ancora di raccogliere un testimone. Anche se è un impero declinante, e sempre più esposto a una rivalità frontale con l’ascendente potenza cinese, la democrazia americana ha ancora grandi riserve positive al suo interno, e se saprà dialogare con l’Europa potrà continuare a essere non già il gendarme del mondo, ma una delle sue guide virtuose. Perché, esattamente come l’Europa, l’America è vincente quando è capace di attrarre con il proprio modello, non quando pretende di esportarlo sulla punta delle baionette che oggi sono i droni e le armi robotizzate.

I lettori dei giornali tradizionali sono in costan- te calo. I talk show privilegiano commentatori sempre più litigiosi e divisivi, i social alimentano la diffusione di notizie false o non verificate e soprattutto diffondono una visione del mondo basata sulla contrapposizione frontale. È sempre più difficile distinguere un fatto da un’opinione, e spesso ci sono fatti che non producono notizie e notizie che non hanno dietro un fatto. Che sta succedendo al mondo dell’informazione?

L’efficacia e il valore di ciò che circola oggi nel mondo dell’informazione dipendono anche dal grado di consapevolezza e dall’assunzione di responsabilità da parte dei lettori e dei fruitori di tali flussi, che al tempo stesso ne sono anche autori. Ma coloro che io chiamo i custodi dei pozzi di acqua potabile, cioè i giornalisti e i comunicatori di professione, continueranno ad avere un ruolo importante: sono loro prerogative la deontologia professionale, l’impegno solenne a garantire l’aderenza delle notizie ai fatti e la chiarezza nel qualificare chiaramente le opinioni come tali. Più la realtà si fa complessa e multiforme, più le persone avranno bisogno di informazioni solide e verificate. Il primo anno del Covid lo ha dimostrato chiaramente: nella mole gigantesca di dati e suggestioni in circolazione, nella quale spesso hanno regnato sovrane improvvisazione, dicerie e vere e proprie invenzioni, si è avvertita come non mai l’esigenza di trovare notizie attendibili e verificate, che aiutassero davvero a comprendere la situazione. Oggi la tendenza è sicuramente quella di trasformare le informazioni in slogan, come quelli che usano i politici ‘di grido’, mi consenta il termine, che utilizzano i social per sbraitare le loro verità e conquistarsi un consenso del tutto effimero. Il giornale, anche quello non su carta, non è soltanto un elenco di notizie o un palinsesto costruito grazie a un motore di ricerca che seleziona le firme che già conosciamo e gli argomenti che prediligiamo. È la preghiera laica del mattino, come diceva Hegel; è il racconto di un giorno della vita nel mondo, al quale cerca di dare un senso offrendo al lettore delle chiavi di lettura. Il mondo giornalistico dovrà in qualche modo riassestarsi, riposizionarsi organizzativamente sui nuovi media, ma lo spazio per un’informazione seria ci sarà sempre, se ci sarà sempre qualcuno capace di ascoltare davvero gli altri e disposto a battersi per garantire la libertà, l’approfondimento e la non omologazione delle notizie.

Marco Bevilacqua

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* Marco Tarquinio dal 2009 è direttore del quotidiano Avvenire. La linea editoriale del suo giornale è fortemente incentrata sui temi della pace, della lotta alla diseguaglianze, della giustizia e della sostenibilità economica e ambientale. Molta attenzione viene riservata alle esperienze del Terzo settore e della cosiddetta «economia civile»
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