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La chiamata civica alla politica (…) La malattia dei politici è una drammatica perdita del senso di realtà. [Dobbiamo] aiutare la politica a ritrovare il proprio ruolo sociale.

poverta-conv-roma-14-17-ott19Carità o diritti?
di Walter Tocci, sul suo blog

Sul tema i volontari della Caritas di Roma mi hanno chiesto di tenere una lectio magistralis in occasione della Giornata Mondiale della Lotta alla Povertà. Ne è venuta fuori una riflessione sulla relazione, in atto o in teoria, tra la politica e il volontariato. Il convegno si è svolto nei giorni 14-15 ottobre 2019 a Roma nell’Ostello di via Marsala dedicato alla memoria di don Luigi Di Liegro. Di seguito il testo del mio intervento.
Qui è disponibile il video del mio intervento
walter-tocci-video
Di seguito il testo scritto.

Carità o diritti?
di Walter Tocci
Un titolo lancinante apre la nostra sessione del convegno: Carità o diritti? Le parole vengono da antiche tradizioni culturali, ma in questo luogo di accoglienza e di fraternità indicano due esperienze di vita: la carità come un dono all’altro che è anche un dono a se stesso; i diritti come doni universali che regolano le relazioni tra le persone.
Fin qui il nostro titolo appare in tutta la sua positività. Ma interviene la parola più piccola a infrangere l’armonia, separando con la disgiunzione “o” ciò che dovrebbe andare insieme. C’è però un punto interrogativo a lenire la preoccupazione, annunciando che la questione è ancora aperta alla discussione e nulla è detto di definitivo. È appunto la discussione che la mia introduzione vorrebbe sollecitare.
È davvero scontato che ci sia un aut-aut oppure esiste uno spazio comune di relazione e anzi di interdipendenza? E quale sarebbe questo spazio comune?

Osserviamo innanzitutto gli esiti contrapposti che possono avere l’indifferenza oppure la relazione tra carità e diritti.
Quando le due esperienze rimangono indifferenti l’una all’altra non riescono a sviluppare pienamente le proprie ragioni. La carità senza i diritti non riesce a generalizzare la sua speranza di giustizia. I diritti senza la carità non riescono e personalizzare il soddisfacimento dei bisogni.
Quando invece le due esperienze sono in sintonia riescono a dare il meglio di se stesse e portano a compimento le proprie motivazioni.
Da un lato, se i diritti sono riconosciuti la carità è libera di trascenderli, perfino di tradirli, andando oltre la mera conformità alla legge per aprire il cuore delle persone e contemplare la beatitudine della misericordia. È il messaggio della lettera di Don Milani a Pipetta, il giovane comunista di S. Donato, un testo formativo per tanti della mia generazione, e a me molto caro.

Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”.
Dall’altro lato, la carità nella misura in cui coltiva le relazioni interpersonali genera l’humus sociale da cui traggono alimento i diritti. Questi, infatti, non sono garantiti solo dalle procedure formali, anzi hanno bisogno di una democrazia viva che non cada nell’apatia, ma sappia rinnovare continuamente le sue promesse. “Rinnovare le promesse della democrazia”, questo fu l’ammonimento di Norberto Bobbio. In uno dei suoi ultimi libri sentì il bisogno di raccomandare che la democrazia non poteva divenire un costume condiviso se non avesse mantenuta la promessa del “riconoscimento della fratellanza che unisce tutti gli uomini in un comune destino”.
Due maestri così diversi tra loro ci aiutano a comprendere come la carità e i diritti, solo nella loro felice congiunzione, siano in grado di esprimere le massime potenzialità. Per Don Milani la carità trascende la giustizia sociale, a cui aveva pur dedicato la vita, educando i ragazzi di Barbiana. Per Bobbio i diritti si fondano sulla promessa di fraternità e non solo sulle procedure, alle quali aveva pur dedicato tutta la sua opera intellettuale.
È come se i due grandi maestri, venendo da percorsi opposti, indicassero uno spazio comune tra carità e diritti. Possiamo a questo punto eliminare il punto interrogativo del nostro titolo, sostituendo aut-aut con et-et, ma viene spontanea una nuova domanda: quale è la natura della congiunzione?

Il significato costituzionale della dignità
Ciò che tiene insieme carità e diritti è la dignità. Questa parola è una presenza invisibile nel titolo, non appare nel suo lessico, ma illumina il significato delle parole che lo compongono.
La dignità, infatti, è il fine supremo della carità. Quando un senza fissa dimora incontra un volontario e riceve da lui una carezza riconquista come per miracolo la dignità di persona. L’atto più disinteressato e privo di scopi è sufficiente a realizzare l’opera umana che fino a un attimo prima sembrava impossibile.
Nel contempo la dignità è anche il fondamento giuridico dei diritti poiché è scritta in Costituzione. In una delle sue ultime lezioni Stefano Rodotà ha usato la parola addirittura per scandire una terza epoca del costituzionalismo moderno. Dopo l’Homo hierarchicus dell’ancien régime e l’Homo equalis del Novecento, dal dopoguerra siamo entrati nel costituzionalismo dell’Homo dignus. La parola, infatti, si trova esplicitamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nell’incipit della Costituzione tedesca – La dignità umana è intangibile – come monito per l’avvenire dopo l’orrore dell’Olocausto. Ma è interessante notare che lo stesso concetto di intangibilità umana ritorni, in condizioni storiche molto diverse, nel costituzionalismo contemporaneo, ad esempio nella Carta di Nizza, come contenimento dei poteri pervasivi della tecnica e dell’economia che tendono a invadere la vita umana. La dignità diventa il nuovo principio di resistenza della persona di fronte alle sfide del postumano.
Ma è nella Costituzione italiana che la parola dignità esprime il meglio di sé. E lo fa in un modo originale e poco celebrato, quasi senza apparire, senza prendere le sembianze di un principio assoluto, ma mettendosi al servizio di altri principi costituzionali al fine di renderli cogenti.
Per scoprire questi rimandi reconditi dovremmo riprendere in mano la Carta, rileggerla con curiosità nuova, senza la trascuratezza e la retorica degli ultimi tempi. Si dovrebbe prendere esempio dai sacerdoti che tutte le domeniche dal pulpito leggono e commentano il Vangelo di fronte all’Assemblea. I fedeli conoscono la Buona Novella, non è affatto una sorpresa, ma quella lettura suscita ogni volta nuove riflessioni spirituali e impegni sociali.
Allo stesso modo dovremmo prendere l’abitudine di iniziare ogni assemblea civile, incontro pubblico, manifestazione popolare con la lettura di un articolo della Carta. Proviamo a farlo oggi qui con uno degli articoli più dimenticati, il 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Non si può non ammirare la chiarezza di questo testo composto di parole semplici e profonde. Nessuna legge sul lavoro degli ultimi venti anni ha cercato di raggiungere tale chiarezza e tutte si sono prodigate per indebolire quei principi. Anche da qui si vede che è la Costituzione per l’avvenire. È attuale proprio perché la sua inattualità orienta il nostro presente verso un diverso avvenire.
La nostra parola appare solo alla fine dell’articolo con l’aggettivo dignitosa, che apparentemente non aggiunge granché, poiché il senso della norma giuridica è già chiarito dalle parole precedenti. Eppure, in questo contesto l’aggettivo vuol dire che il lavoro di cui si parla non è solo un fatto economico, anzi riguarda una dimensione fondativa della società e della persona. Quindi l’articolo 36 richiama e chiarisce implicitamente l’articolo 1. È come se l’incipit costituzionale, La Repubblica fondata sul lavoro, pur non utilizzando la parola dignità, ne contenesse il significato.
E allo stesso modo opera l’articolo 41, quello che voleva cancellare il ministro Tremonti per farsi perdonare dall’establishment europeo lo sperpero nei conti pubblici. Esso stabilisce che l’iniziativa economica trova un limite nella «libertà e dignità umana». La dignità, quindi, rivela che sopra il mero interesse economico esiste una superiore sovranità, il cui primato non può che scaturire, come nel caso precedente, dall’articolo 1 della Repubblica fondata sul lavoro.
Inoltre, il mirabile articolo 3 sancisce la «pari dignità sociale» dei cittadini, senza distinzioni di razza, di censo, di genere. Questo primo comma è sempre stato considerato come il principio liberale dell’eguaglianza che nega ogni forma di discriminazione, mentre il secondo comma del «rimuovere gli ostacoli» è stato considerato il principio sociale dell’eguaglianza, che si afferma nella sostanza dei rapporti tra i cittadini. Ma è la parola dignità, non a caso accompagnata dalla denotazione «sociale», a creare un ponte tra i due principi fondamentali e a reggere l’unità costituzionale dell’articolo 3.
Da tutto ciò discende la particolare attitudine della dignità nel connettere principi costituzionali diversi – libertà, eguaglianza e sovranità – rinunciando a esprimere un proprio significato determinato.
La dignità non è né una supernorma, né un diritto fondamentale, ma è la forza connettiva della Carta. La pienezza della dignità non è in sé, ma per gli altri. Se immaginassimo la dignità come una persona sarebbe come il volontario che senza vantarsi dona un senso alla vita delle persone.

In questa natura connettiva la dignità rivela anche la sua dimensione politica. Se ne avverte una eco nel dibattito pubblico, seppure in forma distorta. Di fronte ai fallimenti, alla volgarità, al malaffare, di partiti e di correnti emerge sempre più accorato l’appello dell’opinione pubblica a ritrovare la Dignità della Politica. Leggiamo questa espressione nei titoli dei giornali e nei messaggi dei social, la sentiamo ripetere nei talk-show e anche nelle discussioni in famiglia o tra amici. Viene ripetuta distrattamente e di conseguenza si smarriscono le differenze tra due diversi significati.
Nel primo la politica costituisce l’oggetto ed è una sorta di scatola vuota che occorre riempire apportando dall’esterno il contenuto di valore. Tale accezione ha motivato tutti i tentativi di immettere la dignità nella politica mediante le leggi, le riforme istituzionali e le norme di comportamento e di finanziamento. Sono stati scarsi gli obiettivi raggiunti perché l’approvazione e soprattutto l’attuazione di tali provvedimenti dipendeva comunque dagli stessi politici di cui si voleva innalzare la qualità. Neppure il barone di Münchhausen è riuscito ad innalzarsi tirandosi per il codino.
È più ambizioso l’altro significato, nel quale la politica è il soggetto e assume la dignità come propria dimensione interiore. Intesa così l’espressione Dignità della Politica svela che le due parole sono in una relazione profonda e si valorizzano a vicenda.
Un esempio viene da Giuseppe Di Vittorio. Quando gli chiesero di parlare dei risultati raggiunti dal sindacato italiano disse: “nel mio paese di Cerignola abbiamo insegnato ai braccianti a non inchinarsi più di fronte al padrone delle terre, ma a guardare avanti a testa alta con la dignità di chi è consapevole dei propri diritti.
Con il linguaggio di oggi diremmo che il bracciante di Cerignola è un caso di empowerment, di presa di consapevolezza dei propri diritti. Sappiamo dirlo in modo più sofisticato rispetto alle parole semplici di Di Vittorio, ma molto meno siamo in grado di metterlo in pratica. E la difficoltà riguarda non solo la politica generale, ma anche le politiche sociali. La deriva prestazionale delle amministrazioni pubbliche trasforma i servizi in numeri di interventi che spesso prescindono dai risultati umani. Nei casi migliori si punta a soddisfare bisogni, molto spesso con risposte settoriali che non colgono la dimensione esistenziale del disagio.
[segue]