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Prima di tutto il Lavoro e la Scuola

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La scuola fabbrica di disoccupati
di Fiorella Farinelli, su Rocca

Qualsiasi governo avremo dopo il 4 marzo, dovrà occuparsi delle persistenti difficoltà di inserimento lavorativo dei neodiplomati – una parte molto grande della coorte annuale dei 19-20enni che non proseguono gli studi – e delle misure da adottare. Di sicuro misure tampone, come nelle politiche più recenti, ma augurabilmente anche strategiche, che sappiano guardare più in là della punta del naso.
Il lavoro, il futuro dei figli è tra le maggiori preoccupazioni delle famiglie italiane. È un problema che pressa da vicino anche le scuole e parte delle imprese. Che condiziona molto del presente e del futuro economico e sociale del Paese. Ma con la campagna elettorale, la più confusa ed insulsa che sia dato ricordare, non si sono fatti passi avanti. Nessuna analisi nuova, dopo la modestia di risultati delle politiche degli ultimi anni, nessun indirizzo programmatico convincente, nessuna convergenza interessante.
Come si uscirà dal disastro di una disoccupazione/sottoccupazione giovanile che costringe per anni in panchina anche chi consegue titoli professionali? Che tanto spesso obbliga a lavori non solo intermittenti ma per nulla coerenti con gli studi fatti? Che alimenta incessantemente il bacino di quelli che non studiano, non hanno un lavoro e neppure lo cercano?

le proposte LeU e Calenda
Tra gli attori in campo qualcuno in verità il tema l’ha toccato, ma senza bucare lo schermo. L’ha fatto, per esempio, Liberi e uguali, proponendo di azzerare le tariffe di iscrizione all’università per incoraggiare a studi post-diploma anche i figli dei ceti più deboli che, dall’inizio della crisi, hanno maturato un maggiore disinteresse a investire sull’istruzione di livello alto, provando invece a entrare da subito nel mondo del lavoro.
Un approccio diverso – più orientato a mettere al centro le sfide dell’evoluzione tecnologica – ha avuto invece il ministro allo sviluppo Calenda che non ha perso occasioni per sostenere la necessità di aggredire le difficoltà di inserimento dei diplomati poco propensi ai lunghi anni di formazione accademica con l’offerta di un’alta formazione tecnologica, più breve e più ancorata al lavoro, fuori dell’università. Cioè nei percorsi biennali di «istruzione tecnica superiore» che, pur istituiti già nel 2008 dal governo Prodi, sono stati poi così poco finanziati da contare oggi solo la miserabile cifra di 8.000 iscritti (contro gli 800.000 dei percorsi analoghi che ci sono da tempo in Germania), e che – particolare non banale – assicurano il lavoro, un buon lavoro, e in tempi rapidi, a più dell’80% dei superdiplomati.
Se Pietro Grasso, insomma, in sintonia con il leader dei laburisti inglesi Corbyn, punta a un paese con più laureati (in Italia siamo largamente sotto la media europea) e a un sistema di istruzione più equo e meno classista, Calenda, che nell’ultima legge di bilancio ha piazzato un surplus di finanziamento per gli Istituti Tecnici Superiori (10 milioni per il 2018,20 per il 2019, 35 a partire dal 2020), punta sì anche lui a un più diffuso proseguimento degli studi dopo il diploma, ma strettamente mirato allo sviluppo delle competenze necessarie per sostenere «Industria4.0», il piano di sviluppo dell’impresa ad altissimo contenuto tecnologico. Scommessa decisiva per un paese manifatturiero come il nostro, e orientato in una sua parte importante all’esportazione.

Ma le due proposte, che pure hanno punti di contatto, non si sono incrociate in confronti costruttivi. Ovvio, si dirà, considerata la distanza politica, e la competizione elettorale, tra Liberi e Uguali e un ministro del governo Gentiloni. Assai meno ovvio, invece, se si guarda al merito e all’importanza delle questioni. Ma ancora più grave è che entrambe le posizioni sono state inesorabilmente oscurate dal polverone provocato da un lato dal proclama tutto ideologico di un impraticabile reddito universalistico di cittadinanza che dà per scontata l’impossibilità di contrastare la «distruzione tecnologica del lavoro», dall’altro dalla replica delle solite ricettine congiunturali, quelle degli incentivi a termine alle imprese per l’assunzione dei più giovani. Per non parlare dell’idea geniale di affidare l’incremento dell’occupazione giovanile soprattutto all’abolizione dell’allungamento dell’età dei pensionamenti voluto dalla legge Fornero, come se non fosse sotto gli occhi di tutti che non sono più tempi di turn over lineari e automatici, neppure in una pubblica amministrazione pigra, conservativa, attenta al «consenso» come la nostra.

nuovi paradigmi educativi
E intanto incombe, con lo sviluppo della robotizzazione, una drastica diminuzione dei lavori esecutivi a bassa qualificazione. E la certezza, comunque, che molte delle professionalità cui sono indirizzati i curricoli attuali della scuola e anche dell’università, di qui a qualche anno non ci saranno più, o saranno profondamente trasformate. Che fare? Comincia ad essere evidente che l’elemento di forza, per le persone e per le imprese, sarà sempre di più nella capacità di creare nuove macchine, di ideare nuovi prodotti e servizi per i mercati dei paesi emergenti, quindi di disporre dei livelli culturali e delle competenze in grado di contaminare diversi saperi, e della possibilità di saper apprendere anche dopo la scuola, autonomamente e continuamente. Si chiama lifelonglearning/apprendimento permanente lungo tutto il corso della vita, e anche su questo siamo terribilmente indietro. Per tutto ciò, e per molti altri motivi, un’istruzione che si fermi al conseguimento del diploma non può bastare.
Ma oggi, a mostrare la corda, sono anche i tradizionali paradigmi educativi. C’è, certo, nella scuola italiana la nuova scommessa dell’alternanza scuola-lavoro. Ma tamponare, anche lì, non basta. Ed è addirittura sconcertante che, a fronte di una licealizzazione crescente della secondaria superiore (i liceali sono ormai il 54% degli iscritti) e di un corrispondente calo di attrattiva dei professionali e dei tecnici, il Miur non sia capace che di omeopatici ritocchi che non cambiano la sostanza delle cose.

diplomati e inserimento lavorativo
Non è un dettaglio, insomma, l’elaborazione di politiche strategiche per risolvere le difficoltà di inserimento lavorativo di tanti dei nostri diplomati. I numeri ci dicono che si tratta principalmente dei diplomati del comparto tecnico-professionale, visto che a proseguire all’università è solo il 30% di loro, contro l’80% e oltre dei diplomati liceali.
Delle correlazioni tra liceali e ceti sociali più forti – e, viceversa, tra tecnici/professionali e ceti sociali più deboli – sappiamo tutto da tempo, così come del profilo sempre più classista del nostro sistema di istruzione secondaria superiore, ma cosa succede quando il 70% di questi ultimi si presenta nel mercato del lavoro?
I dati più aggiornati vengono da una recente indagine, la prima di tipo censuario, svolta dalla Fondazione Agnelli con l’Università Bocconi di Milano e presentata qualche giorno fa al Miur (1), ma anch’essa del tutto oscurata dal turbinoso magma della campagna elettorale.
Che cosa ci dicono questi dati? Che nei primi due anni post-diploma non più del 28% dei neodiplomati non iscritti all’università ha lavorato per più di 6 mesi, mentre il 14,7% ha svolto solo lavori saltuari e frammentati. Nel 27,4% dei casi, poi, la situazione è quella, disperante, dei Neet, né lavoro né studio. Non solo, a due anni di distanza da queste prime inquietanti performances, solo 1 su 3 degli occupati svolge un lavoro coerente con gli studi fatti, la metà abbondante (51,3%) deve accontentarsi di un lavoro qualsiasi, accessibile anche con maturità di tipo diverso, o con studi di livello inferiore. Un quadro che resta preoccupante – anche se una parte tutt’altro che insignificante prima o poi ce la fa a entrare in un’occupazione stabile – in cui si riscontrano anche svantaggi relativi delle ragazze, dei neodiplomati più «vecchi» per bocciature e ritardi scolastici, dei nati in paesi diversi dall’Italia. E le solite differenze tra Nord e Sud. Poco o niente, invece, conta il voto di maturità, a cui invece guardano con immutata passione le scuole e le famiglie. Evidentemente le differenze di valutazione scolastica tra territori e scuole sono troppo grandi, e troppo note, perché i datori di lavoro di oggi ne facciano gran conto.

cecità imprenditoriale
A sembrare indifferenti a questi dati, a una scuola «fabbrica di disoccupati», non sono comunque solo le forze politiche impegnate in tutt’altri duelli. Anche all’interno delle associazioni imprenditoriali c’è ancora chi, invece che puntare – anche in proprio – a costruire opportunità di alta formazione professionale per i giovani, a partire dalla formazione continua per i propri addetti, entra nell’arena incoraggiando i giovani a fermarsi in livelli di studio medio-bassi. Lo ha fatto, recentemente e con una lettera aperta alle famiglie in occasione della scadenza delle iscrizioni scolastiche, la Confindustria di Cuneo, un’area produttiva in cui l’anno scorso ci sono state effettivamente molte nuove assunzioni di giovani operai e tecnici specializzati. E in cui c’è stata anche qualche difficoltà di reperimento di forza lavoro, o per preparazione professionale inadeguata o per indisponibilità dei giovani a lavori pesanti e mal retribuiti.
Ci sono anche queste contraddizioni, ovviamente, nell’inefficiente sistema di incrocio domanda-offerta di lavoro che c’è in Italia, e nella nostra scadente offerta di formazione professionale regionale, contraddizioni che pendono da anni e che si dovrebbero prima o poi risolvere.

oltre alle convenienze immediate
Ma non è solo dalla specificità dell’uno o dell’altro distretto industriale che si deve partire per affrontare il problema. E, tan- to meno, per sostenere che di laureati ne abbiamo fin troppi, e che l’istruzione e la formazione secondaria devono essere declinate, per assicurare un lavoro, solo sulle specifiche prestazioni professionali che servono in questo preciso momento. Chi oggi si è iscritto a un istituto tecnico o professionale, si troverà, da neodiplomato, di fronte a un mondo del lavoro diverso da quello di oggi, ad applicazioni tecnologiche oggi largamente impensabili, alla richiesta di competenze non previste dai curricoli attuali. In questione, ci sono le scuole (e in altri comparti le università), ma ci sono evidentemente anche le imprese. Non tutte orientate al futuro, non tutte lungimiranti, non tutte capaci di guardare oltre alle convenienze immediate. Cosa saranno, da qui a 10 o 15 anni, quelle che oggi preferiscono lavoratori con competenze modeste e che si augurano giovani non «troppo» formati, retribuibili con salari a dir poco modesti? O meglio, cosa pensano di voler diventare da qui ad allora? Se vogliono stare al passo con le tecnologie, espandersi in mercati nuovi, sviluppare prodotti innovativi, dovranno investire in manodopera molto qualificata, di alto livello formativo, che ne sa di più e che può imparare di più di quello che serve oggi per specifiche prestazioni. La partita, insomma, è più grande di quanto possa a prima vista sembrare. E le scorciatoie non ci sono per nessuno, governi, forze politiche, imprese, famiglie.
Fiorella Farinelli
Nota
(1) La transizione dei diplomati tecnici e professionali al mondo del lavoro, www.fga.it
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ROCCA
ISTRUZIONE E LAVORO
la scuola fabbrica di disoccupati
ROCCA n. 6, 15 MARZO 2018
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- La foto del giovane al telescopio, in testa all’articolo, è tratta dal sito web della Fondazione Agnelli.