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Concentrazioni pericolose

GRANDI CONCENTRAZIONI
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non bastano tre musicisti per sfamare il mondo.

di Pietro Greco su Rocca

Con 66 miliardi di dollari, la tedesca Bayer ha comprato l’americana Monsanto. Con 45 miliardi di dollari la cinese ChemChina ha comprato la svizzera Sygenta. Con un’operazione da 130 miliardi di dollari, le statunitensi Dow Chemical e DuPont si fondano. E così tre sole grandi aziende controlleranno non solo il 63% dei semi e il 75% dei pesticidi di tutto il mondo, ma anche la gran parte dei fertilizzanti, degli strumenti usati in agricoltura, delle reti di distribuzione e persino delle attività commerciali interamente on-line. Questa concentrazione rappresenta una novità assoluta nella storia dell’agricoltura, perché trasforma definitivamente i semi da bene comune a bene appropriabile.
la rivoluzione verde
Il processo di concentrazione è legato allo sviluppo di un’agricoltura che, con la «rivoluzione verde» tra gli anni ’40 e gli anni ’70 del XX secolo, da pratica a carattere essenzialmente artigianale è divenuta pratica con un marcato carattere industriale. Ma ancora nel 1980 le aziende che producevano semi in tutto il mondo erano 7.000. E ancora pochi anni fa le prime 10 aziende del settore controllavano poco più di un terzo del mercato mondiale dei semi. Ora tre sole aziende controlleranno i due terzi di quel mercato.
Come ricordano Ioannis Lianos, Dmitry Katalevsky e Alexey Ivanov, del Dipartimento di Giurisprudenza del Centre for Law, Economics and Society (Cles) di Londra, in un rapporto pubblicato di recente, The Global Seed Market, Competition Law and Intellectual Property Rights: Untying the Gordian Knot, per secoli e, anzi, millenni gli agricoltori di tutto il mondo sono stati incentivati a conservare, riprodurre e rivendere ad altri agricoltori i loro semi. È stata questa libera circolazione che ha consentito all’agricoltura di moltiplicare la propria diversità.
Ora i diritti di proprietà intellettuale rischiano di limitare questa libera circolazione restringendo il flusso degli scambi di semi in un sottilissimo collo di bottiglia. I brevetti non sono una novità nei campi. I diritti di proprietà intellettuale sono stati esercitati già nell’Ottocento, quando è iniziato il processo di meccanizzazione e i primi trattori sono stati chiamati ad aiutare gli agricoltori nel loro duro lavoro. Il peso dei brevetti in agricoltura è aumentato a partire dal 1992, quando sono stati riconosciuti i diritti di proprietà intellettuale su una pianta modificata geneticamente. Ma, secondo i tre ricercatori inglesi di chiara origine russa, finora la proprietà intellettuale è stato un fattore di stimolo per la ricerca e l’innovazione anche in agricoltura. Ed è stato proprio questo riconoscimento di proprietà su idee applicate alle piante che ha determinato il cambiamento. Se all’inizio la «rivoluzione verde» si fondava essenzialmente sul settore pubblico, la possibilità di brevettare ha determinato il rapido emergere di un’industria privata dei semi. È vero che anche nel nuovo regime la produttività dei campi ha continuato ad aumentare, ma facendo pagare un costo sempre più alto sia i termini di indipendenza degli agricoltori sia in termini di riduzione della biodiversità nei campi.
Prima gli agricoltori innovavano sperimentando in proprio la creazione di piante più produttive. Poi un numero sempre più ristretto di aziende private ha avocato a sé il processo di innovazione, grazie a forti investimenti in ricerca, sottraendolo agli agricoltori. Questi ultimi sono diventati così dipendenti dai semi prodotti da altri. L’attenzione dei media in questi ultimi decenni si è concentrata sugli ogm (le piante geneticamente modificate) e sui presunti rischi sanitari e/o ecologici a essi associati. Facendo perdere di vista il processo più importante: la formazione di un oligopolio sempre più ristretto che controlla i semi. Tutti i semi, ogm e no.

rischio sociale ed economico dell’oligopolio

Oggi sappiamo che la tecnologia del Dna ricombinante non è un pericolo in sé. Il rischio associato alle piante geneticamente modificate non è diverso da quello associato a ogni altro tipo di nuove piante (e anche di vecchie). Per cui il rischio sanitario ed ecologico va valutato caso per caso, pianta per pianta. Mentre del tutto generale è il rischio – sociale, economico ed ecologico – dell’oligopolio ristretto che controlla tutti i tipi di semi.
Il rischio di natura sociale ed economico è chiaro: i contadini che dipendono dai semi di poche aziende vedono ridursi non solo la libertà di riprodurre i semi, di sperimentare e di farli circolare, ma anche il loro reddito. L’oligopolio può imporre, infatti, sia forti restrizioni all’uso dei semi sia prezzi dei semi stessi, dei pesticidi, dei fertilizzanti e di ogni altro strumento necessario, riducendo fortemente i margini di guadagno dei contadini. Col risultato che l’economia dei campi potrebbe produrre un numero sempre più ristretto di manager ricchi e un numero sempre più esteso di contadini poveri.
Quando poi l’oligopolio si riduce a un insieme di appena tre grandi società, non solo i contadini ma anche i governi diventano più deboli. E, infatti, cresce il movimento di gruppi e associazioni che anche in Europa chiedono «no patent on seeds!», nessun brevetto sui semi. Insomma si chiede di invertire il processo e di tornare a considerare i semi un bene comune e non più un bene appropriabile.
Le aziende multinazionali sostengono che, se si vuole aumentare la produttività dei campi e sfamare i 9 miliardi di persone che saranno presenti sulla Terra nel 2050, occorrono forti investimenti in ricerca che solo poche, grandissime aziende possono assicurare. In realtà si potrebbe dimostrare – come ha dimostrato Marianna Mazucato – che la gran parte delle idee innovative, anche in agricoltura, viene dai laboratori pubblici e che su quella fonte si potrebbe ricreare un’economia agricola fondata sull’innovazione bene comune.
il rischio ecologico
Ma il rischio degli oligopoli non è solo sociale ed economico (e non sarebbe davvero poco, visto che riguarda direttamente centinaia di milioni di contadini in tutto il mondo e, indirettamente, tutti noi). C’è anche un rischio ecologico: la drastica riduzione di biodiversità nei campi.
Come sostiene la Fao, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di agricoltura, l’umanità oggi trae la metà dell’energia vegetale da sole quattro specie di piante: grano, mais, riso e patate. È un rischio. Occorrerebbe diversificare. Ma la minaccia maggiore è associata alla rapida diminuzione dalla diversità genetica (le differenze genetiche di piante appartenenti alla stessa specie). L’agricoltura moderna – sostiene la Fao – ha incoraggiato gli agricoltori a utilizzare un numero sempre più ristretto di varianti genetiche di piante (e di animali) ad alto rendimento. L’oligopolio dei semi gioco forza porterà a procedere sulla strada della riduzione. Il rischio di avere pochissime varietà genetiche di grano, mais, riso, patate e di altre piante per inseguire un altro rendimento è altissimo.
Con la conseguenza di… Il pensiero corre alla metà dell’Ottocento, quando i contadini irlandesi coltivavano nei loro campi un’unica specie, la patata, con una ridotta varietà genetica. Bastò un’epidemia di peronospora per distruggere, tra il 1845 e il 1846, tutti i raccolti e causare una carestia senza precedenti. Due milioni di Irlandesi morirono di fame e altri due milioni emigrarono (soprattutto in America). La popolazione irlandese si ridusse della metà. E c’è voluto un secolo e mezzo per recuperare la medesima densità demografica.
La riduzione di biodiversità espone l’umanità a rischi simili. Rischi che possono essere facilmente evitati favorendo sia l’incremento delle specie coltivate sia la loro variabilità genetica. Ancora una volta, solo l’intervento pubblico può garantire un simile processo.
Né vale il discorso sulla necessità di aumentare la produttività agricola per un mondo sempre più popolato. L’attuale produzione di derrate alimentari sarebbe sufficiente a sfamare anche 10 miliardi di persone, se solo le perdite in agricoltura e gli scarti dei consumatori venissero azzerati.
Insomma, la sicurezza alimentare globale richiede una polifonia con una grande orchestra e un grande coro e non il suono di un solo violino, fosse anche uno Stradivari, da parte di soli tre musicisti.

Pietro Greco

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