Tag Archives: Daniele Doglio su Rocca 21 2017 aladinews lavoro

Materiali per il Lavoro

LAVORO E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
copia-di-eu_direct_loc_4-5_ottobre_ok_001-2_2_2
ed-rocca-21-1-nov-18
TRA INCUBI E SOGNI
Daniele Doglio su Rocca

Spunti molto interessanti nei numeri 12 e 13 di Rocca da Roberta Carlini, Stefano Zamagni e Rosella De Leonibus in materia di lavoro che non c’è e degli impatti che questa brutta tendenza può avere sulle
nostre vite in prospettiva. E tuttavia pur condividendone ragione e sentimenti sento la necessità di ricondurre il tema della difesa del lavoro al di fuori della dimensione un po’ eroica e un po’ volontaristica in cui tutti e tre fondamentalmente lo collocano.
Già due anni fa avevo affrontato il tema della distruzione del lavoro umano come portato inevitabile della affermazione delle nuove tecnologie e in particolare delle applicazioni della Intelligenza Artificiale e della robotica (Rocca n. 10, maggio 2015). Il 70% di tutti i lavori attualmente esistenti negli Stati Uniti nei settori primario, secondario, terziario e perfino nel quaternario avanzato, è considerato «automatizzabile», cioè l’operatore umano è a rischio di essere sostituito con un robot o una procedura autonoma. E siccome più del 75% della forza lavoro occupata nella maggior parte delle nazioni industrializzate svolge funzioni semplici e ripetitive che possono essere eseguite da macchine, robot e computer sempre più avanzati, le implicazioni potrebbero essere immense, dal momento che non credo sia mai storicamente esistito il caso di una società che in condizioni di relativa normalità deve affrontare l’espulsione dalle attività produttive e di servizio di quote crescenti della sua popolazione.

scenario inquietante
Circa tre mesi fa McKinsey (società di consulenza strategica internazionale molto ascoltata dai vertici politici e imprenditoriali) ha proiettato sull’argomento una luce ancora più inquietante stimando che il numero di posti di lavoro che saranno bruciati dalla innovazione digitale entro il 2037 sia pari a 1,2 miliardi! E siccome sappiamo che se una cosa è tecnicamente possibile e economicamente conveniente si farà senz’altro, non si tratta di ragionare sul se, ma di prendere atto che il genio è uscito dalla lampada: l’innovazione distrugge molto di più di quello che crea, e lo fa a una velocità imparagonabile con l’esperienza storica vissuta fin qui, dove il bilanciamento fra innovazione che elimina e innovazione che crea lavoro tendeva a pendere decisamente a favore di quest’ultima una volta esaurita la pars destruens.
Oggi con tutta la buona volontà è difficile credere che per ogni posto di lavoro nell’hi-tech se ne creino sei nei servizi come vuole la vulgata dei tecnologi. Piuttosto pare accertato che per ogni nuova macchina che
entra nei processi produttivi di posti se ne perdono sei. E poi c’è posto e posto. Quelli che si creano non assomigliano per niente all’idea che del lavoro abbiamo avuto fin qui. Il posto «digitale» richiama infatti forme di semi-imprenditorialità di cui condivide tutti i rischi, ma non necessariamente la propensione individuale al rischio, e quasi nessuno dei vantaggi come compensi elevati e una gestione creativa del tempo libero. Inoltre i lavori cancellati erano magari ripetitivi ma decentemente remunerati, mentre quelli nuovi sono sicuramente pagati meno. Un tema che comincia a preoccupare seriamente anche organismi internazionali come l’Ocse che stanno cercando di capire come si fa a garantire la crescita di economie che al 70% si basano sui consumi quando cala sistematicamente la quota dei salari, cioè il mezzo principale per acquistare i beni e i servizi da consumare. E se una fetta ampia (forse addirittura la maggioranza) della popolazione non lavora, chi consumerà i beni prodotti dalla parte che lavora? E se tutti si mettono a fare i surfisti a Cesenatico (non solo a Malibù come ci ricorda Carlini), chi garantirà le pensioni ai vecchietti in essere e ai giovani adulti?

problemi giganteschi
È uno scenario che pone tre problemi giganteschi. Uno è il semplice dato quantitativo esposto da McKinsey che spinge a cercare politiche del lavoro in grado di aumentare l’occupazione rallentando se non proprio contrastando la tendenza. L’altro è cosa far fare alla gente che non troverà più lavoro. Il terzo è come finanziare politiche attive, comprese naturalmente le forme di sostegno al reddito, che sappiano distinguersi dal puro assistenzialismo di massa, come sarebbe il cosiddetto «reddito di cittadinanza» elargito a tutti. Il tutto all’interno di un sistema che va verso lavori molto diversi da quelli che dalla rivoluzione industriale in poi hanno caratterizzato le società avanzate favorendo una crescita (moderata) del valore della quota lavoro rispetto al capitale, l’affermazione del suo valore socialmente identitario, lo spostamento progressivo verso la sua componente creativa dentro un capitalismo temperato dall’anelito all’eguaglianza che la cultura e le forze sociali liberali, socialiste e cristiane sono stati capaci di imporre. Anche quando ci fossero i nuovi posti di lavoro avranno caratteristiche qualitative molto basse, in linea con il carattere «diminutivo» della rivoluzione digitale che favorisce i lavori di tipo «banale», salvo per la piccola parte riservata a imprenditori e manager.

il lavoro ideale
Se le cose stanno così mi sembra che l’analisi sul che fare rischi sempre di partire da una definizione di «lavoro» che non è quella reale, vissuta dalla stragrande maggioranza dei cittadini delle nostre società. Zamagni illustra benissimo il carattere e le origini della dottrina sociale cristiana dove il lavoro viene prima di qualsiasi «diritto» perché è un «bisogno fondamentale» dell’uomo. D’altra parte è la riforma protestante che afferma l’idea della sacralità del lavoro che offre al credente la prova della benevolenza divina nei suoi confronti.

Ma quanti sono i cristiani che vivono così il proprio lavoro?
Roberta Carlini con l’economista inglese Atkinson chiede che le politiche di reddito di cittadinanza corrispondano a attività di partecipazione, una specie di volontariato salariato a spese della fiscalità generale, in ossequio al «nesso causale» di quella associazione in partecipazione che è la vita sociale.
De Leonibus richiama l’attenzione sulle componenti socio-psicologiche del lavoro umano e sui rischi a cui si va incontro svalutandole.
Dunque il lavoro che hanno in mente tutti e tre appare chiaro: costruttivo, creativo, di grande soddisfazione personale, di alto valore sociale, di piena realizzazione di sé, e insieme sufficientemente remunerato. Ma quanti sono i lavori così? quanti sono gli uomini che possono davvero sperare di perseguire la piena realizzazione? Quanti invece i lavori destituiti di qualsiasi interesse, fisicamente massacranti, sporchi, assordanti, ripetitivi, o semplicemente noiosi?
E che tipo di uomo hanno in mente? un uomo normale? un uomo etico che fa quello che «deve»? un superuomo? Quanti sono gli umani che vivono il lavoro come qualcosa di necessario a sopravvivere e basta? E soprattutto, da quando ci siamo lasciati alle spalle l’età della penuria (in Italia da meno di sessant’anni, ma facciamo sempre a tempo a ripiombarci se non stiamo attenti), quanti nelle giovani generazioni vivono il lavoro (full o part-time) come un semplice mezzo per «fare altro»? Viaggiare alla scoperta di mondi interiori, o anche «dentro i confini della nostra prigione» (per ricordare Marguerite Yourcenar); conoscere usanze, culture, studiare, ricercare… ma soprattutto «consumare» il tempo, semplicemente «vivere» in attesa di trovare qualcosa di meglio, di più rappresentativo di sé. Guardate quanti sono in Italia quelli che pur di «non» lavorare sperano di incrociare il loro destino con il mondo dello spettacolo attraverso i talent-show televisivi. Centinaia di migliaia a giudicare dalle selezioni. Molto meno quelli che confidano nella propria capacità di «intraprendere», e che per forza dovranno diventare molti di più. E allora non sarà che il futuro potrebbe essere fatto soprattutto di piccoli imprenditori di se stessi, creatori a rotazione in uno scenario lontano mille miglia da fabbriche e uffici post-fordisti?
Insomma pur condividendo l’imperativo di trovare una soluzione a un problema che è già gigantesco e che diventerà ingovernabi- le nel prossimo futuro, resto dubbioso di fronte a un approccio tutto innervato su un profilo solidaristico e sulla rigida difesa dei diritti acquisiti da imporre a una società che negli ultimi cento anni è stata capace di crescere grazie soprattutto ai consumi privati e non solo a investimenti pubblici di tipo strutturale e infrastrutturale.

e il lavoro «merce»
D’altra parte mentre si sviluppava il preoccupante processo di precarizzazione degli ultimi anni anche da noi, come nei paesi più avanzati del nord del mondo, il lavoro si è andato «liberando» da logiche di tempo pieno e indeterminato, a favore di approcci frazionali che lo intendono come occupazione temporanea, a reddito anche basso, ed esclusivamente finalizzata a garantire percorsi di esperienza e di consumo mutevoli. Uno strumento, non un bisogno. Marxianamente, una «merce».
Ora è giusto aspettarsi dalla classe politica risposte e proposte per creare il numero di posti che servono a colmare il deficit mentre si attivano soluzioni intermedie di sostegno. Risposte e proposte che invece latitano. Ma la sensazione è che non sia possibile affrontare il problema con un empito volontaristico che alla scala del problema di cui si parla sarebbe immane.
Si fatica a immaginare il «che fare». Forse occorrerebbe richiamare in servizio anche qualche riflessione sull’ozio, «padre di tutti i vizi» secondo Catone, che pure era convinto fosse la migliore espressione della antica virtù romana dell’operosità. Da Seneca (De Otio) a Cesare Pavese (Lavorare stanca) fino a Bertrand Russell, che non essendo cristiano pensava che in questo mondo si lavora troppo, e che mali incalcolabili derivano dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa. Perché «l’etica del lavoro», scriveva nel 1935 in Elogio dell’ozio, «è etica di schiavi, e il mondo moderno non ne ha bisogno».
Pensatori provocatori che han provato a cambiare la radicata convinzione che il lavoro sia uno strumento di identità personale e sociale di cui l’uomo non può fare a meno, e non invece solo un mezzo per procacciarsi un reddito con cui sopravvivere, vivere discretamente, vivere.

utopia per realisti
Ma niente paura, qualche buona notizia potrebbe venire da un giovane storico olandese (Rutger Bregman) che sta suscitando molto rumore in giro per il mondo con il suo libro Utopia per realisti, un fresco richiamo alle esauste cassandre della sinistra internazionale (soprattutto dopo la batosta tedesca) sulla necessità di rovesciare in opportunità i termini della crisi rilanciando la fondatissima idea che le utopie non sono che anticipazioni realistiche di quello che avverrà. Con tutta la capacità di anticipazione dimostrata dai tantissimi «sogni» che si sono realizzati si possono disegnare percorsi di uscita dalla crisi fondamentale del nostro tempo basandosi su un pensiero «nuovo» anche a costo di rivoluzionare tutti i processi formativi che abbiamo adottato fin qui. In fondo è vero che in pochissimo tempo l’umanità ha sconfitto l’uso sistematico della guerra, eliminato la schiavitù e il colonialismo rendendo possibile l’auto-determinazione di molti popoli, abbattuto la segregazione razziale, affermato l’eguaglianza di genere, consolidato il diritto di parola, arrestato la diffusione di malattie che per secoli hanno sterminato le popolazioni di interi continenti, ridotto drasticamente la fame nel mondo e in parte anche la povertà in molti paesi.
Opportunamente motivati e resi economicamente plausibili, tornano attuali in questa chiave temi come il reddito minimo per tutti, la settimana cortissima, l’investimento sociale e personale del tempo liberato in attività individualmente gratificanti e/o socialmente costruttive, nello studio e nella formazione, nell’aiuto agli altri, nella riflessione filosofica e nella produzione creativa, invece che soltanto nella frequentazione afasica dei tanti non-luoghi che la società cosiddetta dei consumi ha eretto per lo svolgimento dei riti dello shopping compulsivo. Ovviamente ci vuole una buona dose di ottimismo della volontà (avrebbe detto Gramsci), ma come scrive Bregman, è importante ricordarsi che Martin Luther King dichiarò di aver fatto non un incubo ma un sogno…
Daniele Doglio
———————-
rocca-21-1-nov-17