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Ricordando un amico: Pierfranco Zappareddu

Pierfranco ZapparedduCome fu che Pierfranco Zappareddu mi convinse
di Gianni Loy
La prima volta è stato, ahinoi, quasi mezzo secolo fa. Facevo il mestiere di aspirante giornalista, Gulp usciva ancora in ciclostile, le matrici si compravano da Fadda, in Via Garibaldi, si stampava con il ciclostile nella sede Giac di via S. Lucifero. Pierfranco amava portare il basco, stringere un sigaro tra i denti, qualche volta. Così, almeno, mi pare di ricordare. Ed amava il teatro. Poco più che adolescente, già di teatro viveva. I luoghi, almeno quelli, li ricordo con precisione, nel triangolo tra piazza Repubblica, piazza San Saturnino e via Grazia Deledda. Più tardi via Sulis. E poi il Dettori, il liceo prediletto dalla borghesia cagliaritana. Con le sue sezioni riservate alle élites. Un giorno gliel’ho chiesto a bruciapelo, al preside Rachel, che tutti chiamavano “Pampurio”, correva l’anno di grazia 1968: Esiste una selezione di classe all’interno del liceo? Gli altri docenti presenti, di fronte ad una domanda tanto impertinente, erano ammutoliti. Ma Pampurio aveva risposto senza batter ciglio: “Di fatto esiste – aveva risposto testualmente – Ciò dipende dal fatto che certi genitori si preoccupano di avere per i loro figli i docenti migliori ….”. Qualche anno più tardi, pescato dalla graduatoria, venni chiamato al Liceo Dettori per una supplenza di Filosofia. MI presentai il meglio possibile, senza eschimo, probabilmente in giacca e cravatta, ma i cappelli troppo lunghi, o qualche altro particolare, scoraggiarono il preside: la supplenza scomparve. Conservo qualche rara fotografia di quell’epoca. Attendo che i miei figli siano abbastanza grandi per potergliela mostrare.
Pierfranco era peggio di me. Non solo per il basco. Credo che già dormisse dove gli capitava. Eccentrico, come si conviene ad ogni artista che si rispetti, irriducibile bohémienne. Al principio pensavo persino che si atteggiasse, in fondo eravamo poco più che ragazzini, anche se io con qualche anno più. Ed invece il teatro era davvero la sua vita.

Il liceo Dettori. E’ lì che è incominciata la nostra storia. Pierfranco aveva avuto l’ardire di presentare proprio in quel liceo nientemeno che “la Storia dello zoo”, un dialogo che voleva coinvolgere lo spettatore nella critica alla società americana degli anni ’60. La provocazione toccò nel segno, se è vero che suscitò forti reazioni, soprattutto negli ambienti più conservatori dell’epoca. Si trattava di un dramma, scritto nel ’60, che aveva avuto difficoltà ad essere rappresentato persino negli Stati Uniti. Una straordinaria e geniale scelta coraggiosa, si direbbe, da parte di un ragazzo di neppure 18 anni che già si cimentava, senza timori reverenziali, con il teatro d’avanguardia.
Scelta non da tutti apprezzata. E’ vero che si incominciavano ad occupare le facoltà, anche a Cagliari, ma gli effetti della contestazione giovanile sulla morale comune ancora non si potevano apprezzare. Il preside lo espulse dalla scuola, mi pare di ricordare, il parroco di San Lucifero, mons. Lepori, tuonò dal pulpito, la domenica successiva, contro gli autori di una rappresentazione teatrale che offendeva la morale e corrompeva la gioventù. Pierfranco fu sottoposto ad un linciaggio in piena regola, il suo dramma definito un “Festival del sesso”.

Fu in quella occasione che conobbi Pierfranco Zappareddu. Forse per quella sindrome da boy scout che ci caratterizzava, noi che venivamo dal mondo cattolico, che ci faceva correre in aiuto di chiunque si trovasse in difficoltà. E la difficoltà di Pierfranco era reale, ed era seria. Veniva additato come se fosse un untore … ed era ancora così giovane, nonostante le maturità artistica, nonostante il suo basco, nonostante il sigaro….
Dedicammo al caso diverse pagine del giornale. Per difendere la scelta di Pierfranco, evidentemente. Intervistammo diversi studenti del Dettori per cogliere le loro impressioni. Alcuni chiesero di mantenere l’anonimato. Risposero con nome e cognome: Massimo Falchi (5°a), Roberto Saba (5°e), Luciano Medda, Giovanni Salotto, Cicci Pischedda, Antonello Demurtas (3° liceo). Se qualcuno di loro conserva ancora qualche ricordo, batta un colpo! Pupo Marras scrisse una breve critica del dramma di Albee, io ne scrissi nell’editoriale. Pierfranco Zappareddu rilasciò un’intervista. Probabilmente, la sua prima intervista.
Affermò che le scene “pesanti”, così le definiva, avevano solo lo scopo di scuotere il pubblico e costringerlo a captare la problematica che il dramma voleva rappresentare. Una delle accuse che gli furono mosse, fu quella di “partecipare ad ambienti e circoli di sinistra”. Accusa che definì gratuita, e diceva la verità, la politica non era in cima ii suoi pensieri. Lo straordinario, semmai, è che il solo sospetto di essere di sinistra, in certi ambienti della città, potesse provocare condanna ed emarginazione.
La verità è che già eravamo di sinistra, ma non ne avevamo ancora la consapevolezza.

Fu così che incominciai a frequentare Pierfranco, o lui me. E’ come se operassimo, in quei tempi di rapidi cambiamenti, ciascuno in un diverso ruolo: lui faceva teatro, io facevo un giornale, altri incominciavano a fare politica. Continuavamo ad essere diversi, anche se entrambi, pur nei diversi ruoli, avevamo sicuramente un grande ideale in comune.
In quei pochi anni, Pierfranco maturò una straordinaria esperienza teatrale. Presentò a Cagliari due rappresentazioni di grande impatto. Ricordo “Il mostro di Harlem”, nella facoltà di Lettere, ed il “Marat-Sade” nella sede del Giardino d’Inverno, in via Manno, che per anni avrebbe ospitato Manifesto.
Naturalmente, ogni sua nuova performance teatrale era oggetto della nostra attenzione.
Il suo genio mi affascinava. Era assai più trasgressivo di quanto non lo fossi io. Viveva l’avanguardia, la sperimentazione più avanzata, leggeva, si aggiornava in continuazione. Quando mi spiegava le tecniche e le forme di preparazione degli attori utilizzava la gestualità delle mani, si fermava, per rappresentare meglio il suo discorso, come se, osservandolo, tu potessi meglio comprendere il concetto che cercava di trasmetterti.

Lina aveva 16 anni, nel piccolo locale di Via de Gioannis, neofita aspirante attrice, quando Pierfranco le disse di lasciarsi semplicemente cadere da una sedia in modo naturale, il regista voleva osservare, appunto, la sua capacità di rappresentazione di un gesto naturale. Lina non proseguì quella carriera, ma ricorda di quel regista una grande professionalità, un grande rispetto per le persone. Aveva il basco, sì, l’aria da “grande”, ma era appena poco più di un ragazzo, non aveva ancora più di 20 anni.

Nell’ultimo periodo, Pierfranco ed il suo gruppo avevano trovato ospitalità in una sala dell’Annunziata, spero che la memoria non mi inganni. Era concentrato soprattutto sulla preparazione dell’attore, che doveva essere coinvolto globalmente, nella mente e nel corpo, ciò comportava uno sforzo fisico e mentale a volte tremendo. Le prove, che qualche volta mi capitava di intravedere, impegnavano i suoi attori sino allo spasimo.

In quel periodo, preparava un nuovo spettacolo, non ricordo quale, Gulp usciva ormai in tipografia, ed io davo una mano a Pierfranco nelle relazioni con la stampa.
Avevo in mano un comunicato relativo ad un suo imminente spettacolo, che non vide mai la luce. Fu lui ad andarsene, quasi all’improvviso, credo che fosse il 1971, per inseguire il suo sogno d’artista all’Odin Teatret di Eugenio Barba.

Ciò che accadde dopo, quando tornò, ripartì e ritornò, non mi appartiene. Ora che se n’è andato, senza aver più in programma di tornare, sollevo gli occhi e vedo che la foschia guadagna un altro pezzo di orizzonte. Formidabili quegli anni, avrebbe detto un altro compagno, che avrei incontrato solo qualche anno più tardi. E formidabile ragazzo, non solo di teatro, Pierfranco, già d’allora. Mi ritorna in mente, chissà mai perché, proprio all’angolo tra via Grazia Deledda e via S. Eusebio, con il basco, con l’eschimo, con una sigaretta in mano, con lo sguardo appassionato di chi vuol convincerti di come siano belli i suoi sogni. Mi ha convinto, allora. Altri 40 anni e più non sono bastati a farmi cambiare idea.

Gianni Loy
ricordo Zappareddu
Locandina pubblicitaria sul periodico GULP, marzo 1969

Il lavoro degno

di Gianni Loy *

Proprio alla vigilia del primo maggio. Del giorno della festa dei lavoratori! Una giornata che, del resto, ricorda tragedie. Ai lavoratori ed alle lavoratrici morti nei secoli se ne sono aggiunte altre centinaia, oltre 600, in Bangladesh. Non per un incidente, ma per una tragedia annunciata. Perché produrre camicette in Bangladesh, al prezzo di 1,5 centesimi l’una, per poter poi essere rivendute a qualche decina di euri ciascuna, suppone un rischio certo. Rimane solo da sapere dove accadrà e quanti operai, uomini, donne e bambini, moriranno la prossima volta. Purché si tratti morti plurime, perché quelle individuali, quelle che non assumono connotati di tragedia, non interessano ai media.

Alcuni marchi prestigiosi, ora, si dissociano. La Walt Disney ha già annunciato che lascerà il Bangladesh, altre la seguiranno. Eppure molte fabbriche son finite in quell’inferno solo perché in Cina i prezzi cominciavano a lievitare, e la legge dell’economia, quella che tanto veneriamo, è impietosa ed inflessibile.

Eppure è questa la concorrenza. E’ questo l’ordine internazionale invocato dai soloni dell’economia. Ma cosa crediamo che sia, il martellante invito ad una maggior flessibilità, alla riduzione del costo del lavoro, al superamento dei “lacci e lacciuoli” che continuamente viene proposto anche qui da noi? Ma in cosa consiste quella parola d’ordine della “competitività”, quella divinità pagana che viene riproposta in tutte le salse? A che prezzo dovremmo “competere” con le economie in grado di produrre beni a costi ridicoli? Vivere con 38 euri al mese (ma il salario minimo, in Bangladesh, è addirittura di 29 euri al mese) significa schiavitù, ha commentato proprio il primo maggio Papa Francesco. Con tutta l’ipocrisia di molte imprese di grido che affermano la propria responsabilità sociale, che sbandierano ai quattro venti pretese indagini preventive per assicurarsi del rispetto dei diritti dei lavoratori e delle loro condizioni di lavoro, che ostentano “codici di condotta” qualche volta improbabili. Ma che bisogno c’è di tante indagini per capire che a prezzi tanto bassi il rispetto delle condizioni di lavoro è semplicemente impossibile?

Ed infatti, neppure ci provano se è vero (fonte: Human Right watch)  che nella capitale del Bangladesh il controllo di 100mila fabbriche è affidato a soli 18 ispettori ! Papa Francesco, nell’omelia del primo maggio, ha anche ricordato che dobbiamo seguire la strada che deve condurci al riconoscimento della dignità del lavoro.

Ma la dignità del lavoro non è la nostra personale convenienza, di noi che magari auspichiamo l’apertura ininterrotta dei luoghi di culto del consumo, le città mercato, anche in occasione delle festività più impossibili, senza pensare che ciò significa lavoro imposto ad altre persone proprio al prezzo di sottrazione di dignità. La dignità del lavoro è un bene collettivo che si conquista nel prendere coscienza che la dignità è di tutti o non è! Nel sottosviluppo, in quella condizione tragica che sembra tanto lontana da noi tutte le volte che siamo costretti a commentare tragedie di questo tipo, non si cade all’improvviso. Piuttosto si scivola, a poco a poco, senza neppure rendersene conto, tutte le volte che si scende a compromessi, credendo che un po’ di precariato, di flessibilità, poi magari una piccola riduzione di un salario già insufficiente, come consentito o auspicato in sede di contrattazione collettiva, o una riduzione dei propri diritti, una maggior facilità del licenziamento incolpevole…, possano davvero aiutarci ad uscire da questa crisi.

Il lavoro o è degno, o non è lavoro. Quell’altro, ha proprio ragione Papa Francesco, è schiavitù.

* Intervento pubblicato anche su “Il Portico”

Gianni Loy

Una Chiesa incarnata

di Gianni Loy*

L’ aereo su cui viaggiavo aveva incominciato la discesa verso l’aeroporto di Managua. Una notte di una trentina d’anni fa, quando il Nicaragua era governato dai sandinisti, quando gli squadroni della morte imperversavano su quasi tutta l’America centrale, quando gli Stati Uniti sostenevano e finanziavano l’operazione “contras” nel tentativo di rovesciare il governo sandinista. Il libro di letture che mi accompagnava durante il volo era costituito dalle omelie di Monsignor Óscar Romero, barbaramente trucidato sull’altare da una delle bande che imperversavano nella repubblica del Salvador. Improvvisamente, le luci dell’aeroporto si spensero, l’aereo fu prima costretto a riprendere quota, quindi a cercare rifugio in un aeroporto vicino, proprio quello del Salvador. Fummo invitati a scendere. Avremmo dovuto passare la notte in un albergo della capitale per riprendere il viaggio verso Managua il giorno seguente. Ebbi paura, lo confesso, all’idea di dover subire un controllo della polizia di frontiera di uno degli stati più repressivi della zona. Di un governo che, verosimilmente, aveva ispirato l’assassinio di Monsignor  Romero. Ebbi paura, e decisi di abbandonare sull’aereo il libro che stavo leggendo. Le prediche di quel monsignore, proveniente da una classe sociale non certo “popolare”, che quando aveva incrociato le sofferenze di un popolo oppresso dalla dittatura e dalla fame, aveva deciso, semplicemente, di seguire la strada della liberazione del suo popolo. Per questo, nonostante i più o meno espliciti inviti, o minacce, della autorità salvadoregne, aveva deciso di non tirarsi indietro nel denunciare le continue violazioni della dignità umana ed i crimini che venivano commessi quotidianamente in San Salvador. Sino a morire, come tanti altri. Sino a prevedere, o almeno a mettere in conto, la morte sua e quella di altri sacerdoti (sei gesuiti sarebbero stati trucidati dagli stessi squadroni della morte, qualche anno più tardi, nel 1989. E’ verosimile che Papa Francesco ne abbia un ricordo personale). Mettere in conto anche il sacrificio supremo.Del resto, così rifletteva Monsignor Romero prima della sua morte: “Sarebbe triste che in un Paese in cui si assassina così orrendamente non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una Chiesa incarnata nei problemi del popolo”. La ricordo, quella giornata, le ore di trepidazione passate a San Salvador prima di essere re-imbarcato verso Managua. Soprattutto, ricordo, come fosse ieri, il senso di vergogna che aveva accompagnato quel mio gesto, l’abbandono del libro dentro l’aereo, quella sorta di tradimento. Mi erano venute in mente le parole di Pietro prima che il gallo cantasse: No, non lo conosco. Ma non era vero che non lo conoscessi. Era come se lo rinegassi, proprio dopo essermi lasciato affascinare dalle sue omelie. In quell’angolo di mondo, dove la Chiesa vestiva abiti di sofferenza, e di speranza, dove ho visto un’arma, assieme ad altre offerte portata sull’altare del sacrificio di Cristo. La decisione di Papa Francesco, di procedere con la beatificazione di Oscar Romero, non ci assolve, non fa dimenticare dimenticare le nostre debolezze, ma rafforza la nostra speranza.

Gianni Loy

* articolo pubblicato anche sulla rivista “Il Portico”

Donne Rom: discriminazioni multiple, azioni positive e politiche in Europa

DOCUMENTAZIONE  Convegno di studi - Cagliari 26 Ottobre 2012,  Aula Magna di Scienze Politiche, Viale S. Ignazio, 78

Donne Rom:discriminazioni multiple, azioni positive e politiche in Europa

Il testo che segue è stata la base d’appoggio per la comunicazione di Luisa Milia (nella foto piccola),  della Fondazione “Anna Ruggiu”, nella sessione pomeridiana del convegno dedicata a ESPERIENZE ED AZIONI POSITIVE A FAVORE DELLE DONNE ROM IN EUROPA. Ci si scusa quindi per l’andamento del testo che nella suaattuale forma scritta mantiene il suo legame con il parlato e numerosi riferimenti alle diapositive che loaccompagnavano.


Sincope …se sia cosa buona e giusta che un ex senatore del Partito democratico venga nominato presidente della Fondazione Banco di Sardegna

Gianni Loy

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di Gianni Loy *

A volte, il silenzio pesa più di mille parole. Può esser persino più potente delle parole, sia perché contiene una straordinaria capacità di sintesi,  sia  perché può evocare tante di quelle parole, e con tante sfumature, che neppure un lungo discorso potrebbe.
Il silenzio può essere anche solo una parola: Comenti istasa? “Naraus beni po’ coidai”.  Così era avvezza a rispondere mia madre,  in su celu siat, Quel silenzio lasciava all’interlocutore il dubbio su tutto ciò che una persona interrogata sul suo intimo, come stai?, avrebbe potuto rivelare.  Confessare come stiamo, come stiamo veramente, è cosa complessa, difficile da intendere per gli altri e persino per noi stessi. Se dovessero chiedermi cosa pensi di quanto accade oggi in politica, Stato, Regione, Comune, avrei seria difficoltà persino ad immaginare una risposta. Meglio un monosillabo, un rinvio, ancor meglio il silenzio.
Ma se la gente lo sa che sai suonare, e la gente lo sa: suonare ti tocca.
E quando vedi che in presenza di un vero e proprio disastroso disastro compagni ancora credono, ed operano, e spendono  i talenti che hanno ricevuto alla ricerca di un mondo migliore, di una vita più degna, della giustizia, della solidarietà, non puoi tirarti da parte.
Ed allora il silenzio non può essere una via di fuga. Detto in altri termini:  se Marco ti propone di contribuire al dibattito di questa testata [il manifesto sardo] con una riflessione su quanto avviene nel sistema bancario e dintorni, soprattutto in quello a noi più vicino, non puoi rispondergli di no.
Cioè se sia cosa buona e giusta che un ex senatore del Partito democratico venga nominato presidente della Fondazione Banco di Sardegna.
Nei giorni scorsi autorevoli esponenti del mondo intellettuale sono intervenuti per scongiurare tale evento. Non ripeto le argomentazioni, in sintesi: inopportunità. Con un rafforzativo: assoluta inopportunità. Qualcuno ha anche sollevato questioni di legittimità, se cioè sia consentito un passaggio così rapido dalla politica alla banca, senza neppure riprendersi dal fiatone. Ma non è questa la questione più importante. La domanda che mi son posto, che mi pongo, è se una scelta del genere sia saggia. Proprio quando un certo modo di fare politica è stato appena travolto da orde di barbari che hanno marciato su Roma per occupare una buona parte degli scranni delle sedi del potere legislativo. E che promettono di una lotta senza quartiere, e senza possibilità di dialogo con una, vecchia, classe politica incapace di rinnovarsi.
Mi fa persino tenerezza vedere amici e compagni, come mia cugina Annamaria, sulle piazze, su facebook ed altrove, arrabattarsi per difendere spazi di democrazia, per sperare che una certa sinistra, il Partito democratico, riescano a muovere la barra  del timone nella direzione giusta, e capire quale vento spira, nel mare che era nostro, per offrire a quel vento superficie di vele che, sapientemente orientata, consenta di riprendere la navigazione.
In questa dinamica, la semplice notizia che un ex senatore, ancora ansimante per il lungo faticoso impegno politico, sia in procinto di montare in groppa ad un cavallo che dovrebbe essere totalmente estraneo alla politica, spazientisce persino l’infaticabile Eolo, produce calma piatta, rende inutili le vele. Tutto dejà vu.
Servono spiegazioni? Servono commenti? O basta una sintetica esclamazione che non di rado compariva nel modo di esprimersi di Rossana Rossanda: ahinoi!.
Ed erano altri termini.
Tuttavia, per assolvere l’impegno assunto con Marco, occorreva approfondire. Le suggestioni e le considerazioni di Francesco Pigliaru, di Guido Melis, di Parisi, financo l’appello di Fassina, rappresentano una preoccupante preoccupazione per gli esiti di una scelta scellerata.
Da subito, tuttavia, ancor prima della richiesta di Marco, ho incominciato ad avvertire la curiosità, si, proprio la curiosità, di conoscere le giustificazioni della scelta di un  partito così pesantemente chiamato in causa. Chiamato in causa non dalle evanescenti e strumentali battute di qualche esponente Pdl, ma  dalla sua stessa pancia, cioè dagli “esponenti” che hanno pubblicamente protestato, come da tanti di quei militanti come mia cugina..
Ed invece: silenzio. Dai dirigenti del partito nessuna risposa alle critiche, precise e contundenti, che provenivano, diciamo così, dalla base. Mi sembrava quasi impossibile che di fronte ad una evenienza così rilevante, che evocava altre recenti vicende bancarie che, secondo i molti, avrebbero contribuito, se non determinato, un rovinoso scivolone proprio alla vigilia delle ultime elezioni.
Ed è in quel momento che ho incominciato a riflettere sulle capacità espressive del silenzio. Un silenzio pesante, eloquente, circa il futuro che possiamo aspettarci. Un silenzio che carico di presunzione, un silenzio carico di arroganza, un silenzio gravido di possibili, ulteriori conseguenze.
Ma com’è possibile che di fronte alla verosimile scelta di una nomina bancaria, o parabancaria, che ha creato pubblico e pesante imbarazzo nell’opinione pubblica e, soprattutto, nell’area di riferimento e nella militanza dello stesso partito, il partito non parli?
Un silenzio che mi sembrava surreale. Incominciavo a pensare che avrei dovuto consegnare il pezzo senza tener conto delle ragioni dell’altra parte.
Poi finalmente un barlume, un’intervista del segretario Lai a La Nuova Sardegna, entra nel merito, cioè esce dal merito della questione, lasciandoci esterrefatti: “il pd non è coinvolto nelle designazioni”. Afferma Lai: “Sono convinto che i rappresentanti selezionati dalle imprese tramite le Camere di commercio, dal sistema della conoscenza tramite le Università e dal sistema degli Enti locali perché rappresentanti più vicini ai cittadini, non saranno subalterni a nessuno nello scegliere chi deve guidarli, nello scegliere in piena autonomia la persona più adatta e autorevole ad interpretare una scelta di campo economica e sociale”.
Roba da non credere. La domanda verteva sull’opportunità della designazione di uno dei più prestigiosi leader isolani del partito alla presidenza di una Fondazione bancaria.
La domanda al Pd non interessa, perché non è assolutamente coinvolto nelle designazioni? Ma cosa ne pensa? Glielo avrà chiesto il giornalista?
I designatori “non saranno subalterni a nessuno!” Ma a questo misterioso signor nessuno che potrebbe influenzarli, cosa passa per la testa? Manda loro un messaggio pro o contro la designazione del personaggio che, da qualche settimana, è sulla bocca di tutti?
Ma è sempre stato così o è da oggi che il Pd sardo è estraneo alle nomine, o alle proposte di nomina in certi ruoli?
Se, all’ultimo momento, non fosse stata pubblicata l’intervista del segretario del PD  sardo, avrei chiuso l’articolo con una riflessione sull’espressività, ahinoi preoccupante, del silenzio, soprattutto quando riguarda un partito importante ed influente nella società sarda.
Ora che ho potuto tener conto dell’opinione del segretario di quel partito, chiudo il pezzo esattamene nello stesso modo.

—–
* intervento pubblicato sul manifesto sardo on line

Diritto&Rovescio

diritto & rovescio

Giovani e tirocini: una guerra di nuova povertà

di Gianni Loy *

L’ assalto alla diligenza  costituisce una delle rappresentazioni del nostro immaginario collettivo. Ma non è archeologia sociale. Sono, semplicemente, cambiate le modalità. Non è stato, forse, un assalto alla diligenza quell’improvviso picco di operazioni telematiche organizzate o confuse, finalizzate alla conquista di uno o più tirocinanti, unica merce, scarsa ma an-cora disponibile nel mercato, per svolgere una vera e propria attività lavorativa subordinata, ancorché, spesso, sotto le mentite spoglie di una attività para-formativa? Hackers o semplice ingorgo informatico? Forse la seconda ipotesi è quella più giusta. Ma sia chiaro, prima dell’informatica, in casi analoghi, i pretendenti bivaccavano davanti agli uffici dell’assessorato, per giorni, con provviste e sacchi a pelo, per riuscire a presentarsi per primi allo sportello. E’ cambiata solo la tecnica. Rimane la sostanza del vecchio adagio: chi tardi arriva male alloggia! Solo che per poter arrivare primi, sia quando si facevano le file che da quando ci sia affida alla nuova divinità informatica, occorrono risorse, forza, e magari furbizia, a tacer d’altro, che fa si che nella selezione siano sempre i più deboli, e non i meno meritevoli a soccombere.

1812-2012 Arregordendi is martiris de Palabanda

Pubblicato su fb un video di Gianni Loy sulla manifestazione tenutasi il 31 dicembre in occasione della collocazione di due lapidi del Comune di Cagliari (presente anche il sindaco Massimo Zedda) per ricordare i martiri di Palabanda a duecento anni della congiura di popolani e intellettuali sardi contro i piemontesi
Ecco l’indirizzo web per visionare il filmato: in versione integrale http://www.youtube.com/watch?v=NfbMJnBY39U&feature=share  –  in versione ridotta http://www.youtube.com/watch?v=CRFPx0B4oxY

Approfondimenti: sul sito della Fondazione Sardinia  –  blog Comitato “Pro Palabanda”

Dimmi che destino avrò

Un Natale d’amore fuori dagli schemi: su Repubblica.it il film-sorpresa delle feste
Dal 20 dicembre 2012 al 9 gennaio 2013 sul sito de La Repubblica e su Trovacinema, in esclusiva e in streaming gratuito, la visione integrale di “Dimmi che destino avrò”, appena passato al Festival di Torino: l’incontro tra un poliziotto e una donna di origine rom. Il distributore Gianluca Arcopinto: “Il nostro dono per tutte le famiglie”

http://trovacinema.repubblica.it/speciali/dimmi-che-destino-avro?ref=HRESS-23

 

 

 

 

 

 

In programmazione il nuovo film di Peter Marcias “Dimmi che destino avrò”

Peter6x3 Dimmi che destino avrò

DAL 29 NOVEMBRE AL CINEMA IN SARDEGNA
30° TORINO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2012

Dimmi che destino avrò
di Peter Marcias

sceneggiatura di
Gianni Loy

Pubblicizzazione sul sito di Unica