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La crisi della Politica. Da dove ricominciare? Dibattito

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La Provvidenza, la normalizzazione e il futuro della sinistra
Volerelaluna, 3-02-2021 – di: Andrea Danilo Conte
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La formazione del Governo Draghi, le vicende che l’hanno favorita e accompagnata, la sua accettazione acritica da parte delle forze politiche (all’infuori della destra neofascista e di qualche esponente, in numero inferiore alle dita di una mano, di Sinistra italiana) e della totalità della stampa nazionale hanno aperto in quel che resta della sinistra un confronto sulle prospettive che si aprono. Le domande sono chiare: dove stiamo andando? E, ancora, che fare? A questo dibattito, su cui stanno arrivando molti e appassionati contributi, Volere la Luna dedicherà una particolare attenzione.

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Venne il giorno della Provvidenza ed era un giorno di pioggia come tutti gli altri. SuperMario, il Messia, il più competente, colui che tutto il mondo ci invidia e che non ci farà più vergognare, squarcia gli Osanna e dai cori emergono uomini e donne a volte mediocri a volte raccapriccianti. Ci avevano preparati ad avere il meglio cui l’Italia potesse aspirare. L’innovatore invece attinge al passato, quasi a voler fermare la storia, e vara un Governo di destra-centro-sinistra che riesce a concentrare il peggio dei Governi di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi decenni: Brunetta, Gelmini, Carfagna, Franceschini, Orlando. Il suo Governo riporta l’orologio indietro di vent’anni. Come se la storia non avesse già decretato il fallimento del liberismo, della terza via e del berlusconismo. Il Migliore riesce nell’impresa di mettere insieme tutti questi fantasmi del passato quasi scommettendo che essi si possano esorcizzare gli uni con gli altri. Davamo tutti per morto il neoliberismo e ci dicevano che il Draghi della Trojka, della lettera d’intenti, della messa in ginocchio della Grecia era un lontano ricordo e che l’Uomo era cambiato. E invece l’Uomo della Provvidenza (che in Italia sarà anche Divina, ma è sempre di sesso maschile) vara un’operazione nostalgia piuttosto scialba e mediocre. Siamo dalle parti dei Governi Dini e Monti, ma in un contesto storico e internazionale totalmente mutato e con un tessuto sociale sfibrato e in ginocchio rispetto a venti o dieci anni fa. E con un tesoro di miliardi da distribuire in modo da ridisegnare gli equilibri di potere e i rapporti di forza dei prossimi anni.

Tanto rumore per nulla, dunque? Non è così.

La vera portata del Governo Draghi non sta nel Governo stesso, ma nel tipo di operazione di cui è portatore. Lo scenario politico ne esce travolto e radicalmente mutato nel giro di pochi giorni. L’operazione Draghi lascia fuori solo la Destra nazionalista e razzista, ma insonorizza e imbriglia tutto il resto, il sovranismo muscolare e xenofobo, il populismo movimentista, anche l’egoismo narcisista renziano. Non è un’operazione casuale, è quello che si voleva, che si è teorizzato e preparato nei dettagli: l’omologazione del sistema politico italiano. I poteri economici nazionali e sovranazionali hanno ritenuto che non si potesse rischiare, che alcuni disegni di legge in cantiere dovessero essere affossati e che timidissimi segnali di autonomia presenti nel precedente Governo e nel premier dovessero essere bloccati sul nascere. E così, anche la democrazia costituzionale ne esce normalizzata e commissariata. Quello di Draghi è un Governo ineccepibile sul piano della democrazia parlamentare, ma è un Governo normalizzatore e imbrigliatore delle dinamiche partecipative della democrazia costituzionale: azzerare le differenze, rendere obsoleta l’esistenza di posizione politiche contrapposte; tra Salvini e Speranza non ci devono essere differenze o comunque non devono essere percepite, perché il messaggio diretto al ventre del Paese è abbandonare gli egoismi di parte e concorrere tutti insieme al bene della nazione. Destra e sinistra definitivamente omologate. I rider e le multinazionali, gli invisibili e i miliardari del Billionaire, sono la stessa cosa. Difendere i primi contrasta con l’interesse nazionale. E soprattutto i primi devono rimanere senza rappresentanza politica, mentre ai secondi è garantita la “copertura” di tutto l’arco parlamentare. Da questo punto di vista, si tratta del disegno più pericoloso che il Paese potesse subire. Azzerare il conflitto vuol dire consegnare lo scettro ai più forti, negare l’esistenza stessa della lotta politica per la difesa di interessi differenti; e prelude sempre alla chiamata della Patria che non consente diserzioni. E infatti nessuno ha disertato; anche quella sparuta pattuglia di parlamentari di sinistra, del tutto scollegata con i fermenti vivi del Paese, ha piegato la testa. Il Normalizzatore ha sancito così la definitiva vittoria dell’antipolitica; ci avevano detto di aspettarci chissà quale svolta storica o quale raffinata teoria e invece siamo a livello di pettegolezzo da bar: «tanto son tutti uguali». Draghi offre così il migliore puntello alla recente vittoria referendaria: che senso ha avere così tanti parlamentari se tanto stanno tutti dalla stessa parte? L’unanimismo rende inutili le sfumature e le differenze e la rappresentanza era già diventata un costo da tagliare.

Ma se questo è lo scenario, oggi che essere “di parte” è messo al bando dalla storia, per chi intende la democrazia costituzionale come partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese in difesa di idee, valori, interessi, programmi si apre uno scenario inedito e senza precedenti. In un contesto in cui tutte le forze rappresentate in Parlamento fanno da megafono alla normalizzazione di ogni alterità, chi intende stare da una parte sola ha un’occasione unica. Bisogna far nascere immediatamente nel Paese una forza politica alternativa, che sottragga alla Meloni il palcoscenico della vita pubblica per evitare l’ultima delle beffe, ossia che una forza in realtà omogenea alla compagine governativa riesca a intercettare l’opposizione senza essere autenticamente diversa. La costituzione di una forza politica che sappia mettere a nudo l’anticaglia di questo Governo non può essere rinviata oltre. Fra un anno, l’antipolitica avrà seminato ulteriori veleni e una parte rilevante del Paese non può continuare a essere ancora esclusa dalla rappresentanza politica. O dovremo prepararci a scenari ancora più cupi.

Ci sono alcuni pilastri imprescindibili per avviare questo percorso. Primo. Il meglio che offre il Paese non è dentro questo Governo e non trova rappresentanza in questo Parlamento. Bisogna risvegliare queste energie e farle tornare in politica, coinvolgerle da subito nel processo costituente. Secondo. Chi è antagonista a questo sistema politico ed economico deve smetterla di ritenersi autosufficiente e di vantarsi della propria identità e purezza. Nei prossimi mesi, PD e 5S deflagreranno. Occorre da subito, con umiltà, avviare un dialogo con le parti migliori di questi due soggetti politici perché nessuno è sufficiente a sé stesso. Terzo. La testimonianza appartiene alla sfera personale dell’impegno politico, non a quella collettiva. Un soggetto collettivo che si propone il cambiamento del Paese deve essere consapevole che le sue posizioni e tutta la sua comunicazione devono essere popolari e non elitarie.

Il momento è questo e non è rinviabile. Forse Draghi è davvero l’uomo mandato dalla Provvidenza, per dare nuova vita a una storia spezzata.
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IN PRIMO PIANO
Governo Draghi: come in Svizzera?
Volerelaluna, 23-02-2021 – di: Francesco Pallante
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Alla fine, la legislatura a maggioranza Cinque Stelle si conclude davvero come in Svizzera. Solo che a venire presa a modello dal sistema elvetico non è la componente iper-maggioritaria, incentrata sugli istituti della democrazia diretta, bensì quella iper-consociativa, incentrata sul ruolo dei partiti politici. Difficile immaginare una sconfitta più clamorosa dell’impostazione ideologica grillina.

Tra le peculiarità della Svizzera c’è quella di non essere una democrazia parlamentare e nemmeno una democrazia presidenziale: il governo non nasce dalla fiducia conferita dal parlamento né da un voto popolare diretto. La forma di governo elvetica è ispirata al cosiddetto regime direttoriale, un modello, nato dall’esperienza della Rivoluzione francese, che non ricorre in alcuna altra democrazia del mondo. Caratteristica del sistema direttoriale è l’elezione dell’organo esecutivo – che funge anche da Capo di Stato collegiale – da parte del parlamento, in modo tale che sia proporzionalmente rispettata la consistenza dei maggiori gruppi parlamentari. Questo significa che i ministri sono espressione non di una maggioranza politica, come avviene nei sistemi parlamentari, bensì dell’intera assemblea rappresentativa, così da riprodurre in piccolo, all’interno dell’organo esecutivo, il pluralismo politico-ideologico che connota il parlamento. Sarebbe come se, in Italia, sulla base dei risultati delle votazioni del 2018, il governo fosse stato fin da subito – ordinariamente e non, come adesso, eccezionalmente – formato da ministri riconducibili al Movimento 5 Stelle, al Partito democratico, alla Lega e a Forza Italia. Occorre, inoltre, tenere presente che il parlamento svizzero è eletto con sistema proporzionale e che, come nei sistemi presidenziali, una volta designato, il governo non è poi sfiduciabile.

Com’è intuibile, un governo composto secondo la formula ora descritta non è, di regola, in condizione di esprimere un indirizzo politico omogeneo. A sua volta, un parlamento eletto tramite legge elettorale proporzionale e non tenuto a costruire alleanze di governo risulta normalmente incapace di esprimere una maggioranza stabile. Ecco spiegato il frequente ricorso al corpo elettorale per l’assunzione, tramite referendum, delle decisioni maggiormente delicate: il prezzo da pagare per la stabilità dell’esecutivo e per il rispetto del pluralismo politico è il rischio della paralisi decisionale, che viene equilibrato attribuendo l’essenziale del potere deliberativo direttamente agli elettori. Anche se – va aggiunto – nella prassi non è poi così raro che le forze politiche, per non rimanere “tagliate fuori” dall’esercizio del potere decisionale, trovino il modo di accordarsi.

Il problema è che da noi il modello svizzero arriva non in virtù della forza dei partiti, necessaria a riequilibrare la forza degli elettori, ma a causa della debolezza di entrambi: dei partiti e degli elettori. È il tragico paradosso della cosiddetta seconda Repubblica: nata per sottrarre potere alle forze politiche organizzate e attribuirlo ai cittadini, ha finito per toglierlo alle une e agli altri. Quattro «governi tecnici» – Ciampi, Dini, Monti e, ora, Draghi – sono lì a dimostrarlo. Il vecchio sistema politico, bene o male, aveva sempre saputo gestire i passaggi storici cruciali: l’uscita dal fascismo, la guerra fredda, la ricostruzione post-bellica, la crisi petrolifera, la strategia della tensione, il terrorismo. Quello nuovo si sfalda non appena si esula dall’ordinario: l’adozione dell’euro, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e la ripresa post-pandemica.

È venuto il momento di abbandonare la falsa contrapposizione tra i partiti (la società politica) e gli elettori (la società civile) – una contrapposizione portata alle estreme conseguenze dal Movimento 5 Stelle, in piena continuità, non in rottura, con il passato – e comprendere che solo rafforzando i primi si rafforzano anche i secondi. Altrimenti non ci resta che rassegnarci a quella che pare essere la nuova costituzione materiale della Repubblica: quando il gioco si fa duro, i duri escono da Palazzo Koch ed entrano a Palazzo Chigi.
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sbilanciamoci-20 Le lacune di Draghi
Luciana Castellina, su Sbilanciamoci!
24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. E […]

Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/

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