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Che succede?

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La lettera di
di Raniero La Valle

EGOFASCISMO

Care Amiche ed Amici,
il cardinale Ruini (ex presidente della CEI e vescovo vicario di Roma negli anni 1991-2008) suggerisce di dialogare con Salvini, che viene pensato come futuro: come futuro suo ma anche nostro (“ha notevoli prospettive davanti a sé”). Ciò vuol dire passare nei confronti di lui dalla resistenza al viatico, e togliere il tappo che fortunosamente il sistema politico italiano ha messo per impedire o almeno ritardare l’irruzione delle acque dei pieni poteri, traboccanti da urne precocemente convocate. Questo tappo, per quanto improvvisato e maldestro, è la cosa che dà ragione del governo in carica e lo trasforma in governo della ragione.
Passare dalla resistenza al viatico al leader leghista, significa togliere il tappo, privare di questa ragione il governo, farlo cadere. È ciò che dal primo giorno della sua concezione e della sua nascita stanno facendo molti poteri interni ed esterni al governo, che operano perfino tra le forze che lo hanno concepito e lo abitano. Tra questi poteri che giorno dopo giorno scalzano le fragili fondamenta su cui il governo si regge, c’è quasi l’intero sistema culturale e mediatico che agisce sotto dettatura del denaro. Tale è la TV commerciale, interamente determinata dal denaro, il quale si svela platealmente decidendo palinsesti, maratone e tempi concessi ai programmi nelle interruzioni tra una pubblicità e un’altra. I soggetti che fanno i programmi, diventano in tal modo essi stessi oggetti. Non è la televisione che fa la pubblicità, è la pubblicità che fa la televisione. Cioè è il mercato, e meno male che c’è il mercato perché, venuto meno il controllo umano, almeno il mercato per sue non tanto misteriose ragioni ha interesse che qualcosa di umano continui, che la convivenza regga, e che i cori razzisti, che minacciano di far interrompere lo spettacolo negli stadi, non ci siano.
Ora la TV gestita dal denaro sa benissimo che, assunto come fine il profitto, la sola produzione redditizia è lo spettacolo. E gli spettacoli costano: basta guardare ai Teatri dell’Opera, le cui recite a causa dei cori, delle orchestre, delle prime donne e delle messe in scena costano troppo, e che perciò chiudono. Ma la TV commerciale ha trovato le uova d’oro, ha trovato lo spettacolo che non costa nulla e anzi paga addirittura per essere rappresentato. Questo spettacolo è la politica, che da sola può coprire l’intero arco della programmazione, quando è mattina, quando è sera, quando è notte e poi di nuovo mattina. Ma lo spettacolo che fa audience (lo si sa fin dal Teatro greco) è la tragedia e la farsa. E la politica va benissimo come spettacolo, a patto che si presenti come tragedia e come farsa; e se in se stessa non è né tragedia né farsa, la TV ce la fa diventare, la deve restituire così, altrimenti dovrebbe trasmettere altre cose, molto più care. Ciò vuol dire che in quanto “medium”, strumento mediatico, la TV deve farsi mediatrice e autrice del falso, della fake news per eccellenza: perché la politica è tutt’altra cosa di ciò che viene mostrato, è l’impresa del vivere insieme, e vera politica non è solo la contesa per questo o quel problema determinato, ma quella per cui ne va delle condizioni di vita e del destino degli uomini e delle donne sulla terra.
È in questa più larga visione che il tappo non va tolto.
Ma perché c’è questa scelta, questa deriva a favore di Salvini? Salvini non ha solo un futuro, ha anche un passato. Il passato di Salvini sono la cultura e la politica dell’Occidente dopo l’89, da quando cioè si è fatta la globalizzazione, ma senza un’idea (un’ideologia!) che la fondasse, senza il pensiero di un’unità umana di cui essa fosse l’effetto; e questo passato, in Italia, è anche il passato della Chiesa di Ruini, dagli anni 80 fino a papa Francesco, nel lungo tempo dell’eclissi del Concilio. Caratteristica di quella Chiesa fu l’idea che nella società, man mano che scemava la fede, la Chiesa dovesse farsi portatrice di un “progetto culturale”, di una cultura in vesti secolari: non di una politica, perché quella, mandato al macero il “cattolicesimo democratico”, la si lasciava fare ai politici, alla destra che c’era, tallonata però perché si rendesse “permeabile” alle istanze cattoliche e così, come rivendica Ruini, portasse dei “frutti” per la Chiesa.
In tal modo la Chiesa si è incorporata alla cultura della modernità, i fedeli sono stati lasciati a quei pascoli. Ed è questo meticciato culturale (ateismo e rosari) che è giunto fino a noi. È la cultura di una Chiesa quale è stata, e che come tale è destinata a finire se papa Francesco non sarà continuato e si vorranno chiudere le porte alla Chiesa che sarà.
Ora la vecchia cultura, oggi endemica se non egemone, non è atta a salvare la Terra e a far sì che la storia continui. Giustamente Salvini rifiuta di essere chiamato “fascista” e denuncia chi lo fa, anche se il Pubblico Ministero di Milano dice che non è reato. Il fascismo è un fenomeno storico nato dallo scempio della prima guerra mondiale e dall’estro di Mussolini, e non è ripetibile in qualsiasi altra forma. Però è proprio dell’uomo dare il nome alle cose, e anche “rinominarle”, quando occorre, come ora ci fa fare il computer. Si può rinominare il fascismo, riconoscere il fascismo eterno dandogli il nome di “egofascismo”, un nome che riassume tutta una cultura e tutta una storia. L’egofascismo è mettersi al centro, prima e al posto di ogni altro e far questo con qualunque mezzo, al costo di qualsiasi violenza, al principio di ogni sacrificio. È la morale del Principe, la ragion di Stato, il nucleo duro della sovranità; è dire “prima gli Italiani” o “solo gli Italiani” e perciò chiudere i porti, destinare i migranti all’inferno, far passare la cultura “meglio morti che sbarcati”, singolare rovesciamento del grido “meglio morti che rossi”, e ripresa del più antico “me ne frego”: della morte e della perdizione dell’altro. È la cultura della dialettica, della contraddizione, che è poi la cultura del nemico, da Eraclito ad Hitler, fino alla cultura del maggioritario, fino alla minaccia: “con un voto in più si governa su tutti”.
Se davvero siamo ad un cambiamento d’epoca, è questa cultura che deve cambiare. C’è un’altra cultura, non dell’alternativa ma dello scambio (il cristianesimo, di cui si baciano i simboli, è il rovesciamento assoluto della dialettica, con la sua unione tra umano e divino, che addirittura ha definito “consustanziali”); è la cultura dell’ “I care” (mi preme), del “prima gli altri”, “prima i poveri, i deboli, gli scacciati”, è la cultura della casa di tutti e dell’unità umana, la cultura per la quale o ci si salva tutti insieme o non si salva nessuno.

Con i più cordiali saluti.

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
Notizie da
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 168 del 7 novembre 2019
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RUINI, SALVINI, CATTOLICI E POLITICA
5 Novembre 2019 by Forcesi | su C3dem.
Mons. Camillo Ruini, “La Chiesa dialoghi con Salvini. Un errore i sacerdoti sposati” (intervista al Corriere della sera, 3/11). Mons. Domenico Mogavero, “Ma il dialogo con Salvini è difficile” (intervista al Corriere). Matteo Salvini, “Io cerco il dialogo con i cattolici. Vedrò Ruini e non solo lui” (intervista al Corriere). Gianni Santamaria, “Ruini: non è tempo di un partito unitario” (Avvenire). Stefano Ceccanti, “Riecco Ruini a spiegare il ruinismo” (Il Riformista). Franco Monaco, “Ruini, un rispettoso dissenso” (Settimana news). Giorgio Armillei, “Ruini, la chiesa cattolica e la politica italiana” (landino.it). Antonella Rampini, “Così Ruini attacca Bergoglio” (Il Dubbio). Sull’Avvenire Angelo Picariello fa il punto sui vari fermenti nella galassia cattolica: “Cattolici e politica, lavori in corso”. Enzo Bianchi interviene sul lancio di un “manifesto politico” (vedi qui) di alcuni cattolici: “La stagione del silenzio” (Repubblica). INOLTRE: Eugenio Scalfari racconta “La chiesa secondo un laico” (Repubblica). Marco Roncalli, “E’ morto padre Eugenio Melandri” (Avvenire). Francesco Occhetta sj, “Il suicidio assistito, un nodo politico da sciogliere” (La Civiltà Cattolica).
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Stato e mercato.
di Antonio Dessì, su fb.

Quello che sta emergendo anche dal confronto di ieri fra la Presidenza del Consiglio dei ministri e i massimi vertici (la proprietà) di Acelor Mittal mette in luce un quadro sconcertante, che rivela quanto siano astratte certe dispute sul tema “Stato e mercato” specie in Italia.
Altro che alternative fra privatizzazioni e nazionalizzazioni, quando lo Stato non è in grado nemmeno di valutare il contesto dei mercati e di vagliare le strategie dei soggetti privati implicati e da parte loro i soggetti privati implicati o imbrogliano, o essi stessi, invischiati più in una dimensione finanziaria che in una strategia industriale, commettono errori che dovrebbero essere inconcepibili.
Non aveva tutti i torti Di Maio, forse, quando si rassegnò ad accettare gli esiti della gara internazionale a suo tempo aggiudicata sotto il ministero Calenda, definendola “il delitto perfetto”.
Acelor Mittal si aggiudicò la gara proponendo un prezzo di acquisto (o meglio, un canone di affitto) per la gestione dell’ex ILVA superiore di quattrocento milioni di euro a quello del secondo classificato. Successivamente presentò un piano industriale che -addirittura incorporando i costi dell’ambientalizzazione del processo produttivo- prevedeva una produzione di sei milioni di tonnellate di acciaio annue e il mantenimento dei livelli occupazionali.
Ieri è venuto fuori che, oltre a non voler-poter accollarsi ulteriormente la perdita di due milioni di euro al giorno della gestione corrente, vorrebbe ridimensionare la produzione a quattro milioni di tonnellate all’anno, rallentare o disattendere almeno in parte l’ambientalizzazione del processo produttivo -questione dell’Altoforno 2- e licenziare almeno cinquemila dipendenti.
Ora, tutto questo non quadra con nessuna affidabilità di nessuna delle due parti in gioco.
Tutti sapevano da tempo che nel mondo si sta registrando una sovrapproduzione di acciaio, con tutte le ricadute sui relativi prezzi e convenienze di acquisto.
Non può essere che lo si scopra oggi.
Così come tutti sapevano che mantenere una produzione quantitativamente massiccia di acciaio in un Paese europeo, con tutti i problemi ambientali cui il processo produttivo deve far fronte, comporta incrementi di oneri di processo (costi aggiuntivi) che (per ora) altri Paesi non affrontano e che questo incide sulla competitività.
Non si chiami in causa una presunta sottocultura antiindustriale italiana, su questo terreno. Non sono nemmeno astratte questioni di vincoli legali improvvidamente applicati dalla magistratura penale.
La gente non è per principio contraria all’industria. Cresce piuttosto la quantità di persone che di industria non vuole più ammalarsi o morire. È un fatto sociale concreto.
Non basta il calo congiunturale della domanda, soprattutto connesso con la frenata tedesca specie in campo automobilistico, a giustificare quello che Acelor Mittal dichiara ora di aver verificato.
Nemmeno quello è un fatto meramente congiunturale: l’auto è, per la parte meccanica, del resto, un prodotto maturo, poco suscettibile di evoluzione, cionondimeno il suo mercato è soggetto a variabili continue, congiunturali e no.
È evidente che lo scudo penale non c’entra gran che.
È altrettanto evidente che il problema si pone in termini veramente straordinari, a questo punto.
Intanto chiama in causa l’assenza di strategia industriale del Paese.
Mettiamo che si sia costretti a subire il recesso di Acelor Mittal, posto che in punta di politica ieri Conte ha giudicato la posizione della multinazionale franco-indiana come “un ricatto inaccettabile”.
Che si fa?
Saltiamo per un momento l’ipotesi del subentro del secondo posizionato nella gara, che verosimilmente dovrebbe riconsiderare le condizioni emerse in itinere, comprese le valutazioni odierne sullo stato di fatto (e di mercato).
Si torna alla gestione commissariale, che non può che essere temporanea, se non si vuole che diventi implicitamente liquidatoria.
Occorrerà cercare altre formule societarie, con o senza partecipazioni private.
Ma con quale piano per la siderurgia italiana?
Con quale management di scelta presumibilmente pubblica?
Quanto durerebbe il favore verso una sorta di nazionalizzazione, se i costi restassero alti e le perdite inevitabilmente accollate sul bilancio pubblico?
Se non si risponde a queste domande, tutto quello che leggiamo da parte dei politici è solo un’irresponsabile, colpevole produzione di cortine fumogene.
L’ex ILVA si sta rivelando una chiamata in causa non di un Governo (che comunque non ne uscirà indenne), ma della condizione generale dell’intero Paese.
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