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L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: http://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
[segue]