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CheFare? «lavorare meno, per lavorare tutti a parità di salario; fare sempre di più con sempre meno»

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di Pietro Greco su Rocca
i robot e un nuovo modello di sviluppo
Ha ragione Domenico De Masi. Con ogni probabilità, quello che ci attende è un futuro di piena disoccupazione. Con pochi, ricchissimi produttori arroccati in castelli imprendibili e una massa sterminata di poveri senza lavoro e senza possibilità di consumo. A meno che… Rocca ne ha parlato più volte. Quella dell’informatica e della robotica non è una rivoluzione come le altre. Stiamo costruendo, infatti, schiavi elettronici (o, chissà, domani fotonici o neutronici) capaci di sostituire l’uomo in tutto e in ogni tipo di lavoro. Non solo manuale, ma anche intellettuale. E poiché questi schiavi elettronici lavorano gratis, in maniera continua e senza stancarsi, non chiedono ferie né copertura sanitaria, non c’è dubbio alcuno: appena sarà possibile, i robot, di qualsiasi forma e tipo, sostituiranno (stanno già sostituendo) gli uomini in ogni tipo di lavoro. Nei campi, in fabbrica, in ospedale, in redazione, a scuola. A terra, in mare, in aereo. Avremo – abbiamo già – robot badanti e robot guerrieri. Robot che ci salvano la vita e robot che ce la tolgono. Sì, quella informatica e robotica è davvero una grande rivoluzione. Paragonabile a quella dell’agricoltura (diecimila anni fa, o giù di lì) o dell’industria meccanica (duecento anni fa, o giù di lì).
Ma, a differenza delle altre grandi rivoluzioni tecnologiche del passato, quella informatica e tecnologica non produce né produrrà nuova occupazione attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro. Perché appena un altro modo di lavorare emergerà (emerge), ci sarà (c’è) già un robot pronto ad appropriarsene.
Lo scenario è forse estremo. Qualche lavoro per l’uomo forse resterà. Ma a grana grossa quello prefigurato è un futuro molto plausibile. I posti di lavoro, così come li conosciamo, in agricoltura, nell’industria, nei servizi si stanno riducendo e ancor più lo faranno in futuro. Se non di piena, il futuro sarà di vasta disoccupazione. A meno che…

il lavoro che non ci sarà
Già, a meno che cosa?
Sulla carta abbiamo due sole opzioni, per impedire ai robot di renderci tutti più poveri (salvo i pochi ricchissimi chiusi nei loro castelli). Una è quella di imitare (il leggendario) Ned Ludd e cercare di rompere i robot appena nascono. Diciamo subito che questa opzione è perdente. Non si sconfigge il rischio tecnologico disinventando le tecnologia. Anche se dell’esistenza di Ned Ludd si dubita, il luddismo è stato un movimento reale, all’inizio della rivoluzione industriale, ma destinato alla sconfitta. Non a caso Karl Marx indicò la sfida da cogliere da parte dei lavoratori: non distruggere i mezzi di produzione, ma appropriarsene per governarli.
Dunque l’unica opzione che ha possibilità di vittoria è proprio quella indicata da Domenico De Masi, ma anche, come abbiamo ricordato su Rocca, da Nicola Costantino, già rettore del Politecnico di Bari; e prima ancora da John Maynard Keynes, da Bertrand Russell e, a ben vedere, dallo stesso Karl Marx: lavorare meno, lavorare tutti. Ma con due vincoli. A parità di salario. E diminuendo il consumo di materia e di energia.
Ma andiamo con ordine. Lavorare meno è proprio ciò che ci impone (ci consente) la rivoluzione informatica e tecnologica. Le ore a disposizione dell’umanità per lavorare diminuiscono. Se non vogliamo creare due classi, una che lavora e l’altra disoccupata, non c’è altro modo che distribuire equamente le ore/lavoro disponibili. Tuttavia, se diminuisce il monte ore totale di lavoro, diminuisce anche il reddito totale disponibile, se il rapporto salario/tempo di lavoro – o se volete il salario medio per ora – resta immutato. Se accettiamo l’idea di lavorare meno per lavorare tutti, saremo comunque, mediamente, più poveri. Costretti a rimpiangere i bei tempi che furono. E sempre in preda alla sindrome luddista.
Ecco, dunque, che bisogna porre un vincolo al nostro slogan: lavorare meno, per lavorare tutti a parità di salario. Scendiamo da 40 a 36 ore e poi a 30 e poi a 20: ma sempre a parità di salario. Perché se il salario medio – o, meglio ancora, la disponibilità a comprare i beni prodotti – scende, i robot ci porteranno rapidamente a una crisi di sovrapproduzione. Avremo tante merci prodotte negli scaffali, reali o virtuali, ma nessuno avrà i soldi per comprarle. I beni creati senza fatica e a costi bassissimi non avranno chi li compra. E l’economia rinsecchirà.

a rischio di crisi ecologica
Se vogliamo che l’economia regga, occorre almeno mantenere se non aumentare i salari pur lavorando tutti sempre meno. E dedicandoci a quella che gli antichi Greci chiamavano eudemonia: il piacere del vivere. Che non è (solo) quello di starsene tutto il giorno a prendere il sole, ma (anche) quello di dedicarci ai piaceri dello spirito (la cultura, le arti creative, la ricerca).
È chiaro che, in una condizione del genere, lavorare sempre meno ma con lo stesso salario o addirittura con un salario superiore esporrebbe l’umanità a un altro tipo di crisi. Non economica, ma ecologica. Se i robot produrranno una quantità crescente di beni attingendo senza limiti alle risorse naturali (materia ed energia non rinnovabile), l’impatto uomo/robot sul pianeta sarebbe comunque devastante. D’altra parte già oggi – con una limitata presenza di robot – consumiamo molte più risorse naturali di quanto il pianeta Terra sia in grado di rigenerarne.
Ecco, dunque, che in un’economia a bassa intensità di lavoro umano ma a elevata produttività, grazie ai robot, per quanto equa (lavoro e salario sufficiente per tutti) dovrà porsi il problema della sostenibilità ecologica. Insomma, i robot dovranno produrre sempre meno beni materiali e tangibili per il consumo individuale, usando energia non rinnovabile, ma dovranno produrre sempre più beni immateriali e intangibili, usando sempre meno energia e comunque energia rinnovabile e carbon free, per un uso comune.
Riassumendo: la rivoluzione informatica e robotica, lasciata a se stessa, ci porta verso una penuria di lavoro e, quindi, di reddito. Verso una povertà diffusa. Ma il futuro, anche quello tecnologico, è aperto. Lo scenario può essere modificato. Lavorando tutti, lavorando meno a parità di salario e consumando sempre meno beni individuali tangibili e sempre più beni comuni intangibili.

condizioni di fattibilità
Tutto questo non è facile. E potrà avvenire solo a due condizioni. Da un lato, resistendo alla sindrome luddista e, anzi, accelerando la rivoluzione scientifica e tecnologica. Abbiamo bisogno non di meno, ma di più scienza. Abbiamo infatti bisogno di «fare sempre di più con sempre meno». Anche perché la popolazione umana, a fine secolo, conterà due o tre miliardi di persone in più rispetto all’attuale.
La seconda condizione è utilizzare le vie della democrazia per cambiare in profondità il modello di sviluppo economico. Dal modello imperante, in cui il mercato è il sovrano assoluto, a un modello inedito – non dobbiamo avere paura di chiamarlo di socialismo democratico, dove il mercato è solo uno strumento – fondato sulla costante redistribuzione del reddito e del lavoro e dalla estrema attenzione ai vincoli ambientali.
Non sarà facile. E questo nuovo modello sarà difficilmente realizzabile in un paese solo. Richiederà cambiamenti di stili di vita e una solidarietà internazionale di cui non c’è traccia all’orizzonte. Richiederà tempi ravvicinati che, allo stato, sembra impossibile rispettare. Ma, a quanto pare e salvo smentite, non abbiamo alternative.

Pietro Greco

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