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CULTURA

819fd9f7-d403-4b27-915b-c944c9a74948La natura indifferente

di Pietro Greco, su Rocca

La pandemia Covid-19 che dall’inizio di gennaio sta squassando i fragili equilibri della sanità e dell’economia degli umani? È la natura che si vendica. Le stiamo facendo del male e lei, irritata, sta reagendo e ci punisce.
È questa una narrazione che ha assunto corpo nelle scorse settimane, da quando il coronavirus Sars-CoV-2 ha fatto il «salto di specie» e da qualche pipistrello è arrivato agli umani, con un’altra contagiosità e una moderata letalità che, dati i grandi numeri, si sta rivelando tragica assai. La narrazione non è stata proposta solo dai media, che, si sa, spesso utilizzano metafore fuorvianti, ma è stata proposta anche
da esperti e scienziati.
Ma la natura è davvero il giudice dei nostri comportamenti? O addirittura il «dio che atterra e suscita/che affanna e che consola» come scrive Alessandro Manzoni in una delle sue celeberrime poesie, Il cinque maggio? Ha davvero delle intenzioni «umane»? E davvero noi Homo sapiens dobbiamo «salvare il pianeta» se vogliamo evitare che lui, il pianeta, diventi insofferente e ci si rivolti contro?
A queste domande ha già risposto compiutamente, addirittura prima di Charles Darwin, un genio italico: Giacomo Leopardi. Conviene ricordare il suo Dialogo della natura e di un islandese, scritto nel 1824. È la natura che parla a un uomo, l’islandese appunto. Ecco cosa gli dice: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».
Davvero geniale, Giacomo Leopardi. Perché questo brano ci dice tutto sul rapporto tra gli umani e la (il resto della) natura.
Noi siamo indifferenti alla (al resto della) natura. Non perché non siamo in grado di perturbarla, anche gravemente. Ma perché la (il resto della) natura non ha alcuna coscienza e tantomeno intenzionalità. Semplicemente non se ne avvede, come diceva il grande Giacomo. Quando lei ci diletta e ci riempie di benefici, lo fa ma non lo sa.
Né tantomeno lo vuole. Quando ci offende, come con il coronavirus, lo fa con risultati anche tragici, ma non la sa. Né tantomeno lo vuole. Se anche noi, Homo sapiens, dovessimo estinguerci, lo faremmo nella totale inconsapevolezza e indifferenza del resto della natura.
Il perché ce lo ha spiegato, in letteratura, un grande scrittore, come Mark Twain. La storia della vita sulla Terra lunga, come la Torre Eiffel. E noi sapiens siamo comparsi da poco in questa storia. Siamo l’ultimo strato di vernice su quella struttura d’acciaio che spalanca la vista su Parigi. Basta poco per scrostarlo, quell’ultimo strato e la Torre neppure se ne accorgerebbe.
In termini meno letterari e più scientifici, l’indifferenza della natura (del resto della natura) nei nostri confronti è stata spiegata da Darwin. Il quale non solo ha preso atto dell’evidenza: non c’è coscienza nella natura e tanto meno intenzionalità. Non c’è, a rigore, neppure indifferenza. Semplicemente la natura non sa di noi come non sa delle fastidiose zanzare o di SarsCoV-2. La natura – limitiamoci alla biosfera e non allarghiamo il discorso all’intero universo – è l’insieme dinamico delle popolazioni di milioni (forse decine di milioni) di specie viventi che a loro volta nascono, si sviluppano e muoiono immerse in un ambiente che a sua volta cambia nel tempo. La natura è, dunque, un sistema complesso dinamico privo di coscienza.
Questa è una deduzione logica che qualunque sapiens, in linea di principio, può fare e poteva già fare prima di Darwin.
Come ha dimostrato, peraltro, Giacomo Leopardi. La novità che Charles Darwin ha introdotto in maniera chiara è che la dinamica del sistema complesso natura non è teleologica. Non ha alcun fine. Tantomeno quello di rendere più agevole (o disagevole) la nostra presenza, umana, sulla Terra.
Non era scontata, questa novità introdotta da Darwin con la sua teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale del più adatto. Nel pensiero occidentale evoluzionista prima dell’Origine delle specie (1859) era ben consolidata l’idea che la vita evolve in una direzione precisa: il progresso, di cui i sapiens sarebbero la massima espressione. Anzi, che tutto è predisposto perché, a un certo punto, sulla torre della vita di cui parla Mark Twain venga spalmato l’ultimo strato di vernice. È quella che gli esperti chiamano teleologia. Ancora oggi c’è, nell’ambiente scientifico, chi la pensa così. Stuart Kaufmann, per esempio, scienziato del Santa Fe Institute dove si studiano i sistemi complessi, ha scritto tempo fa un libro dal titolo eloquente: At Home in the Universe. Siamo di casa nell’universo. Eravamo attesi e non potevamo non apparire, a un certo punto della storia cosmica.
Charles Darwin ha invece dimostrato che l’evoluzione è cieca. Non va in una direzione precisa o addirittura predefinita.
Esplora lo spazio delle possibilità a naso, adattandosi al mutare delle condizioni ambientali. Come sosteneva uno dei più grandi biologici e storici della biologia evoluzionistica della seconda parte del XX
secolo, Stephen Jay Gould, se riavvolgessimo il film della vita e lo riproiettassimo non è detto che comparirebbe di nuovo Homo sapiens. E neppure un qualche essere a lui somigliante. Siamo il frutto del caso, della necessità e della contingenza.
Dunque, la natura (il resto della natura) è indifferente alle nostre sorti. Lei non è un dio che atterra e suscita, che affanna e che
consola. La natura è un meraviglioso gioco di bricolage (la metafora è del grande biologo Francois Jacob) che continuamente prende forma grazie alle mani di un artigiano cieco.
E allora se la natura non si cura delle nostre umane sorti, perché noi dovremmo curarci delle sorti della natura? Perché all’indifferenza dovremmo contrapporre un’amorevole attenzione?
Queste domande hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro (o di bit, più di recente).
Non diamo conto di tutte le scuole di pensiero. Ma possiamo dare due risposte, niente affatto alternative: ci compete, ci conviene.
Premettiamo: qualsiasi cosa noi umani facciamo (almeno allo stato della potenza delle nostre tecnologie) la natura ci sopravvivrà. Certamente cambiata, ma non uccisa. E comunque, indifferente.
Perché ci compete, dunque, la cura della natura? Perché siamo il primo attore ecologico nella storia della vita che è cosciente – anzi, grazie alla scienza, ha una «coscienza enorme» – delle sue azioni e delle loro conseguenze. Quando i primi organismi fotosintetici avvelenarono la biosfera riempendola di un veleno micidiale, l’ossigeno, uccidendo la gran parte degli altri organismi viventi, generarono una catastrofe – non a caso chiamata «olocausto dell’ossigeno» – ma non ne erano coscienti. Un inciso, la vita non solo sopravvisse anche a quella immane catastrofe, ma ne fece il trampolino di lancio per esplorare vie inedite, adattandosi al veleno e trasformandolo in prezioso combustibile.
Noi siamo i beneficiari di quell’olocausto e siamo anche meno catastrofici dei primi organismi fotosintetici, ma a differenza loro siamo coscienti delle nostre azioni.
Sappiamo che stiamo accelerando i cambiamenti del clima ed erodendo la biodiversità. Queste conseguenze delle nostre azioni sono desiderabili, per noi e per il resto della natura presente? Sta a noi decidere. È questa decisione che in virtù della nostra coscienza ci compete.
Il secondo motivo è: ci conviene. Ci conviene come specie diminuire la nostra impronta sul resto della natura, evitare la depletion (l’esaurimento delle risorse) e minimizzare la pollution (l’inquinamento).
Ci conviene fare del nostro meglio affinché il clima resti il più possibile quello mite degli ultimi dodicimila anni. Ci conviene evitare la sesta estinzione di massa delle specie viventi. Perché in un mondo in cui abbiamo dissipato le risorse naturali, inquinato all’inverosimile, accentuato l’effetto serra e ucciso decine di migliaia di altre specie viventi, noi vivremmo male. Anzi malissimo. Tanto male che qualcuno già prefigura la possibile estinzione di Homo sapiens.
Certamente questo qualcuno esagera. Ma, se questo dovesse avvenire, dobbiamo sapere che non è perché la natura si sta vendicando. È solo per la nostra insipienza.
Perché, come Leopardi le fa dire, a lei, alla natura: «E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».
Pietro Greco
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