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Terzo Rapporto sull’innovazione sociale in Italia

forumpa il pensatoreL’INNOVAZIONE SOCIALE IN ITALIA, TRA GRANDI IMPRESE E PROMOTORI LOCALI
Pubblicato il 14/04/2017 su
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di Vittoria Azzarita

Il Centro di Ricerche Internazionali sull’Innovazione Sociale (CERIIS), costituito all’interno dell’Università Luiss Guido Carli e sostenuto dalla Fondazione ItaliaCamp, ha presentato la terza edizione del Rapporto sull’innovazione sociale in Italia. Curato da Matteo Giuliano Caroli e pubblicato da FrancoAngeli, lo studio offre una panoramica delle esperienze innovative e socialmente rilevanti presenti nel nostro Paese, dedicando per la prima volta, una parte del volume ai risultati di un’indagine empirica condotta su un campione di grandi aziende italiane, al fine di comprendere il loro coinvolgimento nell’innovazione sociale. Il Rapporto illustra, inoltre, le fondamentali caratteristiche dell’innovazione sociale in Italia attraverso l’analisi di 578 casi, raccolti e catalogati nel database del CERIIS. A partire da tali dati, lo studio offre numerosi spunti di riflessione sul ruolo che i diversi attori dell’innovazione sociale possono giocare, in un ambito in cui l’eterogeneità delle iniziative rischia di ostacolare la piena comprensione del fenomeno.

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L’innovazione sociale delle grandi imprese è il tema al centro del Terzo rapporto sull’innovazione sociale in Italia[1], a cura del Centro di Ricerche Internazionali sull’Innovazione Sociale (CERIIS), costituito all’interno dell’Università Luiss Guido Carli e sostenuto dalla Fondazione ItaliaCamp. Facendo riferimento alle definizioni maggiormente accreditate, è possibile parlare di innovazione sociale quando un bisogno collettivo riesce ad essere soddisfatto grazie all’identificazione di una nuova soluzione di tipo tecnologico oppure relazionale, più efficiente rispetto a quelle precedenti, e capace di generare un impatto strutturale a vantaggio della società nel suo complesso.

Verso la “Corporate Social Innovation”
Lo studio del CERIIS si apre con la presentazione dei risultati di un’indagine empirica, condotta attraverso la realizzazione di interviste ai manager responsabili delle politiche di sostenibilità di 13 grandi aziende italiane, al fine di rilevare la propensione all’innovazione sociale del sistema delle imprese, solitamente poco considerato negli studi che analizzano la diffusione di questo tipo di interventi sul territorio nazionale. Le realtà produttive di ampie proporzioni rappresentano un oggetto di studio di notevole interesse in quanto vengono percepite come “standard setter”, ossia come attori capaci di influenzare il contesto in cui operano e di definire i parametri di comportamento e qualità del loro settore di riferimento, in virtù del peso economico che esercitano e della rilevanza sociale delle loro attività.

La tesi, sostenuta dagli autori della ricerca, è che le aziende di grandi dimensioni possono produrre innovazione sociale apportando cambiamenti significativi alle loro azioni a favore della sostenibilità. Il ragionamento portato avanti dai ricercatori del CERIIS si fonda sull’idea che le pratiche di responsabilità sociale, già attuate dalle grandi imprese, possano tradursi in quella che loro definiscono “Corporate Social Innovation” quando le soluzioni innovative sviluppate dalle aziende usano una nuova tecnologia e istituiscono modalità progressivamente più avanzate di coinvolgimento degli stakeholders, per produrre un impatto rilevante, diffuso e duraturo nel tempo, rispetto alla dimensione del problema sociale e ambientale che affrontano. Per dirsi tale, un’innovazione sociale introdotta da un importante soggetto imprenditoriale deve attivare un nuovo processo produttivo e una inedita procedura di interazione con fornitori, clienti e finanziatori, con l’intento di rendere la creazione di benefici collettivi un obiettivo intrinseco dell’attività d’impresa.

L’analisi di tipo esplorativo realizzata dal CERIIS ha individuato diverse declinazioni del concetto di innovazione sociale applicato alle imprese di grandi dimensioni, evidenziando un doppio livello di implementazione di tali pratiche da parte delle aziende. Seguendo un approccio di tipo incrementale, è molto probabile che in un primo momento un’impresa decida di introdurre «forme di innovazione sociale basate sulla tecnologia, sulle relazioni e sull’intervento nel modello di business», recependo gli stimoli provenienti dall’esterno. Solo quando queste innovazioni diventano parte integrante dell’intero complesso aziendale, l’impresa è pronta a sviluppare «delle modalità distintive della propria natura atte a distinguerla come soggetto imprenditoriale», e quindi a innovare anche il proprio modello organizzativo e di governance. La ri-progettazione del modello di business e la ri-modulazione delle dinamiche interne, a vantaggio della società nel suo complesso, implica il massimo coinvolgimento di un’azienda nell’innovazione sociale.

Analizzando i diversi tipi di innovazione, lo studio indaga l’innovazione relazionale come progressivo coinvolgimento degli stakeholder da parte delle imprese nelle pratiche di sostenibilità. Questo aspetto non solo denota un’apertura verso l’esterno, ma è sintomatico della volontà di istituire legami stabili per trovare soluzioni a interessi sociali sociali condivisi e creare vantaggio competitivo. Le interviste effettuate evidenziano che nel 50% dei casi le aziende hanno un confronto strutturato con i propri interlocutori di riferimento, discutendo con loro le azioni per la sostenibilità. Tuttavia la ricerca fa notare come risulti ancora «piuttosto scarsa la condivisione degli obiettivi aziendali con gli stakeholder nonché la loro inclusione nella definizione di orientamenti strategici basati sulla sostenibilità. Infatti, nonostante l’importanza delle relazioni con gli stakeholder quale leva del valore, nel campione esaminato resta limitato il numero di imprese che include tale elemento nel processo di definizione del proprio approccio alla sostenibilità».

Sul fronte dell’innovazione tecnologica, la maggior parte delle imprese intervistate (88%) decide in maniera autonoma di introdurre una nuova tecnologia che consente di riformulare alcuni processi aziendali per soddisfare determinate esigenze ambientali e sociali, indipendentemente da particolari previsioni normative. Nel 45% dei casi tali innovazioni tecnologiche riguardano il miglioramento dell’impatto ambientale in generale; seguono la riduzione delle esternalità negative conseguenti alla produzione e/o immissione nel mercato di prodotti/servizi (25%); il miglioramento strutturale delle condizioni di lavoro dei dipendenti e del loro grado di soddisfazione (19%); e il miglioramento dell’accesso ai prodotti/servizi dell’impresa da parte di categorie svantaggiate (13%). Strettamente legata all’innovazione tecnologica risulta essere l’innovazione del modello di business, che rende l’innovazione sociale un’opportunità di mercato, facendola divenire parte integrante dell’orientamento strategico dell’impresa. A questo proposito, la ricerca evidenzia che «la maggior parte delle risposte fornite nelle interviste riguarda la volontà di introdurre la sostenibilità nel proprio concetto di prodotto non solo per soddisfare i clienti, e quindi incrementare il valore economico, ma anche al fine di creare valore sociale per la collettività (53%)».

Con riferimento alle grandi imprese, il maggior grado di maturità dell’innovazione sociale viene raggiunto quando si ha un’innovazione del modello organizzativo e di governance, ossia quando l’innovazione sociale entra nella funzione strategica e decisionale. I risultati dell’indagine indicano che la maggior parte del campione sceglie di introdurre un’innovazione organizzativa orientata alla sostenibilità per motivi riconducibili non solo alla volontà degli attori interni all’impresa (come ad esempio i lavoratori o altri stekeholder), ma anche per incrementare l’impatto collettivo generato (50%), evidenziando un impegno consapevole nei confronti dell’ambiente e della società. Tuttavia, le evidenze riguardo l’innovazione di governance orientata alla sostenibilità mostrano come nel 67% dei casi essa è frutto dell’applicazione di specifiche previsioni normative. Tale risultato dimostra che solo nel 33% dei casi, le aziende decidono di modificare il proprio modello di governance al fine di supportare l’approccio strategico adottato e diventare un esempio per le altre aziende del settore. La ricerca del CERIIS conclude che nonostante «l’innovazione orientata alla sostenibilità rappresenti un elemento ampiamente condiviso dalle imprese e piuttosto formalizzato nel proprio orientamento strategico, è ancora parziale l’impegno diretto che esse assumono verso iniziative sociali innovative e il loro conseguente impatto».

I numeri dell’innovazione sociale in Italia
Il rapporto del CERIIS traccia anche una panoramica delle pratiche di innovazione sociale presenti in Italia, attraverso lo studio di 578 casi sistematizzati in un apposito database. Rispetto alle rilevazioni elaborate nella precedente edizione del rapporto, in cui i casi esaminati erano 462, la ricerca mostra un incremento delle «esperienze in grado di soddisfare un bisogno sociale e/o ambientale, o, comunque, di creare beneficio collettivo, attraverso modalità (relazionali e/o tecnologiche) innovative». In particolare, «dai dati disponibili si evince una maggioranza di innovazioni di tipo relazionale (52%), le quali si sviluppano grazie a reti di organizzazioni e soggetti che si scambiano informazioni, conoscenze e know-how». Interessante notare come, rispetto al tipo di innovazione, l’innovazione relazionale sia diventata la modalità predominante nello scenario italiano: infatti, se nella seconda edizione del rapporto vi era una distribuzione pressoché omogenea tra innovazione di tipo relazionale, innovazione tecnologica e casi in cui erano presenti entrambi i tipi di innovazione, l’ultima indagine pone in evidenza una crescita dell’innovazione relazionale soprattutto a scapito dell’innovazione tecnologica (molto più costosa) che scende dal 35% al 21%, mentre i casi in cui vengono prodotte entrambe le innovazioni passano dal 30% al 27%. Le pratiche socialmente innovative nascono quindi «da nuove forme di collaborazione e di cooperazione tra soggetti di diversa natura che trovano un allineamento di interessi per il raggiungimento di un obiettivo comune, in cui la dimensione relazionale e comunitaria assume un ruolo fondamentale, e fa sì che l’iniziativa raggiunga il maggior numero di beneficiari».

La distribuzione del campione rispetto agli ambiti di intervento, mostra che le quattro categorie più rappresentate risultano essere l’integrazione sociale (16%), l’assistenza sociale (13%), la formazione (11%) e il miglioramento ambientale (11%). Se si confrontano questi dati con quelli dell’anno precedente, si nota come la differenza principale sia dovuta a una diversa denominazione dei settori di appartenenza. Nell’ultima rilevazione sono stati inseriti due nuovi ambiti, denominati rispettivamente “Crowfunding – Microcredito” e “Coworking – Smartworking”, ed è stata eliminata la categoria “sharing and pooling economy” (in cui erano compresi le piattaforme per la condivisione/scambio di beni, le piattaforme per la condivisione di servizi, il trasferimento di competenze e gestione dati, e il crowdfunding e microcredito). Tuttavia sommando le percentuali delle due nuove categorie si ottiene un valore pari al 17%, di fatto molto vicino al 19% totalizzato nel 2015 dalla sharing and pooling economy, mostrando quindi una ripartizione sostanzialmente invariata rispetto agli ambiti di intervento. Anche la cultura si mantiene stabile al 6% da un anno all’altro, lasciando intendere che continuano ad esserci ampi margini di sviluppo per le pratiche di innovazione sociale a base culturale.

Per quanto riguarda la tipologia di attori dell’innovazione sociale, le organizzazioni non profit emergono come protagoniste sia in qualità di attuatori che come promotori delle iniziative. In ogni caso, lo studio evidenzia che in un ambito economico caratterizzato da soggetti non profit, si assiste però a un crescente aumento delle realtà imprenditoriali: infatti se nel 2015 le organizzazioni non profit rappresentavano il 58% del campione, nel 2016 sono il 53%; al contempo le realtà for profit sono passate dal 24% al 33%. «Questo cambiamento di scenario sembrerebbe dovuto al crescente interesse anche da parte del mondo profit verso le tematiche sociali spinte dal contesto di mercato e statale. Vi è sempre più attenzione all’innovazione sociale da parte di tutta la collettività e anche lo Stato, facendosi promotore di questo tipo di iniziative, aiuta lo sviluppo di questa branca dell’economia incentivando la creazione di start-up e imprese».

I principali modelli di innovazione sociale
Tra i numerosi spunti di riflessione e approfondimento, la terza edizione del rapporto CERIIS ospita anche la ricerca condotta da Riccardo Maiolini e Luca Mongelli sui cluster dell’innovazione sociale in Italia, che ha il merito di presentare una possibile sistematizzazione delle pratiche innovative e socialmente rilevanti presenti nel nostro Paese, offrendo una chiave di lettura che facilita la comprensione di un fenomeno ancora poco conosciuto e multi sfaccettato. Utilizzando la tecnica esplorativa della cluster analysis, i due ricercatori hanno cercato di suddividere tutti i casi di innovazione sociale – raccolti del database elaborato dal CERIIS – in un numero ristretto di sottogruppi che presentassero delle caratteristiche omogenee al loro interno, ma che fossero allo stesso tempo sufficientemente diversi gli uni dagli altri. A seguito delle analisi effettuate, gli autori sono giunti all’individuazione di quattro principali modelli in cui è possibile ripartire le esperienze di innovazione sociale attualmente attive in Italia. La caratteristica discriminate di ciascun modello è data dalla natura del promotore, che tende a dar vita a diverse modalità d’azione a seconda che sia un’impresa, una organizzazione non profit, una comunità, oppure un attore pubblico di tipo istituzionale.
A partire da tale distinzione, si possono avere innovazioni sociali: 1) con un modello di business economicamente sostenibile il cui promotore sia un’impresa; 2) di tipo filantropico promosse da enti senza scopo di lucro; 3) di comunità; 4) di tipo istituzionale il cui promotore è un attore pubblico. Nel caso delle innovazioni sociali promosse dalle imprese, la sostenibilità economica risulta essere un fattore peculiare di tali iniziative, rendendole indipendenti e in grado di sostenersi da sole.
Le innovazioni sociali di tipo filantropico sono iniziative con un alto grado di innovatività nell’esecuzione e nel lancio. La maggior parte delle organizzazioni non profit appartenenti a questo cluster sono promotori non solo esecutivi dei progetti ma anche finanziari (come nel caso delle fondazioni). Come messo in evidenza dagli autori della ricerca, nel modello filantropico le logiche di attuazione delle iniziative sono quelle tipiche del Terzo Settore, e come tali seguono le loro logiche e i loro canali di costruzione dei progetti. «Questo aspetto rappresenta una importante opportunità e allo stesso tempo una sfida per il mondo del non profit, che deve cercare di aprirsi verso logiche di mercato per ampliare il proprio raggio di azione».

Le innovazioni sociali di comunità presentano una coincidenza tra promotore e attuatore. «Se si guarda nel dettaglio ai progetti in questo cluster si spiega il perché di questa coincidenza. Le logiche tipiche di una comunità richiedono delle specifiche attuative che soltanto la comunità stessa è in grado di svolgere. Si tratta di categorie di iniziative per la maggior parte afferenti alla condivisione di servizi o beni all’interno della comunità. La comunità è il vettore o il luogo attraverso cui si genera un legame relazionale alla base dello scambio. Tale logica di fiducia relazionale può istituirsi solo all’interno della comunità stessa, per cui si ha la necessità che il promotore e l’attuatore parlino la stessa lingua e seguano le stesse logiche».
Infine le innovazioni sociali di tipo istituzionale, in cui l’attore pubblico svolge il ruolo di promotore, risultano essere le iniziative caratterizzate dal maggior grado di innovatività, in virtù del ruolo abilitante che l’ente pubblico può svolgere in tali processi.

«Nel fenomeno dell’innovazione sociale le reti composte da differenti soggetti sono una peculiarità. Grazie a queste reti, i soggetti che partecipano come sostenitori e/o finanziatori alla creazione delle condizioni per l’attuazione del progetto riescono ad aggregare competenze, conoscenze e risorse e ad amplificare il loro sostegno». Questa interpretazione è rilevante per tutti coloro che affrontano il tema dell’innovazione sociale, cercando di fare sistema. In quest’ottica – proprio perché maggiormente incisivo – l’attore pubblico dovrebbe farsi promotore non solo di nuove pratiche di innovazione sociale, ma anche della scalabilità del fenomeno, incentivando le occasioni di confronto tra diversi attori e mettendo in comunicazione mondi e tipologie organizzative tra loro distanti, al fine di promuovere progetti sempre più inclusivi.

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Ph: William Murphy. Dublin Contemporary 2011. Immagine in licenza Creative Commons

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[1] Il rapporto è liberamente scaricabile dalla piattaforma FrancoAngeli Open Access al seguente link http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/220