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Oltre l’attuale RdC: ripensare il Welfare State

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I limiti del reddito di cittadinanza introdotto in Italia nel 2019

di Gianfranco Sabattini

Nei decenni anteriori alla Grande Recessione il dibattito politico denunciava il fatto che l’Italia fosse l’unico Paese europeo (assieme alla Grecia) a disporre di un sistema di sicurezza sociale che non includeva la possibilità di erogare un “reddito minimo”, inteso come una forma di reddito da corrispondere solo a chi, in età lavorativa, disponesse di un reddito inferiore ad una determinata soglia ritenuta di povertà.
Massimo Baldini e Cristiano Gori, in “Il reddito di cittadinanza” (Il Mulino, n. 2/2019) affermano che, dal 2017, alla lacuna del sistema si sicurezza sociale vigente è stato posto rimedio con l’introduzione del “reddito di inclusione” (REI); tale forma di reddito ha però avuto vita breve, perché nel 2019 è stata sostituita dal “reddito di cittadinanza” (RDC), il quale – affermano gli autori – ha consentito di aumentare in modo considerevole “i fondi per il contrasto della povertà di circa 6 miliardi di euro annui addizionali”, che hanno permesso di passare dai 2 miliardi del REI agli 8 del RDC. Si è trattato, secondo Baldini e Gori, del più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri mai effettuato in Italia, contribuendo a risolvere il “difficile” rapporto che è sempre esistito nel nostro Paese tra politica e povertà.
Per lungo tempo, le forze politiche italiane di ogni colore hanno ignorato il problema della povertà, tranne che in quelle parti di tali forze (cattoliche e di sinistra) più sensibili ai problemi sociali. Al centro dell’attenzione di cattolici è sempre stata la tutela della famiglia, ma con l’avvento di Papa Francesco al soglio pontificio – sottolineano Baldini e Gori – per i cattolici impegnati nella politica nazionale si è sostenuta anche la necessità “di un intervento pubblico che contrastasse l’esclusione sociale”, considerata sino ad allora non rientrante tra gli obiettivi primari dell’impegno sociale cattolico. Dal canto suo anche la sinistra ha sempre “trascurato” il problema della povertà, in quanto ancorata a una “concezione della cittadinanza di tipo lavoristico, che vedeva i diritti sociali derivare principalmente dalla posizione degli individui nel mercato del lavoro”; per le forze di sinistra, pertanto, promuovere il welfare “significava tutelare non tutti i cittadini, bensì i lavoratori di oggi e di ieri, cioè chi il lavoro l’ha già oppure chi l’ha avuto e ora è a riposo”.
Nella legislatura 2013-2018 è cambiato l’atteggiamento della politica verso la povertà con l’introduzione del REI, per la pressione su di essa esercitata dalla crescita dei tassi di povertà e dal diffondersi della protesta sociale, a seguito all’affermarsi dei movimenti populisti. La limitatezza dei fondi stanziati con l’introduzione del REI ha però continuato a segnalare l’importanza ancora contenuta che veniva assegnata alla lotta contro la povertà, per cui – a parere di Baldini e Gori – l’introduzione del RDC ha rappresentato “un passo in avanti storico”; esso, non solo ha comportato un aumento delle risorse dedicate al problema specifico della povertà, ma ha anche istituito una forma di reddito corrisposto indipendentemente da altri redditi percepiti e da eventuali patrimoni dei quali fossero stati titolari i riceventi, non contemplando nessun altro requisito oltre la cittadinanza. Quale giudizio complessivo, si chiedono Baldini e Gori, può essere espresso sull’introduzione di questa forma di reddito?
L’istituzione del RDC, pur subordinando il fruitore alla necessità di reinserirsi nel lavoro, per via del fatto che la povertà viene assunta come conseguenza della mancanza di occupazione, ha riconosciuto che spesso lo stato di povertà risulta legato “ad aspetti diversi da quello lavorativo”, siano essi familiari, di salute, di istruzione, psicologici, abitativi, relazionali e di altra natura; ciò comporta l’attribuzione di “un ruolo importante ai percorsi di inclusione sociale”, affiancati “a politiche di rilievo per l’inserimento lavorativo”.
La scelta di enfatizzare le finalità occupazionali del RDC, rilevano Baldini e Gori, ne ha depotenziato il ruolo e la funzione. Ciò perché, se l’erogazione del RDC viene subordinata alla necessità che il fruitore debba reinserirsi nel lavoro in un contesto economico come quello italiano, caratterizzato dalla crescita delle disoccupazione strutturale, è quasi certo il suo insuccesso; per cui tenderà ad allargarsi il novero di coloro di quanti sostengono “che sono le stesse politiche di contrasto alla povertà” ad essere la causa prima di quest’ultima. In questo modo, concludono gli autori andrà persa l’occasione di consolidare l’evento storico, che con l’introduzione del RDC si pensava di aver raggiunto nella lotta contro la povertà.
In realtà, il discredito cui andrà incontro il RDC, per il suo improprio impiego, pregiudicherà la possibilità che ad esso si faccia ricorso per la cura della principale disfunzione cui sono esposti i sistemi economici capitalisticamente avanzati. Di fronte al dilagare della disoccupazione strutturale irreversibile, è maturata l’idea che occorresse creare, all’interno dei sistemi sociali economicamente avanzati, condizioni tali da consentire, non tanto la lotta contro la povertà, quanto il finanziamento di una domanda sufficiente a garantire lo stabile funzionamento del sistema economico.
L’esperienza riguardo al modo di funzionare dei moderni sistemi industriali ha da tempo evidenziato che, quando la gestione del sistema economico è lasciata all’azione discrezionale della politica, il perseguimento dei livelli occupativi, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, rende possibile una manipolazione dei flussi di reddito, tale da creare dei disavanzi nei conti pubblici a danno dei cittadini; è questa la ragione per cui sarebbe stata giustificata, l’introduzione nel sistema economico nazionale, che da tempo ha subito gli esiti negatuvi del deteriorarsi dei propri “fondamentali” economici, la necessità di una riforma radicale del welfare esistente.
Il sistema di sicurezza sociale, basato sul modello elaborato nel Regno Unito nel 1942 da William Henry Beveridge, aveva tre funzioni: fornire alla forza lavoro disoccupata la garanzia di un reddito, corrisposto sotto forma di sussidi a fronte di contribuzioni assicurative; garantire un reddito alle categorie sociali che, per qualsiasi motivo, avessero avuto bisogno di un’assistenza, nel caso in cui esse non godessero di alcun sussidio; assicurare al sistema economico servizi regolativi e di supporto all’occupazione, attraverso la realizzazione delle condizioni che davano titolo a ricevere i sussidi.
L’obiettivo fondamentale del welfare State è stato, sin dal suo inizio, univocamente determinato; il sistema però, a causa delle perdita della flessibilità del mercato del lavoro, ha scontato una crisi progressiva. Ciò perché la sua ragion d’essere era basata sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo ad esso, cosicché le contribuzioni della forza lavoro bilanciassero le erogazioni previste in suo favore. Pertanto, il sistema, così come era stato concepito all’origine, è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale, essendo stato progressivamente chiamato a coprire le emergenze conseguenti all’aumentata complessità dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente, a seguito dell’espandersi delle varie forme di sussidio che è stato necessario corrispondere e dei costi burocratici per le “prove dei mezzi” (le prove, cioè, di trovarsi realmente in stato di bisogno) alle quali i beneficiari dei sussidi devono sottoporsi.
Le insufficienze del welfare State hanno orientato l’analisi economica ad assumere che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro e non quello di compensare la crescente insicurezza reddituale della forza lavoro. Il modo per rendere tra loro compatibili, in regime di libertà, da un lato, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale, e dall’altro, l’efficienza del sistema economico, è stato individuato nell’istituzionalizzazione del RDC, da erogarsi incondizionatamente a favore di tutti e finanziato con le medesime risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale (l’attuale welfare); oppure mediante la distribuzione di un “dividendo sociale”, finanziato con le risorse derivanti dalla vendita dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato, mediante la costituzione di un “Fondo-capitale nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini. E’ stata questa l’idea originaria con cui James Edward Meade, insignito nel 1977 del premio Nobel per l’economia, parlando di dividendo sociale, ha introdotto nell’analisi economica il problema dell’istituzionalizzazione del RDC.
Il dividendo sociale, doveva essere corrisposto di diritto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico. Il suo fine ultimo doveva essere quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che avesse riconosciuto ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad uno standard minimo di vita, in presenza di una giustizia sociale più condivisa; un sistema di sicurezza, cioè, che avesse consentito di raggiungere, sia pure indirettamente, tale fine, in termini più efficienti ed ugualitari di quanto non fosse possibile con qualsiasi altro sistema alternativo.
Un problema assai dibattuto riguardo all’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza è stato quello di stabilire le modalità del suo finanziamento. Esso poteva essere assicurato con il ricupero delle risorse utilizzate per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente; in alternativa, Meade ipotizzava la distribuzione di un dividendo sociale finanziato con le rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini.
In Paesi come l’Italia, dove è problematico pensare di poter realizzare in tempi brevi una riforma radicale del welfare esistente, o di reperire le risorse necessarie per finanziare il RDC mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, la soluzione del problema può essere inserita nella prospettiva di un riordino dei diritti di proprietà, senza eccessivi stravolgimento degli istituti giuridici esistenti. I cambiamenti della vita sociale, imputabili alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici, valgono infatti a giustificare una migliore ridefinizione dei diritti di proprietà; su questa nuova base, sarebbe possibile costituire un patrimonio collettivo per il finanziamento del “Fondo” da utilizzare per finanziare il RDC, concepito come reddito sul quale fondare la costruzione di un sistema di sicurezza sociale più efficiente di quello realizzato da William Henry Beveridge.
All’interno del nuovo sistema di sicurezza sociale, il RDC (o dividendo sociale, o reddito di base), oltre che garantire lo stabile funzionamento del sistema economico, svolgerebbe anche la funzione di risolvere sul piano sociale i problemi inevasi con l’attuale welfare State; in particolare, quella di assicurare una maggiore flessibilità al mercato del lavoro e un costante contrasto della povertà. Tali obiettivi diventerebbero perseguibili attraverso una responsabile politica riformista, idonea a riproporre su basi nuove l’organizzazione dello stato di sicurezza sociale vigente, ponendo definitivamente fine all’uso di provvedimenti-tampone, per rimediare alle situazioni sociali negative causate dalla crescente disoccupazione strutturale e dall’insorgenza di possibili crisi economiche inaspettate. Inoltre, sarebbero create le condizioni per la promozione, da parte dei percettori del RDC, di possibili gratificanti attività produttive autonome, i cui benefici effetti risulterebbero affrancati dalla natura di “prestazione caritatevole” dei sussidi di sopravvivenza corrisposti dall’assistenza statale.
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Il governo razionale dei beni comuni e il problema della scarsità
di Gianfranco Sabattini*

Il continuo dibattito sulla natura e l’uso dei beni comuni è condizionato dall’incertezza che pesa sulla loro definizione; da esso tuttavia sembra “emergere” una definizione che considera beni comuni tutte quelle risorse che risultano necessarie alla vita (perché preordinate a soddisfare stati di bisogno di particolare rilevanza per gli individui) e che, investendo i diritti fondamentali delle persone, si caratterizzano per la non esclusione dall’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo, quale corrispettivo per il loro uso.
In tempi di crisi economica persistente, il dibattito pubblico in corso in Italia tende a porre la gestione dei beni comuni in controtendenza rispetto all’assoggettamento delle risorse alle logiche del mercato. Tuttavia, le incertezze persistenti sulla definizione di bene comune impediscono che dal dibattito emergano le linee di una politica di riforma istituzionale utile a prefigurare una loro razionale gestione; ciò, al fine di sottrarre i beni comuni alla cosiddetta “tragedia dei commons” che, in considerazione della loro non esclusione dall’uso generale, potrebbe condurre alla loro totale “distruzione”.
Il governo razionale dei beni comuni può essere infatti prefigurato solo tenendo conto, al pari di tutte le risorse economiche, della loro scarsità. Ciò perché, il fatto d’essere di proprietà comune comporta che all’intera platea dei proprietari sia assegnato a titolo individuale il diritto d’uso, mentre a nessuno di essi è concessa la facoltà di escludere gli altri. Se i proprietari che dispongono del diritto d’uso sono troppi, le risorse di proprietà comune potrebbero essere esposte al rischio della sovrautilizzazione; le stesse risorse, potrebbero essere esposte anche al rischio della sottoutilizzazione, a causa, ad esempio, di una definizione del diritto di proprietà dei beni comuni che potrebbe “margini” di interferenza nelle modalità del loro uso (come accade, per esempio, in Italia, nell’uso di ciò che resta dei cosiddetti “usi civici”, la cui utilizzazione da parte dell’operatore pubblico – di solito i comuni – è spesso contestata dall’intera comunità municipale, titolare del diritto di proprietà). In entrambi i casi, i proprietari dei beni comuni sarebbero “condannati” a subire gli esiti negativi della “tragedia dei commons”.
La “tragedia” è connessa al rischio che i beni comuni possano essere gestiti, come sostengono i “benecomunisti”, da operatori diversi dai loro legittimi proprietari, in quanto fruitori; i titolari della proprietà indivisa di beni devono infatti sostituirsi direttamente a qualsiasi forma di potere, privato o pubblico, nel determinare come gestire la conservazione e le forme di fruizione di tali beni. Tuttavia, perdurando lo stato di scarsità, la loro gestione di questi beni non può prescindere dalle leggi economiche tradizionali che indicano le modalità ottimali, sia per la loro conservazione, che per il loro uso.
La proprietà comune, in quanto riferita all’insieme dei soggetti che compongono una determinata comunità, è diversa dalla proprietà pubblica. A differenza dei beni comuni, quelli di proprietà pubblica possono essere gestiti direttamente dagli enti pubblici proprietari, sulla base di processi decisionali maggioritari (cioè sulla base delle maggioranze politiche pro-tempore esistenti). Poiché l’insieme dei proprietari-fruitori dei beni comuni non dispone di autonomi meccanismi decisionali, l’esercizio del diritto di proprietà comune e la gestione dei beni cui tale forma di proprietà si riferisce devono essere delegati alla responsabilità di un “soggetto operante” (quale, ad esempio, una cooperativa) che deve esercitarli in nome e per conto del delegante, la comunità, in funzione della volontà collettiva che essa esprime.
Con riferimento al governo e all’uso dei beni comuni, sorgono perciò gli stessi problemi presenti ancora oggi in Italia in molte realtà territoriali, con riferimento agli antichi “usi civici”, dove gli enti locali, sulla base di decisioni maggioritarie, amministrano risorse che, in quanto beni comuni, possono essere gestite solo dalla comunità olisticamente intesa come “un tutto”.
Il suggerimento di Elinor Ostrom, l’economista premio Nobel per l’economia 2009, che ha approfondito il tema dei beni comuni, si presta poco ad essere utilizzato per realizzare in termini efficienti il governo della proprietà di tali beni, secondo forme cooperative. L’intento del suo contributo è stato quello di pervenire ad una teoria adeguatamente specificata delle azioni collettive, mediante le quali un gruppo di operatori può organizzarsi volontariamente per utilizzare il frutto del suo stesso lavoro, o dei suoi beni di proprietà indivisa.
La Ostrom non crede nei risultati delle analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale, ma solo nelle spiegazioni empiricamente confermate del funzionamento delle organizzazioni umane relative a specifiche e particolari realtà. Ciò perché, secondo la Ostrom, le analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale comportano l’astrazione dalla complessità dei contesti concreti, per cui diventa probabile il rischio di rimanere “intrappolati” in una “rete concettuale” che astrae dalle realtà particolari.
Molte analisi condotte a livello di intero sistema sociale sarebbero perciò niente di più che metafore; ma affidarsi a metafore per gestire specifiche realtà può portare a risultati sostanzialmente diversi da quelli attesi. Un conto è spiegare come possono essere gestite in modo efficiente le risorse scarse di proprietà comune di una comunità di pescatori, oppure quelle di una comunità di allevatori; altro conto è spiegare come può essere realizzato, in condizioni di equità e di giustizia distributiva, il governo di tutte le risorse di proprietà comune di una determinata comunità nazionale.
In Italia il dibattito su come affrontare i problemi connessi alla realizzazione di uno stato del mondo più confacente alla gestione dei beni comuni si è svolto sinora prevalentemente con riferimento alla struttura istituzionale esistente. Questa, a causa dell’egemonia della logica capitalistica, secondo i “benecomunisti” avrebbe subito trasformazioni tali da determinare la crescente privatizzazione delle risorse disponibili. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che, non essendo ancora ultimato, è giusto motivo di preoccupazione per i “benecomunisti”.
Il movimento “benecomunista”, dotato prevalentemente di un’anima giuridica, considera i beni comuni, non già come beni economici aventi caratteri peculiari, ma come dei diritti universali, la cui definizione non può essere “appiattita” su considerazioni esclusivamente derivanti dalla teoria economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, [...] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza», in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani.
I “benecomunisti” sostengono che, per evitare lo smarrimento della loro vera qualità comune, i beni comuni devono essere tolti dal mercato e salvaguardati giuridicamente per garantire a tutti la loro fruibilità. Ma come? Rodotà manca di dirlo; mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure da istituzionalizzate per governare la proprietà e la gestione dei beni comuni. Ciò al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo di tali beni (intesi come fonte di soddisfazione di diritti universali) li esponga al rischio di un loro possibile spreco.
Tra l’altro, è necessario pervenire a una precisa definizione dei beni comuni, anche per stabilire quali dovrebbero essere realmente, tra le risorse disponibili, quelle da sottrarre alle leggi di mercato; se ci si riferisce, ad esempio, al trasporto pubblico locale, la mobilità delle persone nel territorio è un bene comune o è solo, tra gli altri, un bene il cui governo deve essere lasciato alle leggi di mercato? L’interrogativo potrebbe essere esteso ad una molteplicità di situazioni, sino ad includere nella classe dei beni comuni la maggior parte di tutto ciò che di momento in momento viene prodotto ed utilizzato all’interno del sistema sociale.
L’incertezza nella definizione dei beni comuni causa l’impossibilità di fare appropriati passi in avanti nella riflessione sulla riorganizzazione del quadro istituzionale che sarebbe necessario per una loro razionale gestione. I “benecomunisti”, mancando perciò di uscire dalla vaghezza definitoria su cosa sia un bene pubblico e quali siano le condizioni che valgono a trasformare una data risorsa in bene comune, “soffrono” dell’atteggiamento di chi è sempre propenso a valutare ex ante le proposte destinate a fare fronte a specifiche emergenze, senza il conforto di una valutazione sia pure potenziale ex post della loro desiderabilità ed attuabilità. Essi, infatti, trascurano che le proposte formulate in sede preventiva, senza un confronto con la modalità necessarie alla loro attuazione, corrono il rischio di rivelarsi fallimentari a posteriori.
Inoltre, le critiche che i “benecomunisti” rivolgono alla situazione istituzionale esistente mancano di prefigurare una struttura istituzionale alternativa, idonea ad esprimere “una progettualità di lungo periodo”. Tali critiche, infatti, si limitano ad affermare, in astratto, gli ostacoli che si oppongono al rispetto del mandato costituzionale che coniuga l’equità distributiva con l’efficienza economica e gestionale delle risorse delle quali dispone il Paese, mancando di considerare i problemi connessi con la forte territorializzazione che caratterizza di solito i beni comuni; nessun cenno viene fatto, inoltre, alle “politiche di infrastrutturazione” necessarie per garantire, a livello nazionale, l’accesso all’uso dei beni comuni localizzati solo in un dato territorio.
Per queste ragioni, le critiche dei “benecomunisti” tendono a risultare, dal punto di vista economico, quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti della logica capitalistica; si tratta di critiche del tutto prive di ogni riferimento alla struttura istituzionale che dovrebbe essere realizzata, per garantire, a livello di intero sistema sociale ed economico, un razionale soddisfacimento dei diritti universali cui si fa riferimento. In altri termini, i “benecomunisti” mettono il carro davanti ai buoi, nel senso che la loro progettualità risulta finalizzata, non a prefigurare un possibile riformismo istituzionale, utile a consentire una gestione razionale dei beni comuni di proprietà collettiva, ma solo a correggere e contenere gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi sociali capitalistici attuali; tutto ciò senza preoccuparsi di evitare gli esiti negativi dell’eccessiva propensione a rifiutare quanto dell’economia standard può risultare ancora idoneo a governare e salvaguardare i beni comuni.
Ciò sarebbe invece necessario, al fine di evitare che il rischio connesso al rifiuto ideologico delle leggi dell’economia standard possa causare anche inintenzionalmente la formulazione di strategie riformiste di lungo periodo svincolate dalla realtà. Uno dei peggiori sbagli che si possa commettere, nelle condizioni in cui versa attualmente l’Italia sul piano sociale ed economico, è pensare che una proposta astratta possa essere realmente attuata; sarebbe il peggior servizio reso al Paese, per via del fatto che esso finirebbe con l’essere ulteriormente penalizzato sovrastato dal funzionamento del proprio sistema economico in assenza di regole certe e concrete.
* Già pubblicato su Aladinpensiero online il 10 settembre 2019.