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Politica. GOVERNO i due potenziali alleati

img_5463IL PUNTO di Roberta Carlini su Rocca.

Altro che terza Repubblica, come l’ha chiamata Di Maio all’indomani del voto. Le lunghe settimane delle consultazioni per la formazione del governo ci hanno piuttosto riavvicinato al clima della
Prima repubblica, con il ritorno in auge addirittura di una terminologia antichissima, come quella dei «due forni», che poi sarebbero la Lega e il Pd, considerati tra loro in alternativa dal cliente-M5S. Due forni complicati: uno, il Pd, è chiuso per scelta del titolare (che peraltro non si sa neanche chi sia); l’altro, la Lega, sarebbe aperto ma insieme a un connesso ipermercato, Forza Italia, inviso al cliente. Questo scenario, e le conseguenti manovre e furbizie, hanno riportato alla memoria le tattiche della Dc, la spregiudicatezza del Psi, le geometrie variabili del pentapartito (qui servirebbe un manualetto di traduzione, a uso dei più giovani). Eppure, molte cose sono cambiate e c’è una differenza fondamentale tra lo scenario della Prima repubblica e quello attuale, comunque lo si voglia chiamare: il ceto politico dominante di allora agiva per conservare il potere, per preservare un assetto sociale, economico e istituzionale; quello vincente di oggi arriva sull’onda di un proposito rivoluzionario: entrare nel potere e cambiarlo. Non è la rivoluzione del Novecento, ovviamente; ma è comunque un sommovimento dal basso, popolare, contro l’establishment. Lo è nell’elettorato, e lo è nella fisionomia dei rappresentanti eletti, con un grande ricambio, abbassamento dell’età media, arrivo di persone finora estranee alla politica, e anche (per i grillini) con un buon numero di donne. Per questo stride la forma che subito ha preso la questione, tutta immersa negli antichi riti e nelle più consumate tattiche.

destra e sinistra per me pari son

Anche la proposta in sé innovativa di ricorrere a un contratto di coalizione, sulla falsariga di quel che succede in Germania, è stata indirizzata indifferentemente nelle due direzioni, a destra e a sinistra: a conferma di quanto i Cinque Stelle dicono di sé sin dall’origine, ossia di essere oltre queste categorie considerate del passato; ma in spregio a qualsiasi ordine di priorità nella scelta dei contenuti. Passando allora dalla forma alla sostanza, e in attesa che lo facciano gli sherpa dei nuovi partiti, si può tentare di capire dai programmi elettorali quali sono i punti di contatto e quali quelli di frattura in una potenziale alleanza tra i due mezzi vincitori delle elezioni di marzo, il Movimento Cinque Stelle e la Lega (sempre che non cambi tutto e le difficoltà di questo scenario, politiche e programmatiche, non portino a trattative con il Pd che per ora è però congelato nella sua posizione di non-dialogo).
Quel che appare evidente a un osservatore esterno, per esempio alla stampa straniera, ma poco sottolineato in Italia, è la vicinanza tra Lega e M5S nell’asse che va da Trump alla Brexit ai sovranisti europei: ritorno alla difesa dell’interesse nazionale in economia, contestazione dei miti e delle parole d’ordine della globalizzazione (libera concorrenza e frontiere aperte),
evocazione di un mitico passato dorato da riportare in vita, insofferenza verso i vincoli dei trattati internazionali. Una linea che Salvini interpreta al meglio, ma che non è lontana dai toni e dalla sostanza di molte posizioni dei politici e del popolo a Cinque Stelle. Diverse sfumature di sovranismo, insomma; che però, più che contenuto di un accordo, potrebbero diventare le prime grane di un eventuale futuro governo, visto che non sarebbe facile tradurre queste pulsioni in realtà – anche se il precipitare della crisi in Siria potrebbe portare tutti a fare scelte di campo ben prima del previsto.

Stato fisco welfare
Guardando per ora dentro i confini e i programmi di politica economica, i cavalli di battaglia dei due partiti sono noti: la flat tax per la Lega, il reddito di cittadinanza per il M5S. Sembrerebbero due concezioni opposte dello Stato, della politica fiscale, del welfare. La flat tax è un’imposta con aliquota unica, uguale per tutti i livelli di reddito, che la Lega propone al 15%: è una proposta simile a quella di Forza Italia, che però nel suo programma ne aveva fissato l’aliquota al 23%. In tutti e due i casi era prevista poi un’area di esenzione totale dall’imposta, con aumento dell’attuale «no tax area». La filosofia è chiara: semplificare e ridurre al massimo il peso del fisco sui redditi e le attività produttive, in modo tale che l’economia, liberata dal peso dello Stato, possa fiorire e crescere.
Al contrario, la filosofia di quello che i Cinque Stelle chiamano il «reddito di cittadinanza» è quella di uno Stato che interviene, che assiste i più poveri, dando a tutti coloro che sono sotto la soglia della povertà relativa un assegno mensile, condizionato alla disponibilità dei beneficiari a lavorare quando i centri per l’impiego li chiamano. È uno schema che non corrisponde all’ideale del «reddito di cittadinanza», che è universale e incondizionato, ma somiglia piuttosto alla formula del Rei, il reddito di inserimento varato dal governo uscente. Solo che ne amplia moltissimo l’ambito di applicazione, risultando dunque in una copertura molto vasta – e anche molto costosa.
C’è un tratto comune, tra le due proposte-pilastro della politica economica di Lega e M5S, ed è che sono irrealizzabili con gli attuali vincoli del bilancio pubblico. Secondo i calcoli degli economisti de lavoce.info, la flat tax al 15% costerebbe alle casse dello Stato 58 miliardi; il reddito di cittadinanza circa 30 miliardi. Ma prima ancora di pensare a come mantenere le promesse elettorali, il nuovo governo avrà come prima sua «grana» di politica economica la necessità di evitare gli aumenti automatici dell’Iva che scatteranno l’anno prossimo se la legge di stabilità non troverà nuove coperture. Si tratta di 12,4 miliardi nel 2019 e 19,2 miliardi nel 2020: se il governo non li troverà in altro modo, aumenterà l’imposta su una grandissima parte di beni di consumo. E questo in virtù di una legge dello Stato, varata ai tempi del governo Monti con una misura straordinaria votata allora da tutti i partiti – eccetto la Lega, mentre i Cinque Stelle non erano in parlamento. Dunque un eventuale governo Salvini-Di Maio, prima di qualsiasi altra cosa, dovrebbe trovare quei soldi per evitare che aumentino le tasse più odiose, quelle che, colpendo i consumi indiscriminatamente, di fatto pesano di più su chi ha redditi più bassi.

ma chi paga?
Dopodiché, potrebbero dedicarsi ai propri programmi; ma quali? Ridurre le tasse soprattutto ai più ricchi (come fa la flat tax, che premia in misura più che proporzionale i redditi più alti) o aiutare i più poveri? Al tavolo della contrattazione sul programma, le due proposte potrebbero rivelarsi meno lontane di quanto non sembri. Potrebbero essere un po’ emendate tutte e due: una riduzione delle tasse meno forte di quella promessa; e un aiuto ai poveri meno estensivo, di fatto solo un ampliamento dell’attuale Rei. E a ben guardare i due progetti non sono così abissalmente lontani e incompatibili: la riduzione del peso del fisco per i più ricchi e un aiuto ai più poveri era in fondo la proposta dell’economista fondatore del monetarismo – e ispiratore del liberismo reaganiano – ossia Milton Friedman, che ipotizzò una «imposta negativa sul reddito», ossia un’imposta che ai livelli più bassi si trasforma in sussidio. Nella visione di Friedman, il tutto si doveva realizzare nell’ambito di una grande riduzione della presenza dello Stato e del welfare: il taglio delle imposte si doveva coprire con la riduzione della spesa pubblica, e il sussidio monetario per i poveri doveva restare l’unica forma, caritatevole, di assistenza sociale. Una visione drastica, da «lacrime e sangue», non presente in nessuno dei programmi dei nostri partiti; tutti promettono di tagliare gli sprechi e la spesa im- produttiva, ma nessuno scende nel detta- glio, sul quale perderebbe consensi e popolarità. Eppure, i conti hanno una loro logica. Per attuare anche una minima parte delle loro promesse, i due potenziali alleati dovranno ricorrere o a maggior deficit o a un taglio radicale della spesa. Sulla prima strada, c’è l’ostacolo dell’Europa e soprattutto della reazione dei mercati, sui quali quel deficit dovrebbe essere finanziato. La seconda non è nel dna dei due partiti, che anche se evocano a ogni pie’ sospinto il rigoroso Cottarelli, ex commissario alla spending review, impallidirebbero a sentire le sue proposte. Il taglio delle agevolazioni fiscali, per dirne una, andrebbe a colpire le piccole e medie imprese, base elettorale della Lega; quelli alla pubblica amministrazione, alla sanità, agli statali sarebbero mal digeriti dalla base elettorale dei Cinque Stelle. Ma siamo entrati in uno scenario del tutto inedito: chissà che non possa essere proprio lo «Stato minimo» alla fine lo sbocco dei due sogni irrealizzabili di Di Maio e Salvini.


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rocca-09-1-mag-2018