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NEXT GENERATION UE: i soldi ci sono ma come spenderli?

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NEXT GENERATION EU
ambiente e digitale
i due pilastri
del finanziamento europeo

Roberta Carlini su Rocca

C’è una parola che ricorre spesso, nel discorso sullo stato dell’unione che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha tenuto a metà settembre. È la parola «fragilità». Eppure, è stato uno dei discorsi più forti che dall’alto scranno di Bruxelles siano mai stati fatti. Il suo primo dall’insediamento, avvenuto il primo dicembre 2019, pochi mesi prima che il mondo cambiasse tutto. «Siamo fragili, ha detto la presidente Ue, come persone, come collettività, come istituzioni, come comunità internazionale. Il virus prevedibile ma imprevisto ci ha esposti e lasciato esposti e tutti ci sentiamo, e siamo, più vulnerabili. E l’Unione europea è fragile, con le sue diversità, i suoi percorsi incompiuti, l’assenza di un potere centrale in grado di governare quel che è già di per sé ingovernabile. Eppure, questo è il momento dell’Europa. «Il momento di aprire la strada che porta da questa fragilità a una nuova vitalità».

l’Europa cambia linguaggio
Si può pensare che sia solo retorica – e in questo caso, è stata una buona retorica, capace di riscattare l’immagine non tanto gradevole dei «burocrati» di Bruxelles, di usare parole ispirate e all’altezza della drammaticità del momento, con la malattia e i morti, il virus che ritorna e una crisi economica senza precedenti che già morde. Anche la retorica, in alcuni casi, serve, così come serve l’enunciazione di obiettivi che vanno verso una vita migliore (un salario minimo per tutti, un’economia che salvi l’ambiente, un’innovazione digitale che serva agli uomini e alle donne), laddove gli scopi dell’Unione europea da decenni si presentano solo in numeri, tetti, vincoli e proibizioni.
Il cambiamento del linguaggio, dovuto all’eccezionalità del momento ma forse non a caso attuato dalla prima donna presidente della Commissione, è già qualcosa. Ma basterà, servirà a cambiare l’Europa e a farci stare meglio? In fondo, l’Unione europea è la stessa di prima, i suoi membri litigiosi lo potranno diventare ancor di più in tempi di crisi, i nazionalismi e gli estremismi di destra governano in alcuni suoi Paesi, mentre appena fuori dai confini (in Bielorussia) si calpestano libertà, diritti, vite e dentro i suoi confini vengono lasciati morire o rinchiusi in modo disumano i migranti in cerca di salvezza. E, quanto all’economia, continua ad essere uno spazio con un mercato comune ma 27 governi diversi, al cui interno c’è un altro spazio con un gruppo di importanti Paesi che hanno una sola moneta ma 19 governi, dunque con una politica monetaria comune ma differenti politiche della spesa, delle tasse, della sicurezza sociale.

rimediare ai difetti
Dunque la prudenza è d’obbligo e un po’ di scetticismo pure, dati i trascorsi della politica europea e gli choc dell’ultimo decennio: a partire dalla gestione disastrosa della crisi iniziata nel 2008, importata dagli Stati Uniti ma aggravata e anzi poi trasformata in una crisi tutta europea, quella dei debiti sovrani, sulla quale tutta la costruzione europea ha rischiato di saltare – e sarebbe saltata, se non fosse stato per la decisione della Bce di Mario Draghi di ergersi a protezione della stabilità della zona dell’euro, facendo svolgere alla politica monetaria e alla banca centrale un ruolo di salvagente e supplenza dell’Europa politica. Ma pur riuscendo a salvare in qualche modo l’Unione e l’eurozona da se stesse, il «bazooka» di Draghi non è riuscito a tamponare la crisi di fiducia che intanto si spargeva in tutti i Paesi membri, ricchi e poveri, alimentando i partiti antieuropeisti ovunque e culminando nell’uscita del Regno Unito con la Brexit.
La crisi del 2008, come scrive l’economista Francesco Saraceno in un bel libro appena uscito, intitolato «La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela» (Luiss University Press, 2020), è stata un’occasione mancata per rimediare ai difetti di fabbricazione dell’Unione e dell’euro, e voltare pagina; mentre la grande crisi della pandemia del 2020 potrebbe essere l’occasione per «riprendersi» l’Europa. Tutto dipenderà dal seguito che si darà alle decisioni, finora senza precedenti, prese nei primi mesi del Covid 19: la sospensione dei vincoli ai bilanci nazionali; l’allungamento e potenziamento dei poteri della Banca centrale europea come rete di protezione e pompa di liquidità nel sistema; i programmi temporanei messi in piedi dalla Commissione (Sure e nuovo Mes); e il primo strumento di condivisione del debito, con il Recovery plan all’interno del «Next generation EU».

i due pilastri della spesa europea
Di queste novità si è già parlato in precedenti articoli su Rocca. Con la ripresa di settembre, il discorso della presidente von der Leyen e i documenti usciti da Bruxelles hanno segnato il passaggio a una ulteriore fase: adesso che è chiaro che c’è un imponente pacchetto di aiuti pubblici, e per la prima volta la sfera del «pubblico» è davvero europea, cioè parte da decisioni e risorse comuni, cosa ne facciamo di questi soldi? Oltre il bisogno e dovere immediati di salvare le persone, il lavoro, l’economia, quale è la visione? Quale futuro prepariamo, o cerchiamo di agevolare, per la famosa «prossima generatione»?

l’ambiente e il digitale
I due pilastri della spesa europea – finanziata o consentita dal programma Next Generation UE – sono l’ambiente e il digitale. Ossia gli investimenti in imprese e opere capaci di fermare il surriscaldamento del pianeta e ridurre le emissioni inquinanti; e nella diffusione dell’innovazione tecnologica a tutti i livelli della società, dell’economia, delle istituzioni, sia a livel- lo di offerta (che le opportunità offerte dalle nuove tecnologie siano accessibili a tutti) che di domanda (che tutti siano in grado di sfruttarle). A questi grandi titoli, sono ora aggiunti alcuni numeri. Sull’ambiente: il 37 per cento delle risorse del programma – dunque, 277 miliardi a livello europeo – dovranno andare al «green deal», e il 30 per cento dei finanziamenti sarà reperito sul mercato emettendo degli speciali «green bonds», dei titoli pubblici il cui rimborso è garantito dalla Ue e che serviranno esclusivamente per pagare gli investimenti «verdi».
Al digitale andrà il 20 per cento delle risorse del Next generation UE – 150 miliardi, sempre a livello europeo – che dovranno servire per trovare e finanziare la via europea a uno sviluppo che finora è stato guidato dai colossi americani (prima) e cinesi (poi).
Nel primo «pilastro», si tratta di una sfida difficile; quel che si deve fare è chiaro, ma è anche chiaro che le resistenze di economie ancora molto basate sul carbone saranno forti, e il passaggio doloroso in termini di posti di lavoro e costi sociali, per arrivare – questo l’obiettivo – a tagliare le emissioni inquinanti del 55% entro il 2030. Nel secondo, la sfida è ancora maggiore poiché non ci sono strade tracciate, se si vuole evitare il modello americano di una crescita digitale tutta centrata su pochi grandi colossi dal potere enorme e incontrollato, ma ovviamente anche la strada cinese di una «internet di Stato». Insomma, si tratta di inventare un modello che ancora non c’è.

i soldi ci sono ma come spenderli?
Quanto all’Italia, il nostro paese avrà una fetta enorme delle nuove risorse, molto maggiore del suo peso specifico nell’economia dell’Unione: 208 miliardi, tra trasferimenti e debiti «europei», cioè garantiti a livello comunitario. Sul come saranno spesi, finora si sa poco. Non ha aiutato la richiesta fatta a tutti i ministeri e le regioni di presentare i propri progetti; ne sono arrivati circa 600, i più vari e spesso raffazzonati, tirati fuori dai cassetti delle precedenti programmazioni. Il rischio è quello di rivestire di verde o digitale programmi pensati per tutt’altro, oppure di accontentare semplicemente le lobby più forti e influenti. Le linee guida per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, preparate dal governo italiano, sono giuste nella diagnosi dei problemi, riconoscendo il fatto che molti dei ritardi e dei problemi dell’Italia preesistono al Covid 19 e semmai sono stati aggravati da questa emergenza, non da essa creati. Non solo. Per la prima volta in un documento del genere si mettono al primo posto gli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo, riduzione delle disuguaglianze (territoriali, di genere, retributive). Si pone l’obiettivo di aumentare di 10 punti il tasso di occupazione, che è tra i più bassi d’Europa, menzionando il fatto che questo gap è dovuto soprattutto al fatto che troppe poche donne lavorano, in particolare al Sud. E si aggiunge l’obiettivo di aumentare gli investimenti pubblici di un punto di Pil, dal 2 al 3%.

la politica del «fare»
Ma questa è solo la cornice, che deve essere riempita di politiche e progetti scritti sulla realtà dell’economia e della società, non confezionati solo per essere conformi alla grammatica della Commissione e ottenere i soldi. Come dice spesso l’economista Fabrizio Barca, bisogna uscire dalla logica dei «progettifici», individuare i bisogni e passare alle cose che si possono fare, chiedendosi in che misura e forma l’aiuto pubblico può aiutare quel «fare». Ci sono cose facili da fare, ma non per questo le più utili e produttive: per esempio, una politica molto battuta negli ultimi anni è quella dei bonus e delle decontribuzioni, che però sono spesso a pioggia, possono aiutare il corso della corrente (se tutto va bene) ma non aprire vie nuove, né tantomeno andare controcorrente quando serve. Un’altra via facile e popolare è quella di promettere generiche riduzioni delle tasse, laddove è chiaro che quei fondi europei non sono da destinare a ridurre le tasse, ma agli investimenti; e che le stesse raccomandazioni della Commissione sulla riforma del sistema fiscale sono indirizzate a rimediare ai suoi squilibri – primo tra tutti, il fatto che ci sono troppe tasse sul lavoro – non ad alimentare promesse elettorali.
Nelle prossime settimane le scelte decisive su questi temi dovranno essere impostate, nei prossimi mesi compiute. E quel che fa l’Italia non è importante solo per noi, ma anche per tutta l’Europa. Un uso clientelare, confuso, o solo emergenziale dei fondi europei si tradurrebbe in una ennesima occasione sprecata per l’Italia; e avrebbe un contraccolpo letale per chi vuole riformare l’Unione, e ridurre il gap di fiducia tra i Paesi del nord e quelli del Sud, evitando che i primi tornino ai vecchi tempi e alla vecchia impostazione che finora ha bloccato il progresso europeo.

Roberta Carlini

- NEXT GENERATION EU: i due pilastri del finanziamento europeo.
ROCCA 1 OTTOBRE 2020

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RECOVERY FUND (O MEGLIO NEXT GENERATION EU): Spiega il perché dell’altra dizione Francesco Giavazzi sul Corriere: “Riforme di lungo periodo per costruire il futuro”. Denso ma utile da leggere l’articolo del ministro Enzo Amendola sui piani del governo: “L’Europa ci sostiene. Adesso le riforme non sono un’utopia” (Il Riformista). Un bell’articolo del prof. Amedeo Lepore sul Mattino: “Infrastrutture, la via sociale che porta allo sviluppo”