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STATO SOCIALE. Tracce per un’economia verso il bene comune

img_4603Tracce per un’economia verso il bene comune
L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto (John Maynard Keynes, da La fine del laissez-faire, del 1926)
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di Luca Benedini, su Rocca

Come ricordava Joseph E. Stiglitz in In un mondo imperfetto (Donzelli, 2001), messi di fronte all’eclatante questione dei «fallimenti del mercato» (1) i sostenitori del liberismo tipicamente mettono in evidenza i «fallimenti dello Stato» ed «esprimono [...] scarsissima fiducia nella possibilità di sanare le carenze del settore pubblico». In questo, tuttavia, essi ogni volta fingono di non saper nulla dei diversi paesi in cui da tempo vi è un efficace «Stato sociale» e trascurano cruciali considerazioni come quella in premessa, il cui autore può essere considerato la levatrice stessa dello «Stato sociale». In tal senso, l’attività fondamentale di uno Stato moderno dovrebbe essere evidentemente indirizzata – oltre che ad una regolamentazione equa, imparziale e trasparente degli organismi pubblici stessi e dei vari settori del mercato (nella quale si dovrebbe evitare accuratamente di cadere nell’estremo opposto del liberismo, cioè in una burocratizzazione esasperante, piena di inutili lungaggini e costosa per i cittadini che interpellano le istituzioni) (2) – agli interventi miranti ad ovviare adeguatamente a ciascuno dei «fallimenti del mercato», i quali non solo danneggiano direttamente la qualità della vita di molti, ma generalmente favoriscono anche le stagnazioni e recessioni economiche.

far fronte alla globalizzazione
In questi interventi, il punto più debole oggi è tutto ciò che ha a che fare con la globalizzazione, gestita sinora secondo la logica liberista che produce società deregolamentate dove abbondano il caos e crisi di vario genere e dove vincono sistematicamente i pochi più ricchi, più forti e più furbi (che si espandono sempre più in privilegi, potere e ricchezze a danno degli altri, i molti «perdenti» sempre più emarginati ed esclusi).
A patto di cominciare ad occuparsene, nel medio-lungo termine sarà possibile mettere a punto gli strumenti per riuscire a gestire in maniera umana l globalizzazione, che come figlia dell’evoluzione tecnologica in se inevitabile: strumenti internazionali (oggi inesistenti) e nazionali (finora attuati ampiamente solo in pochissimi paesi).
Su scala nazionale vi possono essere metodologie combinate che diano sostegno alla concorrenzialità in ambito internazionale e che incoraggino le imprese innovative: p. es., sostegni alla ricerca, all’innovazione e al credito per le imprese; collegamenti tra università e attività produttive; contributi concreti a progettare e realizzare efficienti «reti produttive integrate» in cui varie aziende locali si completino vicendevolmente; corsi di formazione professionale attenti anche alle tecniche produttive più recenti; forme di assicurazione sociale che facilitino il passaggio da un tipo di lavoro ad un altro; efficaci ammortizzatori sociali. Inoltre – sulla base di norme adeguate che tra l’altro dovrebbero addebitare gli eventuali costi operativi agli importatori e non ai contribuenti – si possono compiere rigorosi controlli per garantire che la qualità delle merci importate non sia inferiore alla qualità richiesta ai prodotti locali.
Su scala internazionale, è soprattutto questione di inserire delle clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e una serie di diritti umani e di prescrizioni ecologiche in specifici trattati, in modo da tutelare la qualità della vita dei lavoratori, l’ambiente e il clima (3): qualora un produttore che intendesse esportare merci in un paese non rispettasse tali clausole oppure qualcuno di questi trattati vigenti in quel paese, ciò dovrebbe implicare per le merci in questione un bando commerciale o per lo meno delle sanzioni equiparabili a dei marcati dazi doganali.
In attesa di strumenti complessi come questi, appare però indispensabile riuscire a difendersi anche nell’immediato da scelte aziendali drammatiche e contestate come la decisione di delocalizzare o chiudere impianti economicamente funzionali. Come extrema ratio e come fattore-chiave, alla fin fine occorrerebbe la disponibilità degli Stati a nazionalizzare tali impianti – di solito in via provvisoria, in attesa di trovare imprese cooperative o private interessate a gestirli – indennizzando la proprietà solamente all’osso (4). Questa disponibilità permetterebbe anche di sottrarre alle multinazionali il loro attuale potere di giocare con l’apparato produttivo mondiale in maniera ricattatoria e speculativa come se si trattasse di un gioco da tavolo, tipo Risiko o Monòpoli. Inoltre, qualora un’impresa intenda delocalizzare o chiudere degli impianti si potrebbe obbligarla a restituire tutte le eventuali forme di aiuto pubblico collegate ad essi e stanziate durante i precedenti 15-20 anni.

altri aspetti-chiave
Dallo specifico punto di vista delle dinamiche macroeconomiche e delle prospettive di evoluzione della società, appaiono nodali anche ulteriori interventi pubblici attualmente quanto mai insufficienti nel mondo:
– una redistribuzione e regolamentazione dei redditi e del lavoro, indirizzata a tutti, che ponga rimedio alla possibilità di sperequazioni economiche molto intense nella popolazione, che tuteli il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza una «giusta causa» e che faciliti il part-time (come basilare forma di personalizzazione del lavoro), le cooperative e l’economia comunitaria (5);
– efficaci forme di fiscalità inerenti alla tassazione delle transazioni finanziarie, alla carbon tax sulle emissioni dei gas-serra, alla web tax sui guadagni realizzati tramite Internet e – nei periodi di recessione economica – a specifiche imposte sui grandi patrimoni (mediante le quali è possibile tutelare dalla crisi i bilanci pubblici senza deprimere ulteriormente i redditi bassi e medi, che costituiscono il fulcro della domanda interna di beni e servizi) (6);
– l’effettiva messa al bando dei paradisi fiscali (che fanno enormemente comodo alla criminalità organizzata, agli evasori fiscali e alle speculazioni finanziarie);
– possibilità pubbliche di credito e microcredito per famiglie e piccole e medie imprese (spesso sfavorite dagli istituti creditizi privati), evitando parallelamente nel settore bancario e finanziario un ritorno alla deregolamentazione neoliberista che negli anni scorsi ha consentito la «crisi dei mutui»;
– iniziative concrete per la ricerca, l’innovazione e l’informazione nelle varie aree tecnico-scientifiche che, pur potendo es- sere di grande utilità generale, difficilmente otterrebbero sufficienti finanziamenti e realizzazioni attraverso il mercato (7);
– stringenti normative per un’economia sostenibile, p.es. accelerando quanto possibile la sostituzione dei combustibili fossili (principali cause dell’effetto serra e dello smog) con forme di energia solare ambientalmente corrette, prevedendo l’obbligo di ciascuna industria di programmare in un prossimo futuro tanto il completo riciclo di ciascuno dei suoi prodotti una volta che ne sia terminato l’uso (così da porre tendenzialmente termine a inceneritori e discariche) quanto la fine dell’uso commerciale di prodotti chimici gravemente tossici, prevedendo parallelamente il rifiuto degli organismi geneticamente modificati (ogm) e la prossima abolizione dei pesticidi ed erbicidi sintetici in agricoltura, impegnandosi per bloccare la distruzione di ecosistemi fragili come le foreste pluviali e boreali e – ovviamente – accompagnando tutto ciò con una congrua evoluzione dei programmi scolastici e universitari e dei corsi di formazione e aggiornamento professionale;
– la cancellazione del potere che le varie istituzioni nazionali e internazionali riconoscono ufficialmente alle agenzie private di rating.
Per il Terzo mondo appaiono altrettanto cruciali anche altri interventi, che avrebbero comunque ricadute molto positive anche sulle dinamiche sociali ed economiche dei paesi «sviluppati». La questione forse più fondamentale si impernia sull’attribuzione degli «aiuti allo sviluppo» molto più alle comunità locali che ai governi (i quali molto spesso operano contro le esigenze e gli interessi della loro «popolazione comune»), sull’inserimento di tali aiuti e degli «aiuti umanitari» in più ampie prospettive sociali, ecologiche e produttive che la comunità internazionale dovrebbe tutelare in ogni realtà locale e, soprattutto, sull’incontro con investitori internazionali che sappiano essere dei veri partner economici – consapevoli della valenza civile ed umana dell’attività produttiva (come avviene con particolare attenzione nel «commercio equo e solidale») – anziché dei cinici sfruttatori e dei corruttori come è solitamente avvenuto p.es. con i tanti speculatori che popolano il mondo della finanza mondiale e con lo stesso Fondo monetario internazionale (8). L’attività produttiva dovrebbe mirare anche a rendere ciascuna area subcontinentale relativamente autonoma dal punto di vista economico, senza una sua pesante dipendenza da importazioni da paesi lontani. Particolarmente urgente appare anche l’elaborazione di accordi internazionali che blocchino ovunque il più possibile sia le colture energetiche in agricoltura (di fatto responsabili di aumenti di prezzo delle derrate alimentari per i quali, negli ultimi anni, milioni di persone in più si sono ritrovate alla fame) sia la possibilità di giocare in borsa e speculare sui prezzi correnti e futuri di tali derrate e dei terreni agricoli mettendo artificiosamente a repentaglio la sopravvivenza stessa di ampie fasce di popolazione. Parallelamente – in base a ineludibili ragioni specificamente giuridiche (9), oltre che sociali e umane – andrebbe riavviato un effettivo impegno internazionale per l’abbattimento di un’ampia parte del debito estero attribuito ai paesi del Terzo mondo.

Luca Benedini

Note
(1) Come ha ampiamente notato per es. lo stesso Stiglitz in Economia del settore pubblico (Hoepli, 1989), da tempo è nota una serie di indiscutibili «cause di insufficienza del mercato» lasciato a se stesso, dalle quali hanno origine i molti ed evidenti «fallimenti del mercato» sul piano sociale, ambientale, umano e anche economico. Cfr. anche Oltre Keynes (Rocca, n.13/ 2017).
(2) In molti paesi, peraltro, le leggi elettorali e referendarie e le norme operative delle pubbliche istituzioni appaiono ispirate molto più alla formazione di una vera e propria casta politica – posta su una sorta di piedistallo rispetto ai «cittadini comuni» – che all’equità e alla trasparenza. La supposizione che la conquista del suffragio universale basti a dar corpo a una democrazia funzionante ed effettiva è uno degli equivoci più colossali e controproducenti in cui pare caduta gran parte dell’umanità moderna. (3) Per concretizzare questo approccio, un punto di partenza già pronto potrebbe essere costituito da norme, regolamentazioni o impegni internazionali già esistenti. Per es., al primo aspetto potrebbe essere associata una serie di diritti inclusi nella «Dichiarazione universale» del 1948 (in particolare – essendoci un’ovvia enfasi sul lavoro – nei suoi artt. 23 e 24), nel «Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali» entrato in vigore nel 1976 (con uno speciale riferimento ai suoi artt. 6, 7, 8, 9 e 10) o in qualcuna delle convenzioni dell’Ilo. Malgrado la loro piena normatività giuridica basata in molti paesi sui princìpi costituzionali stessi (che danno valore di legge a vari atti internazionali), si tratta di diritti che sono spesso disapplicati da politici e imprenditori e che, tra l’altro, sanciscono inequivocabilmente l’obiettivo pubblico di una pressoché piena occupazione.
(4) Cfr. per es. gli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 41, 42, 45 e 46 della Costituzione italiana.
(5) Una tale redistribuzione consentirebbe anche di avviare una progressiva riduzione del peso abnorme e socialmente «patologico» che hanno oggi il capitale finanziario e la finanza speculativa. Cfr. per es. Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, n. 12/2016).
(6) Cfr. per es. Imposta patrimoniale per chi ha di più, di Pietro Modiano (Corriere della Sera, 8/ 7/2011), dove si suggerisce anche un eccellente modo di ovviare a vari aspetti dell’evasione fiscale.
(7) Un passo estremamente significativo sarebbe anche l’approvazione di norme – il più possibile internazionali – che riescano ad impedire efficacemente ai proprietari di brevetti non pericolosi di tenere segrete e/o deliberatamente inutilizzate le tecnologie brevettate. La questione potrebbe essere risolta attraverso il passaggio dall’attuale impostazione normativa ad una simile a quella impiegata per i diritti d’autore in ambito musicale.
(8) Cfr. per es. Una pietra al collo, di Roberto Bosio (Emi, 1998); L’illusione umanitaria, di M. Deriu e al. (Emi, 2001); La carità che uccide, di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2010); Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, n. 8/2009); Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010). Cfr. anche le attività concrete di Emergency, di Survival International, della Leonardo Di Caprio Foundation e di varie altre associazioni di volontariato nel Terzo mondo.
(9) Cfr. per es. Debito estero: le ragioni per non pagarlo (Rocca, n. 22/2002) e gli articoli di David C. Gray (Devilry, Complicity, and Greed: Transitional Justice and Odious Debt) e di Kunibert Raffer (Odious, Illegitimate, Illegal, or Legal Debts – What Difference Does It Make for International Chapter 9 Debt Arbitration?) apparsi su Law and Contemporary Problems rispettivamente in estate e autunno 2007.
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