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«Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco

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SOCIETÀ E POLITICA » MAESTRI » JORGE MARIO BERGOGLIO
Terra, casa, lavoro. Perché sentiamo nostro il messaggio del papa
di LUCIANA CASTELLINA

il manifesto, 4 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews, «Rivoluzione in Vaticano (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte. Il comunismo non c’entra ma il focus delle parole del papa ha a che fare con i movimenti rivoluzionari».

Le parole del Papa veicolate da il manifesto: uno scandalo? Saranno in molti a gridarlo. Già parecchi hanno cominciato minacciosamente a chiamare Bergoglio «comunista in tonaca bianca», figurarsi quando scopriranno che i suoi discorsi agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (EMMP) – Roma 2014; Santa Cruz in Bolivia 2015; di nuovo Roma 2016 (il prossimo era ipotizzato nientemeno che a Caracas) – vengono addirittura distribuiti in abbinamento al quotidiano dei comunisti senza tonache quali siamo noi.

Di comunisti (o simili) in effetti agli incontri ce ne sono stati e anche importanti: all’ultimo Pepe Mujica, guerrigliero coi Tupamaros e quindi presidente dell’Uruguay, calorosamente salutato da Papa Francesco; con Evo Morales, presidente indio della Bolivia, c’era stata quasi una cogestione della conferenza. E poi, con i movimenti, provenienti da 68 paesi diversi, ce ne sono stati molti altri, ancorché non presidenti, ma a capo di assai importanti organizzazioni di sinistra: João Pedro Stedìle, leader dei Sem terra brasiliani e il coordinatore della rete internazionale Via campesina tanto per fare un esempio, ambedue – fra l’altro – membri del comitato internazionale del Forum Sociale Mondiale, con cui la EMMP ha molti tratti comuni nonostante qualche dissenso. Era stato peraltro invitato anche Bernie Sanders che poi non è potuto venire e a seguire i lavori ci sono stati Indignados, Confederazioni sindacali, persino il Leoncavallo.

Rivoluzione in Vaticano, dunque (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte, pratica e teorica. Il comunismo non c’entra ma il focus significante delle parole del papa ha certo a che fare con i movimenti rivoluzionari: per via dell’insistente richiamo alla soggettività, al protagonismo delle vittime, che debbono prendere la parola e non solo subìre. Perciò occorre dar valore alla politica con la P maiuscola, di cui «non bisogna avere paura, perché è anzi la forma più alta della carità cristiana». Non politica «per» i poveri, però – che «è carro mascherato per contenere gli scarti del sistema» (Francesco parlava dei «bonus»?), ma politica «dei» poveri, e cioè praticata direttamente da loro. Questo significa «rifondare la democrazia», che è oggi recinto dai «confini ristretti», è solo quella èlitaria, ufficiale, inservibile.

Alla denuncia dell’ingiustizia da parte della Chiesa – espressa sia pure con maggiore prudenza di quanto accade oggi che si condanna senza mezzi termini la globalizzazione neoliberista, la corruzione della finanza, il terrorismo del danaro – qualche papa ci aveva già abituati. In questo senso il Concilio Vaticano II è stato una straordinaria porta spalancata su un pensiero cristiano fino ad allora per i più inimmaginabile. Colpì anche noi comunisti che del Vaticano, e non senza ragioni, eravamo abituati a sospettare.

Nelle tesi per il IX congresso del PCI fu inserita una affermazione significativa: la religione sentitamente vissuta può essere un contributo importante alla critica anticapitalista. Un concetto su cui Togliatti tornò in modo più netto nel discorso, diventato famoso, tenuto al primo convegno su cattolici e comunisti promosso da una organizzazione comunista: dalla federazione della «bianchissima» Bergamo (di cui mi piace ricordare che era segretario uno dei fondatori de Il Manifesto, Eliseo Milani). E poi c’erano stati in America Latina, negli anni ’70, Puebla e la Liturgia della Liberazione.

Ma la grande innovazione di cui Papa Bergoglio si fa ora paladino sta nel dire che i poveri bisogna amarli e aiutarli e che poi andranno in paradiso, ma che devono alzare la testa e combattere qui e oggi, su questa terra e in questo tempo. E nel chiedere ai movimenti, e cioè alla politica, di farsi carico di generare i processi necessari. Se il manifesto veicola i discorsi di papa Francesco, non è per ospitalità, o per strumentale ammiccamento. È perché questo suo messaggio lo sentiamo nostro. Utile anche ai nostri lettori. Molti generosamente impegnati nella solidarietà, e però spesso, per disillusione, ormai scettici verso la politica.

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Da giovedì, 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.
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La terra di Bergoglio. Un messaggio contro la ubris del dominio sulla natura e sugli altri
di GUIDO VIALE

il manifesto, 6 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Ancora una volta, nel mondo secolare solo un quotidiano comunista è capace di pubblicare un libro di un Papa che a sua volta è uno dei pochissimi che sanno pronunciare le parole di verità sul mondo di oggi: quello che malauguratamente è e quello che potrebbe e dovrebbe essere.

Per Francesco la terra è innanzitutto il campo: la sede in cui si svolge e da cui dipende la vita di quei contadini di quei braccianti che, insieme ai recuperatori di rifiuti e di strutture abbandonate, costituiscono la base sociale principale dei movimenti popolari.

Quei movimenti radunati dal papa per offrire loro una sede dove coordinarsi, definire i propri obiettivi, far sentire la propria voce. A loro sono infatti rivolti tre dei principali discorsi che hanno caratterizzato la svolta che Francesco ha cercato di imprimere al ruolo della chiesa con il suo pontificato. Ma campo è inseparabile dal lavoro che lo rende fertile; e lavoro è un diritto di tutti, che va rivendicato con forza ed a cui va restituita la dignità negata dallo sfruttamento di un sistema fondato sul dominio incontrastato del dio denaro. Ed è inseparabile anche da tetto, il diritto a una casa, che fin dal suo primo discorso rivolto ai movimenti popolari Francesco declina nel senso di comunità, di vicinato, mutuo aiuto: il “fuori” senza il quale il “dentro” della casa si risolve in una prigione.

Ma Terra – questa volta con la maiuscola – è anche il pianeta in cui si svolge e da cui dipende la vita di noi tutti: un ambiente indissolubilmente trasformato dallo sviluppo storico, dalle opere, dai manufatti e dalle produzioni in cui si è concretizzata l’attività del genere umano, che è anche e soprattutto lavoro; come è inseparabile dal concetto di dimora: il luogo in cui le facoltà umane di ciascuno si possono sviluppare attraverso la convivenza e l’interscambio con il territorio e gli altri esseri umani che lo abitano.

In questa connessione tra il locale e il globale, tra il mondo del vissuto quotidiano e le prospettive dello sviluppo storico, tra il comportamento di ciascuno – analizzato fin nei minimi e apparentemente insignificanti particolari – e le scelte politiche da cui dipende il futuro dell’umanità e del pianeta sta la grandezza del pensiero di Francesco, che non ha eguali in nessuno dei leader politici e del personale di governo che oggi opprimono la popolazione del pianeta.

Francesco è un papa: si ritiene, e viene da molti considerato, il vicario di dio in terra; il suo pensiero è indissolubilmente legato al suo ruolo; e non potrebbe essere altrimenti. Per lui la Terra è parte del “creato”. Ma anche così, o proprio per questo, la Terra assume nel suo pensiero una propria autonomia e, attraverso i suoi cicli e i suoi equilibri, un ruolo regolativo nel definire che cosa è lecito e che cosa non è lecito nei comportamenti umani: non si può distruggere o sottrarre agli esseri umani campo, lavoro e tetto, ossia un ambiente sano, la possibilità di agire nella storia e le condizioni di una convivenza fondata sulla giustizia – che certo non esclude, ma anzi impone, il conflitto, e su questo Francesco è perentorio – senza far venir meno le possibilità di sopravvivenza per tutto il genere umano.

L’essere umano è per lui parte della Terra; non può contrapporsi più di tanto ai meccanismi che ne regolano cicli ed equilibri e ad essi si deve conformare. Non, quindi, la ubris del dominio sulla natura e sugli altri esseri, come per secoli è stato interpretato il messaggio biblico, bensì una consonanza con essi che fa del genere umano il custode, o uno dei custodi del, creato. Sono sanciti così sia l’abbandono di una concezione antropocentrica, prevalsa soprattutto con l’avvento dell’era moderna, sia l’adesione alla visione propria di quell’ecologia profonda che sta affermandosi, pur con grandi difficoltà, in molti campi della cultura e in gran parte dei movimenti autorganizzati del nostro tempo: una visione che Francesco abbraccia senza remore nell’enciclica Laudato sì.

È solo così, infatti, che si può riportare il lavoro, insieme alle sue finalità, ai suoi prodotti, ai suoi effetti sull’ambiente e sugli esseri umani, entro i limiti della sostenibilità, restituendo agli emarginati della Terra dignità e qualità della vita. Perché le vittime dell’aggressione alle risorse del pianeta sono soprattutto i poveri e sono loro, per forza di cose, quelli maggiormente interessati alla salvaguardia e al risanamento di tutto l’ambiente in cui vivono: dal “campo” al pianeta Terra; dall’aria che respiriamo e dal cibo che mangiamo – o che vorremmo mangiare – agli equilibri climatici globali. Per questo la giustizia sociale non è perseguibile al di fuori della giustizia ambientale, del rispetto della Terra, della salvaguardia dei suoi cicli e di tutto il vivente.

È in questo contesto che si situa l’impegno di Francesco a favore dell’accoglienza e dell’inclusione di tutti i migranti, che considera la conseguenza più evidente degli squilibri ambientali e sociali del mondo d’oggi: quelli che costringono milioni di esseri umani a fuggire da paesi che al momento, e forse per un lungo periodo, e forse anche per sempre, non danno loro più alcun accesso a un campo, a un tetto e a un lavoro, spingendoli a cercare queste cose in paesi lontani e sempre più ostili.

È un impegno non privo di ondeggiamenti e contraddizioni, come quelli testimoniati dagli scarti tra il discorso di Francesco in vista della giornata mondiale del migrante del 2018, e quel “primo, quanti posti ho?” pronunciato in aereo, di ritorno dall’America Latina, che ha dato modo a una parte della gerarchia ecclesiastica di fornire un assist immediato agli obbrobriosi respingimenti del ministro Minniti; per poi contraddirsi ancora nell’invito ad accogliere tutti i migranti “a braccia aperte”; aperte come il colonnato di san Pietro: quello sotto cui Francesco aveva invitato a trovar rifugio i senzatetto di Roma prima che le gerarchie vaticane li cacciassero di nuovo per non turbarne il decoro. Sono segni evidenti del fatto che quando dalle enunciazioni di principio si scende ai fatti, si aprono conflitti a tutto campo che non risparmiano nessuno, costringendo a continui ondeggiamenti.

Ma l’approccio che unisce giustizia sociale a giustizia ambientale resta comunque il tema di fondo che attraversa e domina tutta l’enciclica Laudato sì: un testo che riposiziona radicalmente le priorità e le prospettive della politica, della cultura e dell’agire quotidiano. Per i cattolici, nel solco di una continuità, che Francesco rivendica, con encicliche di precedenti pontefici; per i non credenti, in piena sintonia sia con il pensiero ecologista più radicale sia con le culture indigene, soprattutto quelle dell’America Latina, che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa elaborazione.

La pubblicazione, per iniziativa del manifesto, di questo libro – che contiene, oltre ad alcune note di commento e di contestualizzazione, il testo integrale dei tre discorsi che Francesco ha rivolto al mondo in occasione degli incontri mondiali con i movimenti popolari – è anch’esso il segno di una volontà di rinnovare il proprio repertorio politico attingendo a fonti ed ambiti fino a pochi anni fa quasi impensabili.
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Approfondimenti su Aladinews.
- La Carta di Santa Cruz (luglio 2015).

Terra, casa, lavoro e libertà per tutti

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di Vanni Tola

Una settimana da ricordare, qualcosa si muove nel vecchio mondo. Il Papa alla scoperta delle Americhe.

La settimana che si è appena conclusa sorvola appena la cronaca per entrare di diritto nei libri di storia. Soltanto gli storici infatti sapranno ricostruire, col tempo necessario, l’importanza politica delle vicende che si sono succedute in queste giornate così dense di avvenimenti tutti ugualmente memorabili. Si comincia con le vicende drammatiche dei migranti con un susseguirsi di azioni positive di accoglienza e tragici episodi di esclusione. Stati che cingono i loro confini con barriere e filo spinato con l’illusione di fermare un processo storico in atto – tanto straordinario quanto destinato a durare nel tempo – che vede svolgersi di fronte alle telecamere uno spostamento di esseri umani tra i paesi della guerra e della miseria e il continente europeo alla disperata ricerca di sicurezza, pace e un minimo di benessere. L’incontro di Bruxelles tra i capi di stato e di governo, dal quale ci si attendavano grandi risoluzioni si è rivelato un mezzo fallimento con i paesi europei impelagati nella discussione per stabilire come ripartire tra i paesi dell’Unione una quota esigua di migranti e sul come sconfiggere le resistenza dei paesi dell’est che vorrebbero ostacolare quella che considerano un’invasione e una minaccia per il loro territorio. Ancora si discute di come definire meglio la distinzione tra quei migranti che scappano da guerre in corso e coloro che invece sfuggono “soltanto” da fame, miseria e malattie che a parere di molti, forze progressiste e democratiche comprese, andrebbero comunque rimpatriati, cioè rimandati nell’inferno dal quale sono miracolosamente riusciti a scappare. In tale contesto “esplode” l’azione diplomatica, lo scossone internazionale rappresentato del viaggio di Papa Francesco in America. Inizio col botto con il viaggio a Cuba per ratificare l’operazione di nuovo confronto tra Cuba e Stati per la quale il Papa ha svolto un ruolo determinante. Significativo l’incontro con il vecchio leader Fidel Castro. Da Cuba, terminate le manifestazioni con straordinaria partecipazione di fedeli e non, il Papa, per la prima volta, arriva in America con un volo diretto dall’isola inaugurando di fatto una ripresa dei contati tra due mondi che si sono fatti la guerra per decenni. In America Francesco si presenta come pellegrino, come figlio di emigrati in un paese di figli di emigrati ad incontrare il presidente americano, anch’esso figlio di migranti. E qui l’uomo politico Francesco, il Papa che viene dal Sud America e viaggia con borsa e scarpe nere, mette a segno una serie di altri “colpi”. Il discorso al Congresso americano, la visita all’area delle Torri Gemelle con la preghiera insieme ai rappresentanti di tutte le religioni del mondo contro il terrorismo e la violenza, il discorso alle Nazioni Unite (che il nostro giornale pubblica integralmente nello spazio riservato agli editoriali) e l’incontro di Filadelfia con le famiglie. In tutte queste circostanze il Papa svolge una serie di interventi di grande spessore politico oltre che religioso sviluppando considerazioni, richieste e proposte che, nel loro insieme, costituiscono un manifesto politico per gli uomini di buona volontà di tutto il mondo. Un programma al quale non si può non aderire qualunque sia il proprio rapporto personale con la religione cattolica. Avremo modo di approfondire meglio i contenuti dei diversi interventi del Papa che ha parlato di accoglienza, di dialogo, di inclusione e confronto, di superamento dei conflitti di abolizione della pena di morte, di diritti civili e di libertà religiosa, di difesa dell’ambiente, senza troppa attenzione alle convenienze diplomatiche e parlando il linguaggio semplice e diretto che contraddistingue la Sua comunicazione. Ci piace al momento concludere con una sintesi efficace del suo pensiero: “Casa, lavoro, terra e libertà per tutti”.
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Le foto: le prime due in testa e l’ultima sono tratte dalla pagina fb di Giacomo Meloni (riprese da servizi televisivi), la terza in basso è dell’Osservatore Romano, tratta da La Repubblica online; infine, la quarta foto in basso è tratta da un servizio della Sala stampa del Vaticano.
Papa Radio Vaticana
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Papa Francesco all’Assemblea generale dell’Onu
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Signor Presidente, Signore e Signori,

ancora una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni Unite impegnato in questa 70. ma Sessione dell’Assemblea Generale, il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di ciascuno per il bene dell’umanità.

Questa è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico, caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone nelle sue attività.

La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È sicuro che, benché siano molti i gravi problemi non risolti, è però evidente che se fosse mancata tutta quell’attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione.

Rendo perciò omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione.

L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Tale necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza.

Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione.

Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di “capacità senza precedenti” che “mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81).

L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.
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La drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità, con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci. L’adozione dell’“Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” durante il Vertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed effettivi.

Non sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente, anche quando costituiscono un passo necessario verso la soluzione dei problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli.

La molteplicità e complessità dei problemi richiede di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però, comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete, obiettivi e indicatori statistici – , o credere che un’unica soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente, privati di qualsiasi diritto.

Affinché questi uomini e donne concreti possano sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) – che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e delle altre aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli. L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente.

Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà dello spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e gli altri diritti civili.

Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà dello spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana.

La crisi ecologica, insieme alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale, guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: “L’uomo non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura” (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La creazione si vede pregiudicata “dove noi stessi siamo l’ultima istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi” (Id., Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).

Senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di “promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà” (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili.

La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.

A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico.

Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti.
Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la collaborazione di tutte le parti coinvolte.

In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

Queste realtà devono costituire un serio appello ad un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini e bambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni.

Come ho chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9 agosto 2014, “la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose” e per proteggere le popolazioni innocenti.

In questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità, non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte di milioni di persone. Molte delle nostre società vivono un altro tipo di guerra con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra “sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni.

Ho iniziato questo intervento ricordando le visite dei miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di perenne valore. “È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità” (Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione. Proseguo con le parole di Paolo VI: “Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!” (ibid.).

La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata.

Tale comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza, che accetti la trascendenza, rinunci alla costruzione di una élite onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune. Ripetendo le parole di Paolo VI, “l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo” (ibid.).

Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”.

Il mondo contemporaneo apparentemente connesso, sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione sociale che pone in pericolo “ogni fondamento della vita sociale” e pertanto “finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi” (Enc. Laudato sì, 229).

Il tempo presente ci invita a privilegiare azioni che possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Non possiamo permetterci di rimandare “alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi.

La lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino.

La benedizione dell’Altissimo, la pace e la prosperità a tutti voi e a tutti i vostri popoli. Grazie.
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Papa e senzatetto
papa Francesco ONU
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