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Verso una nuova stagione dell’università. Ripartire da dove si è sbagliato, da quanto non si è fatto… La terza missione ci aiuterà a salvarci

(Da Aladinews del 14 dicembre 2012 )
di Franco Meloni
FrancoMeloni ft microUna serie di circostanze concomitanti autorizzano a parlare di declino delle università pubbliche italiane, almeno di una parte di esse, precisamente quelle che non riescono ad adeguarsi alle esigenze dei tempi, a sopravvivere e superare la crisi economica che sconvolge l’Italia e l’Europa (in controtendenza, tra gli esempi positivi citiamo i Politecnici). Indichiamo alcune di queste circostanze: 1) la crescente carenze di risorse, che vedono progressivamente diminuire i trasferimenti statali, compensati molto parzialmente dall’autofinanziamento e dai finanziamenti regionali e dei progetti europei; 2) la perdita generalizzata (salvo eccezioni) di consenso della proposta formativa degli atenei italiani, che subiscono la concorrenza delle università straniere, a cui si aggiunge un calo delle immatricolazioni dovuto a un numero crescente di giovani che non vedono credibili sbocchi lavorativi dei corsi; 3) il fallimento delle diverse riforme (ultima e peggiore quella intestata all’ex ministro Gelmini), le quali non hanno migliorato la situazione ma, al contrario, hanno distratto le università rispetto alle fondamentali missioni dell’insegnamento e della ricerca e reso via via sempre più difficoltosa la pratica di nuove iniziative a favore dei territori (trasferimento tecnologico, long lifelearning); il tutto all’insegna di una crescente e opprimente burocratizzazione delle attività universitarie, che fa il paio con quella delle altre pubbliche amministrazioni. Per queste e altre ragioni l’università italiana vive dunque uno dei momenti di maggiore difficoltà degli ultimi decenni. Le crisi, come quella che stiamo vivendo, sono devastanti, ma certamente superabili, attraverso veri e profondi processi di cambiamento in meglio. Le strade da percorrere per salvarsi sono diverse: una, molto importante è senz’altro quella dell’impegno delle università per la «terza missione», come ben ha argomentato Pietro Greco in numerosi interventi, tra i quali ci piace citare quello pubblicato su l’Unità del 12 marzo 2007, che sotto riportiamo, anche come contributo attualissimo al dibattito in corso in diverse sedi. Per quanto ci riguarda la «terza missione» è una prospettiva di cui siamo convinti da tempo e che abbiamo anche praticato con convinzione nel recente passato nell’esercizio di incarichi universitari, peraltro in perfetta linea con le indicazioni dell’Unione Europea.

L’università italiana si salva solo con la «terza missione». L‘università si proponga coma una «nuova agorà»

di Pietro Greco

Gli inglesi da un paio di decenni la chiamano Third Mission, terza missione, o, Third Stream, terzo flusso. Si riferiscono all’università e alla necessità che essa si dia un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte. La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata. La richiesta è che l’università cambi. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nell’Ottocento, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali. Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in termini molto riduttivi, di semplice «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno un quarto di secolo esistono leggi, come il Bayh-Dole Act, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice. In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati. Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società. In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle «eticamente sensibili». Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale. In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga coma una «nuova agorà», una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso). Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. Sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società». Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercando di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.

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Terza missione dell’università. Un modo “nuovo” di chiamare cose “vecchie”?

univliaisonoffice
di Michela Loi
La terza missione dell’università è un tema fortemente dibattuto non solo nella pratica, ma anche in ambito di ricerca. Alcuni autori spiegano il crescente interesse verso l’argomento da parte dei ricercatori, con il fatto che la terza missione sia uno dei più importanti input che ha alimentato rilevanti processi di cambiamento all’interno delle università. Analizzare tali processi diventa pertanto intrigante per tutte le implicazioni di natura teorica derivanti dall’osservazione del fenomeno.

Riassumendo il dibattito senza pretesa di esaustività (infatti in letteratura si dice che questo sia un compito erculeo), emerge con chiarezza la necessità di dividere tutte le azioni connesse alla terza missione in due macro attività: impegno accademico per attività esterne (chiamato in letteratura academic engagement) e attività di commercializzazione. Perchè diventa importante fare questa distinzione? Qual è la conseguenza di tale distinzione? Cerchiamo di inquadrare le risposte a entrambe le questioni.

Le attività di commercializzazione includono attività come la creazione di spin-off e lo sviluppo di brevetti. Invece, quello che recentemente [Nota 1] è stato definito come academic engagement prende in considerazione collaborazioni di ricerca, contratti, consulenze e attività informali come offrire pareri esperti etc. Una interessante indagine condotta in Piemonte da alcuni ricercatori italiani [Nota 2], ha permesso di evidenziare che se si prende in considerazione non solo la parte delle attività istituzionalizzate di knowledge transfer (spin-off, brevetti, quelle per cui le interazioni sono mediate da apposite strutture universitarie), ma anche la parte derivante dalle collaborazioni dirette ricercatore-impresa, la performance di “attivismo” migliora del 50%. Le ultime sono scelte dalle piccole imprese impegnate in attività di innovazione tecnologica, le altre invece sono adottate da grandi imprese che investono su ricerca e sviluppo in modo sistematico. Se si esaminano gli antecedenti e le conseguenze di tali comportanti, emerge che le due macro attività soggiacciono su processi quasi antitetici, per la cui analisi è necessario condurre ulteriori ricerche e la cui disamina non è il focus di questo intervento.

Focalizzare l’attenzione sulle due tipologie di impegno rende più chiaro perchè in letteratura alcuni autori, sempre italiani [Nota 3], dicono che sia un errore parlare di terza missione come di una rivoluzione invisibile dentro le università, di cui ha trattato il padre del modello della tripla elica (Etzkowitz and Leydesdorff, 2000). Una ragione è che le relazioni informali tra ricercatore-università hanno una storia molto lunga; un’altra ragione è che se ci fosse questa rivoluzione ne sarebbero tutti coinvolti e questo è ben lungi dall’essere così. Ciò che è invece accaduto, dicono gli autori, e sta accadendo è il processo di istituzionalizzazione della relazione diretta università-industria. Questo richiama l’attenzione di molti studiosi che analizzano tali processi da differenti prospettive e attrae interessi multidisciplinari, che analizzano aspetti macro e micro. Diventa estremamente interessante indagare, per esempio, la cultura organizzativa dei sistemi universitari e la gestione delle attività di knowledge transfer.

La conseguenza più marcata è che si arricchisce la definizione di Terza Missione che non coincide tout-court con l’imprenditorialità accademica (anche se questo ha attirato maggiormente l’attenzione degli studiosi, le critiche e le resistenze interne). Recentemente alcuni autori [Nota 4], stavolta non italiani, ma del nord Europa, hanno definito la terza missione come tutte quelle attività che hanno un obiettivo sociale, innovativo e imprenditoriale che vengono condotte insieme alle attività più tradizionali dell’università che sono ricerca e didattica. L’altra conseguenza è che questo allarga il bacino di attività possibili, dalle quali nessuno è escluso. Un esempio è la formazione continua o la divulgazione scientifica o ancora i dibattiti pubblici. Un aspetto interessante è che questa è la prospettiva richiamata dall’Anvur nel suo rapporto sulla Terza Missione dell’Università [Nota 5].

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[Nota 1] Perkmann, M., Tartari, V., McKelvey, M., Autio, E., Broström, A., D’Este, Fini, R.,… & Sobrero, M. (2013). Academic engagement and commercialisation: A review of the literature on university–industry relations. Research Policy, 42, 423-442.
[Nota 2] Bodas Freitas, I. M., Geuna, A., & Rossi, F. (2013). Finding the right partners: Institutional and personal modes of governance of university–industry interactions. Research Policy, 42, 50-62.
[Nota 3] Geuna, A., & Muscio, A. (2009). The governance of university knowledge transfer: A critical review of the literature. Minerva, 47(1), 93-114.
[Nota 4] Zomer, A., & Benneworth, P. (2011). The Rise of the University’s Third Mission. In Reform of Higher Education in Europe (pp. 81-101). Sense Publishers.
[Nota 5] Relazione Anvur
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