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VIA Umberto I!

Carta2_regno_feudale_di_Sardegnadi Francesco Casula
Via i Savoia – non solo Carlo feroce – dalla Toponomastica Sarda


Alcune motivazioni perché Umberto I di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna

Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunque corresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, che furono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna. In modo particolare nel campo economico e fiscale, nel campo ambientale (con la deforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggi liberticide e una repressione feroce.

1. campo fiscale.
Le tasse che la Sardegna paga sono superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombre “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.
In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”

a. tassa sul macinato
Durante il suo regno permarrà l’imposta sul macinato (istituita nel 1868 ed abolita nel 1880), l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”. (Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440).
b. aggio esattoriale
Scrive lo storico Ettore Pais: ”Nelle altre province del regno l’aggio esattoriale ha una media che non supera il 3%, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a 14%” (F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam, Padova, 1959, pagina245).
c. sequestro di immobili
A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forte che nelle altre regioni ne è una riprova il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno 1897 – anni in cui Umberto I è re – si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato di immobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altre regioni messe insieme” (F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958,pagina 162). Ed ancora nel 1913 – regnante il figlio Vittorio Emanuele III, di cui vedremo –, la media delle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempre Nitti nel libro sopra citato a scriverlo.

2. Campo economico
In seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato.
La “Guerra delle tariffe con la Francia – scrive ancora Giuseppe Dessì in Paese d’ombre – aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti. Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa del Risparmio di Cagliari”.
Mentre Raimondo Carta Raspi annota: ”Nel solo 1883 erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Malauguratamente il protezionismo a beneficio delle industrie del nord e la conseguente guerra doganale paralizzarono per alcuni anni questo commercio e l’isola ne subì un danno gravissimo non più rifuso coi nuovi trattati doganali” (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 882)
Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda. Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – sostiene Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.
Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. Anche come conseguenza di ciò arrivano in Sardegna gli spogliatori di cadaveri.

3. Campo ambientale
L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato. Essi infatti bruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami “devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna”, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento. Scriverà Eliseo Spiga” lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”. (La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006, pagina 161).
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, sempre nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno.

- SEGUE –