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Prima Loro. Interventi di Raniero La Valle
dopo l’ultimatum del cosiddetto “Piano di pace” di Trump, “solo un Dio”, per citare una profezia indimenticabile di Heidegger a suo tempo riecheggiata in Italia, poteva salvare il popolo palestinese. L’“ordine esecutivo” di Trump, nuovo governante o “re di Israele” (perché di questo si tratta), suffragato dagli affari negoziati da suo genero Jared Kushner e dall’avallo dello Sceicco del Qatar, a cui Netanyahu aveva dovuto “chiedere scusa” per il bombardamento israeliano su Doha del 9 settembre, aveva decretato la “fine del lavoro” del genocidio dei palestinesi, o mediante una resa incondizionata che avrebbe segnato la fine della loro esistenza come popolo, o mediante lo scatenamento di “un inferno da nessuno mai visto prima”.
Per Netanyahu il modo, sempre incessantemente ribadito, di “finire il lavoro” era di sacrificare gli ostaggi per portare a termine il genocidio, chiudendo così definitivamente la “questione palestinese”, cioè l’incomodo dei due popoli sulla stessa terra. La scelta politica di Hamas di cedere all’editto di Trump, impedisce ora a Netanyahu di finire in tal modo il lavoro, ma stando ai termini della capitolazione intimata ai palestinesi (ben oltre Hamas), potrebbe segnare ugualmente l’estinzione dell’esistenza comunitaria, politica e pubblica, del popolo palestinese.
Ed è qui che si riapre la partita, in un modo che sembra dare ragione alla profezia sull’ultima salvezza che può venire “solo” da Dio: salvezza che deriva dal fatto che in questa seconda catastrofe (dopo la Nakba del 1948 e seguenti) il popolo palestinese non è lasciato solo. Naturalmente il miracolo non lo può fare Dio da solo (lo dicono tutti i teologi), e pertanto lo ha fatto con la Global Sumud Flotilla (rinominata “Hamas Flotilla” da Israele), grazie a un grande coinvolgimento della comunità internazionale, ai settemila nostri domiciliati idealmente a Gaza e sulla medesima flottiglia, grazie ai partecipanti al convegno di “Coraggio della pace” di Sesto Fiorentino, all’81 per cento di Italiani che si sono espressi a favore della causa palestinese, e infine lo ha fatto col miracolo di due milioni di persone, soprattutto giovani, che il 3 ottobre in cento città si sono riversate sulle strade, sulle autostrade, sulle ferrovie e sulle piazze per “gridare per i Palestinesi” (come Bonhoeffer, prima di essere giustiziato, aveva chiesto di “gridare per gli Ebrei”) e, nello stesso giorno, con un gruppo di lavoro di laici e monaci che a Monte Sole, nel luogo della strage di Casaglia e in cui a perenne testimonianza è sepolto Giuseppe Dossetti, hanno riflettuto con partecipe dolore sulla tragedia palestinese, e sulla pretesa blasfema di farne risalire la responsabilità a un presunto mandato del Dio di Israele, e infine con la partecipazione di massa allo sciopero generale oggi a Roma.
È per questa universale “vox populi”, per questo imprevisto di una sollevazione mondiale per il popolo di Palestina, per la lunga sofferenza dei rispettivi ostaggi e della popolazione di Gaza, e per la scelta lungimirante di Hamas, che il popolo palestinese può ora contare di sopravvivere.
Nello stesso giorno in cui arriva questa notizia giunge anche l’appello dell’“Osservatorio genocidio” di Avaaz su quello che da due anni è in corso nel Sudan, genocidio che è già costato la vita di 150.000 persone, ha prodotto la maggiore crisi di rifugiati del pianeta, il collasso del sistema sanitario, il blocco degli aiuti per 30 milioni di persone e una carestia tale che “le persone si aggirano come fantasmi”. Ciò vuol dire che altri popoli sono vittime di sterminio, e che il miracolo della insurrezione della comunità internazionale e delle nostre iniziative di resistenza e partecipazione deve ripetersi e produrre nuovi risultati.
Nel sito pubblichiamo il testo della risposta di Hamas.
Con i più cordiali saluti.
Per “Prima Loro”, Raniero La Valle.
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Cari Amici,
nel rito officiato alla Casa Bianca, nel quale Donald Trump ha annunciato la Buona Novella della pace perpetua non solo a Gaza ma in tutto il Medio Oriente, si è potuto vedere in modo impressionante come realtà e apparenza, verità e menzogna, fatti e simboli siano strettamente legati nell’attuale politica americana, sicché il discernimento di ciò che veramente è e di ciò che veramente accade diventa il primo compito da assolvere per potersi assumere la responsabilità dell’agire.
La prima realtà che salta agli occhi, gravida di molte implicazioni, è che sta in America il vero governo dello Stato di Israele. Si pensava finora che si trattasse solo dell’influenza autorevole ma non determinante di un potente alleato: per esempio le raccomandazioni di Biden furono disattese da Netanyahu dopo gli eventi del 7 ottobre. Ora invece si tratta di una vera e propria sostituzione. Lo si era visto quando gli Stati Uniti mettendosi al posto di Israele bombardarono con i B-2 Spirit i siti nucleari iraniani, e lo si vede ora quando Trump decide di subentrare nel “lavoro” che Netanyahu non riesce a finire a Gaza, pretendendo l’immediata resa di Hamas (72 ore) senza nemmeno il disturbo di chiederglielo, per assumersi poi direttamente il governo di Gaza o in alternativa per portare rapidamente a termine il genocidio e pervenire alla soluzione finale della questione palestinese nel senso voluto da Israele.
A questo subentro presiede una identificazione ancora più mistificante con l’attuale potere dello Stato sionista, quando Trump. dichiarandosi autore di una pace eterna per “sistemare cose che durano da migliaia di anni in Medio Oriente”, si mette nei panni di Mosè come già fece Netanyahu il 27 settembre dell’anno scorso all’Assemblea dell’ONU, quando si attribuì lo stesso compito di Mosè al suo affacciarsi alla Terra promessa, quello di lasciare alle generazioni future la benedizione o la maledizione: cosa che il Primo ministro israeliano fece presentando alla sbigottita assemblea delle Nazioni Unite due mappe, una con i Paesi benedetti e l’altra con i popoli maledetti, musulmani od arabi, dall’Iran alla Siria all’Iraq, addossando così a Dio stesso un improbabile mandato di sterminio. Ed ora è il presidente americano che si rifà ai biblici eventi del Sinai, presentandosi come il messianico artefice di “uno dei più grandi giorni di sempre nella civiltà”, benedizione per gli uni, maledizione per gli altri, cioè per il popolo palestinese nemmeno nominato tra i soggetti destinati a vivere nella “pace perpetua” del Medio Oriente, che si tratti di Gaza o di Gerusalemme e della Cisgiordania già fatta a pezzi dal “muro di ferro” dei coloni.
In tutto ciò la vera sostituzione che ne risulta è quella nella gestione e nel compimento del genocidio. La lunga tragedia di Gaza ha mostrato una caratteristica poco considerata finora del genocidio: mentre una esecuzione capitale, un omicidio, una strage, sono cose istantanee, che si consumano in un solo momento, un genocidio è un evento che si protrae nel tempo, è un processo di lunga durata. Bisogna essere dotati per perseverare, bisogna avere forze e mezzi adeguati, non essere distolti dal lavoro, per portare a termine un genocidio, prima che si rovesci a proprio danno. Quello della popolazione di Gaza dura ormai da due anni e, se non fosse per Trump, ancora non se ne vedrebbe la fine; quello del popolo palestinese come tale, come popolo negato, come ingombro da rimuovere, come indesiderati da isolare, separare, nascondere alla vista dei dominatori, come avviene in Israele e in Cisgiordania, dura da settant’anni. Troppi, per Israele, ha alla fine deciso Netanyahu, il primo capo del governo israeliano che ha la sincerità di dire che non ci sarà mai uno Stato palestinese, cioè uno Stato riconosciuto da altri 159 Stati di tutto il mondo. Troppi, due anni di genocidio a Gaza, dice Trump, che non può fare la parte del Salvatore, del futuro Nobel per la pace, se ogni sera si vedono in Televisione i bambini scheletriti a Gaza e nello stesso tempo folle immense che protestano, e Chiese e flotte del mondo civile che si oppongono alla legittimazione del genocidio, alla sua ricezione che lo omologhi come pratica di routine, come nuova risorsa tecnologica dell’attuale sistema di dominio e di guerra.
Ed ecco perché ora è l’America di Trump che si erge come arbitra nello scontro epocale tra il Bene e il Male, sono gli Stati Uniti dei fondamentalismi blasfemi e delle lobbies “evangeliche” e sioniste, sono le masse trumpiane dell’America grande “di nuovo”, che sono pervase da una mentalità apocalittica come è stato osservato dai migliori analisti dopo l’assassinio e l’esaltazione funebre di Charlie Kirk, sono tutti questi che rilasciano a Israele la licenza di genocidio o, in difetto, decidono di compierlo in proprio. E lo chiamano pace.
Nel sito pubblichiamo l’omelia dell’arcivescovo di Napoli sullo spargimento di sangue [anche qui sotto], un’intervista al giurista Pasquale Annicchino sulla “Mentalità apocalittica” che si sta diffondendo negli Stati Uniti e la traccia di un intervento sulla Fine dell’Occidente di Raniero La Valle al Convegno del “Coraggio della pace” di Sesto Fiorentino.
Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro”
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LA METAFORA DEL SANGUE
Ascolta, Israele: cessa di versare sangue palestinese
Settembre 30, 2025
La sicurezza che calpesta un popolo non è sicurezza: è un incendio che brucia chi credeva di domarlo.
L’omelia dell’arcivescovo di Napoli: il sangue di san Gennaro è solo un segno, si sciolga il nostro cuore
Card. Mimmo Battaglia
Pubblichiamo l’omelia che l’Arcivescovo di Napoli Card. Mimmo Battaglia ha tenuto il 19 settembre in occasione della celebrazione del miracolo di San Gennaro.
“Oggi Napoli si ferma come il mare quando il vento si placa. È un placarsi interiore, la sensazione di una giornata di festa, di fede, di identità. Le strade si fanno navate, i balconi cantorie, la città una cattedrale intera. Al centro, non un oggetto, ma un segno: un’ampolla, un sangue, un nome — Gennaro. Qui celebriamo non un trofeo, ma una memoria viva: quella dei martiri che l’Amore non ha lasciato soli. Il tempo, che velocemente svuota i nomi dei dominatori, conserva invece i nomi delle vittime — scritti nel pianto dei poveri, nel grido degli innocenti, nel silenzio degli ultimi. Anche quando a noi sfuggono, Dio li conosce e li incide nelle sue palme.
La Parola ci pone oggi sulle labbra una frase che è varco e promessa: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà» (Mc 8,35). Non è un motto per poster, è un ponte tra due rive. Su quel ponte Gennaro passò intero: la carne consegnata, la paura vinta, la libertà restituita al suo Autore. Non scelse di salvarsi: scelse di donarsi. E il sangue, che i violenti credettero sigillo d’oblio, divenne voce: voce che ancora predica alla città e la chiama a fidarsi del Vangelo più di ogni calcolo, più di ogni prudenza. Guardiamo quel segno non con superstizione, ma come invito a scommettere tutto sull’Affidamento.
Oggi la parola sangue ci brucia addosso. Perché il sangue è un linguaggio che tutti capiamo, e che chiede conto a tutti. Il sangue di Gennaro si mescola idealmente al sangue versato in Palestina, come in Ucraina e in ogni terra ferita dove la violenza si crede onnipotente e invece è solo rumore. Il sangue è sacro: ogni goccia innocente è un sacramento rovesciato. Se potessi, raccoglierei in un’ampolla il sangue di ogni vittima — bambini, donne, uomini di ogni popolo — e lo esporrei qui, sotto queste volte, perché nessun rito ci assolva dalla responsabilità, perché la preghiera senta il peso di ogni ferita e non scivoli via. E oggi, con pudore e con fuoco, dico: è il sangue di ogni bambino di Gaza che metterei esposto in questa cattedrale, accanto all’ampolla del santo. Perché non esistono “altre” lacrime: tutta la terra è un unico altare.
Da questa cattedrale che respira come un petto antico, si alza un appello chiaro, diretto, senza garbo diplomatico:
Ascolta, Israele: non ti parlo da avversario, ma da fratello nell’umano. Ti chiamo col nome con cui la Scrittura convoca il cuore all’essenziale: Ascolta. Cessa di versare sangue palestinese.
Cessino gli assedi che tolgono pane e acqua; cessino i colpi che sbriciolano case e infanzie; cessino le rappresaglie che scambiano la sicurezza con lo schiacciamento, cessi l’invasione che soffoca ogni speranza di pace. La sicurezza che calpesta un popolo non è sicurezza: è un incendio che, prima o poi, brucia la mano che credeva di domarlo.
So il peso del tuo lutto, le ferite che porti nella carne e nella coscienza. Ogni terrorismo è un sacrilegio, ogni sequestro un’ombra sull’umano, ogni razzo contro civili un peccato che grida. Ma oggi — davanti al sangue del martire — ti chiamo per nome: tu, Israele, fermati. Apri i valichi, lascia passare cure e pane, sospendi il fuoco che non distingue e moltiplica gli orfani. Non ti chiedo debolezza: ti chiedo grandezza. La grandezza di chi arresta la propria forza quando la forza profana la giustizia; di chi riconosce che l’unica vittoria che salva è quella sulla vendetta.
Sorelle e fratelli, Napoli, nonostante le sue ferite, è città di pace. E da questa città affacciata sul Mediterraneo vorrei si generasse un movimento di speranza e di pace, perché come diceva La Pira occorre partire dalle città per unire le nazioni. E vorrei anche che questo contagio di riconciliazione fosse fondato su un linguaggio chiaro, compreso da tutti i popoli di tutte le città che su questo mare affacciano i propri timori e le proprie speranze. Perché la menzogna comincia dalle parole, soprattutto da quelle ambigue, anestetizzate: i droni sono fucilazioni telecomandate; i “danni collaterali” sono bambini senza volto; una spesa militare che supera scuola e sanità non è sicurezza ma suicidio collettivo. Convertiamo gli arsenali in ospedali, gli utili di guerra in borse di studio, i bunker in biblioteche
Questa è l’unica geopolitica evangelica degna del Nome che invochiamo.
Diciamocelo con la franchezza dei santi: il male non è un’idea, è una filiera. Ha uffici, contabili, bonus, piani industriali. La guerra non “scoppia”: si produce, si finanzia, si premia. Ogni bilancio militare che si gonfia come una vela è vento cattivo contro la carne dei poveri. Ogni “espansione della spesa per la difesa” che supera scuola e sanità non ci rende sicuri: ci rende più soli e più poveri.
Il grido dei poveri e degli ultimi, il sangue dei bambini e il pianto delle loro madri, dice ai potenti di questa terra, alle istituzioni di questa nostra unione, alla Knesset, ai governi, ad ogni comando militare: fermate la spirale! Cercate giustizia prima dei confini, diritti prima dei recinti, dignità prima dei calcoli. Non si costruisce pace con check-point e interruzioni di vita, ma con diritto eguale, sicurezza reciproca, misericordia politica.
Il sangue gridato dalle macerie non è un argomento: è un’anafora di Dio che ripete: Che ne hai fatto di tuo fratello?
Sorelle e fratelli che sedete nei parlamenti, vi chiedo: come potete scegliere i missili prima del pane? Dove avete smarrito il volto dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?
Sorelle e fratelli che operate nella finanza e nei grandi mercati, vi chiedo: come potete esultare quando la guerra si allunga e le azioni della difesa salgono? Non sentite il grido dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?
Sorelle e fratelli imprenditori e azionari le cui industrie falsificano il Vangelo del lavoro, fondendo aratri in granate, vi chiedo: che ne avete fatto della dignità dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?
E noi tutti, con le nostre coscienze addormentate, che lasciamo scorrere il dolore come acqua sul marmo, assuefatti all’orrore, chiusi nel piccolo recinto della comodità che vogliamo difendere a ogni costo… anche noi dobbiamo chiederci: che ne abbiamo fatto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle?
Qui, a Napoli, questa domanda ce la poniamo ogni giorno perché la nostra città è un altare ferito e luminoso, dove il sangue lo conosciamo: quello dei giovani perduti, quello delle vittime innocenti, quello invisibile di chi smette di sognare. La questione meridionale non è un capitolo archiviato: è una pagina che chiede inchiostro nuovo — lavoro, scuola, cura, cultura. E necessita non di amministratori dell’emergenza, ma artigiani di futuro. Perché la politica, se è degna del suo nome, è un’arte liturgica: mette ordine non per ornare, ma per servire.
E guardando all’Italia intera, lasciamo che i numeri si facciano volti: giovani legati al precariato come a una zattera; anziani costretti a scegliere se curarsi o mangiare; famiglie che contano i centesimi come si contano i respiri. È qui che si misura il Vangelo: «Ero affamato… ero assetato… ero forestiero…» — non come metafora, ma come agenda.
“Cosa possiamo fare?” — mi chiedete. È la domanda di Pietro quando la barca scricchiola. Il martirio che ci è chiesto oggi non è quello del sangue, ma quello della coerenza. Della mitezza ostinata di chi non si lascia comprare. Della pazienza creativa di chi educa senza scorciatoie. Della fedeltà operosa di chi serve i poveri senza altarini. Della sobrietà lieta di chi spende meno per sé e investe su chi non potrà restituire. È il martirio dell’attenzione: costa più dell’oro.
Ma il Vangelo non ci chiede solo bontà: ci chiede giustizia. La giustizia non è risentimento: è ordine dell’amore. È regola che santifica il tempo, è lavoro che non sfrutta, è tavola che allarga i posti, è potere che non si auto-assolve. L’Europa non si salverà con muri e con rotte ciniche, ma ricordando di essere nata da monasteri e cattedrali: scuole per i figli dei poveri, mercati che chiudevano la domenica, comunità che fondavano legami. Non nostalgie, ma disciplina di futuro.
Torniamo al sangue. Guardatelo. Non come curiosità, ma come specchio. Il sangue di Gennaro non è un talismano: è un appello. Ogni goccia dice: non tradire. Non tradire il Vangelo con un culto senza conversione. Non tradire il povero con un’elemosina senza scelte. Non tradire la pace con parole senza progetto. Non tradire i bambini con scuole senza maestri e città senza cortili.
Per questo, oggi, osiamo chiedere un miracolo preciso. San Gennaro, fratello e martire: sciogli non solo il tuo sangue — che è segno — ma il nostro cuore, dove si decide tutto. Disarma le nostre paure travestite da prudenza. Spazza via la patina di cinismo che si attacca alla fede. Donaci un coraggio senza teatro e scelte che non fanno notizia ma cambiano la vita.
Guarda la Palestina, guarda l’Ucraina, guarda i Sud del mondo: quanti non hanno più lacrime e ci prestano i loro occhi. Fa’ che la pace non sia uno slogan, ma una pratica. Fa’ che ogni comunità diventi sala d’attesa di resurrezioni: mensa per chi ha fame, porta per chi non ha casa, lingua per chi non sa parlare, compagnia per chi non regge da solo. E qui, nella nostra città, fa’ che sotto ogni balcone si veda un ragazzo con un libro e non con un’arma; che ogni cortile sia un campo di gioco e non di spaccio; che ogni impresa pulita valga più di qualunque denaro sporco.
Se oggi chiediamo un prodigio, fa’ che sia questo: che il prodigio cominci da noi. Che si apra in ciascuno un cantiere di pace: una sedia in più a tavola, un’ora in più per educare, un euro in meno per sé e uno in più per chi non può. E quando qualcuno domanderà se il sangue si è sciolto, potremo rispondere: sì, il sangue si è sciolto. Non solo qui, non solo oggi, non solo nell’ampolla: si è sciolto nei cuori. Ha ripreso a scorrere; ha portato ossigeno alle mani, grazia agli occhi, forza ai piedi. E la città — questa città che amiamo — riprenderà il suo passo grande, e questo mondo – per il quale Dio Padre ha donato il suo Figlio Gesù, nel cui sangue tutti siamo amati e salvati – riprenderà il suo passo santo: il passo della pace.
Amen.”
19 settembre 2025
+ don Mimmo Card. Battaglia
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CHE COSA C’È DIETRO TRUMP
L’avanzare di una mentalità apocalittica
Settembre 30, 2025
L’assassinio di Charlie Kirk e la sua canonizzazione politico-religiosa rivelano il pericolo che stanno correndo la società americana e le destre fondamentaliste. La svista del card. Dole
Sul sito Prima Loro
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“L’ALTRO LATO DEL MONDO”
Se Dio cambia campo
Settembre 30, 2025
Un intervento al Convegno del “Coraggio della pace” del 25-28 settembre a Sesto Fiorentino. L’Europa deve diventare una comunità di popoli che comprenda la Russia
Raniero La Valle
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