Monthly Archives: maggio 2018

Il Governo che verrà

democraziaoggi loghettoSavona, uno sfascia euro?
23 Maggio 2018
P. Savona durante il suo discorso
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.

[Democraziaoggi] Abbiamo chiesto al prof. Gianfranco Sabattini, collega e amico di Paolo Savona, di chiarire le ragioni delle perplessità sulla sua nomina a ministro, curiosa in ordine ad un economista che è già stato ministro ed è ben inserito nell’establishment accademico e politico-economico italiano e non solo. Ecco le considerazioni del prof. Sabattini.
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lampadadialadmicromicro- Nella foto, tratta dal sito web dell’Istituto Martini di Cagliari: Paolo Savona con la dirigente scolastica Angela Testone, in occasione del Convegno di celebrazione dei 150 anni del Martini, di cui il prof. Savona fu alunno, Cagliari, Università, 17 febbraio 2012.

DIBATTITO. Sussidiarietà e Terzo Settore

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La sussidiarietà e il nuovo ruolo dei Centri di Servizio per il Volontariato
Verso una nuova fase della sussidiarietà.
Il punto di Labsus.
di Rossana Caselli, 22 maggio 2018 su Labsus

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Nel solco percorso in questi ultimi anni dalle pratiche concrete di amministrazione condivisa dei beni comuni ormai presenti su tutto il territorio nazionale, sembra oggi aprirsi una nuova fase “storica” di cambiamenti sociali e amministrativi. I Centri di Servizio per il Volontariato, che hanno un ruolo guida nel formare e promuovere l’innovazione del Terzo Settore, sembrano infatti oggi farsi interpreti di questo cambiamento, declinando, secondo il principio di sussidiarietà, anche alcuni vincoli e opportunità offerte dal nuovo Codice del Terzo Settore. Ciò potrà segnare un’inversione di tendenza rispetto al ruolo “vicario” delle istituzioni che talora ha coperto il Terzo Settore, per affermare invece amministrazioni sempre più condivise, come anche indicato dall’art. 55 del Codice. E’ questo un nuovo ambito d’impegno di Labsus per accompagnarne l’attuazione verso la sussidiarietà che verrà.

Il crollo del noi?
Quando nel mondo del terzo settore si è iniziato a parlare di sussidiarietà e beni comuni, nel decennio scorso, le perplessità non erano meno dell’interesse che molti volontari avevano nei confronti di questo argomento. Da una parte vi era diffidenza verso chi svolgeva un’attività d’interesse generale, come appunto la cura di un bene comune, quando questa è al di fuori delle associazioni, ossia svolta da parte dei cittadini singoli. Dall’altra vi era la “difesa” delle convenzioni come strumento esclusivo di rapporto dei volontari con gli enti pubblici, che limitava comunque le attività di collaborazione con gli enti all’interno di un modello bipolare di funzionamento dello stesso, in cui però il volontariato non poteva che essere in vario modo “subalterno”. Ma si temeva soprattutto per la dimensione “politica” del Terzo Settore: si temeva che i cittadini singoli, anziché associati, non potessero essere portatori di una visione politica, che avrebbero quindi finito con l’indebolire quella visione generale di cambiamenti sociali di cui il Terzo Settore si faceva interprete e rappresentante per l’intero Paese nei confronti delle istituzioni pubbliche. Ruolo che peraltro gli era stato riconosciuto dalla stessa 328/00 e che il terzo settore voleva affermare talora anche per contrastare un’interpretazione della sussidiarietà intesa come “ritiro” del settore pubblico a favore del “privato-privato”.
Ma la situazione già alla fine del decennio scorso era cambiata molto rapidamente. La legge 328/00 era rimasta una riforma solo sulla carta, mentre la concreta applicazione della 266/91 e la realtà delle convenzioni di fatto aveva sancito spesso un ruolo “vicario” del volontariato nei confronti delle istituzioni, ossia di produttore di servizi, anziché di reale rinnovamento sociale, proprio in un periodo di tagli al welfare. Le varie forme di partecipazione del volontariato su tavoli istituzionali del resto erano state spesso fallimentari. Mentre (anche grazie a Labsus) molte nuove esperienze che fiorivano nel nostro Paese evidenziavano una cittadinanza attiva che “avanzava”, affermando di fatto una diversa interpretazione della sussidiarietà. Ma anche gli stessi volontari stavano cambiando rapidamente, in questo contesto in cui la crisi economica del 2008 ormai aveva iniziato a far sentire i suoi pesanti effetti. Sì, certo: come rileva l’Istat, nel secondo decennio degli anni 2000 il numero delle organizzazioni continua a crescere ed i volontari sono quasi 7 milioni di persone, ma di questi circa 4 milioni svolgono le loro attività in un gruppo o organizzazione, mentre sono ormai ben 3 milioni circa (quasi altrettanti, quindi) che si impegnano fuori dalle organizzazioni.
E’ quello che qualcuno ha chiamato il “crollo del noi” anche nella composizione del Terzo Settore? Il “senso” dei cambiamenti accaduti nell’ultimo decennio sembra aver dato una risposta negativa a questa domanda, aprendo invece nuovi orizzonti per tutto il Terzo Settore.

Il “mezzo” che diventa il “fine” comune
Chi accoglie un rifugiato in casa propria permettendo di creare “cordoni umanitari”, chi diventa tutore di un minore non accompagnato, come chi nella rete di prossimità si adopera per un anziano solo, o chi in una Social Street condivide il “vivere” in uno stesso luogo o cura uno spazio abbandonato nel quartiere di periferia, o chi dona il proprio sangue, afferma non solo che il problema dell’altro lo riguarda, ma anche che si attiva per sé e per l’altro, perché le relazioni con l’altro fanno star bene entrambi, come se fossero parti di uno stesso “corpo”. E questi sono cittadini attivi, oggi, che spesso non entrano a far parte di un’organizzazione. Non per questo sono però individui “isolati”. Anzi: essi sono dei potenti produttori di relazioni, di socializzazione. E ne sono protagonisti semplicemente attraverso “il fare”, ossia con le attività da essi svolte nella cura di persone e beni comuni. Nel “fare” insieme ad altri, infatti, essi producono o rafforzano legami interpersonali e sociali, di dialogo tra i “frammenti” di quelle comunità spesso attraversate da divisioni e da paure. E di questo sembrano ormai essere convinte anche molte realtà del terzo settore che si adoperano per offrire nuovi spazi di interazione, per coinvolgere sempre più volontari singoli e cittadini in attività comuni (per es: Comunità di Sant’Egidio, Save the children, Associazioni per il Dopo di noi, ecc.). Anzi: coinvolgere cittadini, talora, non è più il “mezzo” per gli obiettivi da raggiungere, da parte di alcune associazioni. E’ semmai diventato sempre più il reale “fine”: per responsabilizzare e attivare persone e comunità intere. Ciò che conta quindi, più che la diversità dei soggetti (ossia volontari singoli, associati, o cittadini attivi) sono – rispetto al decennio scorso – le attività svolte e gli obiettivi comuni: riconducibili ad una sussidiarietà intesa innanzitutto come “cifra” del tipo di relazioni che si creano, dell’attivazione e responsabilizzazione delle persone. Questo va ben oltre la sola logica del produrre “servizi”! In questo senso le differenze tra volontari associati o singoli e cittadini attivi, si sono talora assottigliate.

Il volontariato e i cittadini attivi: lo sviluppo delle “sinapsi”
Noi tutti sappiamo che le relazioni interpersonali sono quelle che generano il nostro benessere sociale e che la mancanza di relazioni genera invece paura e insicurezza. Delinquente del resto significa proprio senza legami. In sintesi: l’altro, se non è amico, è forse un nemico! I legami comunitari sono come le sinapsi, ossia i punti di contatto che fanno funzionare bene il cervello (e contano più del numero dei neuroni!): le relazioni tra persone e comunità tengono vivo lo sviluppo sociale ed economico di un luogo, governano la reale qualità di vita, producono quei cambiamenti che promuovono la capacità delle persone. Queste “sinapsi” sono le stesse “radici” tra volontari (singoli o associati) e cittadini attivi: è la sussidiarietà intesa innanzitutto come tipo di relazione interpersonale paritaria che potenzia le risorse personali senza sostituirsi all’altro. Se i beni comuni sono tali solo se sviluppano “relazioni”, se sono condivisi, se la loro non è manutenzione, ma cura, allora i cittadini attivi operano esattamente come il volontario che cura una persona disabile, un malato o un bambino immigrato: perché il cittadino attivo, attraverso i beni comuni, cura innanzitutto il vivere insieme in un luogo, cura la comunità e le sue parti più fragili. E lo fa forse più che mai oggi, quando i luoghi in cui si vive sono attraversati da spinte sempre più disgreganti. I beni comuni invece tendono a ricomporre questi frantumi di comunità. Dando loro nuova forma. Le attività per la cura dei beni comuni hanno quindi un’importanza fondamentale per ricucire i tessuti sociali.

Un nuovo spazio di alleanze
E questo ben lo sanno anche gli enti locali e le stesse fondazioni bancarie che su questi temi hanno ormai iniziato da anni a porre la propria attenzione. Ed è un importante terreno di prova soprattutto per i Centri di Servizio per il Volontariato alla luce delle nuove opportunità e vincoli posti dal Codice del Terzo Settore: essi hanno infatti, oggi più che mai, un ruolo di interpreti, di guide e di sperimentazione delle innovazioni del Terzo Settore. Oggi, con prassi sperimentate di amministrazione condivisa da quattro anni su tutti i territori regionali, il rapporto tra enti locali, cittadini (singoli o associati) e CSV, sui temi della sussidiarietà è profondamente cambiato. E i CSV potranno essere fondamentali interpreti e promotori di alleanze per un salto di qualità ben più ambizioso: valorizzare le esperienze già maturate nel solco della sussidiarietà, rilanciando – in modi ben diversi rispetto al passato – la co-programmazione (e co-progettazione poi) delle attività di tutti gli enti del Terzo Settore e dei cittadini, sia singoli che organizzati. In ciò sta anche la necessità di tessere alleanze ed intese tra CSV, l’insieme del Terzo Settore, istituzioni e cittadini. Ognuno impegnandosi – e Labsus intende dare il proprio contributo – innanzitutto per l’interpretazione dell’art. 55 del Codice nel solco ormai già percorso in questi anni del principio di sussidiarietà.
Ma non solo: le opportunità oggi, come le sfide che sottendono, sono molto complesse. Non basta capovolgere la logica “vicaria” con quella “sussidiaria”, ma anche comprenderne ex ante (proprio per entrare nel merito del reale significato della co-programmazione) quale sia l’effettivo impatto delle attività di cura sull’economia dei territori, sullo sviluppo locale e in particolare sugli aspetti connessi al lavoro. Perché solo una co-programmazione che tenga conto anche di questi aspetti può segnare un ruolo non subalterno ma protagonista del nostro Terzo Settore.
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Mercoledì 23 maggio 2018

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La formazione del governo
LE AVVERTENZE DEL GIURISTA
Qualcosa di nuovo cerca di nascere. Non stupisce il lungo travaglio, ma ci sono salvaguardie costituzionali che devono essere rispettate. Un’intervista del professor Zagrebelsky chiarisce i compiti del presidente della Repubblica e indica le soluzioni corrette.
da La Repubblica, 21 maggio 2018, ripreso da chiesadituttichiesadeipoveri e da aladinews.
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COMMENTI
comune_cop_pagina_1Il paese è altrove, finiamola con le geremiadi
M5S-Lega. Sono andati in pezzi i modi in cui si sono formate tutte le nostre categorie politiche, le identità, dalla destra alla sinistra
di Marco Revelli, su il manifesto
EDIZIONE DEL 23.05.2018

Da oggi, come si suol dire, «le chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse) nasce. [segue]

“Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini” (G. Falcone). Ogni giorno noi possiamo scegliere se essere quelle gambe. Ricordando GiovanniFalcone Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, Vito, Rocco e Antonio, assassinati dalla mafia, il 23maggio1992 a Capaci

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- Dal sito della Cgil.

Festival dello sviluppo sostenibile 2018

festival-sviluppo-2018- Il programma delle manifestazioni
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I movimenti degli anni Settanta fra Sardegna e Continente. Presentazione del libro a Cagliari, sabato 26 maggio

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NewsLetter

sferaNewsletter n. 92 del 22 maggio 2018

IL SOGNO DI UNA CHIESA

Cari Amici,

Momento di riflessione per credenti, non credenti e diversamente credenti.

img_4678La verità del passato morto si illumina nella proiezione di un interrogativo che lo ricostruisce secondo la straordinaria esperienza del presente.
di Ernesto Balducci
Per avviare la riflessione di oggi usiamo il brano del Deuteronomio in cui Mosè invita il suo popolo a ricordarsi delle grandi opere che Dio ha fatto per lui.

Da questo ricordo il popolo doveva trarre riconoscenza, motivo di fedeltà ai comandamenti. La caratteristica della fede secondo l’insegnamento biblico è che essa si fonda più che sull’intelligenza che specula, sulla memoria che rievoca. E d’altronde l’unico modo per tutelare la nostra fede dalle posizioni astratte in cui si congela e diventa sterile, è anche per noi di ripercorrere le grandezze di Dio con la memoria.
Solo che la nostra condizione è estremamente diversa; non possiamo facilmente esortare noi e gli altri alla fede solo invitando a ricordo, perché il nostro ricordo ovunque si posi, è quasi sempre un ricordo impaurito. Non abbiamo gesta grandi da raccontare. Se davvero la fede dovesse reggersi sulla memoria, avremmo molti motivi per dubitare.
Ci dà conforto il fatto, come dice il Vangelo, che dinanzi a Gesù in Galilea, i discepoli lo adorano ma alcuni dubitano. Il dubbio è ospite legittimo, dentro la fede, è come l’altra faccia della fede; è l’interrogativo a cui la fede risponde per rinascere costantemente.
Il dubbio di cui ora parlo non è il dubbio dell’egoismo, della grettezza interiore; è generato dalla consapevolezza del passato. Non si tratta di una consapevolezza apologetica come quelle che si vuol costruire spesso nelle scuole, secondo criteri nazionalistici e clericali, per cui del passato si ricorda solo ciò che giova alle nostre certezze e si dimentica il resto. Se aderisce onestamente ai fatti la memoria è ambivalente. Avremmo motivi, a volte, per dubitare di Dio. Così mi veniva fatto di pensare nei giorni scorsi quando un’immensa moltitudine è accorsa nei campi di Auschwitz. Quel luogo era anche il segno dell’assenza di Dio; uno poteva anche domandassi come possa ancora essere invocato come padre quel Dio che ha permesso un genocidio dimensioni così spaventose. La memoria, se è obiettiva, è motivo di perplessità, quanto meno.
Noi ci troviamo oggi in una condizione difficile perché non possiamo ricordare il passato dell’uomo secondo le dimensioni accomodate della storia sacra. Le vicende umane non sono da ricondursi alle origini fissate dalla cronologia biblica, perché la scienza ci costringe a spostare l’origine dell’uomo a milioni di anni fa. Difficilmente possiamo collocare l’epopea della specie umana sotto l’arco della divina paternità. Le prospettive che la scienza ci obbliga ad avere non si confanno con la facile fede. E anche se noi parliamo dell’uomo sulla terra non possiamo più parlarne con l’enfasi di chi lo vedeva al centro del mondo. Come sappiamo l’uomo è disperso in un pianeta disperso in una galassia dispersa. E la vita che l’uomo ha in sé quale sintesi di lunghi processi è come un episodio improbabile e fragile in un universo che ci appare senza vita.
La nostra mente, nell’età adulta che deve avere – l’età infantile, ingenua oggi diventa patologica e pericolosa – si trova come nell’impossibilità di costruire la fede con dati obiettivi. Ecco la nostra prova. Una prova nuova a cui dobbiamo far fronte con coraggio perché – ecco il punto di superamento dello stato di crisi – perché la fede che noi proponiamo, che noi proclamiamo, che noi dobbiamo vivere nasce da una certificazione interiore che viene dallo Spirito Santo, la persona della Trinità direttamente impegnata nell’evento straordinario della fede.
Anche nella nostra vita personale, se noi ricordiamo il passato avendo negli occhi della memoria una luce di amore, riusciamo a scorgere il fiore tra le macerie: quel fiore è più importante delle macerie. La verità del passato morto si illumina nella proiezione di un interrogativo che lo ricostruisce secondo la straordinaria esperienza del presente. Se io ripenso al passato secondo la mia fede trovo motivi di glorificare Dio. Non si tratta di prove oggettive da pubblicare in piazza, ma di una verità assoluta, quella che l’amore narra a se stesso.
Posso narrare la gloria di Dio nei fatti del passato, ma non come chi polemizza col non credente portando prove in mano, ma come chi parla a se stesso delle meraviglie conosciute solo dall’amore. Ciascuno, credo, anche a livello umano, può sperimentare la diversa prospettiva tra una ricostruzione puramente positiva e obiettiva del passato e una ricostruzione obiettiva ma selettiva; la potenza selezione dell’amore che isola i fatti su cui si è scandita la propria storia.
Lo Spirito di Dio che è in noi ci certifica che c’è una paternità di cui non abbiamo prove da opporre ai non credenti, ma abbiamo l’esperienza da far irradiare attorno a noi. Il Vangelo ci dà la consegna non di una predicazione dottrinale come potrebbe essere quella di una scuola filosofica, ma di testimonianza vissuta Non basta un milione di sillogismi per dimostrare che uno è innamorato: soltanto l’esperienza dà prova e certezza.
Così per quanto riguarda la fede non ci sono certezze che non vengano dall’intima certificazione dello Spirito. È nello Spirito di Dio che io invoco Dio come Padre. Non sono salito a Lui sugli scalini fragili della memoria, ma sono salito a Lui nell’immediatezza dell’intuizione di amore che mi viene dallo Spirito. È nello Spirito di Dio che io vi parlo della paternità di Dio, e ne parlo tenendo sotto i miei occhi il panorama umano nella sua interezza, dove ci sono inverni e primavere, morti e nascite, dove ci sono vittorie della libertà e della giustizia e paurosi trionfi dell’oppressione e dello sfruttamento. Questa paternità di Dio mi obbliga a non dimenticare ciò che la mia memoria quasi respinge da sé, ma ad accogliere anche l’ombra della crocifissione che si espande nel panorama storico caratterizzandolo in modo dominante.
Io dico a Dio «padre» dopo la croce dove il Figlio suo morì vittima della prepotenza e lo invocò senza che Dio si facesse vivo. La sua non è una paternità di comodo, sentimentale, da rimettere alle analisi psicanalitiche del complesso del padre, ecc. È una paternità senza nome, per così dire. La nostra storia per remota che sia l’origine, per insignificante che possa apparire nella vastità dell’universo fisico è contenuta in un segno di amore che noi chiamiamo l’amore del Padre. Questa è una certezza che viene dallo Spirito del Signore e dobbiamo anche viverla secondo lo Spirito…
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PRIMA LETTURA: Dt 4, 32-34. 39-40- SALMO: 32- SECONDA LETTURA: Rm 8, 14-17- VANGELO: Mt 28, 16-20
Ernesto Balducci – “I1 mandorlo e il fuoco “vol. 2- anno B
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Salviamoci insieme!

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Sostenibilità

di Enrico Giovannini

1. Da Marx allo sviluppo sostenibile

gli-occhiali-di-piero1-150x1501419“Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto per me?” Questa famosa frase di Groucho Marx, attore di grande successo della prima metà del secolo scorso, noto per il suo senso dell’umorismo sarcastico, sintetizza in modo assolutamente mirabile il tema della sostenibilità e ci interroga profondamente come persone e come membri della comunità umana. Infatti, abbiamo ormai un’evidenza scientifica consolidata sul fatto che il modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi due secoli, ma soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, sia insostenibile sul piano non solo ambientale, ma anche economico e sociale. Anzi, tutte le analisi ci segnalano che alcuni fenomeni fortemente destabilizzanti (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni o all’aumento delle disuguaglianze) stanno verificandosi con una velocità superiore a quella prevista solo alcuni anni fa. Ciò vuol dire che il problema che abbiamo di fronte non riguarda solo le generazioni future, ma anche la nostra generazione, il che risolve alla radice l’obiezione di Marx (Groucho).

In effetti, già nel 1972, con il Rapporto I limiti dello sviluppo del Club di Roma, i modelli matematici disponibili all’epoca (molto meno sofisticati di quelli di cui disponiamo oggi) indicavano che, dati i tassi di crescita previsti per la popolazione, la produzione e lo sfruttamento delle risorse, entro un centinaio di anni si sarebbe determinato un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità economica, a causa del collasso delle condizioni economiche, sociali e ambientali del pianeta. Peraltro, confrontando le traiettorie previste dal Rapporto con gli andamenti effettivi delle variabili chiave (Figura 1), emerge chiaramente come questi ultimi siano quasi perfettamente in linea con le prime, il che dimostrerebbe, come alcuni autori sostengono, che negli ultimi quaranta anni il mondo abbia seguito una politica di “Business As Usual (BAU)”, nonostante i tanti impegni presi nel corso degli anni a migliorare l’efficienza energetica, a ridurre l’inquinamento, ecc.

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Confronto tra le previsioni del Rapporto “I limiti dello sviluppo” e gli andamenti effettivi.

Per valutare la storia passata si pensi che è solo nel 1987, cioè quindici anni dopo il Rapporto del Club di Roma, che il famoso “Rapporto Bruntland” (intitolato Our Common Future) introduce il concetto di “sviluppo sostenibile”, definito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ed è solo quest’anno, con la nuova Agenda 2030, cioè dopo quasi vent’anni, che l’obiettivo di portare il mondo su un sentiero di sostenibilità, non solo ambientale, viene riconosciuto come meritorio di unire tutti i paesi del mondo.
Peraltro, nonostante il fatto che il Rapporto Bruntland individuasse quattro pilastri della sostenibilità, quello economico, quello sociale, quello ambientale e quello istituzionale (per molti anni sostanzialmente dimenticato), gran parte delle persone, compresi i policy maker e i dirigenti delle imprese, ha interpretato la questione della sostenibilità come un problema sostanzialmente legato alle questioni ambientali. Si è trattato, purtroppo, di un gravissimo errore concettuale, con drammatiche conseguenze sulle politiche economiche e sociali condotte in tutto il mondo. Un simile errore ha riguardato il modo di rappresentare graficamente la questione della sostenibilità, con tre cerchi (relativi all’economia, alla società e all’ambiente) parzialmente sovrapposti, con l’area di intersezione indicata come “l’area della sostenibilità”. In effetti, la sostenibilità deve riguardare l’unione delle tre (o quattro) dimensioni, non solo la loro intersezione, al cui interno, eventualmente, si concentrano i problemi legati ai trade-off delle scelte “settoriali”. Ad esempio, sappiamo che alcuni comportamenti ambientalmente più sostenibili sono anche economicamente e socialmente più convenienti, mentre in altri casi si tratta effettivamente di scegliere di rinunciare a benefici in un campo a favore di una maggiore sostenibilità nel medesimo campo o in altri campi.

2. “Quello che non possiamo misurare non lo possiamo nemmeno gestire”

Il concetto di sostenibilità proposto dalla Commissione Bruntland ha un’indubbia forza evocativa e appare facilmente comprensibile sul piano intuitivo. Purtroppo, misurare quanto una certa combinazione di condizioni economiche, sociali, ambientali ed istituzionali sia sostenibile nel tempo presenta enormi difficoltà concettuali e pratiche.
Uno dei primi progetti che mi trovai a gestire appena nominato, nel gennaio 2001, Chief Statistician dell’OCSE, riguardò proprio la misura dello sviluppo sostenibile, nell’ambito di una ricerca estremamente articolata in cui l’Organizzazione si era lanciata in quegli anni. Ebbene, fin dall’inizio della ricerca emerse come la sostenibilità fosse estremamente difficile da misurare. Mentre sul piano economico, e in parte su quello ambientale, tale concetto appariva abbastanza radicato nella letteratura e nella pratica statistica, era sul versante sociale che le difficoltà erano quasi insormontabili. Infatti, la sostenibilità di un modello di crescita economica, la sostenibilità finanziaria, la sostenibilità dei sistemi pensionistici, solo per fare alcuni esempi, erano temi abbondantemente indagati già quindici anni fa, sui quali l’evidenza statistica e la modellistica econometrica fornivano indicazioni utili per la conduzione di politiche orientate a favorire la sostenibilità nel tempo delle condizioni economiche e finanziarie (anche se ciò non eviterà la crisi del 2008-2009).

In quegli anni stava crescendo significativamente anche la ricerca sulla questione della sostenibilità ambientale. Ancorché con una distanza enorme rispetto alle tematiche economiche, cominciavano a svilupparsi sistemi articolati di indicatori ambientali (disponibili, però, con ritardi temporali enormi rispetto a quelli economici e solo con riferimento ai paesi industrializzati), così come modelli econometrici che legavano la dimensione economica a quella ambientale. Una caratteristica comune di tali modelli era l’uso del concetto di “soglia”, oltre la quale una particolare condizione del sistema economico-ambientale veniva giudicato “insostenibile” (si pensi al caso della concentrazione di anidride carbonica o di altri inquinanti nell’atmosfera). Coerentemente, sia sul piano economico che su quello ambientale, si andava diffondendo l’uso di valori “soglia” nella legislazione europea o nazionale, come nel caso dei famosi “parametri di Maastricht” o dei limiti alla concentrazione di talune particelle nell’aria dei centri urbani.

Diversamente che in campo economico e ambientale, il concetto di sostenibilità sociale appariva, invece, estremamente sfuggente. La mancanza di una “teoria della rivoluzione” in grado di indicare valori “soglia” della disoccupazione, della povertà, dell’esclusione sociale, ecc.,oltre la quale si potrebbe determinare un’ insostenibilità sociale (cioè una rivoluzione) rendeva estremamente difficile integrare questa dimensione nel quadro concettuale della sostenibilità. Nell’ambito del progetto dell’OCSE al quale ho fatto riferimento, si propose anche di guardare alla sostenibilità delle istituzioni che sovrintendono a importanti politiche sociali (la sanità, la previdenza, l’assistenza, l’educazione, ecc.): in questo modo, però, la sostenibilità sociale veniva fondamentalmente ricondotta alla sostenibilità finanziaria delle politiche sociali, un concetto che, evidentemente, spostava l’attenzione dai risultati per i cittadini (outcome) agli strumenti con i quali si conducono le politiche (input), il che rendeva questo approccio assolutamente insoddisfacente.

È solo alla metà degli anni Duemila, dopo aver fronteggiato enormi resistenze da parte delle autorità statistiche nazionali (in nome di argomentazioni alquanto ridicole, come “lo sviluppo sostenibile è una questione politica e la statistica ufficiale deve starne alla larga”), che riuscii a promuovere la prima task-force internazionale sulla misura dello sviluppo sostenibile, con la partecipazione dell’OCSE, dell’Eurostat, dell’ONU e di alcuni istituti di statistica. Il risultato fu una prima lista di indicatori di sviluppo sostenibile, ma soprattutto l’elaborazione di un approccio concettuale basato sul “capitale”, declinato in quattro dimensioni: il capitale prodotto (cioè quello economico), il capitale naturale, il capitale umano e il capitale sociale. L’attenzione al capitale si spiega con il fatto che esso collega il passato, il presente e il futuro, in quanto è a partire da esso che, attraverso processi produttivi, culturali, istituzionali e politici, vengono non solo realizzati beni e servizi che passano per il mercato e soddisfano i bisogni economici della società, ma vengono anche soddisfatti bisogni immateriali, alltrettanto importanti per il benessere delle persone, e vengono prodotte esternalità i cui costi o benefici influenzano le condizioni della società e dell’ecosistema.

Parallelamente, è in quegli anni che, proprio grazie alle iniziative dell’OCSE (come il primo Forum Mondiale sulla “Statistica, Conoscenza e Politica” che organizzammo a Palermo nel 2004), prese le mosse il movimento mondiale per andare “oltre il PIL”, così come la revisione del Sistema dei Conti Nazionali, lo sviluppo del Sistema dei Conti Economici ed Ambientali, la predisposizione dei manuali sulla misura di diverse dimensioni del benessere (compreso quello soggettivo e la felicità), la pubblicazione di un manuale metodologico sugli indicatori compositi finalizzati a sintetizzare in un “solo numero” indicatori relativi a diverse dimensioni del benessere, nonché alla sua sostenibilità nel tempo.
Possiamo quindi affermare che, nel corso degli ultimi quindici anni, la statistica “ufficiale” ha fatto passi enormi verso la misura dello sviluppo sostenibile. Ciononostante, siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’obiettivo di misurare in modo soddisfacente tutte le forme di capitale, specialmente il capitale umano e il capitale sociale.

Manca poi una metrica comune nella quale esprimere tali misure, vista l’impossibilità di tradurre in termini monetari fenomeni ai quali non è possibile associare un “prezzo”. È anche cresciuta la consapevolezza che cercare di ottenere un indicatore unico in grado di sintetizzare le dimensioni economiche, sociali e ambientali, si scontra con ostacoli concettuali e metodologici probabilmente insormontabili. Infine, poiché la sostenibilità è un concetto legato alle dinamiche future, è indispensabile integrare le informazioni di natura statistica sul presente e sul passato con quelle relative al futuro derivanti dalla modellistica, a patto che quest’ultima prenda in considerazione le interazioni tra le diverse dimensioni e le non linearità che da tali interazioni possono scaturire (i cosiddetti tipping points).

3. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e l’Agenda 2030

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Nel settembre del 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite hanno approvato la nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile e i relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) da raggiungere entro il 2030. Si è trattato di un evento storico da più punti di vista. Infatti:

è stato confermato, anche grazie alle informazioni statistiche ora disponibili e alle previsioni sulle future tendenze, il giudizio sull’insostenibilità dell’attuale sentiero di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. In questo modo è stata superata l’idea che la sostenibilità fosse unicamente una questione ambientale e si è affermata una visione veramente integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo;
tutti i paesi del mondo sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare lo sviluppo globale su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se, evidentemente, le problematiche possono essere diverse a seconda del livello di sviluppo già conseguito. Ciò vuol dire che ogni paese dovrà impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi definiti dall’Agenda Globale e che l’ONU svolgerà un continuo monitoraggio dello stato di attuazione di tali strategie;
è stato sancito come l’attuazione dell’Agenda richieda un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e dai centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura. Nessuno è escluso dallo sforzo di cambiamento, anche se le forme di coinvolgimento delle diverse componenti vanno definite a livello nazionale, ferma restando la promozione di momenti di coordinamento regionale e globale da realizzare a cura delle organizzazioni e dei network internazionali delle diverse constituencies.
Il processo di cambiamento verrà monitorato attraverso un complesso sistema fatto di 17 obiettivi, 169 target e circa 200 indicatori. Sarà rispetto a tali parametri che ciascun paese verrà valutato periodicamente e starà alle opinioni pubbliche internazionali e nazionali usare l’evidenza fornita dagli indicatori per mettere sotto pressione i decisori, pubblici e privati, e per orientare i propri comportamenti nella direzione giusta. Anche in questo caso, la sfida è globale, in quanto anche nei paesi sviluppati non tutti i dati necessari per il monitoraggio sono attualmente disponibili o tempestivi. Per questo, l’ONU ha promosso una riflessione non solo su come utilizzare la cosiddetta “Data Revolution” per produrre i dati necessari, ma anche su come favorire l’uso dei dati per migliorare la sostenibilità dei processi economici e sociali. Il Rapporto al Segretario Generale predisposto dal Gruppo di esperti internazionali che ho coordinato l’anno scorso contiene numerose proposte, molte delle quali in fase di implementazione.

4. Le implicazioni per l’Europa e l’Italia

L’Europa è stata, da molti anni a questa parte, all’avanguardia nelle politiche a favore dello sviluppo sostenibile. Il livello di benessere economico raggiunto nella prima metà degli anni 2000, il modello di economia sociale di mercato realizzato in molte aree del continente e l’attenzione alla protezione dell’ambiente naturale, soprattutto nei paesi nordici, hanno condotto l’Unione Europea non solo ad adottare legislazioni orientate a ridurre gli impatti negativi dei processi economici sui fenomeni ambientali e sociali, ma anche a darsi obiettivi ambiziosi per gli anni futuri (si pensi alla Strategia Europa 2020) e a battersi in campo internazionale per la firma di accordi orientati a rendere più sostenibile il futuro del pianeta.
Con la crisi avviata nel 2008-2009 la situazione è mutata significativamente: la priorità è divenuta quella di assicurare la sostenibilità finanziaria delle economie europee, anche a costo di rigorose politiche di austerity, e di far ripartire la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. La nuova Commissione Europea ha riflesso questo cambiamento di prospettiva, definendo, nell’estate del 2014, priorità in linea con le preferenze degli Stati Membri e del Parlamento Europeo. Anche l’Italia ha subito un simile cambiamento, con un’attenzione soprattutto alle questioni economiche e finanziarie.
L’adozione della nuova Agenda Globale pone l’Europa e l’Italia di fronte ad una triplice sfida di enorme complessità:

integrare gli OSS nei propri programmi a breve e medio termine, così da evitare la coesistenza di agende differenti e incoerenti, nelle quali esigenze politiche di breve termine diventano sistematicamente prioritarie (si pensi alla questione della sicurezza, dopo i drammatici eventi di Parigi) e magari determinano interventi che aumentano i costi a medio-lungo termine, richiedendo aggiustamenti ancora più difficili da realizzare sul piano politico, ancorché ritardati nel tempo. D’altra parte, disegnare politiche per raggiungere gli OSS richiede un approccio integrato difficilmente compatibile con le articolazioni settoriali delle strutture governative: di conseguenza, è richiesto uno straordinario sforzo di integrazione di competenze e punti di vista diversi;
sviluppare sul piano concettuale un nuovo modello di sviluppo (andando “oltre il PIL”, cioè evitando di basarsi unicamente su una crescita quantitativa) che integri in modo innovativo le opportunità derivanti dalle nuove tecnologie, riduca i costi di transizione, soprattutto in termini sociali, sia attraente sul piano politico e si basi su una piena collaborazione tra soggetti privati e pubblici;
essere credibili a livello internazionale, così da poter promuovere i propri valori in tutto il mondo e sostenere il cambiamento globale, coniugando annunci in linea con gli OSS e pratiche concrete che migliorino la qualità della vita delle persone, superando i timori derivanti da sommovimenti socio-economici globali (quali le migrazioni) o locali, che alimentano il populismo politico. Tutto ciò richiede una leadership politica notevole, capace di rendere un paese o un’istituzione in grado di essere forward-looking e coerente nel tempo rispetto alle scelte di fondo.
Realizzare tutto ciò comporta un cambiamento culturale straordinario, impossibile senza un forte coinvolgimento delle opinioni pubbliche nazionali, la cui attenzione venga sistematicamente posta sulle tematiche dello sviluppo sostenibile come definito dalla nuova Agenda Globale, superando gli stereotipi e le logiche settoriali.
In questo contesto, cosa dovrebbe fare l’Italia per presentarsi come un “campione della sostenibilità”? In primo luogo, introdurre il concetto di sviluppo sostenibile nella propria Costituzione, così da orientare la legislazione futura e le decisioni dei tribunali al riconoscimento dell’equità intergenerazionale (si pensi al caso dei “diritti acquisiti” di tipo previdenziale). Alcuni paesi – dall’America Latina alla Nuova Zelanda – l’hanno già fatto e i tribunali di Olanda e Stati Uniti hanno recentemente avallato azioni legali da parte dei cittadini per la difesa degli ecosistemi come beni comuni, spronando governi e aziende a fare di più nella lotta ai cambiamenti climatici.

D’altra parte, non si può pensare di gestire problemi migratori, politiche sociali e una conversione dell’apparato industriale in chiave di sostenibilità attraverso interventi parcellizzati, mettendo un settore (o un ministero) contro l’altro. I paesi più attenti al tema dello sviluppo sostenibile utilizzano principi del “governo integrato” che l’OCSE definisce come un sistema di coordinamento indispensabile nella progettazione e nell’attuazione di politiche trasversali. Va quindi superata l’attuale divisione del lavoro novecentesca tra i ministeri. La Svezia, per esempio, ha istituito un ministero dedicato al “futuro” per monitorare la coerenza dell’intera azione legislativa in chiave di sostenibilità ed equità intergenerazionale. Il secondo passo potrebbe, quindi, essere la sostituzione del “Comitato interministeriale per la programmazione economica” con uno dedicato allo “sviluppo sostenibile”, come il Governo di cui ho avuto l’onore di far parte si apprestava a fare all’inizio del 2014.

In terzo luogo, l’Italia dovrebbe dare un minor peso a dinamiche economiche di breve periodo, superando il “capitalismo trimestrale” che Hillary Clinton ha criticato di recente. L’Italia potrebbe allora utilizzare il sistema degli indicatori di “Benessere Equo e Sostenibile” (BES), sviluppato dall’Istat e dal Cnel, non solo per tracciare le dinamiche economiche, sociali e ambientali ex-post, ma anche per valutare le politiche future, secondo quanto previsto da una proposta di legge già presentata in Parlamento. La Legge di Stabilità in discussione potrebbe essere l’occasione per introdurre, come ha fatto recentemente la Francia, un obbligo da parte del governo di valutare l’impatto delle proposte di legge utilizzando i diversi domini del BES. Allo stesso modo, i progetti d’investimento nelle infrastrutture (tipicamente approvati dal CIPE) dovrebbero essere basati su analisi costi-benefici che diano più importanza a impatti futuri rispetto a quelli a breve termine, seguendo l’esempio di un numero crescente di investitori privati, come nel caso del Club of Long Term Investors, che vede la presenza di un folto gruppo di società italiane.
A livello internazionale, infine, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di norme che sostengano i principi del benessere sociale e ambientale. Non sarà, infatti, possibile realizzare i nuovi obiettivi finché l’economia globale resterà dominata da un sistema finanziario altamente speculativo e da accordi commerciali che minano la coesione sociale e l’ambiente. Come affermato dal Segretario Generale dell’ONU e dal Papa nella recente Enciclica, c’è bisogno di un nuovo quadro di regole che dimostrino come il benessere sociale, economico e ambientale siano indivisibili.

Conclusioni

Nella sua recente Enciclica “Laudato si’”, Papa Francesco ha scritto:
“L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”

e ha sottolineato come

“La nozione di bene comune coinvolge anche le generazioni future. Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni.”

Per chi spende la propria vita formando le giovani generazioni e ricercando le soluzioni più idonee per affrontare e risolvere i problemi di oggi e di domani, queste parole costituiscono un richiamo fortissimo alla nostra responsabilità di persone che operano all’interno di questa comunità accademica e, più in generale, all’interno della comunità umana.
Se non noi, chi? Se non adesso, quando?

Martedì 22 maggio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazimg_4939costat-logo-stef-p-c_2-2————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti—————————–
gli-occhiali-di-piero1-150x1501419- 22 maggio Ricorrenze importanti con gli occhiali di Piero.don-andrea-gallo-300x167santa_rita_cascia
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Rispunta l’ipotesi Di Maio
22 Maggio 2018

A.P. su Democraziaoggi.
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Festival dello Sviluppo Sostenibile 2018

asvis_festival_2018_save_the_date_22mag Apertura del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2018: segui la diretta
L’ASviS inaugura il Festival con l’evento “Italia 2030 – Innovare, riqualificare, investire, trasformare: dieci anni per realizzare un’Italia sostenibile” che si tiene il 22 maggio all’Auditorium del Maxxi.
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Gover-sì Gover-no Governo sia!

valutaz-dirinnovaDi Maio: “Governo politico con Conte premier”
Salvini: “Ue non si preoccupi, obiettivo crescita”
Mattarella cita articolo 95: ‘Primo ministro non sia comparsa’. Poi prende tempo e convoca Fico e Casellati
Il segretario leghista su Fb: “Si muore di tagli e vincoli. Noi liberi di dire no a Bruxelles, Berlino, Parigi”
su Il fatto quotidiano
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Di Maio: abbiamo indicato il nome di Conte, sarà premier di un governo politico.
Salvini: nessun rischio, all’estero cambino idea
Mattarella verso incarico al giurista ma restano nodi irrisolti
Rep tv Giannini: gli argini del Colle alla deriva antieuropea
Marine Le Pen esulta: “Nostri alleati al potere”
Totoministri Ecco la possibile squadra: il nodo dell’Economia
Su La Repubblica.it
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Governo Lega-Cinque Stelle: comunque vada, cambierà per sempre la politica italiana
La strana mediazione tra popolo ed élite, le prassi costituzionali ribaltate, il rapporto tra segreterie e premier incaricato, e quello col Quirinale: ecco perché il prossimo governo sarà il più grande esperimento politico degli ultimi trent’anni
di Francesco Cancellato su LinKiesta
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Governo: pericoli? Sì, uno: che sia troppo moderato!
21 Maggio 2018

Red su Democraziaoggi.
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Appunti al volo dopo le cronache dal Quirinale.
Tonino Dessì su fb
Per il conferimento dell’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri, il Capo dello Stato (giustamente) aveva chiesto un nome di profilo adeguato.
Secondo me, a prescindere dal curriculum vitae e professionale, l’operazione del premier “terzo” è più dubbia politicamente e istituzionalmente di quanto sarebbe stato l’incarico a Di Maio, che comunque cinque anni da Vice Presidente della Camera se li è fatti. Questo nuovo Premier stretto fra due capipartito-Ministri a me pare una soluzione piuttosto debole.
Infine, non è che dobbiamo sorbirci proprio tutto.
Al momento non stiamo entrando in nessuna “Terza Repubblica”. Già la “Seconda” è stata un concetto di origine giornalistica piuttosto deviante sotto il profilo culturale.
Di nuova Repubblica si potrebbe parlare in caso di una modifica strutturale della Costituzione, semmai.
Cosa che, beninteso, non mi auguro affatto, visto che in tutta questa fase è stata proprio la Costituzione a funzionare e mi piacerebbe se lo si dicesse apertamente e anzi lo si rivendicasse come elemento di stabilità e come premessa per la coerenza dell’agire futuro.
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Building trust in a changing world of work

global-dealshutterstock_66860575Il Global Deal rilancia il dialogo sociale, per un lavoro giusto, equo e dignitoso

Il rapporto “Building trust in a changing world of work”, a doppia firma Ocse-Ilo, propone impegni delle parti sociali, attività di ricerca e piattaforme di condivisione per affrontare le sfide imposte dalla globalizzazione.

Negli ultimi decenni la globalizzazione ha stimolato una crescita economica senza precedenti. Un fenomeno che, però, oltre a produrre benefici (ad esempio le milioni di persone tirate fuori dalla soglia di povertà) ha generato anche diversi effetti indesiderati. Primo tra tutti l’aumento della disuguaglianza, ostacolo per la coesione sociale e la valorizzazione del capitale umano, capace di influenzare in modo negativo la crescita stessa.
[segue]

Economia della Sardegna: 25° Rapporto sull’Economia della Sardegna

crenos-25-cover Il 25 maggio 2018 alle ore 10:00, presso l’Aula A della Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche dell’Università degli Studi di Cagliari, sarà presentato il 25° Rapporto CRENoS sull’Economia della Sardegna.
[seguono programma e ulteriori informazioni]

Lunedì 21 maggio 2018 * Il Cagliari (e la Sardegna) in A*

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazimg_4939costat-logo-stef-p-c_2-2————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————–
marco-ligas-il-manif-sardoLigas: una lunga storia di impegno a sinistra
21 Maggio 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Oggi alle 17,30, nella Sala della Fondazione di Sardegna, un appuntamento importante a Cagliari per la sinistra sarda: la presentazione del libro ”Una storia”, ediz. Cuec, che raccoglie gli articoli di Marco Ligas su il manifesto sardo.
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Contratto di governo, Zagrebelsky: “È patto per il potere. Sulla sicurezza emerge uno Stato spietato con deboli e diversi”
Su Il fatto quotidiano del 21 maggio 2018.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DIFENDERE LA COSTITUZIONE
Zagrebelsky: «Il contratto è un patto di potere ma il Colle non è un notaio»
di LIANA MILELLA, su Repubblica.it, ripreso da eddyburg.
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