POLITICA

Dibattito

img_3015 img_3307 La Chiesa abbia coraggio. Luca Lecis su L’Unione Sarda di domenica 28 maggio 2023 (…) La maturazione promossa dal Concilio ha permesso ai laici di stabilire un rapporto paritetico con la gerarchia, ora i tempi sono maturi affinché la Chiesa dia il proprio contributo a una “rinascita” che riscatti dall’individualismo, capace di dar voce a valori evangelici oggi afoni nella società civile. https://www.unionesarda.it/opinioni/la-chiesa-abbia-coraggio-w1l4rh0l
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Che succede?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 116 del 10 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 297 del 10 maggio 2023

SAGGEZZA DI UN AMBASCIATORE

Cari amici,
ci sono alcune importanti notizie da raccogliere.
Il “Corriere della Sera” dell’8 maggio, forse con qualche imbarazzo, ha pubblicato un clamoroso articolo dell’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano in cui si chiede lo scioglimento della NATO, oggi priva delle ragioni per cui è nata. L’articolo dell’autorevole esperto di politica internazionale dice infatti così: “L’Alleanza atlantica ha avuto una parte utile e rispettabile. Ma la Guerra fredda è finita, il comunismo è sepolto, gli Stati Uniti hanno avuto un presidente come Trump e sarebbe giunto il momento di fare a meno di un’istituzione, la Nato, che ha ormai perduto le ragioni della sua esistenza”. L’accenno a Trump sembra dire che gli Stati Uniti non sono più affidabili, Per giungere a tale conclusione l’articolo richiama l’accordo “fondatore” Nato-Russia del 27 maggio 1997 in cui era scritto che “Nato e Russia non si considerano nemiche e intendono lavorare insieme per contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale in conformità ai principi dell’ONU” . Invece è accaduto il contrario: facendo proprie le parole dello storico Giovanni Buccianti, l’ambasciatore ricorda che “in seguito all’implosione dell’URSS (e non alla vittoria degli Usa nella Guerra Fredda) la NATO prese a svolgere una costosa campagna acquisti di tanti Paesi portandoli tutti a giocare contro la Russia e arrivando ai confini del suo territorio. Possibile che nessuno abbia ancora detto che così facendo si stava favorendo lo scoppio della Terza guerra mondiale?”. Così Sergio Romano e il “Corriere della sera”. Ma allora chi ha aggredito chi?
La Siria è stata riammessa nella Lega Araba. Ciò, insieme alla rappacificazione tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla diplomazia cinese, sta cambiando gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti che perseguono altri progetti , e l’Unione Europea, “continuano ad opporsi – scrive lo stesso “Corriere della Sera” – a qualsiasi regolarizzazione dei rapporti”. L’idea sembra essere che alla guerra non si può rinunziare.
In Texas ci sono state altre due stragi, che hanno provocato in tutto 16 morti. Dall’inizio dell’anno ce ne sono state più di 200, cioè più di una al giorno, mentre nel Paese in mani private ci sono più armi (393,3 milioni) che Americani. Questi corpi del reato in mano a tutti i cittadini sono protetti dal secondo emendamento della Costituzione americana. Biden ha detto: “perché continuare con questa carneficina?”. Già, perché continuare? Il problema è che a garantire che dalla “Libera Impresa” – uno dei tre cardini del modello di società che gli Stati Uniti vogliono installare in tutto il mondo – non sia escluso il business delle armi, non c’è solo la Costituzione, ma soprattutto la cultura del Paese. Questa è ancora quella del West, del “chi spara per primo”, ma è anche la cultura che discende dal potere, e che lo stesso Biden e i governi degli Stati Uniti adottano nei rapporti col resto del mondo. È in forza di questa cultura che, riguardo al nucleare, gli Stati Uniti hanno deciso di passare alla dottrina del “first use”: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare, sta scritto, perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva.
Sono partite con una fittizia consultazione delle opposizioni le riforme costituzionali. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando. Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. Si tratta di un’illusione, quando il Paese, a parte l’establishment, non è affatto di destra. Né si fida di una “destra costituente”, anche per le prove che su questo versante la destra sta dando di sé.
I riformatori costituzionali, di ieri e di oggi, non capiscono che il Paese ama le sue istituzioni; il meno amato è proprio il governo. Da quando Mussolini ha detto che voleva fare della Camera un bivacco di manipoli, il Parlamento è il bene da difendere, non si può profanare. Ora, su regia del suo presidente La Russa, l’aula del Senato è stata trasformata, come scrive “Critica liberale”, in un “bivacco pop”, per far «cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e altre canzonette da discoteca di paese». La Russa si è anche fatto dare dall’Archivio di Stato l’originale della Costituzione che è inserito negli atti ufficiali delle leggi della Repubblica. Tomaso Montanari se ne indigna, ma nota che una profanazione ben maggiore della Costituzione si sta preparando “con la manovra a tenaglia del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, due armi letali che se sommate diventano una bomba nucleare capace di annichilire la Repubblica disegnata dai costituenti”.
Nel sito pubblichiamo l’articolo dell’ambasciatore Romano e un articolo in lode dell’artigiano di Beppe Manni. Vi segnaliamo, nel sito Costituente Terra, il testo del discorso di Putin sulla Piazza Rossa nella ricorrenza del 9 maggio, che non è stato fruibile sulla stampa d’informazione. Se è un nemico, perché non sapere quello che dice? Come sostiene il papa: “ Credo che la pace si faccia sempre aprendo canali, mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia”.
Ricordiamo che si può firmare scrivendo a Ripudio della Guerra l’appello “Per un’alternativa all’impero”.
Con i più cordiali saluti,

Raniero La Valle

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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PER UN’ALTERNATIVA ALL’IMPERO
3 MAGGIO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Gli ultimi avvenimenti hanno aperto due visioni del mondo: un dominio universale o una pace nelle differenze. Un appello

La guerra in Ucraina è giunta ormai ad essere una guerra suicida: il Regno Unito combatte contro se stesso e la propria stessa immagine annunciando apertamente l’invio di proiettili anticarro ad uranio impoverito, l’Ucraina vuole riconquistare il Donbass grazie a queste armi con componenti nucleari capaci di contaminare l’ambiente per migliaia di anni e di intossicare chi lo inala o chi lo ingerisce: “si sospetta – spiega il pur simpatizzante Corriere della Sera – che arrivi a modificare il DNA, causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”, tutto ciò a danno delle stesse popolazioni di cui si rivendica l’appartenenza all’Ucraina; la Russia sfida l’esecrazione universale minacciando per tutta risposta di schierare atomiche tattiche in Bielorussia.

A sua volta, dopo una debole tergiversazione, e con la spinta determinante del presidente Biden, il cancelliere tedesco Sholz ha dato il via libera alla distribuzione di carri armati tedeschi a tutti i fornitori di armamenti a Zelenski che insistentemente li chiede. In tal modo settant’anni dopo l’”Operazione Barbarossa” vediamo di nuovo i Panzer tedeschi avanzare nella pianura d’Ucraina per sconfiggere la Russia non più sovietica.

Questa volta però la regia è americana, gli attori ucraini, mentre ogni negoziato è escluso per legge dallo stesso Zelensky.

È difficile ignorare l’impatto emotivo di questa svolta. Si può avere la memoria corta e il cuore indurito, ma nelle viscere della terra corre un sussulto dinanzi al ritorno dei carri tedeschi proiettati a combattere contro i russi nel cuore dell’Europa, quando quell’evento fu al centro della seconda guerra mondiale e ne precedette di poco l’esito con la tragedia della bomba atomica, l’ingresso dell’umanità tutta nell’età del nucleare genocida, l’adozione di un rapporto internazionale postbellico temerariamente fondato sulla “reciproca distruzione assicurata”, fino alle attuali strategie di guerre preventive e di minacciato ricorso all’arma assoluta.

In tal modo va in scena il sempre esorcizzato e incombente conflitto tra la NATO e la Russia in Europa. E dopo? Potrà ancora sussistere l’ONU, quando gli alleati di ieri, diventati i nemici di oggi, dovrebbero stare insieme come Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza per salvaguardare la pace e la sicurezza del mondo, e invece sono intenti a distruggerle? Non a caso l’Ucraina contesta già oggi la presidenza russa pro-tempore del Consiglio di Sicurezza. E siamo sicuri che questa volta, per non scomparire, la Russia invece di versare nell’olocausto 26 milioni e 600.000 morti, non sarà indotta alla scelta disperata di difendersi col “primo uso” dell’arma nucleare?

E tutto ciò accade quando il mondo ha distolto lo sguardo dalla vera priorità, che è salvare la Terra dal disastro ecologico, e anzi va allo scontro proprio sul gas, l’energia. I beni vitali e la reciproca deterrenza nucleare.

È chiaro che la priorità è cercare le vie d’uscita dalla crisi in Ucraina. Se ne sarebbe potuto trovare la soluzione, se non fosse stata sacrificata a interessi estranei all’Europa, fino al 24 febbraio 2022, quando l’assalto militare russo ha gettato tutto nella fornace dello scontro armato; e forse all’inizio un negoziato sarebbe stato risolutivo. E ora ci sono di mezzo centinaia di migliaia di caduti, orfani, vedove, città distrutte, odi implacabili e l’accecamento, nella perdita di ogni verità, della maggior parte dei protagonisti, degli ispiratori, osservatori e narratori del conflitto. Però non possiamo non dire che giunti a questo livello di rischio, i protagonisti palesi od occulti della guerra la devono immediatamente fermare, anche contro ogni irredentismo territoriale: il negoziato è necessario e possibile, la ragione e il cuore hanno sempre la possibilità di risorgere.

Quale visione del mondo?

Qui però vogliamo interrogarci soprattutto sulle due visioni del mondo che gli ultimi avvenimenti hanno aperto davanti a noi, e che ci pongono davanti a scelte da cui dipende un lungo futuro, e forse la possibilità stessa di un futuro. Non si tratta infatti di dettagli, ma di un crinale a cui siamo giunti, da cui si potrebbe cadere in un precipizio senza rimedio, quel crinale che il vecchio La Pira, negli anni più paurosi della guerra fredda, chiamava il “crinale apocalittico della storia”, intendendo col termine “apocalittico” non la fine stessa della storia, ma lo svelamento dell’alternativa radicale cui essa era pervenuta mettendo la guerra come principio e signore di tutte le cose, e nello stesso tempo invitava i sindaci delle città opposte a Firenze.

Qual è la nostra visione del mondo, stando noi su questo crinale?

La visione del mondo che ci viene proposta con grande insistenza, e che ci viene attribuita come connaturale alla nostra civiltà e alla nostra storia, è la visione del mondo propria dell’Occidente, anzi dell’“Occidente allargato”, che ha oggi il suo centro in America, la sua potenza militare negli Stati Uniti e nella Nato, la vocazione a estendersi fino agli estremi confini della terra.

È in nome dei suoi valori che siamo chiamati alle armi, per “mettere il nostro mondo saldamente sulla strada di un domani più luminoso e pieno di speranza”, come promette oggi il presidente Biden nell’illustrare la “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Di fronte a noi abbiamo però, gravemente inquietanti, due documenti fondativi che propugnano e illustrano questa visione del mondo e la assumono come normativa. Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana ha enunciato le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è per l’appunto la “National Security Strategy” (october 2022 – The White House Washington) del Presidente Biden (in sigla NSS), il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” (in sigla NDS) del capo del Pentagono Lloyd Austin, corredata da un dettagliato aggiornamento della “postura” o visione nucleare americana. Questa visione o “postura” ribadisce la decisione di non adottare la politica del “Non Primo Uso” dell’arma nucleare perché essa “comporterebbe un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità anche non-nucleari degli avversari che potrebbero infliggere danni di natura strategica agli Stati Uniti e ai loro alleati e partners”. È la conferma di quanto era già stato deciso dopo l’attacco alle Torri gemelle: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva; la nuova strategia è di ricorrere se necessario per primi all’arma nucleare. scudo al cui riparo si possono condurre senza rischi per gli Stati Uniti le guerre convenzionali necessarie. E questa nuova dottrina, adottata ormai anche dalla Russia, fa sì che dietro questo scudo si pensa che si possnoa combattere tutte le guerre convenzionali, come si è sempre fatto in tutto il corso della storia.

Due documenti programmatici

Per quanto strettamente americani, questi due documenti, di fatto ignorati in Occidente, riguardano tutti, perchè investono non solo l’una o l’altra regione del globo, ma il destino del mondo come tale. E ciò è dimostrato dal fatto che di questo mondo gli Stati Uniti rivendicano globalmente la leadership, che vi installano le loro basi militari da per tutto, e che intendono disporne con l’affermazione che “non c’è nulla che vada oltre le nostre capacità: possiamo farcela, per il nostro futuro e per il mondo”; la posta in gioco sarebbe “di rispondere alle sfide comuni e affrontare le questioni che hanno un impatto diretto sulla vita di miliardi di persone. Se i genitori non possono nutrire i propri figli – specifica Biden – nient’altro conta. Quando i Paesi sono ripetutamente devastati da disastri climatici, interi futuri vengono spazzati via. E come tutti abbiamo sperimentato, quando le malattie pandemiche proliferano e si diffondono, possono aggravare le disuguaglianze e portare il mondo intero al collasso”. Sarebbe questa la preoccupazione degli Stati Uniti, la giusta ragione del loro intervento ma anche il motivo per cui il raggio d’azione entro cui la loro impresa, politica e militare, si deve esercitare è senza limiti territoriali: “Abbiamo approfondito le nostre alleanze principali in Europa e nell’Indo-Pacifico. La NATO è più forte e unita che mai, stiamo facendo di più per collegare i nostri partner e le nostre strategie nelle varie regioni attraverso iniziative come il nostro partenariato di sicurezza con l’Australia e il Regno Unito (AUKUS). E stiamo forgiando nuovi modi creativi per lavorare in comune con i partner su questioni di interesse condiviso, come con l’Unione Europea, il Quadrilatero Indo-Pacifico, il Quadro economico Indo-Pacifico e il Partenariato per la prosperità economica delle Americhe”; e da lì lo sguardo si spinge fino all’Artico.

Si postula dunque un unico potere che si protende alla totalità del mondo, nella presunzione che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale, corrispondere a un unico modello di convivenza umana; e questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti avevano posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, perché questo corrispondesse agli interessi e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale, e questo composto era dichiarato come normativo per tutti, sulla scia del “progetto”, pubblicato nell’ottobre del 2000, del “nuovo secolo americano”. Dunque non venivano contemplati tanti possibili regimi politici, economici e sociali, corrispondenti eventualmente a diverse teorie. Ce ne sarebbe uno solo che comporta un modello umano, quello dell’individualismo liberale, un modello politico, quello della democrazia occidentale, ed un modello economico, quello del capitalismo d’impresa. Altri modelli non sono ammessi e compito degli Stati Uniti sarebbe di diffondere questo modello in tutto il mondo.

Si potrebbe dire, fin qui, che non possiamo fare obiezioni: ognuno può avere la propria visione del mondo e auspicare e operare perché si realizzi.

Una chiamata alle armi anche per noi

Il problema è però che gli Stati Uniti vogliono fare tutto questo non per conto loro, ma coinvolgendo “l’impareggiabile rete di alleanze e partnership dell’America”. Questi partners nello stabilire l’ordine del mondo sono chiamati in causa 167 volte nei due documenti del presidente Biden e del Pentagono e attraverso la NATO in questa chiamata alle armi siamo coinvolti anche noi.

Dunque la cosa ci riguarda; e da partners e alleati, e non da sudditi o “vassalli”, come ha detto Macron, dobbiamo decidere se questa è la visione del mondo che abbiamo anche noi, se questo è il mondo che vogliamo costruire e qual è la nostra idea dello “stato del mondo” in cui ci troviamo ad operare.

La supremazia americana

La premessa da cui parte Biden e su cui tutta la strategia americana è fondata, “la nostra visione nel tempo”, come egli la definisce, è che “l’era post-Guerra Fredda è definitivamente finita”. Sarebbe una buona notizia se annunziasse la fine della guerra come tale. Purtroppo invece non è così: essa sancisce solo la fine della sua modalità come “guerra fredda”, cioè come una guerra sempre minacciata e mai combattuta, con armi sempre pronte all’uso ma accumulate e tenute ferme negli arsenali. Paradossalmente invece quella che ne deriva è una guerra liberata, non più trattenuta dai rischi di uno scontro nucleare, tornata ad essere libera all’esercizio, come non lo era stata all’epoca della competizione tra I blocchi, fino alla rimozione del muro di Berlino, e poi subito era stata recuperata come necessaria, buona e giusta e persino umanitaria con la prima guerra del Golfo, già nel 1991.

La seconda premessa è che liberato dai vincoli della guerra fredda, l’ovvio modo degli Stati, anzi delle maggiori Potenze, di relazionarsi tra loro, debba essere e sia quello di “una competizione strategica per plasmare il futuro dell’ordine internazionale” e, per gli Stati Uniti, quello di “far avanzare gli interessi vitali dell’America, posizionare gli Stati Uniti per superare i concorrenti geopolitici, affrontare le sfide comuni. Non lasceremo il nostro futuro vulnerabile ai capricci di chi non condivide la nostra visione di un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, dice Biden. Dovranno essere pertanto gli Stati Uniti a vincere in questa competizione: “Essi guideranno con i nostri valori”, “nessuna nazione è meglio posizionata degli Stati Uniti per avere successo”, naturalmente col corteo dei loro seguaci, di “tutti coloro che condividono i nostri interessi”: dunque si parte vincenti e lo spazio di tempo in cui ciò deve avvenire è “il prossimo decennio”, che il documento programmatico del presidente Biden definisce come “decisivo” e che poi nella programmazione della Difesa di Lloyd Austin si estende a comprendere “due decenni” destinati peraltro a prolungarsi nei decenni successivi. Dunque è un testo sul futuro del mondo.

La sfida culminante: la Cina

Questo è il mondo come è visto nel tempo, ma come è visto nello spazio, come viene proposto al nostro sguardo (e alle nostre decisioni) di oggi? Esso è un mondo di cui una parte (peraltro minore) si identifica con la democrazia, ed è contro l’altra, quella delle autocrazie, considerate costitutivamente minacciose e aggressive.

Nel documento del ministro della Difesa Lloyd Austin, esso è considerato come “l’ambito di sicurezza” in cui deve operare l’insieme delle Forze Armate americane (Joint Force), ovvero è il mondo come gli Stati Uniti se lo immaginano e vogliono che sia. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partners; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa è aggregata al primo mondo, attraverso la NATO.

E subito, sia nel documento della Casa Bianca, sia in quello del Pentagono, vengono designati I due “competitori strategici”, quelli con cui dovrebbe disputarsi il dominio del mondo: e il maggiore non è, a sorpresa, il nemico tradizionale degli Stati Uniti, l’altra grande Potenza della seconda Guerra mondiale, la Russia, i cui “limiti strategici – sostiene Biden – sono stati messi in luce dopo la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”; ora il vero nemico è la Cina. “La Russia – dice Biden – rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”.

Pertanto è la Cina a rappresentare la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. È questa la ragione per cui il piano di pace presentato da Xi Jinping per l’Ucraina, non è stato preso in considerazione.

È singolare che mentre per la Russia Biden abbia buon gioco nell’attribuirle “una minaccia immediata al sistema internazionale libero e aperto come ha dimostrato la sua brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina”, ragione per cui essa doveva essere ridotta per punizione alla condizione di “paria” (che nel sistema indiano delle caste significa essere gettati fuori dall’umanità e dalla storia) per la Cina non c’è alcuna motivazione che sia addotta per doverla combattere, se non il fatto che essa sarebbe “l’unico concorrente che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più spesso, ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.

Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden, pochi giorni dopo, il 27 ottobre, il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, illustrava in che modo l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; esso sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”, come del resto in ogni altro conflitto che si trovino a combattere.

STUDI DI INTERESSE GENERALE. “Innovazione digitale nella campagna elettorale: il caso del microcredito in Podemos

50ee1f07-1130-46ba-a88d-8f37e86af43ePubblichiamo la presentazione dell’articolo intitolato “Digital innovation in electoral campaigns: the case of microcredit in Podemos” (tradotto “Innovazione digitale nella campagna elettorale: il caso del microcredito in Podemos) curato dai tre autori: Fabio G. Lupato, Ariel Jerez e Marco Meloni Lai). Ringraziamo in modo particolare Marco Meloni Lai, nostro collaboratore, per avercelo segnalato.
Di seguito l’abstract e le conclusioni, tradotti in italiano. Per quanti vorranno approfondire l’articolo è scaricabile integrale, in lingua inglese, come specificato più avanti.
ABSTRACT
Il crowdfunding ed altre forme di micro-donazione per il finanziamento delle campagne elettorali sono stati ampiamente studiati, soprattutto negli Stati Uniti. Tuttavia, il finanziamento partecipativo digitale in Europa, con un contesto normativo diverso che prevede il finanziamento pubblico, è stato meno analizzato. Questo articolo analizza gli effetti di uno strumento digitale di finanziamento della campagna elettorale innovativo: il microcredito.
I microcrediti consistono in piccoli “prestiti civili” che un partito politico richiede a membri e simpatizzanti per finanziare la sua campagna elettorale. Ad oggi sono stati capaci di creare fonti di finanziamento alternativo che hanno differenziato i partiti che li hanno utilizzati dai partiti più tradizionali, cambiando la struttura del finanziamento della loro campagna, ma hanno anche evidenziato diversi problemi legali (come il monitoraggio e la protezione dei dati), mostrando le difficoltà di regolamentare la digitalizzazione della politica.
Noi abbiamo studiato questo strumento e le sue conseguenze attraverso il caso del partito spagnolo Podemos – il primo ad implementarlo – nel periodo 2015-2021.
Articolo scaricabile (Open Access, in inglese) su: https://doi.org/10.1080/01442872.2023.2203479

In Italia e nel Mondo

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023

STEREOTIPI CADUTI

Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,

Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Dati drammatici
L’INVIO DELLE ARMI IN UCRAINA È STATO UN FALLIMENTO
19 APRILE 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
Invece di far diminuire le vittime l’invio delle armi in Ucraina le ha accresciute al punto tale che oggi è ufficialmente vietato dalle autorità fornire i dati. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa.

Alessandro Marescotti*
Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente
Mai come ora, dopo l’inutile strage di Bakhmut, la guerra si sta dimostrando un fallimento, per entrambi gli attori.
Su Youtube si susseguono dibattiti e approfondimenti fra esperti militari. C’è modo di documentarsi da una pluralità di fonti bucando il muro della propaganda a reti unificate. Si trova di tutto su Internet, con aggiornamenti quotidiani. Cartine digitali dell’Ucraina, mappe geolocalizzate del Donbass, dettagliate ricostruzioni dei combattimenti con l’uso dei satelliti. E poi testimonianze oculari raccolte da giornalisti freelance, inchieste di approfondimento della stampa internazionale. Dopo mesi e mesi di attenta ricerca, osservazione e verifica ho imparato a distinguere le fonti più affidabili da quelle che non lo sono.
Top secret il numero dei morti
Tantissimi elementi consentono di comprendere quello che avviene sui campi di battaglia. Possiamo conoscere giorno per giorno i movimenti delle truppe con una precisione straordinaria. I morti invece no: quelli non ce li dicono. Sono segreto militare. Né i governi occidentali li chiedono. Non li conoscono i parlamentari, i quali votano l’invio delle armi come puro atto di fede, senza alcuna possibilità di sapere se quelle armi hanno effettivamente salvato le vite umane degli aggrediti tenendo alla larga gli aggressori. Se non si hanno i dati dei morti in guerra nessuna verifica è possibile circa l’efficacia dell’invio delle armi, né si può verificare la coerenza degli effetti dell’invio delle armi rispetto ai fini auspicati in origine. Piaccia o non piaccia, anche la guerra ha una sua scienza statistica e si possono fare sofisticati calcoli prendendo come riferimento copiosi database con i dati delle vittime subite e di quelle inferte.
Il vero scopo dell’invio delle armi
Il fatto che non ci vengano comunicati i dati delle vittime la dice lunga sui veri fini della guerra e dell’invio delle armi. Che non sono più quelli di una romantica difesa della popolazione. Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente, il tutto in palese contraddizione con quanto dicono di voler fare i nostri governanti europei con l’invio delle armi.
Quello che emerge è drammaticamente evidente nell’assurdità di ciò che si è consumato a Bakhmut. Quelle armi inviate dall’Occidente sono servite per mandare allo sbaraglio e alla morte un numero impressionante e imprecisato di giovani, spesso privi di esperienza.
Lo sgomento degli esperti militari
Mai come ora gli esperti militari sono imbarazzati di fronte all’insensata serie di scelte fatte in questa lunghissima battaglia condotta alla fine per mere ragioni di immagine, senza rilevanza militare. Con effetti persino controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati e perseguiti settimana dopo settimana. Gli esperti e gli stessi militari – di ottimo livello tecnico – che partecipano a questi webinar sono stupiti e avviliti per l’insensata sequenza di scelte compiute con enormi sacrifici umani. Scelte compiute a volte varcando il labile confine che divide la ragion militare dall’idiozia. Noi pacifisti questa strage la vediamo sotto il profilo della “crudeltà”. Loro, gli esperti della guerra, la vedono sotto il profilo dell’inefficacia ai fini pratici del successo militare. Perché questa guerra è un affastellarsi di frustrazioni dall’una e dall’altra parte, con risultati attesi che non arrivano a fronte di enormi perdite umane e di mezzi.
Dall’una e dall’altra parte vengono annunciate offensive e controffensive che si traducono in avanzate di poche centinaia di metri alla settimana e in capovolgimenti militari di modesta rilevanza che le vanificano. E nel frattempo si scavano doppie e triple linee di trincee. Lo spettro che si profila è quello di una guerra infinita. Altro che difesa della popolazione civile, si raschierà il fondo andando ad arruolare vecchi barbuti e giovani imberbi per buttarli nel tritacarne.
La guerra: da medicina amara a veleno
Quello che sta accadendo è il disvelamento dell’assurdità. La guerra, proposta come medicina amara ma necessaria, si sta rivelando veleno. Dopo averla trangugiata fa morire il paziente invece di guarirlo.
C’è materia di riflessione per gli interventisti democratici che, dopo oltre un secolo dalla fine della prima guerra mondiale, ricalcano oggi pari pari gli errori di cent’anni fa. L’interventismo democratico che spaccò il fronte del socialismo pacifista europeo risorge oggi per commettere gli stessi errori, come se la storia non fosse mai stata studiata.
Elly Schlein e il “Washington Post”
Contrariamente a ciò che alcuni avevano sperato, la nuova segretaria del PD continua a sostenere le ragioni dell’invio delle armi. Lo scopo è apparentemente semplice e non sembra fare una grinza: fermare l’aggressore e proteggere l’aggredito.
Nella lettera aperta a Elly Schlein ho cercato tuttavia di fornire qualche elemento di riflessione: le ho scritto (senza ottenere ad oggi risposta) evidenziando che le armi inviate, alla lunga, non hanno fermato il massacro ma hanno illuso Zelensky della vittoria. E da questa illusione nasce la mostruosa situazione descritta dal Washington Post. Battaglioni di 500 uomini, con 100 morti e 400 feriti, rimpiazzati da ragazzi di leva che, quando possono, scappano. Tutte cose a cui occorre dare risposta perché se l’obiettivo dell’invio delle armi è quello di difendere le persone in Ucraina allora esiste un solo modo di verifica: conteggiare le vittime. Ma le vittime della guerra sono coperte dal segreto di Stato in Ucraina. Perché se ci fosse una verifica trasparente e oggettiva si vedrebbe che all’aumentare dell’invio di armi non è seguita una diminuzione delle morti ma al contrario un crescendo impressionante. Stiamo proteggendo l’aggredito o lo stiamo mandando allo sbaraglio?
I dati drammatici del “Kyiv Independent”
L’invio di armi doveva difendere i civili ma è diventata la ragione di nuovi arruolamenti forzati che avvengono rastrellando i giovani a Kiev e in altre città dell’Ucraina. Sono tantissimi i giovani che fuggono alla leva e che stanno diventando renitenti. Se ne parla poco ma il problema c’è, ed è vasto
Qualcuno dirà che quei giovani servono a difendere altri civili indifesi. La verità è un’altra. Vengono impiegati in missioni suicide simili a quelle che ordinava il generale Cadorna nella prima guerra mondiale. Ecco qui qualche sprazzo di questa lucida follia. “Il battaglione è arrivato a metà dicembre… tra tutti i plotoni eravamo 500”, racconta Borys, un medico militare della regione di Odessa che combatte intorno a Bakhmut. “Un mese fa eravamo letteralmente 150”, confessa a The Kyiv Independent. “Quando si va in posizione, non c’è nemmeno il 50% di possibilità di uscirne vivi”, afferma un altro soldato. È più un 30/70″.
Capovolgere la narrazione
Più si fa ricerca e più si scopre che la narrazione della guerra si discosta dalla realtà della stessa. E la contraddice.
E’ pertanto il momento di rivendicare orgogliosi la nostra scelta di pacifisti. Occorre capovolgere la narrazione della guerra come scelta dolorosa ma necessaria, perché quella narrazione oggi non regge più alle dure smentite dell’evidenza. Siamo nel pieno di una “battle of narrative”, e la Nato presta molta attenzione allo storytelling della guerra.
La giusta “guerra di difesa”, la retorica dell’aggressore e dell’aggredito, tutto sta saltando perché la guerra diventa pluriennale, rischia di diventare come la prima guerra mondiale. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa e spiace vedere gente intelligente, che ha scritto libri, perdersi di brutto pensando per di più di indicare la strada agli altri.
Persino Luttwak è sconfortato dallo stallo militare e ha parlato di referendum nelle zone di guerra per uscire dal pantano. Ci hanno illuso che bastassero poche settimane di sanzioni per far collassare economicamente la Russia e l’invio delle armi doveva servire il tempo necessario ad aspettare che arrivasse l’effetto delle sanzioni. Non è stato così.
La tenuta militare della Russia
La Russia – basta studiare, ricercare e approfondire i dati – ha armi, uomini, consenso e risorse economiche per continuare per molto tempo. Ha dimostrato una resilienza notevole. Il resto è propaganda per convincerci che Putin si può scalzare e che un altro invio di armi o altre sanzioni possano fare la differenza. L’unica differenza è se entrano in campo gli F-16 o i missili a lungo raggio per colpire la Crimea o le basi nel territorio della Russia. Ma in questo caso andiamo dritti verso lo scontro nucleare. Dunque la guerra contro la Russia non può essere vinta. E va chiusa al più presto perché non ha senso mandare al massacro altri soldati per non ottenere alcun risultato, tanti costi per zero benefici. I militari lo dicono, lo dice lo stesso generale Milley, capo del Pentagono.
Gli anarchici interventisti
Per concludere, un cenno a chi – di fronte all’aggressione russa verso l’Ucraina – ha sentito sinceramente intollerabile la situazione fino al punto di rinnegare i propri principi pacifisti pur di salvare gli aggrediti.
Di fronte alla prima guerra mondiale, oltre alla fine dell’internazionale socialista, si verificò un’altra crisi interna ad un fronte che tradizionalmente era contro gli eserciti: gli anarchici. La Germania invase il Belgio neutrale e lo devastò brutalmente. Lo definirono “lo stupro del Belgio”. La cosa scosse chi credeva nella neutralità. Fu così che Pëtr Kropotkin e altri 15 intellettuali anarchici si espressero a favore della guerra contro la Germania, sostenendo che la Germania rappresentava una minaccia per la libertà e la democrazia, e che l’intervento alleato sarebbe stato giustificato per difendere l’Europa dal militarismo tedesco. Fu criticato dall’anarchico italiano Errico Malatesta.
Quante similitudini!
Kropotkin poi si pentì. Ma ormai era troppo tardi.

* Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
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Eventi segnalati
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna

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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Dibattito

457b1c0e-0091-4ca4-8afe-bceebaf7a649I cattolici democratici e la nuova sinistra
15 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
di Silvio Minnetti*

Che succede in Israele e Palestina? La situazione volge al peggio. Tuttavia s’intravede qualche segnale positivo.

    bb3bf13b-a1c0-4fd5-9346-8f5b63f22861Israele e Palestina
    di Franco Meloni
    «Per il popolo palestinese non c’è fine al dolore, all’oppressione, al sacrificio, alla negazione della libertà e dell’indipendenza, ma solo muri, divieti, repressione e segregazione che dura dal 1967. #FreePalestine». Non sono certo un fan di Beppe Grillo e neppure appartengo al Movimento 5 Stelle da lui fondato, ma devo dire che condivido totalmente questo tweet da lui scritto il 7 aprile scorso e riportato sul suo blog, a commento di un articolo, che pure ho apprezzato, scritto da Torquato Cardilli, dal titolo “Sacrilegio e orrore in Terrasanta”, sugli episodi di violenza perpetuati dalla polizia e dall’esercito israeliano nei confronti di fedeli musulmani che pregavano nella “spianata delle moschee”.
    Il tweet è stato pubblicato poche ore prima dell’attentato terroristico di Tel Aviv in cui ha perso la vita il giovane avvocato italiano Alessandro Parini. Fino a quel momento i commenti al tweet di Grillo erano stati del tutto positivi, a sostegno della causa palestinese. Dopo hanno prevalso commenti di dileggio e insulto nei confronti di Grillo.

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    Noi non abbiamo avuto nessuna esitazione a condannare duramente l’atto di terrorismo che ha ucciso Alessandro Parini, sempre che di questo si sia trattato (come nella versione delle autorità israeliane). Ma questo esecrabile episodio, come pure i lanci dei razzi da Gaza, non cancellano le pesanti responsabilità del Governo israeliano che alimenta un clima di violenza, prima causa degli episodi di terrorismo destinati a ripetersi, come prevede la gran parte dei commentatori politici internazionali.
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    In questo quadro di disperazione, spunta tuttavia qualche segno positivo, a cui vogliamo aggrapparci. Ci riferiamo alla notizia del calo di consensi del capo del governo israeliano Netanyahu e, ancor più al

    Sondaggio Gallup a favore dei palestinesi – La prima volta nella storia!

    Un blog di un movimento internazionale pro Palestina ci informa che ai primi di marzo, Gallup, una delle più grandi organizzazioni di sondaggi di opinione pubblica al mondo, ha reso noto un’indagine sulle “simpatie in Medio Oriente”, secondo cui il 49% dei democratici statunitensi ha espresso le proprie simpatie per i palestinesi, a fronte dell’oltre 38% per gli israeliani [la prima volta nella storia del sondaggio con un risultato a favore dei palestinesi]: “Guardando a tutti gli adulti statunitensi, indipendentemente dall’affiliazione partitica, il divario tra la preferenza verso Israele e la Palestina è il più stretto da quando sono iniziati i sondaggi sulla questione”. Al sondaggio Gallup nello stesso periodo se n’ è aggiunto un altro del Pew Research Center che ha mostrato che “più americani condividevano opinioni favorevoli che sfavorevoli sugli ebrei”. Come ha sottolineato lo scrittore e analista politico palestinese-americano Yousef Munayyer in un recente Tweet.
    Scorrendo i dati degli ultimi dieci anni, Munayyer ci avverte che gli atteggiamenti democratici nei confronti degli ebrei sono rimasti relativamente fermi, mentre le loro simpatie per i palestinesi sono aumentate. Questi due sondaggi (Gallup e Pew) presi insieme sono significativi perché offrono prove concrete che “simpatizzare con la situazione palestinese sotto l’oppressione delle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di Israele non dovrebbe avere nulla a che fare con l’atteggiamento della gente nei confronti degli ebrei o di qualsiasi gruppo”.
    Secondo il citato movimento pro Palestina, questo significa che “il mondo sta prendendo coscienza del fatto che il sostegno ai palestinesi e le critiche a Israele non hanno nulla a che fare con il proprio atteggiamento nei confronti del popolo ebraico”. Si dirà: si tratta di un sondaggio che riguarda solo gli USA. Ma tutti sappiamo quanto contano gli USA per Israele, se solo pensiamo al flusso di aiuti americani che beneficiano Israele e che potrebbero rischiare un ridimensionamento!
    Cogliamo allora questi segnali positivamente, enfatizzandoli, perché vanno nella direzione giusta, da noi auspicata in sintonia con i movimenti pacifisti e di impegno sociale di cui parlava anche il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, in uno dei suoi illuminanti interventi che tra i tanti abbiamo ripreso nella nostra News.
    Torneremo sulla questione, per opportuni approfondimenti, come nei nostri programmi.
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    - Nella foto in testa l’ingresso al campo profughi Aida di Betlemme (dicembre 2022).
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    politica-internazionale-correttto-copiarocca-8-del-15-apr-2023
    Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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    Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
    firme-appello-palestina
    e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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    palestina-02
    APPELLO URGENTE
    ALLE CHIESE
    DI TUTTO IL MONDO

    UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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    politica-internazionale-correttto-copia
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    avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
    Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
    L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
    ———————————————–
    L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
    Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
    Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
    —————————————-
    f23ce055-7b07-470f-80aa-a68917feb7f1Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
    3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
    La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
    Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
    - David Grossman.
    ————————————
    Un sabato santo pieno di tensioni. Colloquio con il patriarca latino di Gerusalemme mons. Pierbattista Pizzaballa. Su formiche.net:
    https://formiche.net/2023/04/conflitto-medio-oriente-patriarca-latino-gerusalemme/
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    ———Eventi segnalati————————-
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    ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
    L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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    5c534135-1dfc-40db-9176-9fe11577a596
    ———————13 aprile 2023
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Israele e Palestina

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Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci leganoo consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
firme-appello-palestina
e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO

UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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f23ce055-7b07-470f-80aa-a68917feb7f1Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.

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———Eventi segnalati————————-
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ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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4 aprile 2023 – Giornata Internazionale contro le mine

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La Pace è possibile? Incontro dibattito a Iglesias con Marco Tarquinio

32f34d44-b83b-4659-b638-b38592f5a718 Diocesi di Iglesias, Parrocchia Cuore Immacolato di Maria
e Settimanale Diocesano Sulcis Iglesiente Oggi

COMUNICATO STAMPA
per incontro pubblico con Marco Tarquinio
Direttore del quotidiano Avvenire

L’economia durante e dopo la pandemia.

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di Roberta Carlini su Rocca

Non c’è bisogno di aspettare l’autunno per vedere gli effetti della crisi economica da coronavirus. Una recessione senza precedenti e senza risposte già scritte. Senza precedenti, poiché è la prima volta che tutte le economie capitalistiche sperimentano lo stesso choc, dovuto prima alla chiusura forzata di gran parte delle attività economiche e sociali e poi all’impatto della pandemia su settori cruciali dell’economia globalizzata: le esportazioni; il turismo e i servizi della ristorazione; l’industria culturale; e, a cascata, tutta l’economia per il conseguente calo della domanda e dell’offerta.
Dunque uno choc combinato, dal lato della produzione e dal lato del consumo. Senza risposte scritte, poiché le ricette tradizionali della politica economica erano basate sulla possibilità di reagire a choc ciclici e localizzati, non a uno choc globale; e perché anche gli strumenti di intervento pubblico, a cui tutti i governi, di qualsiasi orientamento
politico, stanno facendo ricorso, sono basati su una «normalità» che non c’è più. Basti pensare alla nostra cassa integrazione, per l’occasione usata e allargata a coprire tutti i settori prima scoperti: è una forma di assicurazione che le stesse imprese pagano, per tenere «fuori» i lavoratori senza licenziarli nell’attesa di una ripresa o di una ristrutturazione: ma che fare se un intero settore è congelato, come il turismo, e non si sa se e come potrà ripartire? Anche la politica dovrà pensare strumenti senza precedenti – e per farlo, con tutte le sue difficoltà e debolezze, dovrà partire dalla consapevolezza dei più urgenti e gravi problemi che si aprono.
Mentre nella fase dell’emergenza sanitaria misure drastiche e uguali per tutti – come il lockdown, come la cassa integrazione, come gli strumenti di sostegno al reddito – erano generali e non facevano molte distinzioni, adesso si cominciano a vedere le diseguaglianze che la crisi ha aperto o esacerbato.
Dunque la politica economica dovrà scegliere: cosa molto difficile se non impossibile per governi come quello italiano strutturalmente deboli e bisognosi di consenso. Chi ha più bisogno spesso non è chi si fa sentire di più o chi porta più voti. Ma proprio per questo è bene vedere, sin dai primi dati sugli effetti della crisi, quali sono le maggiori vulnerabilità; in quali divari la società italiana rischia di sprofondare e rompersi.

choc sul lavoro
La portata mondiale dello choc sul lavoro è stata riassunta dall’Ocse in pochi numeri, nel suo rapporto «Employment Outlook 2020». Gli scenari sono incerti, poiché dipendono dall’eventualità che ci sia o no una seconda ondata del virus in autunno forte come o più della prima. Ma in quello più «ottimistico» nel 2020 la disoccupazione nei trentasette Paesi Ocse sarà quasi raddoppiata, dal 5,3% del 2019 al 10%. Il prodotto interno scenderà, mediamente, del 6%. A pagarne il prezzo sono e saranno soprattutto i lavoratori che già erano nella scala più bassa delle retribuzioni:
secondo lo studio Ocse, i lavoratori che guadagnano di più avranno il 50% di probabilità in più di continuare a lavorare.
Mentre quelli a basso reddito, oltre a stare in settori che sono più esposti al virus, sono stati e sono anche più esposti alla perdita di lavoro. Questo riguarda soprattutto le mansioni più basse nei servizi alla persona e nel turismo, ma non solo.
Basta guardare dai dati Istat la fotografia italiana: tra marzo e maggio del 2020 gli occupati totali sono scesi di 381mila unità. Tra questi, i lavoratori dipendenti a tempo determinato hanno pagato il prezzo più alto: meno 318.000. Gli indipendenti sono scesi di 89.000 unità. I lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono saliti, sia pur di poco (più 27.000). Questa dinamica si spiega facilmente: il governo con i decreti d’emergenza ha bloccato i licenziamenti dei dipendenti permanenti. Ma le imprese non hanno rinnovato i contratti in scadenza ai lavoratori a termine, mentre gli indipendenti le cui attività hanno chiuso sono entrati nell’inattività o nella ricerca di altro lavoro. Dunque questa fotografia da un lato ci dice che i numeri che vediamo nella riduzione del tasso di occupazione e nell’aumento del tasso di disoccupazione sono solo una parte dell’iceberg, poiché molti lavoratori formalmente occupati sono collocati in una cassa integrazione dalla quale non sanno se rientreranno effettivamente al lavoro; dall’altro ci mostra un mondo del lavoro ancora una volta diviso tra più garantiti e meno garantiti, oppure più o meno sfortunati.

la generazione corona
Tra i più sfortunati, ossia i lavoratori a termine e precari, sono sovra-rappresentati donne e giovani. Anche questo è un dato comune a tutto il mondo, non solo italiano, tant’è che l’Ocse leva un grido d’allarme per la «corona class» (la «generazione corona»), i ragazzi che escono adesso da scuola e università e si trovano in un mondo del lavoro
chiuso e senza sbocchi. E dedica una attenzione particolare anche all’occupazione femminile, più frequente nei settori chiusi dal lockdown e non ancora del tutto riaperti.
Non si tratta di effetti scontati di qualsiasi crisi. La recessione del 2008-2009, per esempio, aveva colpito più gli uomini che le donne, essendo concentrata soprattutto sulla finanza, sulle costruzioni e poi sull’industria
tradizionale. Anche in quel caso, però, c’era stata una generazione-cuscinetto a prendersene i colpi maggiori, i più giovani. Gli attuali trentenni hanno avuto il non invidiabile primato di entrare nel mondo del lavoro con la grande recessione da subprime e poi, una volta riassestati, prendersi in faccia l’ondata del coronavirus.

nuovi scenari del telelavoro
A questa grande frattura se ne aggiunge un’altra, tra il lavoro che, grazie alla grande spinta in avanti della digitalizzazione portata dal Covid 19, potrà continuare «a distanza», e quello che ha bisogno di presenza fisica. Il passaggio al telelavoro (come l’Ocse, più correttamente, definisce quello che noi chiamiamo «smart working») ha
interessato circa 4 lavoratori su 10 nel mondo industrializzato. Questo fenomeno apre scenari nuovissimi – cosa saranno le nostre città, senza i «luoghi» centrali del lavoro impiegatizio? Come regolare i contratti dei telelavoratori? Come ripensare l’abitare, se la casa diventa il luogo del lavoro? E, ancora una volta, spacca il mondo del lavoro a metà, tra quelli che possono lavorare davanti a uno schermo e quelli che devono metterci le mani, il corpo, la faccia.

unire ciò che la crisi ha diviso
Tutte queste divisioni stanno alimentando una frattura sociale, che sarebbe irresponsabile manovrare per mettere i lavoratori l’uno contro l’altro. Ma bisogna tenerle in mente: per esempio, sapere che la grande discussione aperta in Italia sulla proroga del divieto di licenziare e sull’allungamento della cassa integrazione, forse fino a fine anno, è essenziale per tantissimi lavoratori ma non riguarda e non tutela affatto quelli che già sono senza tutele. Non è prendendosela con gli «statali» che possono lavorare da casa che le addette alle pulizie negli alberghi riprenderanno il loro stipendio. Ma certo, nel mettere mano agli strumenti tradizionali si dovrà trovare il modo di coprire anche chi il lavoro lo ha già perso e chi, affacciandosi per la prima volta sul mercato del lavoro, si trova davanti a un muro o a offerte di salari poverissime. Per i sindacati, il problema è unire quel che la crisi ha diviso. Per la politica, è guardare alle differenze reali nel mondo del lavoro e correre ai ripari con strumenti nuovi, evitando gli aiuti a pioggia che possono andare a beneficiare anche chi dalla crisi non è stato colpito o è stato colpito in misura minore. Ma questa è solo una parte dell’intervento, quella che va sotto il capitolo del sostegno al reddito e ai bisogni più
urgenti. L’altra parte, non meno importante ma distinta, è investire per trasformare l’assistenza in lavoro. Per una volta, il problema principale non sono i soldi – dato che c’è un generale allentamento del vincolo a far debito per aiutare l’economia – ma spenderli bene, per evitare che in futuro questi debiti gravino anch’essi sulle spalle dei più deboli.
Roberta Carlini.

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Europa_Bandiera_EuropeaRiprendiamo con convinzione il cammino europeo.
di Vanni Tola
Grande accordo nell’Unione Europea. Un grande passo avanti per cambiare, per tornare a crescere ma, soprattutto, una occasione d’oro per mettere fuorigioco per sempre i nazionalismi e gli antieuropeismi. Un’occasione per riprendere con coraggio il progetto dell’Europa unita, per realizzare una federazione di Stati Europei, il sogno dei Padri fondatori dell’Europeismo. Un obiettivo impegnativo, un grande balzo in avanti, il riappropriarsi di un’idea di Europa innovativa. Il cambiamento deve partire da ciascuno di noi, dalla ricerca puntigliosa di ciò che unisce piuttosto di ciò che divide, dalla consapevolezza che i singoli stati, da soli, non rappresentano nulla e non hanno grandi prospettive economiche e prospettiva politica nel mondo che cambia. Proviamo, con la forza dell’intelligenza e della buona volontà a realizzare una nuova Europa, per noi, per i nostri giovani.(V.T.)

America, America

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DONALD TRUMP E IL CAOS
di Marino de Medici*

La carta che Donald Trump ha deciso di giocare per impedire la vittoria democratica a Novembre è una sola: il caos. E’ ormai chiaro infatti che l’intento del presidente repubblicano è di rendere impossibile una pacifica transizione del potere, generando un’incontrollabile agitazione civile e per l’appunto il caos politico, qualora dovesse perdere le elezioni. In tal caso, vale il suo grido di battaglia: “facciamola finita con la democrazia!”. Il preludio della guerra di Trump contro le istituzioni democratiche è ormai strettamente associato al costante messaggio che egli emana: “le elezioni sono una frode”. Lo va ripetendo con crescente intensità. Il messaggio più recente giunge a questo estremo: “In conseguenza delle schede inviate per posta, l’elezione del 2020 sarà la più truccata nella storia della nazione – a meno che non venga arrestato
un corso così stupido. Abbiamo votato durante la prima guerra mondiale e la seconda guerra mondiale senza problema, ma ora stanno servendosi del Covid al fine di truffare con il voto postale”. Senza il minimo ritegno, il presidente si è spinto fino a sostenere che le schede per il voto postale “già vengono stampate in Paesi stranieri”.
Più chiaro di così il presidente non potrebbe essere: se non dovesse vincere, sarà una frode, perpretata con il voto postale.

I fatti dimostrano che il voto postale non è un’invenzione recente dei democratici ma un metodo di voto che gli stessi repubblicani hanno usato in precedenti elezioni con risultati a loro favorevoli in certi casi. L’accanimento di Trump contro il voto postale è legato ad un altro fatto, che entrambi i partiti hanno investito ingenti risorse
nello sforzo diretto a far votare per posta il maggior numero possibile di cittadini per una giustificabile salvaguardia contro il flagello della pandemia. La strategia di Trump è un’altra: quella di preparare il terreno ad una serie di denunce e ricorsi alla magistratura come base del suo rifiuto di accettare una sconfitta elettorale.
Trump spera in uno o più eventi in cui il conteggio a lui favorevole dei suffragi espressi alle urne dovesse essere rovesciato al termine dello spoglio dei voti pervenuti per posta.

Si può purtroppo immaginare un film dell’orrore, quello di un’interminabile notte elettorale in cui i cittadini americani apprendono dalla televisione l’esito della consultazione in uno stato per poi essere trascinati nel dubbio dalla rimonta dei voti postali.
La democrazia impone che il conteggio dei voti sia scrupoloso ma anche che sia rapido.
E’ un fatto comunque che in diverse occasioni le autorità elettorali hanno dovuto sospendere l’annuncio dei risultati in attesa che venissero conteggiati i voti espressi per corrispondenza. In pratica, la democrazia ammette la possibilità di un ritardo nell’annuncio dell’esito elettorale ma è prevedibile che Trump sfrutterà il ritardo come prova di una frode, o addirittura di una congiura in atto. Il caos è l’obiettivo del presidente nel caso in cui gli exit polls dovessero segnalare la vittoria di Joe Biden.

Un altro aspetto strumentale della strategia del caos è quello della “suppression” del voto democratico, attraverso una serie di maligni artifizi che vanno dalle “purghe” dei registri elettorali all’imposizione di condizioni perverse come quelle degli stati
repubblicani che obbligano l’elettore a presentare un documento di identità con fotografia, approvato dall’autorita’ del luogo. Questi ed altri impedimenti alla democrazia rappresentativa non salveranno la presidenza Trump ma dovranno fornire lo spunto alla prossima aministrazione ed al Congresso per regolamentare un processo elettorale moderno ma tale da assicurare il pieno esercizio del diritto di voto per classi come quelle degli afro-americani e di gente di colore che da tempo immemorabile si sono trovate escluse in forza di norme come l’odiosa “poll tax” negli stati del sud o i documenti con foto e la prova di residenza dei giorni nostri.

In una panorama catastrofico come quello del mancato riconoscimento della potenza distruttiva del coronavirus prima e della sciagurata riapertura dopo (basti segnalare che i casi di infezione sono aumentati in misura pari a quelli registrati a Marzo), la sensazione dominante in una massa di americani è che l’America ha perso completamente il ruolo di leader mondiale. Non solo gli Stati Uniti hanno fallito nel compito di portare sotto controllo la pandemia al momento del suo insorgere, ma dopo aver registrato una crisi di pubblica sanità incomprensibile in un Paese scientificamente avanzato, hanno ripetuto ed aggravato il fallimento delle misure sanitarie. Il “genio stabile” che Trump si è pubblicamente vantato di essere ha ignorato le raccomandazioni degli esperti, pur avendo accesso a straordinarie risorse mediche e finanziarie, tali da far fronte alla pandemia. Il coronavirus che ha prostrato l’America non è il prodotto di una congiura democratica per cacciare Trump dalla Casa Bianca ma della sua assoluta incompetenza e del rifiuto della scienza.

L’ultima definitiva prova della insensibilità di Donald Trump dinanzi alla scandalosa deficienza della “public health” negli Stati Uniti è fornita dal ricorso della sua amministrazione alla Corte Suprema con la richiesta di annullamento della legge sanitaria conosciuta come Obamacare, che un giudice trumpista del Texas ha definito “anti-costituzionale”. La perdita dei benefici di Obamacare colpirebbe non meno di 23 milioni di americani che hanno perso il lavoro, e quindi la copertura assicurativa. In termini umani, la crociata anti-Obama
– una perdurante ossessione del presidente – nel bel mezzo di una pandemia che finora ha ucciso 130.000 americani – è “un atto di impenetrabile crudeltà”, come l’ha definito lo Speaker della Camera Nancy Pelosi. Ma il vero scandalo, che presumibilmente i democratici sfrutteranno a fondo nelle battute finali del dibattito elettorale, è l’ipocrisia di Trump nell’assicurare che Obamacare sarà rimpiazzata da “un’alternativa altamente migliore e molto meno costosa”. Di fatto, in tre anni di governo, l’Amministrazione Trump non ha introdotto ne’ proposto una simile “alternativa”. Nel quadro elettorale, torneranno certamente a farsi sentire le preoccupazioni per l’assistenza sanitaria di gran parte dell’elettorato che contribuirono in misura sostanziale alla vittoria dei democratici nelle elezioni per la Camera del 2018.

Molto lascia pensare che la contesa elettorale verrà decisa dal danno economico che l’America ha patito e continua a patire in conseguenza della pessima gestione sanitaria e dell’incapacità del presidente di dare fiducia ad una nazione sconvolta da una crisi mostruosa. Per tutta risposta, il presidente repubblicano ha tagliato i fondi per il “testing” ed ha propagato accuse di “complotti” che rispondono alla sua strategia di “guerra culturale” volta a dividere gli americani e a promuovere il “culto” di Donald Trump. Se verrà il caos, secondo Trump ed il suo vice Mike Pence sarà colpa della stampa che mira ad “infondere paura” tra gli americani. Da notare infine che lo stesso
Pence, come del resto il presidente, ha evitato di consigliare l’uso delle mascherine ma ha suggerito che gli americani seguano le istruzioni degli stati in merito alle “coperture facciali”. Il mediocre evangelico vice di Trump ha concluso con un appello: “continuate a pregare”. All’America insomma non resta che pregare perché non venga il caos predisposto da Donald Trump.
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usa-e-getta
LE DONNE E I GIOVANI ARBITRI DEL VOTO

Le donne e i giovani sono le due ruote del lotto elettorale americano dal quale uscirà il nome del prossimo presidente degli Stati Uniti. Le previsioni sono sempre una scommessa che riposa su una gamma di sondaggi che in realtà rappresentano uno “snap shot”, una foto del momento. Al momento, se si considera lo “snap shot” di questa fase elettorale, Donald Trump è avviato ad una sonora sconfitta e il partito repubblicano alla perdita della maggioranza al Senato.

Cominciamo dalle donne e dalla previsione che voteranno a favore del candidato democratico Biden in misura maggiore rispetto al loro voto per Hillary Clinton nel 2016.
La forte condanna della stravolgente presidenza Trump è ormai associata al doloroso impatto del coronavirus, aggravato dagli errori dell’amministrazione all’insorgere della pandemia. Il “gender gap”, ossia il divario di genere che ha proiettato le donne verso le posizioni democratiche è risultato decisivo nelle elezioni congressuali del 2018 che hanno portato alla Camera dei Rappresentanti un numero record di donne, 117 contro le 89 della precedente legislatura. Nelle elezioni presidenziali del 2016 Hillary conquistò la maggioranza del voto femminile ma non nella proporzione necessaria per strappare il voto del Collegio Elettorale negli stati chiave, dove Trump prevalse grazie al voto degli uomini bianchi. Questa volta la musica è cambiata. Ad esempio, nel Wisconsin, la più inaspettata vittoria di Trump nel 2016, le donne votarono per Hillary con un margine di dieci punti (53 contro 43 per cento). Il rilevamento demoscopico di questi giorni nel Wisconsin conferisce a Biden un vantaggio di 20 punti tra le donne (55 contro 33 per cento) che in presenza di un voto costante per Trump tra gli uomini (55 per cento) dovrebbe conferire a Biden un margine di vantaggio del 3 per cento nello stato. Analoghi sondaggi registrano un netto vantaggio di Biden in taluni stati chiave per il Collegio Elettorale, tra cui la Pennsylvania, il Michigan e la Florida. In quest’ultimo stato Biden è appoggiato dal 51 per cento delle donne rispetto al 38 per cento a favore di Trump.

Nel quadro del voto femminile va fatta una distinzione, che di fatto Trump raccolse la maggioranza dei suffragi delle cosidette “working women” bianche, con un margine del 27 per cento. Le donne che lavorano non hanno un titolo di studio superiore. Il vantaggio in quella categoria si è ridotto ora, stando ai sondaggi, a 6 punti. Se questo dato dovesse essere confermato a Novembre, si tradurrebbe per Trump in una perdita di 2 punti del voto popolare suggellando la sua sconfitta elettorale.
Nel 2016 infatti Trump strappò la maggioranza del Collegio Elettorale con il 46 per cento del voto popolare. Con il 44 per cento non sarà possibile.

La macchina elettorale di Trump sta lavorando intensamente per recuperare il voto delle cosiddette “downshifters”, le donne che avevano votato per lui nel 2016 ma avevano poi abbandonato i candidati repubblicani nel 2018. Ma anche questa è una missione impossibile perchè le donne che lavorano sono quelle che hanno più sofferto dalla pandemia e dalla drammatica contrazione economica che tra l’altro ha sottratto loro i mezzi per pagare gli asili nido. Un’altra importante differenza emersa è che mentre il 59 per cento degli uomini bianchi senza laurea si pronunciano a favore del rilancio dell’economia rispetto allo sforzo di contenimento del virus, il 57 per cento delle donne che lavorano invocano la neutralizzazione del virus anche al costo di una sofferenza economica. I demografi confermano che sarà pressocchè impossibile per Trump far leva sul voto femminile in quanto le donne sono “stanche” della sua presidenza. Con Trump – osservano – le donne avevano provato “qualcosa di nuovo” ma ora sanno che il presidente repubblicano è “uno che non unisce ma divide”. In conclusione, le donne non rappresentano un blocco monolitico ne’ votano necessariamente in base alle priorità feminili, ma negli ultimi tre anni hanno preso parte attiva alla vita politica, in ragione del 29 per cento in più rispetto al passato, dovuto soprattutto al concorso della generazione dei “millennials” e delle donne appartenenti a minoranze. Un ultimo fattore che sospinge il voto femminile per i democratici è l’impegno assunto da Biden di scegliere una donna per la candidatura vicepresidenziale. L’effetto sarà tanto più rilevante se dovesse trattarsi di una donna di colore, un ulteriore forte incentivo al voto degli afro-americani.

Negli Stati Uniti, i giovani votano in misura nettamente inferiore rispetto alle maggiori età e sono meno propensi ad affiliarsi ad un partito politico. Ma le cose vanno cambiando anche per la generazione dei “millennials” e per la cosidetta “generazione Z”, quella dei nati tra il 1995 ed il 2015. Sono noti come “zoomers”, in pratica i nipoti dei famosi “boomers”. La peculiarità distintiva di queste nuove categorie di elettori è che sono nella maggior parte indipendenti, ne’ democratici ne’ repubblicani, portati a votare in base alle loro preferenze politiche oppure ai valori dei candidati in lizza. Un’indagine demoscopica tra gli elettori di età compresa tra i 17 e i 35 anni ha accertato
che il 35 per cento si classifica democratico, il 24 per cento repubblicano e il 37 per cento indipendente. Tra coloro che ancora non si sono iscritti nelle liste elettorali, la grande maggioranza – il 72 per cento – si definisce indipendente.
In generale, i giovani elettori appaiono bene informati ma alieni da una identificazione partitica. Di fatto, molti di loro professano una forte dose di scetticismo nei confronti del partito democratico e dei suoi leader. Quelli che si definiscono conservatori rifuggono da una identificazione con il partito repubblicano, e dissentono in particolare dai capisaldi della piattaforma repubblicana in materia di politiche sociali e del clima. Un altro aspetto che li contraddistingue è il fardello di debiti che li opprime in confronto al minor debito personale delle precedenti generazioni. La recessione economica generata dalla crisi del coronavirus ha accentuato la protesta dei giovani contro la diseguaglianza economica e le politiche sociali dell’amministrazione Trump, che per quanto abbia lievitato il mercato azionario, non ha accresciuto il reddito e la ricchezza della classe media.

Altrettanto cruciale ai termini delle preferenze dei giovani è il fatto che nella recrudescenza della pandemia sono i giovani a farne maggiormente le spese. I casi di coronavirus sono drammaticamente aumentati in 40 dei 50 stati americani e quattro stati in particolare – Arizona, Florida, California e Texas – hanno registrato un alto numero di infezioni tra le giovani generazioni. In ultima analisi, il comportamento dei giovani elettori non può che essere ricondotto all’impatto che su di essi ha avuto e sta avendo il “trumpismo”, un cocktail incendiario di populismo economico, nazionalismo anti-immigrazione ed isolazionismo alla fasulla insegna del MAGA (Make America Great Again). Nell’elezione midterm del 2018 ha votato il 22 per cento degli aventi diritto al voto tra i 18 e i 24 anni e il 30 per cento tra i 25 e i 29. L’affluenza sarà certamente più alta a Novembre anche perchè i giovani sono più portati a votare in una consultazione presidenziale. Non meno importante è il dato che gli elettori tra i 18 e i 29 anni appartengono all’unico gruppo demografico che ha accresciuto la sua
affluenza alle urne nell’arco di tempo tra il 2012 e il 2016. Tutti i rilevamenti demoscopici recentemente condotti pronosticano un’affluenza alle urne ancor maggiore, accompagnata ad un crescente livello di entusiasmo. Altrettanto interessante è la scoperta che il 54 per cento di coloro che seguono la campana elettorale sui “social media” ed offline si dichiara “estremamente propenso” a votare. E’ quindi prevedibile che il voto dei giovani in questo rilevante segmento di elettori che si affidano al telefono e al laptop anzichè alla televisione via cavo, peserà a favore dei candidati democratici alla Casa Bianca e Senato.

I giovani sono influenzati da preoccupazioni sociali ed economiche che vanno dal pesante debito contratto per gli studi universitari alle scarse opportunità di avanzamento socio-economico. Le adunate di giovani, bianchi e di razza mista, che sono scesi nelle piazze per le dimostrazioni del “Black Lives Matter” rappresentano un importante indicatore di sostegno delle candidature democratiche. I giovani tra i 18 e i 35 anni costituivano un settore non sfruttato dell’elettorato americano. Oggi, una percentuale in deciso aumento di giovani elettori è avviata a far valere le sue ragioni nella consultazione presidenziale e senatoriale. Sono infatti in palio 35 seggi senatoriali su 100 e i democratici puntano a guadagnarne quattro (senza perderne alcuno) per conquistare una maggioranza che cambierebbe il corso della politica americana dopo la rovinosa parentesi della presidenza Trump. In conclusione, donne e giovani forniranno il margine di successo di Joe Biden per il ritorno ad una amministrazione “normale”.

Gli americani di età superiore ai 65 anni sono di gran lunga i votanti più affidabili, con un’affluenza alle urne del 58 per cento nel 2014 e del 73 per cento nel 2016.

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marino-de-medici-f*Marino de Medici

USA. Trump: una presidenza che sta scivolando verso la disperazione

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usa-sanita-marino-e-giovanni La battaglia delle mascherine .
marino-de-medici-fdi Marino de Medici.
L’America è spaccata a metà su una molteplicità di fronti che riconducono alla battaglia elettorale, che sarà decisa – convengono praticamente tutti gli osservatori – dal decorso della pandemia e dell’economia. Il contrasto più sconcertante è quello sulle mascherine di protezione. Una massa di americani si è sollevata contro le disposizioni statali e cittadine che impongono l’uso delle mascherine come se queste fossero un’imposizione tirannica invece che misure di controllo consigliate dalla scienza contro il coronavirus. Sono molti gli esercizi commerciali che violano deliberatamente le restrizioni precauzionali mentre vaste ammucchiate di festaioli di molti stati, dall’Arizona alla Florida, ignorano completamente le regole che impongono il distanziamento. Altri ancora, e non sono pochi, si sono semplicemente stancati di osservare le precauzioni prescritte da amministratori e autorità sanitarie.

L’America assiste allo sconcertante confronto tra stati sulle due coste, dove la Florida non impone l’impiego delle mascherine mentre nella California sono obbligatorie. In pratica, la pandemia è un altro campo in cui gli americani
sono divisi a motivo delle loro ideologie e simpatie politiche. Per alcuni la mascherina è sinonimo di accettazione di un dovere pubblico e della disponibilità ad accettare il sacrificio individuale per il bene pubblico. Per altri,le mascherine rappresentano l’ennesimo tentativo di espansione del potere federale ed una violazione delle libertà personali. Il presidente Trump ha incoraggiato la politicizzazione del confronto, con il chiaro intento di fomentare accesi contrasti e divisioni che egli spera possano ricreare il clima che lo portò sorprendentemente alla Casa Bianca.

Entro un paio di settimane, intanto, sapremo se il comizio all’aperto a Tulsa, cui sono intervenute poche migliaia di sostenitori invece dell’adunata che il presidente si aspettava, sia stato un disastro per la pubblica sanità oppure uno stimolo per la rielezione. In parole povere, Trump ha fatto una scommessa usando come posta le vite dei suoi fedelissimi. Gli osservatori possono scommettere a loro volta che Trump punterà ancora su oceanici comizi alla barba dei dati che registrano una crescente percentuale di contagi. Il comizio di Tulsa è stato un grosso errore anche perchè la macchina elettorale di Trump aveva pompato le aspettative in termini di partecipazione e di impatto sulla platea generale dell’elettorato. Lo stesso discorso del presidente ha confermato il sospetto di molti osservatori che il presidente abbia problemi psicologici che lo rendono incoerente. E’ questa un’altra importante ragione perchè il candidato democratico Biden osservi un basso profilo, lasciando che Donald Trump si autodistrugga.
[segue]

Al via la Scuola “Costituente della Terra”

28df51c0-f404-4f8f-bc1e-8692b3f35506Venerdì 21 febbraio 2020 a Roma: prende il via la Scuola “Costituente della Terra”.
La pagina fb dell’evento.

Cristiano sociali

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I Cristiano sociali, un cammino concluso (nel 2017) ma che ancora ci interpella
14 Dicembre 2019 by Forcesi | Su C3dem. [segue]

Sardegna Che fare? Una chiamata in causa dei cattolici e di tutte le persone di buona volontà

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Per un efficace ruolo dei cattolici nella Politica. Una proposta per la Sardegna
di Franco Meloni

La Sardegna non sta bene. Ha molti problemi, alcuni dei quali si aggravano ogni giorno che passa. Non vogliamo qui farne ulteriore elenco. Chi lo volesse non ha che da sfogliare uno dei quotidiani locali o consultare una News online di un giorno qualunque. E neppure qui vogliamo parlare delle ricette per risolvere o perlomeno affrontare questi problemi. Anche queste le trovate ogni giorno esposte, più o meno bene, negli stessi media. Qui vogliamo semplicemente lanciare un messaggio e proporvi una riflessione su che cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a fare un percorso di comune impegno. Il messaggio è il seguente: la Sardegna ha soprattutto bisogno di fiducia. Innanzitutto della fiducia dei sardi verso se stessi, che è la condizione perché gli altri abbiano fiducia nei sardi. Dobbiamo pertanto impegnarci tutti a creare quel clima di fiducia che ci consenta di affrontare i problemi e di impegnarci a risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica. Significa praticare rapporti di scambio tra persone che nella ricerca del bene comune, anche nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora, se si vuole invertire la rotta, occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. Ma qualcosa occorre fare subito, partendo da casa nostra, cioè da quanto possono fare di nuovo (o forse di antico) i cattolici al servizio della società. La situazione attuale della nostra società richiede un impegno politico che riesca a rendere più incisivo e produttivo il poderoso lavoro che sul piano dell’impegno sociale fanno i volontari nelle diverse organizzazioni cattoliche e laiche al servizio della gente, in modo particolare degli ultimi. Innanzitutto ai volontari è richiesto che diano un aiuto alla Politica, anche se la stessa non la chiede. Al riguardo condividiamo in toto un invito formulato da Walter Tocci in un recente convegno della Caritas romana*. Ma torniamo allo specifico dell’impegno dei cattolici in Politica. Nel vivace dibattito nazionale che si è sviluppato su questa questione emerge con chiarezza anche la proposta della costituzione di un (nuovo) partito esplicitamente ispirato ai valori cristiani.
cattolici-e-politica Proposta legittima, che ha tra i promotori intellettuali di grande spessore culturale e credibilità indiscussa, ma che ci vede del tutto contrari, per una serie di considerazioni che in altre circostanze abbiamo esposto, anche in pubblici dibattiti da noi promossi insieme ad altri. Ci convince invece un’altra proposta che per chiarezza espositiva riprendiamo integralmente da uno scritto di Enzo Bianchi (fondatore della Comunità di Bose). La stessa, che ha valenza generale, vogliamo qui riproporre nella dimensione della nostra regione. Si tratta di dare vita nelle chiese locali, diocesane e regionale, a “uno spazio al quale tutti i cattolici che si sentono responsabili nella vita ecclesiale e nella società possano essere convocati e quindi partecipare. Non un’assemblea dei soliti scelti o eletti in base all’appartenenza ad associazioni o istituti pastorali, ma un’assemblea realmente aperta a tutti, che sappia convocare uomini e donne muniti solo della vita di fede, della comunione ecclesiale, della consapevole collocazione nella compagnia degli uomini. Si tratta di chiamarli a esprimersi in merito a una lettura della vita sociale, delle urgenze che emergono e perciò in merito a un ascolto del Vangelo.
Questo sarebbe un confronto in cui si esaminano i problemi che si affacciano sempre nuovi nella vita del paese e si cerca di discernere insieme le ispirazioni provenienti dal primato del Vangelo. Da questo ascolto reciproco, da questo confronto, possono emergere convergenze pre-politiche, pre-economiche, pre-giuridiche che confermano l’unità della fede ma lasciano la libertà della loro realizzazione plurale insieme ad altri soggetti politici nella società. Un forum, dunque, uno spazio pubblico reale in cui pastori e popolo di Dio insieme, in una vera sinodalità, ascoltino ciò che lo Spirito dice alle chiese e facciano discernimento per trarre indicazioni e vie di testimonianza, di edificazione della polis e della convivenza buona nella giustizia e nella pace. È in questo spazio che si possono delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico e giuridico.
Così sarebbe assicurata l’unità dell’ispirazione evangelica, ne sarebbe garantita l’autenticità, senza tentazioni di integralismo, dando vita a “una polifonia ispirata a una stessa fede e costruita con molteplici suoni e strumenti” (papa Francesco, 4 marzo 2019, Udienza a un gruppo della Pontificia Commissione per l’America Latina)
. Da qui si parte per ulteriori indispensabili interlocuzioni con il “resto del mondo” per comuni percorsi nel perseguire il bene comune. Questa proposta ci sembra collimare con le posizioni di Matteo Truffelli, presidente dell’Azione Cattolica italiana, esaurientemente esposte nel suo ultimo libro, del quale riportiamo una recensione apparsa sul quotidiano Avvenire**. Che ne dite? Il dibattito prosegue…

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*Da una lectio magistralis di Walter Tocci rivolta ai volontari della Caritas romana.

(…) La chiamata civica alla politica. Credetemi, il ceto politico non si sente bene, non ce la fa da solo, ha bisogno del vostro aiuto; si, proprio di voi volontari e cittadini attivi. Lo so che siete già molto impegnati, ma proprio voi più di altri sapete come fare. La malattia dei politici è una drammatica perdita del senso di realtà, un po’ come capita alle persone disorientate che arrivano nei vostri centri di accoglienza. Con lo stesso spirito potete aiutare la politica a ritrovare il proprio ruolo sociale.
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**MATTEO TRUFFELLI: CHIESA IN USCITA E IMPEGNO POLITICO DEI CATTOLICI
23 Gennaio 2020 by Forcesi | su C3dem.
Matteo Truffelli, presidente dell’Azione cattolica italiana dal 2014, docente di Storia delle dottrine politiche a Parma, nel suo nuovo libro “Una nuova frontiera. Sentieri per una Chiesa in uscita” (Ave, 130 pagine, 11 euro), sintetizza “in che modo i credenti possono contribuire concretamente a lasciare nel mondo l’impronta evangelica della fraternità”. L’Avvenire anticipa un brano del libro: “Le scelte politiche plurali, una ricchezza per i cattolici”.
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- Anche su Giornalia.