Editoriali

Democrazia è…

img_7991Ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno. L’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, i direttori dei quotidiani e delle agenzie giornalistiche e i giornalisti accreditati presso il Quirinale per la consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare

24/07/2024
La ringrazio, Presidente, per le sue parole di saluto e ringrazio la Stampa Parlamentare e i quirinalisti per questo incontro, divenuto un appuntamento per riflettere brevemente su quanto ha presentato l’anno di lavoro che si avvia a una pausa per le istituzioni.

Il ringraziamento più intenso riguarda il prezioso e talvolta non facile compito di seguire e interpretare il mondo delle istituzioni e della politica, dandone notizia ai cittadini, esprimendo opinioni, suggerimenti, critiche che – non va mai dimenticato – sono essenziali nella vita democratica.

Le preoccupazioni e gli interrogativi che lei ha presentato sono comprensibilmente numerosi. Anzitutto quello sulla libertà di informazione.

Nella società dell’informazione globale è del tutto superfluo richiamare l’importanza che l’informazione riveste per il funzionamento della democrazia, per un’efficace tutela del sistema delle libertà La democrazia, infatti è, anzitutto, conoscenza. È contesto nel quale avviene il confronto fra le idee e si esercita il diritto a manifestarle e testimoniarle. Alla libertà di opinione si affianca la libertà di informazione, cioè di critica, di illustrazione di fatti e di realtà. Si affianca, in democrazia, anche il diritto a essere informati, in maniera corretta. Informazione, cioè, come anticorpo contro le adulterazioni della realtà.

Operare contro le adulterazioni della realtà costituisce una responsabilità, e un dovere, affidati anzitutto ai giornalisti. La legge Gonella, che ha istituto l’Ordine dei giornalisti, ne dà una rappresentazione pregevole: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.

Va sempre rammentato che i giornalisti si trovano a esercitare una funzione di carattere costituzionale che si collega all’art.21 della Carta fondamentale, con un ruolo democratico decisivo. Si vanno, negli ultimi tempi, infittendo contestazioni, intimidazioni, quando non aggressioni, nei confronti di giornalisti, che si trovano a documentare fatti. Ma l’informazione è esattamente questo. Come anche a Torino, nei giorni scorsi.

Documentazione di quel che avviene, senza obbligo di sconti. Luce gettata su fatti sin lì trascurati. Raccolta di sensibilità e denunce della pubblica opinione. Canale di partecipazione e appello alle istituzioni. Per citare ancora una volta Tocqueville, “democrazia è il potere di un popolo informato”.

Ecco perché ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno.

Si è aperta la discussione sulla opportunità di una nuova legge organica sull’editoria, come è avvenuto in precedenti occasioni di svolta in questa industria. È inevitabile tener conto della evoluzione tecnologica che ha mutato radicalmente diffusione e fruizione delle notizie. È responsabilità della Repubblica e dell’Unione Europea che i valori del pluralismo si affermino anche nei nuovi ambiti e si creino le condizioni per accompagnare la transizione in atto.

Ai giornali, alla stampa, alla radio e alle tv, si sono affiancate oggi le piattaforme digitali, divenute principali responsabili della veicolazione di contenuti informativi.

Appare singolare che a un ruolo così significativo corrisponda una convinzione di minori obblighi che ne derivano, con una tendenza, del tutto inaccettabile, dei protagonisti a sottrarvisi.

Gli over the top appaiono distanti dal sentimento comune, dalle relazioni di appartenenza alla comunità entro cui operano, quasi occupassero uno spazio meta-territoriale che li rende veicoli di innovazione, capaci di intercettare opportunità economiche, senza tuttavia considerare che anche per essi valgono i principi di convivenza civile propri agli Stati e alla comunità internazionale da cui traggono benefici.

Ho citato questioni non nuove, tanto è vero che l’Unione Europea ha approvato, nell’aprile di quest’anno, in un confronto tra Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione, il nuovo Regolamento sulla libertà dei media, adesso in fase di progressiva attuazione, a partire dal prossimo 8 novembre, per quanto riguarda i diritti dei destinatari dei servizi di media, vale a dire dei cittadini.

In sintesi: promozione del pluralismo e della indipendenza dei media in tutta l’Unione, con protezione dei giornalisti e delle loro fonti da ingerenze politiche; pubblicità sui fondi statali destinati a media o a piattaforme; garanzia del diritto dei cittadini alla gratuità e pubblicità delle informazioni; indipendenza editoriale dei media pubblici; protezione della libertà dei media dalle grandi piattaforme; istituzione di un nuovo Comitato europeo per i servizi di media per promuovere una applicazione coerente di queste norme.

Come si vede, un cantiere e un percorso impegnativo per l’Unione e per gli Stati membri, coscienti del valore che questo tema riveste per la libertà del nostro continente.

Tema, vorrei aggiungere, impegnativo per tutti coloro che del mondo dell’informazione fanno parte.

Tra i suoi richiami, Presidente, vi è quello che fa riferimento alla pubblica opinione, che guarda, con apprensione e smarrimento crescenti, alla situazione internazionale, attraversata – come lei ha ricordato – da tensioni, conflitti di varia natura, guerre. Vicino a noi, vicino ai confini dell’Unione Europea: in Ucraina, in Medio Oriente dopo la disumana giornata del 7 ottobre e la reazione israeliana con tante migliaia di vittime. Ma anche altrove, in altri luoghi del mondo.

L’Italia è impegnata, con convinzione, a sostegno dell’Ucraina. Insieme alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione e insieme a quelli dell’Alleanza Atlantica. Alla Nato la Federazione Russa ha regalato un rilancio imprevedibile di ruolo e di protagonismo. Chi non ricorda le parole di più di un Capo di Stato e di governo di Paesi della Nato che, appena tre anni fa, la definivano in stato di accantonamento, per usare un termine davvero riduttivo rispetto alle espressioni allora adoperate?

Lei fa presente – con ragionevole fondamento – che si registra una fatica maggiore nelle pubbliche opinioni sull’impegno per l’indipendenza dell’Ucraina.

È vero. A nessuno – comprensibilmente – piace un’atmosfera in cui la guerra abbia prolungata presenza, anche se non vi si è coinvolti. Come non lo è l’Italia.

Pensiamo a come appare questo spettacolo di guerre agli occhi dei nostri giovani, che ritengono Erasmus e Schengen talmente naturali da non ritenerli più una conquista, ma una condizione ovvia, dalla Scandinavia a Malta, da Lisbona a Bucarest.

Aggiungo, personalmente, che spinge a grande tristezza vedere che il mondo getta in armamenti immani risorse finanziarie, che andrebbero, ben più opportunamente, destinate a fini di valore sociale. Ma chi ne ha la responsabilità? Chi difende la propria libertà – e chi l’aiuta a difenderla – o chi aggredisce la libertà altrui?

Uno dei momenti, che fa più riflettere – anche oggi – sugli errori gravidi di conseguenze, si identifica con le parole che Neville Chamberlain, Primo Ministro britannico, pronunziò, a Londra, al ritorno dalla conferenza di Monaco nel 1938: “Sono tornato dalla Germania con la pace per il nostro tempo”.

Come tutti ricordiamo, Hitler pretendeva di annettere al Reich la parte della Cecoslovacchia che confinava con la Germania – i Sudeti – dove viveva anche una minoranza di lingua tedesca. La Cecoslovacchia – che aveva fortificato quel confine temendo aggressioni – ovviamente rifiutava. Le cosiddette potenze europee del tempo – Gran Bretagna, Francia, Italia – anziché difendere il diritto internazionale e sostenere la Cecoslovacchia, a Monaco, senza neppure consultarla, diedero a Hitler via libera. La Germania nazista occupò i Sudeti. Dopo neppure sei mesi occupò l’intera Cecoslovacchia. E, visto che il gioco non incontrava ostacoli, dopo altri sei mesi provò con la Polonia (previo accordo con Stalin). Ma, a quel punto, scoppiò la tragedia dei tanti anni della Seconda guerra mondiale. Che, verosimilmente, non sarebbe scoppiata senza quel cedimento per i Sudeti.

Historia magistra vitae.

L’Italia, i suoi alleati, i suoi partner dell’Unione sostenendo l’Ucraina difendono la pace, affinché si eviti un succedersi di aggressioni sui vicini più deboli. Perché questo – anche in questo secolo – condurrebbe a un’esplosione di guerra globale.

Naturalmente, avvertiamo indispensabile adoperarsi – in Ucraina come tra Israele e Palestinesi – per la fine della guerra, per chiudere queste piantagioni di odio, che le guerre rappresentano anche per il futuro. Palestre di disumanità nel calcolo delle giovani vittime mandate a morire, come avveniva nelle pagine più buie della Prima guerra mondiale. Lei ha richiamato un altro aspetto inquietante: il diffondersi di una sub cultura che si ispira all’odio. Una violenza che – come lei ha detto – da verbale diventa frequentemente fisica.

Nei giorni scorsi il tentativo di grave attentato a Trump; in maggio quello, di più pesanti conseguenze al Primo Ministro slovacco, Fico; nello stesso mese quello all’ex Sindaca (spero che si possa ancora dire) di Berlino, Giffey; al deputato europeo tedesco Ecke; che hanno fatto seguito ad altri attentati contro esponenti politici in Germania, talvolta con conseguenze mortali; due anni fa l’attentato al marito di Nancy Pelosi, sopravvissuto a fatica.

È fondamentale e doveroso ribadire la condanna ferma e intransigente nei confronti di questa drammatica deriva di violenza contro esponenti politici di schieramenti avversi trasformati in nemici.

Occorre adoperarsi sul piano culturale contro la pretesa di elevare l’odio a ingrediente, a elemento legittimo della vita: una spinta a retrocedere nell’inciviltà.

Si registrano anche un crescente antisemitismo, l’aumento dell’intolleranza religiosa e razziale, che hanno superato il livello di guardia. Un odio che viene spesso alimentato sul web, che va non soltanto condannato ma concretamente contrastato con rigore e severità.

Vi sono, in giro per il mondo, molti apprendisti stregoni, incauti nel maneggiare, pericolosamente, strumenti che generano odio e violenza.

Lei ha parlato degli avvenimenti elettorali in altri Paesi. Numerosi quest’anno, e in grandi democrazie. Dall’Indonesia, all’India, dal Regno Unito alla Francia, nell’Unione Europea, a novembre negli Stati Uniti.

L’Italia ha rapporti di amicizia e vicinanza tradizionali con Washington, maturati all’indomani della Seconda Guerra mondiale con il generoso contributo alla ricostruzione offerto con il Piano Marshall e con il sostegno alla nostra democrazia, consolidatosi nell’Alleanza Atlantica e in altri numerosi contesti delle organizzazioni internazionali.

I vincoli di condivisione di valori dei nostri due popoli rafforzano i rapporti tra gli Stati e ne consentiranno la costante crescita. Al Presidente Biden va il ringraziamento della comunità internazionale per il suo apprezzato servizio e per la sua leadership.

Sotto altro profilo, rimango sorpreso quando si dà notizia o si presume che vi possano essere posizionamenti a seconda di questo o quell’esito elettorale, come se la loro indubbia importanza dovesse condizionare anche le nostre scelte. Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono gli elettori di altri Paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia, sia per l’Unione Europea.

Lei, Presidente, ha cortesemente citato alcune delle parole che ho pronunziato a Trieste qualche giorno addietro.

Come lei ha ricordato, ho parlato di Tocqueville, di Bobbio, di Popper. Ma ho parlato anche di altri, non meno illustri, tutti ormai, purtroppo, non più in vita.

Ho espresso – intenzionalmente – considerazioni concrete ma sul piano generale, di principi, senza alcun trasferimento ai temi del confronto politico attuale. E non è il caso di farlo qui.

Il mio riferimento alla correttezza e nitidezza dei sistemi elettorali muoveva – oltre che dall’inderogabile necessità di piena democraticità – dalla alta preoccupazione delle crescenti astensioni dal voto, invitando a chiedersi se una delle sue ragioni non sia la disaffezione provocata dalla percezione dalla eccessiva limitazione delle scelte effettivamente affidate agli elettori.

Se proprio vuole uno spunto di attualità, non glielo nego.

Riguarda la lunga attesa della Corte Costituzionale per il suo quindicesimo giudice. Si tratta di un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento, proprio quella istituzione che la Costituzione considera al centro della vita della nostra democrazia.

Non so come queste mie parole saranno definite: monito, esortazione, suggerimento, invito.

Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice. Ricordo che ogni nomina di giudice della Corte Costituzionale – anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente – non fa parte di un gruppo di persone da eleggere, ma consiste, doverosamente, in una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio di assumere quell’ufficio così rilevante.

Vi è un altro tema che le sue considerazioni mi inducono ad affrontare. Quello delle paure che attraversano alcuni Paesi, in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso.

Vi sono molte persone che vivono in uno stato di tensione di fronte ai grandi cambiamenti in corso sempre più velocemente. Come ben sappiamo, registriamo condizioni nuove: di vita quotidiana, di modelli sociali, di lavoro, di formule di lavoro, di strumenti di cui avvalersi, di prospettive. Vi si affiancano fenomeni nuovi: dai mutamenti del clima alle possibili pandemie, da strumenti economici e sociali, ormai indispensabili, in mani di pochi e potenti gestori al di sopra dei confini e dell’autorità degli Stati, dalle migrazioni, in ogni continente, alla crescente fusione di popolazioni e di culture, a nuovi strumenti che la scienza propone.

Tutto questo genera, forse comprensibilmente, allarme in tanti, che si sentono disorientati, forse indifesi. E che rischiano di cadere nella rete ingannevole di chi fa credere che la soluzione sia semplice: tornare a un’epoca dorata che non c’è più (se pur mai c’è stata). E che non ci sarà più. Perché la storia cammina, i cambiamenti non si possono fermare, il tempo non torna indietro.

img_7994Vi è un tema – l’ultimo che cito – che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Non ho bisogno di spendere grandi parole di principio: basta ricordare le decine di suicidi – decine di suicidi – in poco più dei sei mesi, in quest’anno.

Ma vorrei condividere una lettera che ho ricevuto – per il tramite del garante di quel territorio – da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è – e deve essere – l’Italia.

Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, Non va trasformato, in questo modo, in palestra criminale. Vi sono, in atto, alcune, proficue e importanti, attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario.

È un dovere perseguirlo. Subito, ovunque.

Vi ringrazio per la vostra presenza e vi ricambio intensamente gli auguri di una buona pausa estiva. E rivolgo i complimenti più grandi a Ilaria Caracciolo per la bellezza e il significato coinvolgente del ventaglio.

Grazie.
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L’interesse dei Sardi

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[in progress]

La questione della localizzazione delle pale eoliche, della loro esagerata quantità, degli strumenti a disposizione dei sardi per fermare lo scempio in atto o ancora “solamente” in fase di predisposizione nel nostro territorio ci angoscia. Dobbiamo lottare uniti come sardi, pretendendo la massima chiarezza, orientandoci nel groviglio delle strumentalizzazioni e dell’occultamento delle responsabilità del passato, prossimo e remoto, e financo del presente.
Non possiamo permetterci di inseguire piste e praticare comportamenti che ci allontanino dall’obbiettivo di salvare la nostra Sardegna.
Cerchiamo per questo di dare una mano. Lo spirito che ci anima ci sembra ben descritto dalla nota apparsa oggi su Democraziaoggi scritta dal suo direttore Andrea Pubusa, che ci permettiamo mettere in testa ad altra documentazione che segue.
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Si predica l’unità ma si pratica la divisione
Oggi 22 Luglio 2024, A.P. su Democraziaoggi

Continua la mobilitazione contro le pale eoliche e contro il fotovoltaico in Sardegna, ma proseguono anche le polemiche e le divisoni interne. Sotto attacco è sopratutto la Todde, perche’ la sua legge sarebbe inefficace. In realtà è un intervento volto a bloccare le installazioni non ancora iniziate, ma nulla può contro quelle autorizzate e in fase di esecuzione. La Presidente della Regione ha voluto dare un segnale e prendere tempo per intevenire in modo organico, ad esempio, con una legge urbanistica che tuteli il territorio. Bene fanno i comitati a mobilitarsi e a manifestare l’opposizione dei sardi, ma l’amministrazione deve seguire le regole giuridiche e i principi del’ordinamento e questi si fondano su un antico brocardo: tempus regit actum, gli atti sono regolati dalle norme vigenti al tempo della loro adozione. Non si può dunque intervenire in autotutela ad annuĺlarli. Questi provvedimenti del resto verrebbero certamente impugnati ed annullati dal Giudice amministrativo con conseguenze sul piano risarcitorio.

Bisogna, dunque, aver pazienza e fare ora ciò che si può legittimamente fare. Le responsabilità dell’invasione sono da addebitare a scelte passate ed è poco utile ora attardarci su di esse. Ora bisogna delineare un percorso unitario di intervento, dove istituzioni e comitati, forze sociali convergono per bloccare lo scempio. La campagna elettorale è finita, non è il caso di proseguirla trasferendola su un tema che richiede responsabilità e spirito unitario.
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Ma quali sono gli argomenti in campo e quali i soggetti che rappresentano macroscopicamente le posizioni?
Partiamo dal post del 22/07/2024 della presidente della Regione, Alessandra Todde
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“Torno nuovamente sull’argomento degli impianti per energia da fonti rinnovabili, mentre con la giunta lavoriamo a tante altre priorità per la nostra terra.

Bloccare gli impianti che hanno già avviato i lavori non é possibile. Ho detto chiaramente, nel video pubblicato sui social che tutti potete riascoltare, che la legge blocca l’avvio dei lavori e quindi blocca anche gli impianti autorizzati ma per i quali i lavori non sono ancora iniziati.

Pretendere che con una legge si possano bloccare gli impianti già autorizzati, con lavori avviati da diversi mesi, é irragionevole ed espone la regione a richieste elevate di risarcimento.

L’accanimento verso di noi è frutto di una studiata azione di disinformazione che mira a distorcere la percezione sul lavoro portato avanti dalla nuova Giunta. Mi rivolgo a chi si sta occupando di fare propaganda: volete davvero prendervi la responsabilità di portare tante persone a diffondere le vostre bugie, a diffamare, ad odiare, a vivere nella paura?

Sono la Presidente di tutte e di tutti e non accetterò di vedere la mia comunità schiacciata dallo scontro invece che impegnata nel dialogo. Non accetterò di restare inerme mentre personaggi dalla dubbia morale e sacche di potere intente a perseguire esclusivamente i propri interessi – strumentalizzando la lotta alla speculazione – continuano a diffamare il lavoro di questa Giunta, insediata da appena 100 giorni.

Per comprendere cosa sta realmente accadendo, è indispensabile saper distinguere tra istanza, fase istruttoria, titolo autorizzativo e avvio dei lavori. Chi è stato nelle Istituzioni conosce bene la differenza fra le varie fasi dell’iter procedurale, e dovrebbe avere la decenza di non raccontare bugie.

Noi abbiamo sempre detto che la legge numero 5 prevede che tutte le installazioni di nuovi impianti di energie rinnovabili – per le quali i lavori non siano già iniziati – sono bloccate per 18 mesi (tranne per poche eccezioni tra cui comunità energetiche, piccoli impianti per l’autoconsumo o per la produzione agricola, impianti dove non si consuma ulteriormente suolo).

Gli impianti per cui non c’è stato l’effettivo avvio dei lavori, possono essere formalmente definiti come “nuovi impianti”, ovvero quelli che con la legge regionale n. 5 abbiamo vietato di realizzare.

Quali sono i nuovi impianti? Quelli in istruttoria, quelli per cui non è stata presentata istanza di autorizzazione e anche impianti autorizzati, ma per i quali non era stato ancora dato avvio effettivo dei lavori alla data di entrata in vigore della legge n. 5 lo scorso 2 luglio.

È giusto che si sappia che l’attuale Giunta non ha mai deliberato alcuna autorizzazione, anzi, sta lavorando per definire la mappa delle aree idonee in modo da consentire le autorizzazioni solo di quegli impianti che rispetteranno tutti i requisiti necessari. Spero di essermi spiegata in modo sufficientemente chiaro, e che nessuno usi queste mie parole per cercare di creare ulteriore confusione. Magari con altri video in cui si fanno collage di miei interventi cercando di trovare l’errore (che non c’è). Sappiate che tutto ciò che vedete realizzato o in corso di realizzazione: i camion, Oristano, Saccargia, etc., non sono fenomeni spuntati negli ultimi tre mesi. I lavori a Villacidro durano da un anno. L’impianto di Saccargia esiste da vent’anni ed è stato autorizzato dagli stessi che parlano alla pancia delle persone e fomentano irragionevolezza e odio. Noi non vogliamo stare al loro gioco. Il nostro impegno sarà diretto unicamente verso l’interesse della Sardegna e dei sardi e penso che l’azione svolta finora ne sia la prova. Sento di dover rassicurare tutte e tutti coloro che temono gli attacchi degli speculatori: a difendere la Sardegna ci siamo noi, al lavoro dalla mattina alla sera, da tre mesi, per fare tutto il possibile, e non certo chi passa il tempo a prendere in giro i propri lettori dopo avere preso in giro, per anni, i propri elettori.
Alessandra Todde
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L’intervento di Sergio Zuncheddu

I riferimenti più o meno espliciti della Presidente Todde all’attività del Gruppo editoriale L’Unione Sarda costringono, mio malgrado, a fare alcune precisazioni in favore della verità.

Prima di tutto: come anche dimostrato nella recente campagna elettorale i nostri media si sono tenuti ben lontani dalla faziosità, dando voce alle varie espressioni politiche comprese quelle che hanno sostenuto l’attuale Presidente, come riconosciuto da chi l’ha sostenuta.

Qualunque fosse lo schieramento a sostegno delle varie Giunte regionali alla base della linea editoriale c’è sempre stata la difesa della Sardegna da ogni genere di “assalto” o “invasione”. Solo per memoria: il No alle scorie nucleari; il No ai rifiuti da altre Regioni; il No all’uso inappropriato delle servitù militari; il No alla speculazione energetica in danno dell’Isola.

Secondo: una linea editoriale ferma e non negoziabile, cristallina e scevra da qualsivoglia condizionamento, politico o di altra natura, esercitata in privato da me, come molti potrebbero testimoniare, e nelle pagine di questo giornale, sito web e servizi radiotelevisivi, a cura delle nostre redazioni giornalistiche, per informare la Comunità sarda con cronache, inchieste e approfondimenti sul tema della cosiddetta “transizione ecologica”. Progetti, società e personaggi collegati direttamente o indirettamente alla gigantesca operazione di speculazione di cui la Sardegna è fatta drammaticamente oggetto sono stati portati a conoscenza dell’opinione pubblica.

Da oltre venti anni almeno abbiamo a più riprese lanciato l’allarme sull’invasione eolica e fotovoltaica – come risulta dalla pagina del Direttore Dessì pubblicata ieri – e a partire dal 2021 anche con maggiore intensità per l’entrata in vigore del famigerato Decreto Draghi, base normativa principale su cui si fonda l’attuale scempio paesaggistico per fare dell’Isola la batteria energetica al servizio dell’Italia continentale.

E abbiamo continuato, con crescente intensità, con l’entrata in vigore del secondo “Decreto Draghi” del 29 marzo 2022, interamente dedicato alla Sardegna, nefasto anch’esso, assumendo una posizione fortemente critica verso la Giunta regionale di allora, guidata da Solinas, sfociata nella richiesta esplicita di impugnazione, cosa che

Sono, quindi, destituite di qualsivoglia fondamento le velate illazioni di chi, disinformato o in malafede, tenta di attribuire alle testate giornalistiche di questo Gruppo editoriale posizioni preconcette verso l’uno o l’altro degli schieramenti.

Terzo: la Presidente della Regione, con nota pubblicata qui per intero, pretende di indicare gli organi di informazione come “nemici” della verità, tentando di introdurre un motivo di polemica gratuita e fuorviante rispetto alla vera questione: la devastazione già in corso della Sardegna.

Andiamo all’essenziale, concentrandoci sugli ultimi quattro anni:

I decreti Draghi, il primo relativo alle rinnovabili e il secondo dedicato alla sola Sardegna, sono indiscutibilmente e per unanime e onesto riconoscimento responsabili dell’assalto che l’Isola sta subendo, come già facciamo emergere in modo chiaro in queste pagine;
Con editoriali e inchieste è stato esplicitamente chiesto e reiteratamente sollecitata la Giunta Solinas di impugnare ogni atto lesivo degli interessi della Sardegna e dei sardi, cosa che è stata fatta;
Per dovere di cronaca e onestà intellettuale: tra i Ministeri coinvolti nell’elaborazione e approvazione di quei famigerati decreti Draghi vi era il Ministero dello Sviluppo economico, di cui Viceministra era l’attuale Presidente della Regione, Alessandra Todde, la quale non era e non poteva essere estranea agli stessi. La delega ufficiale pubblicata nella Gazzetta Ufficiale con il decreto di nomina recita testualmente: «Al Sottosegretario di Stato Alessandra Todde sono parimenti delegate le iniziative e le attività relative al Comitato interministeriale per la transizione ecologica». In pratica era componente attivo del Comitato della Transizione ecologica, organismo preposto all’indirizzo politico, legislativo e amministrativo sulla materia oggetto dei decreti Draghi;
Diamo per scontato che l’autorevolezza della Viceministra Todde – considerata la delega puntuale affidatagli – fosse tale da poter incidere su quei decreti in difesa della sua Isola, cosa che allo stato non risulta. Né il nostro giornale ha mai potuto registrare, da parte dell’allora Viceministra, dichiarazioni di dissenso o contrasto su quel che si stava pianificando ai danni della Sardegna.
Quarto: il tentativo della Presidente di introdurre motivi di polemica riguarda la legge n.5, approvata il 4 luglio scorso, i suoi effetti e la sua efficacia. Anche in questo caso andiamo all’essenziale:

Afferma nella nota di ieri: «Bloccare gli impianti che hanno già avviato i lavori non è possibile». Non solo concordiamo, ma lo abbiamo scritto e ribadito, purtroppo inutilmente, ancora prima della stessa approvazione finale della legge.
La legge n.5, lo abbiamo scritto e riscritto: non blocca niente. Un’affermazione oggi chiara e netta, in contrasto con quella resa lo stesso 4 luglio dalla Presidente della Regione, che dichiarò: «La domanda che ci viene fatta spesso è che cosa succede delle autorizzazioni che sono state già date? Queste autorizzazioni sono temporaneamente sospese».
Abbiamo sottolineato a più riprese sin dal primo giorno dell’approvazione di quella legge che non conteneva l’istituto delle “autorizzazioni temporaneamente sospese”. Si cercava di mitigare, a parole, la totale inefficacia della norma appena approvata.
Quinto: la Presidente della Regione nella nota sul tema del blocco dei progetti autorizzati afferma: «pretendere che con una legge si possano bloccare gli impianti già autorizzati, con lavori avviati da diversi mesi, è irragionevole ed espone la Regione a richieste elevate di risarcimento».

Anche in questo caso rileviamo che:

Una simile situazione, senza peraltro alcun allarme speculativo come in questo caso, si è verificata nel 2004 quando venne adottata una norma temporanea di salvaguardia. In quel caso la Legge regionale del 25 novembre 2004, n.8, all’art.4 aveva disciplinato e bloccato tutte le lottizzazioni delle zone omogenee C, D, F e G dove non fosse stato realizzato il reticolo stradale o determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi. Molti diritti soggettivi furono lesi e calpestati, ma la norma superò la prova di resistenza.
La stessa fattispecie avrebbe potuto essere efficacemente introdotta per fermare almeno temporaneamente, e non a parole, l’assalto eolico e fotovoltaico per progetti e cantieri in corso d’opera che non avessero ancora determinato un «mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi». Si è scelto di non farlo, e si dovrebbe spiegare ai cittadini perché.
Considerata la gravissima e irreversibile compromissione paesaggistica la Regione avrebbe potuto legiferare in piena analogia con la legge di recente approvata dal Parlamento, relativa alla dichiarazione di “nullità” di tutti i progetti già approvati e ricadenti nell’areale relativo all’Einstein Telescope. Anche in questo caso sarebbe bastato volerlo.
Invece, la Regione ha accettato supinamente i 6,2 GW di ulteriori rinnovabili dal Governo, peraltro limite minimo, e l’eolico a mare.

Sesto: procedure autorizzative:

La norma approvata niente dice sulle procedure autorizzative e l’unico, indefinito e confuso divieto è quello di “realizzare”;
Mentre non poteva essere disciplinato alcun intervento sulle procedure autorizzative di livello statale, ben avrebbe potuto la Regione introdurre una norma urbanistica ai sensi dell’art.3, lettera “f”, dello Statuto autonomo della Sardegna, risalente al 1948, come suggerito a più riprese da questo giornale, da eminenti costituzionalisti sardi e da numerosi comitati sorti per difendere la nostra Casa comune;
L’unico strumento legislativo che avrebbe potuto bloccare le procedure statali e regionali era ed è il divieto “urbanistico” a realizzare centrali eoliche, fotovoltaiche e agrivoltaiche nelle aree già dichiarate “non idonee”, secondo la mappa dettagliata in possesso della Regione, pubblicata su questo giornale e che farebbe salvo il 98,8% del territorio già oggetto di vincoli vari. Anche sul punto, totalmente disatteso, molto dovrà essere spiegato.
Settimo e ultimo: piuttosto che fare insinuazioni generiche e denigratorie – per buttarla in politica o in caciara, tipiche di un mondo cui non apparteniamo – meglio sarebbe denunciare in maniera chiara e inequivocabile a chi ci si riferisce quando si parla di «personaggi dalla dubbia morale e sacche di potere intente a perseguire esclusivamente i propri interessi».

Potrebbe cominciare, la Presidente Todde, da soggetti che forse ben conosce Lei stessa, sia per le vicende eoliche e fotovoltaiche sia per quelle aeroportuali.

Sergio Zuncheddu

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Le considerazioni del giurista
Tonino Dessì

Il post di Antonio Dessì sulla sua pagina fb. Laureato in Giurisprudenza, dirigente regionale ora in pensione. Studioso Libero da condizionamenti partitici. Da sempre a sinistra.
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Lo scontro tra il Gruppo editoriale L’Unione Sarda e la Presidente della Regione sta assumendo caratteri grotteschi.
Oggi, sentendosi chiamato in causa da un post su FB di Alessandra Todde, il proprietario del Gruppo editoriale interviene nuovamente di persona per difendere la linea seguita dai suoi organi di informazione.
È un fatto anomalo, ma è un’anomalia cui siamo abituati fin dalle origini del berlusconismo.
Comunque, sulla correttezza deontologica e professionale di questo fatto, lascio a chi si occupa del mondo dell’informazione ogni opportuna valutazione.
Meglio tutto sommato che sia chiaro chi parla e per conto di chi, specie se si tratta di interessi politici e imprenditoriali.
Che la campagna di Sergio Zuncheddu abbia a che fare in forma complessa con questi interessi era già chiaro dal suo precedente intervento-manifesto, sul quale ho già avuto modo di soffermarmi (https://www.facebook.com/share/p/ecixVQxef6fWBYAU/?mibextid=K35XfP).
Il fatto resta tuttavia che le contestazioni sono pretestuose e informano assai meno correttamente di quanto dovrebbero.
Nella foto della pagina odierna che pubblico ho evidenziato, cerchiandoli a penna, quattro punti critici.
1) Zuncheddu ricorda la nostra legge salvacoste del 2004, sulla cui matrice anch’io mi sono soffermato altre volte. Cita, un po’ cannando, un po’ voce straziata di immobiliarista dal sen fuggita, l’articolo 5, che riguardava il blocco delle lottizzazioni (gli brucia ancora, quella norma con cui “molti diritti soggettivi furono lesi e calpestati”), però la norma pertinente è in realtà il comma 3 dell’articolo 8, che recitava: “3. Fino all’approvazione del Piano Paesaggistico Regionale, nell’intero territorio regionale, e’ fatto divieto di realizzare impianti di produzione di energia da fonte eolica, salvo quelli precedentemente autorizzati, per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge i relativi lavori abbiano avuto inizio e realizzato una modificazione irreversibile dello stato dei luoghi. Per gli impianti precedentemente autorizzati in difetto di valutazione di impatto ambientale, la realizzazione o la prosecuzione dei lavori, ancorche’ avviati alla data di entrata in vigore della
presente legge e che, comunque, non abbiano ancora realizzato una modificazione irreversibile dello stato dei luoghi, e’ subordinata alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui all’Art. 31 della legge regionale n. 1 del 1999 e successive modifiche ed integrazioni.”. Io ricordo il motivo di quella disposizione (e della nostra precedente deliberazione dell’agosto 2004) e ricordo perfettamente che il Presidente della Giunta della precedente legislatura, On. Mauro Pili e gli orientamenti programmatici, pianificatori e amministrativi delle Giunte berlusconiane sarde di allora erano stati motivo di una situazione analoga a quella attuale (https://www.facebook.com/share/6N9fDLRLMQFZqtPV/?mibextid=WC7FNe).
2) Zuncheddu si chiede perchè quella formula “modificazione irreversibile dello stato dei luoghi” non sia stata riprodotta nella recente legge regionale n. 5 approvata dal Consiglio nello scorso luglio. Io una risposta ce l’avrei. La Giunta e la maggioranza consigliare hanno condiviso una forte pressione esterna di tipo massimalista, utilizzando all’articolo 3 comma 1 una formula che è sembrata loro garantire il massimo della tutela: “per un periodo non superiore a diciotto mesi dall’entrata in vigore della presente legge, i seguenti ambiti territoriali sono sottoposti a misure di salvaguardia comportanti il divieto di realizzare nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica da fonti rinnovabili:…”. Certamente lo hanno fatto nella più completa inconsapevolezza della sua incongruità e questo spiega anche perché la Presidente più volte si sia improvvisata anche lei in affermazioni incongrue. La verità è probabilmente venuta fuori via via quando anche gli uffici debbono essersi accorti che per giurisprudenza costante i lavori autorizzati che abbiano già comportato una trasformazione irreversibile dello stato dei luoghi non possono essere più oggetto di sospensione nè di revoca delle autorizzazioni salvo che, emergendo un concreto e legittimo interesse pubblico prevalente, si debba inibire la prosecuzione dell’opera, ovviamente dietro congruo risarcimento da parte pubblica di tutti i conseguenti danni economici (danno emergente e lucro cessante). Ma se il concreto e preminente interesse pubblico legittimamente sopravvenuto non c’è, ogni atto inibitorio è persino penalmente rilevante. Fino a qualche settimana fa, almeno per abuso d’ufficio. Oggi sotto qualche altra residua fattispecie. Perchè? Perchè qui pesa come un macigno l’articolo 20 del dlgs 199/2021 con tutti i suoi annessi e connessi.
3. Zuncheddu evoca la possibilità con legge regionale di disporre in materia analogamente a come avrebbe di recente fatto lo Stato disponendo la “nullità di tutti i progetti già approvati e ricadenti nell’areale relativo all’Einstein Telescope”. Questa è una cazzata. La Regione non può fare quello che può fare solo il Parlamento. E anche il Parlamento solo a determinate condizioni.
4. Torna la solfa dell’applicazione della competenza regionale primaria in materia urbanistica di cui all’articolo 3, primo comma, lettera f), dello Statuto speciale. In termini giuridici questa argomentazione è i-n-e-s-i-s-t-e-n-t-e: caspita, sembra talvolta di parlare ai sordi. Ma il peggio è che stavolta la si invoca non per realizzare la previsione del dlgs n.199/2021, che rimette alle Regioni l’identificazione con legge delle aree idonee, bensì per tutelare le aree già dichiarate “non idonee secondo la mappa dettagliata in possesso della Regione pubblicata da questo giornale e che farebbe salvo il 98,8 per cento del territorio già oggetto di vincoli vari”. Ci vuole una certa faccia tosta, diciamocela tutta, a scrivere queste cose. Intanto la legge regionale, sia pure nella sua formulazione piuttosto pericolosamente estesa di cui abbiamo dato conto, sottopone alle misure provvisorie di salvaguardia un elenco di categorie di aree sicuramente tale da esaudire questa necessità. Ma il punto è che il dlgs n. 199/2021 chiede ben altro adempimento, ossia quello di individuare le aree idonee e che ogni tentativo di eludere quell’obbligo è già stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale.
Insomma, si ciurla strumentalmente nel manico per creare un polverone e continuare a confondere l’opinione pubblica.
E questa non è affatto informazione, qui sta il problema centrale.
Infine, io non sono un esperto di sociologia della comunicazione.
Istituzionalmente trovo deficitaria e difettosa quella della Presidente Todde, l’ho già scritto.
Ma se devo guardare al numero di likes sul profilo FB di Alessandra Todde e di Desirè Manca, ho l’impressione che in termini di consenso battano ampiamente un giornale che ogni giorno ricopre pagine d’inchiostro con un bel niente.
Tocca rassegnarsi.
Così vanno le cose, a prescindere.
Antonio Dessì

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In memoria della strage mafiosa di via D’Amelio. Onore ai servitori dello Stato barbaramente assassinati dalla mafia. Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio) Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Raccogliamo l’appello del Capo dello Stato: “Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio”.

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di Patrizio Rovelli
A 32 anni dalla strage di via D’Amelio le commemorazioni ufficiali, che pure sono importanti per tenere viva la Memoria, devono cedere il passo a un’analisi che consenta di comprendere appieno cosa ha rappresentato per il nostro Paese questo vile attentato mafioso in cui hanno perso la vita sei servitori dello Stato e che ha messo a rischio gli stessi fondamentali valori di Legalità e Giustizia patrimonio della nostra Costituzione.
Una analisi peraltro indispensabile per tentare di accertare le responsabilità e i reali obbiettivi del clamoroso depistaggio – il più grave nella Storia della Repubblica – che nascose la verità per oltre quindici anni.
Non è bastato, infatti, un terzo di secolo per individuare chi deviò il corso delle indagini nella loro prima e più delicata fase, favorendo le fuorvianti e calunniose dichiarazioni del falso pentito Scarantino. Scomparsa e mai più ritrovata l’Agenda rossa di Borsellino, persi di vista i pur evidenti collegamenti con la Strage di Capaci, solo nel 2008, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza, mafioso reo confesso dell’omicidio del Parroco Antimafia Don Puglisi, si arrivò a ricostruire l’azione militare che aveva portato un attacco così sanguinoso alle nostre Istituzioni.
In questi ultimi anni un ruolo fondamentale nella ricerca della Verità lo hanno avuto i figli di Paolo Borsellino, Lucia, Manfredi e soprattutto Fiammetta, che continuano ancora a chiedere Giustizia per il padre e gli agenti della scorta.
Fiammetta è oggi la fonte più accreditata da cui apprendere quelle parti di verità utili per cercare di costruire un Paese migliore in cui la Legalità possa tornare ad essere – come i Costituenti hanno scritto – valore fondante della nostra convivenza democratica.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le loro famiglie conobbero l’isola dell’Asinara dove vissero per circa un mese perché la loro permanenza a Palermo, nella fase più delicata del primo maxiprocesso, era diventata estremamente pericolosa.
Fiammetta è tornata in Sardegna ospite di OPG – osservatorio per la Giustizia nel marzo del 2019 con tre emozionanti incontri che hanno visto protagonisti a Cagliari, Nuoro e Oristano migliaia di giovani, la Chiesa sarda e la parte più attenta della Società civile.
Fiammetta in quei momenti straordinari di intensa commozione e solidarietà ci ha ricordato che “la Verità è un diritto”. Ci ha pure ricordato con un richiamo forte e coraggioso, nel delicato momento in cui una parte del Paese predicava opinioni aberranti come “tutti colpevoli, nessuno innocente”, frutto di un giustizialismo estremo che mal si concilia con i valori costituzionali sui quali siamo chiamati tutti a giurare, che esistono gli errori giudiziari. Affermare come lei fece nel luglio 2017 che “Vittime innocenti” della strage di via D’Amelio sono anche gli uomini ingiustamente accusati dal falso pentito Scarantino, ha rappresentato per le coscienze migliori uno stimolo forte per tentare di realizzare un processo di pacificazione basato sui valori di Legalità e Giustizia che non può certamente ignorare le grandi sofferenze che ci sono dietro la carcerazione ingiusta di persone accusate e condannate per fatti mai commessi. Senza contare che – come accade per tutti gli errori giudiziari – i veri colpevoli sono lasciati liberi di continuare a delinquere.
Dalla parte della famiglia Borsellino si è sempre schierato con grande sentimento di solidarietà il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha pronunciato in proposito chiare parole di condanna del depistaggio: “La tragica morte di Paolo Borsellino insieme a coloro che lo scortavano con affetto deve ancora avere una definitiva parola di Giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio”.

Patrizio Rovelli
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Ringraziamo l’autore dell’articolo per la cortese autorizzazione alla pubblicazione. L’articolo è apparso come editoriale ne L’Unione Sarda di venerdì 19 luglio 2024.
L’illustrazione di testa e’ tratta dall’home page odierno [19/07/2024] del Ministero della Difesa.

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Sestu ricorda la sua Emanuela Loi.
Su Casteddu online: https://www.castedduonline.it/sestu-ricorda-la-sua-emanuela-loi-32-anni-dopo-una-cerimonia-per-non-dimenticare/
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Democrazia e «… libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.»

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Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.

Democrazia.

Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.

Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.

Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.

Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.

Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.

Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.

Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.

Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.

O questa si traduce soltanto in un metodo?

Cosa la ispira?

Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?

È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.

Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.

Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.

Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.

L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.

La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.

Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.

È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.

Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?

Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.

Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.

La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.

Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?

Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?

Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?

Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.

Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.

Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.

I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.

Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.

Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.

Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.

Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.

Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.

Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.

Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.

Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.

Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.

La democrazia non è mai conquistata per sempre.

Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.

Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.

Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.

È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.

Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.

Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.

La stessa esperienza italiana degli ultimi trent’anni ne è un esempio.

Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.

La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.

La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.

È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.

A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.

Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.

Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.

Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.

Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.

Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.

La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.

Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.

Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.

Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.

La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.

Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.

Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.

Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.

La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.

Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.

Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.

Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.

Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.

L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.

Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.

Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.

Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.

Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.

Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.

Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.

Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.

Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.

Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.

La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.

La democrazia è antidoto alla guerra.

Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.

Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.

Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.

La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.

Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.

Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.

Attraversiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.

Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.

È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.

All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.

Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.

Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.

È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.

Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.

Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.

Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.

Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?

Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.

Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.

Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.

L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.

Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.

Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.

Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.

Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.

Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.

Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.

La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.

Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.

Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.

Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.

Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
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Visita Pastorale del Santo Padre Francesco a Trieste in occasione della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia – Incontro con i Congressisti, 07.07.2024

Discorso del Santo Padre

Illustri Autorità,
cari fratelli Vescovi,
Signori Cardinali,
fratelli e sorelle, buongiorno!

Ringrazio il Cardinale Zuppi e Monsignor Baturi per avermi invitato a condividere con voi questa sessione conclusiva. Saluto Monsignor Renna e il Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali. A nome di tutti esprimo gratitudine a Monsignor Trevisi per l’accoglienza della Diocesi di Trieste.

La prima volta che ho sentito parlare di Trieste è stato da mio nonno che aveva fatto il ‛14 sul Piave. Lui ci insegnava tante canzoni e una era su Trieste: “Il general Cadorna scrisse alla regina: ‘Se vuol guardare Trieste, che la guardi in cartolina’”. E questa è la prima volta che ho sentito nominare la città.

Questa è stata la 50.ma Settimana Sociale. La storia delle “Settimane” si intreccia con la storia dell’Italia, e questo dice già molto: dice di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune. Forti di questa esperienza, avete voluto approfondire un tema di grande attualità: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.

Il Beato Giuseppe Toniolo, che ha dato avvio a questa iniziativa nel 1907, affermava che la democrazia si può definire «quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori»[1]. Così diceva Toniolo. Alla luce di questa definizione, è evidente che nel mondo di oggi la democrazia, diciamo la verità, non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo[2].

In Italia è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia, sulla quale ha inciso pure l’esperienza delle Settimane Sociali; e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento per assumere la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo. Questo atteggiamento si ritrova nella Nota pastorale con cui nel 1988 l’Episcopato italiano ha ripristinato le Settimane Sociali. Cito le finalità: «Dare senso all’impegno di tutti per la trasformazione della società; dare attenzione alla gente che resta fuori o ai margini dei processi e dei meccanismi economici vincenti; dare spazio alla solidarietà sociale in tutte le sue forme; dare sostegno al ritorno di un’etica sollecita del bene comune […]; dare significato allo sviluppo del Paese, inteso […] come globale miglioramento della qualità della vita, della convivenza collettiva, della partecipazione democratica, dell’autentica libertà»[3]. Fine citazione.

Questa visione, radicata nella Dottrina Sociale della Chiesa, abbraccia alcune dimensioni dell’impegno cristiano e una lettura evangelica dei fenomeni sociali che non valgono soltanto per il contesto italiano, ma rappresentano un monito per l’intera società umana e per il cammino di tutti i popoli. Infatti, così come la crisi della democrazia è trasversale a diverse realtà e Nazioni, allo stesso modo l’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e ad operare, in ogni parte del mondo.

C’è un’immagine che riassume tutto ciò e che voi avete scelto come simbolo di questo appuntamento: il cuore. A partire da questa immagine, vi propongo due riflessioni per alimentare il percorso futuro.

Nella prima possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questo è la cultura dello scarto. Il potere diventa autoreferenziale – è una malattia brutta questa –, incapace di ascolto e di servizio alle persone. Aldo Moro ricordava che «uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità»[4]. La parola stessa “democrazia” non coincide semplicemente con il voto del popolo; nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche. In questa prospettiva, come ho avuto modo di ricordare anni fa visitando il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa, è importante far emergere «l’apporto che il cristianesimo può fornire oggi allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società»[5], promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona.

Le ideologie sono seduttrici. Qualcuno le comparava a quello che a Hamelin suonava il flauto; seducono, ma ti portano a annegarti.

A tale scopo rimangono fecondi i principi di solidarietà e sussidiarietà. Infatti un popolo si tiene insieme per i legami che lo costituiscono, e i legami si rafforzano quando ciascuno è valorizzato. Ogni persona ha un valore; ogni persona è importante. La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare. «Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale. Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se la loro efficienza sarà poco rilevante»[6].Tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità; nessuno deve sentirsi inutile. Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone … Mi fermo alla parola assistenzialismo. L’assistenzialismo, soltanto così, è nemico della democrazia, è nemico dell’amore al prossimo. E certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. Non dimentichiamo questo. E cosa c’è dietro questo prendere distanze dalla realtà sociale? C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare.

La seconda riflessione è un incoraggiamento a partecipare, affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato. È questo: a me piace pensare che nella vita sociale è necessario tanto risanare i cuori, risanare i cuori. Un cuore risanato. E per questo occorre esercitare la creatività. Se ci guardiamo attorno, vediamo tanti segni dell’azione dello Spirito Santo nella vita delle famiglie e delle comunità. Persino nei campi dell’economia, della ideologia, della politica, della società. Pensiamo a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti. Tutte queste cose non entrano in una politica senza partecipazione. Il cuore della politica è fare partecipe. E queste sono le cose che fa la partecipazione, un prendersi cura del tutto; non solo la beneficenza, prendersi cura di questo …, no: del tutto!

La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Ci vuole coraggio per pensarsi come popolo e non come io o il mio clan, la mia famiglia, i miei amici. Purtroppo questa categoria – “popolo” – spesso è male interpretata e, «potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è di più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”»[7], che non è populismo. No, è un’altra cosa: il popolo. In effetti, «è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo» [8]. Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario. Sognare il futuro. Non avere paura.

Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili. Appassioniamoci invece al bene comune. Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale.

Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Tanti, tanti non hanno voce. Tanti. Questo è l’amore politico[9], che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile, questo, dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte. E questa è una cosa importante nel nostro agire politico, anche dei pastori nostri: conoscere il popolo, avvicinarsi al popolo. Un politico può essere come un pastore che va davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo. Davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino; in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo; dietro al popolo per aiutare i ritardatari. Un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. Gli manca il principale.

Giorgio La Pira aveva pensato al protagonismo delle città, che non hanno il potere di fare le guerre ma che ad esse pagano il prezzo più alto. Così immaginava un sistema di “ponti” tra le città del mondo per creare occasioni di unità e di dialogo. Sull’esempio di La Pira, non manchi al laicato cattolico italiano questa capacità “organizzare la speranza”. Questo è un compito vostro, di organizzare. Organizzare anche la pace e i progetti di buona politica che possono nascere dal basso. Perché non rilanciare, sostenere e moltiplicare gli sforzi per una formazione sociale e politica che parta dai giovani? Perché non condividere la ricchezza dell’insegnamento sociale della Chiesa? Possiamo prevedere luoghi di confronto e di dialogo e favorire sinergie per il bene comune. Se il processo sinodale ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani. Da discepoli del Risorto, non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio. Non dimentichiamo questo. Tante volte pensiamo che il lavoro politico è prendere spazi: no! È scommettere sul tempo, avviare processi, non prendere luoghi. Il tempo è superiore allo spazio e non dimentichiamo che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Io mi raccomando che voi, nella vostra vita sociale, abbiate il coraggio di avviare processi, sempre. È la creatività e anche è la legge della vita. Una donna, quando fa nascere un figlio, incomincia a avviare un processo e lo accompagna. Anche noi nella politica dobbiamo fare lo stesso.

Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro.

Fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro impegno. Vi benedico e vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione. E per favore vi chiedo di pregare per me, perché questo lavoro non è facile. Grazie.

Adesso, preghiamo insieme e vi darò la benedizione.

[Recita del Padre Nostro]

Giustizia riparativa

patrizio-rovelli-ft2Perché intitolare ad Aldo Scardella l’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari?
di Patrizio Rovelli*

Il nostro obiettivo è avere la certezza che nessuno dimentichi mai la tragica fine di questo giovane. Soprattutto le nuove generazioni e in particolare giudici, avvocati, pubblici ministeri e agenti e ufficiali di polizia giudiziaria che nel 1986 – l’anno in cui il 2 luglio Aldo si tolse la vita da innocente nel carcere di Buoncammino a Cagliari – non erano neppure nati o erano ancora ragazzi.
Va detto che sul tema degli errori giudiziari si gioca oggi una partita importante del futuro della Giustizia nel nostro Paese. L’articolo 24 comma 4 della Costituzione (rimasto in gran parte inattuato) stabilisce, infatti, che la legge deve determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. E il sistema processuale è ancora sprovvisto di una disciplina che consenta agevolmente a chiunque assuma di essere stato condannato ingiustamente con sentenza irrevocabile, di far nuovamente ricorso alla giurisdizione per ottenere il riconoscimento della propria innocenza.
La Giustizia, secondo la Legge Fondamentale, può quindi sbagliare così come l’esperienza dimostra. E possono sbagliare non solo gli inquirenti (i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria), ma anche i giudici e naturalmente gli avvocati che tutelano nel processo imputati e persone offese.
La morte di Aldo è stata la conseguenza di uno degli errori giudiziari più evidenti degli ultimi cinquant’anni.
Aldo era innocente tanto che dopo la sua morte i veri autori dell’omicidio di cui era ingiustamente accusato furono arrestati e condannati.
Il sacrificio della Sua vita deve essere sempre ricordato da chiunque quotidianamente varchi la soglia di un Tribunale. Tutti dobbiamo essere consapevoli della delicatezza dei nostri ruoli e delle enormi sofferenze che gli errori giudiziari arrecano a chi li subisce e ai loro cari.
È nostro dovere provare a immaginare una giustizia penale diversa in cui l’analisi della casistica degli errori giudiziari consenta di evitarli, attraverso la riforma di tutti quegli istituti processuali che comunque incidono sulla decisione del giudice.
È certamente importante ribadire che la ragionevole durata del processo è un valore fondamentale. Ma lo è ancora di più il contenuto di verità e giustizia delle decisioni dei tribunali.
​La magistratura, l’avvocatura e soprattutto il Legislatore devono avere consapevolezza, ognuno per la parte di propria competenza, della fondamentale rilevanza di queste tematiche.
Va a questo proposito ricordato che in alcuni recenti interventi il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto ribadire, a margine del caso Palamara, come sia assolutamente necessaria una “rigenerazione etica e culturale” della magistratura italiana. Lo ha scritto nell’ottobre del 2021 in una lettera inviata al presidente della ANM; e lo ha ribadito all’inizio del 2022 nel discorso tenuto davanti alle Camere riunite in occasione del suo secondo insediamento nella più alta carica dello Stato.
In verità qualche segnale di riflessione è da ultimo venuto anche dalla magistratura che nella sua parte più sensibile ha ricordato e riconosciuto gli errori gravissimi commessi nella vicenda di Enzo Tortora.
Così come pare di poter cogliere un segnale positivo in uno degli ultimi passaggi della Mozione approvata dal 36º congresso nazionale dell’ANM tenutosi a Palermo dal 10 al 12 maggio scorso, nel cui terzultimo capoverso si legge che è auspicio della ANM che la comune cultura di giudici, avvocati e pubblici ministeri possa concorrere a rendere la giustizia “migliore e più giusta”.
Sorprende non poco a tale ultimo proposito che nei tanti progetti di riforma costituzionale presentati dal Governo e dal guardasigilli Nordio, considerato da molti un garantista, non vi sia neppure una proposta che finalmente contempli la piena attuazione dell’articolo 24 comma 4 della Costituzione.
Va in conclusione ricordato il pensiero – oggi più che mai attuale – di Francesco Carnelutti che affermava che dietro ogni sentenza di assoluzione c’è sempre un errore giudiziario. Un errore giudiziario che merita “riparazione”, secondo una corretta interpretazione e attuazione del dettato costituzionale, riconoscendo a chi è stato assolto il diritto al risarcimento per il danno subito all’immagine e al patrimonio economico e affettivo a causa della ingiusta sottoposizione al processo.

*Patrizio Rovelli
Presidente OPG – osservatorio per la Giustizia.
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Articolo apparso come Editoriale su L’Unione Sarda.
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Per opportuna correlazione ripubblichiamo il servizio su Aldo Scardella a 38 anni dalla sua morte.

Accadde 2 luglio di 38 anni fa. Per non dimenticare Aldo Scardella

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/>di Patrizio Rovelli

Il 2 luglio del 1986 nel carcere di Buoncammino moriva Aldo SCARDELLA vittima di un evidente errore giudiziario. Aveva 26 anni ed era accusato di un omicidio che non aveva commesso.
Dopo la sua morte la Procura di Cagliari arrestò gli autori di quel crimine che vennero poi condannati dalla giustizia italiana.
Di lui parlò Enzo Tortora che volle visitare la sua tomba e deporvi dei fiori.
L’Osservatorio per la Giustizia ha deciso di raccogliere le firme per intitolare ad ALDO l’aula più importante del palazzo di giustizia di Cagliari.
Perché nessuno dimentichi mai, varcando l’ingresso del tribunale della nostra città, il sacrificio della vita di questo giovane condannato a diventare un drammatico e dolorosissimo esempio di errore giudiziario.
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aldo-scardella-272024jpgQuesta mattina mi sono sentito sinceramente onorato di accompagnare Cristiano Scardella, fratello di Aldo e l’avv. Patrizio Rovelli, amico di sempre, a rendere omaggio ai Aldo Scardella morto suicida il 2 luglio del 1986 nel carcere di Buoncammino, vittima innocente di un clamoroso errore giudiziario. Con commozione abbiamo accarezzato la foto del giovane Aldo e deposto un mazzo di garofani rossi sulla sua tomba. Aldo merita molto di più dei nostri omaggi e della nostra commozione, seppure importanti perchè sinceri e per lui impegnati, merita di essere ricordato da tutti, compresi gli operatori della giustizia, quella giustizia che a lui è stata barbaramente negata. Ecco perchè la proposta dell’Osservatorio per la Giustizia di intitolare ad ALDO l’aula più importante del palazzo di giustizia di Cagliari, va appoggiata e portata avanti con convinzione e impegno corale fino alla sua accoglienza [fm].
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E’ online Rocca n. 14/2024
15 luglio 2024

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La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

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Il sangue amaro “versato a Reggio Emilia è sangue di
noi tutti”. Dal governo Tambroni al governo Meloni

di Alfiero Grandi (1° Luglio 2024)

Il 7 luglio ricorre il 64° anniversario della manifestazione antifascista del 1960 a Reggio Emilia durante la quale la polizia sparò e uccise 5 persone, la crisi più acuta di un periodo inquietante per l’Italia. Dobbiamo ricordare anzitutto i morti in difesa delle libertà democratiche, conquistate a caro prezzo con la Liberazione del 1945.
Dice la canzone sui morti di Reggio Emilia: “Lauro Farioli è morto (uno dei 5) per riparare al torto di chi s’è già scordato di Duccio Galimberti”, eroe della Resistenza.

Rotta l’unità antifascista, era nato il governo Tambroni
Ricordare i morti di Reggio vuol dire tornare sul significato del governo Tambroni nato con l’appoggio del Movimento Sociale, partito che si richiamava al ventennio fascista. Il governo Tambroni rappresentò una grave sbandata politica della Democrazia Cristiana, che portò alla rottura dell’unità antifascista aprendo al Msi che cercava una legittimazione fino a quel momento negata.
L’antifascismo fino a Tambroni era il fondamento della nostra Repubblica democratica. In quel momento la democrazia italiana rischiò di deragliare e questo, senza parallelismi forzati, può aiutare a capire meglio alcune sfide attuali.
Il nucleo in sofferenza nel 1960 è antifascismo, Costituzione, democrazia. In modi diversi la sofferenza oggi riguarda gli stessi punti.
Non tutto quanto si muove all’estrema destra si richiama al fascismo, tuttavia ci sono organizzazioni come Casa Pound dichiaratamente fasciste che lavorano indisturbate e restano ambiguità preoccupanti in altri.
E’ più che mai necessaria una capacità di reazione politica e sociale capace di isolare, sconfiggere la parte incompatibile con la democrazia così duramente conquistata in Italia. Le rivelazioni di Fanpage su riti e raduni di Gioventù Nazionale viene sottovalutata, ridotta a folklore giovanile, ma è un errore, anche per la destra. Le giustificazioni del Ministro Ciriani in parlamento sui comportamenti di settori di Gioventù nazionale sono un inaccettabile e miope tentativo di sminuire questi episodi, che rappresenta un netto passo indietro rispetto alla svolta di Fini a Fiuggi.

La vittoria drogata delle destre
Il problema dei conti con il fascismo non è solo dichiararsi antifascisti, su cui ci sono le note difficoltà di Giorgia Meloni, ma assumere orientamenti e comportamenti che contrastino antiche tentazioni autoritarie della destra.
Oggi facciamo i conti con la vittoria elettorale delle destre nel settembre 2022 che è stata “drogata” da un premio di maggioranza del 15%, perchè le destre hanno ottenuto solo il 44% dei voti che hanno fruttato il 59% dei parlamentari, grazie ad una legge elettorale incostituzionale che altera il principio della parità di voto degli elettori. Alterazione ancora più grave perché avendo votato il 63% degli aventi diritto il 59% dei deputati e dei senatori è stato ottenuto dalle destre con il 28% del corpo elettorale.
Questa vittoria, avvenuta nel rispetto della legge vigente, avrebbe dovuto consigliare prudenza e moderazione, invece le destre, ad egemonia di Fratelli d’Italia hanno deciso di modificare la Costituzione usando in modo spregiudicato il vantaggio del premio di maggioranza per imporre le loro scelte, mettendo nel mirino la Costituzione del 1948 con l’obiettivo di introdurre una nuova fonte di legittimazione individuata nella delega ad una persona, ad un capo, a decidere.

Torniamo al luglio 1960
Il luglio 1960 è un’epoca lontana, forse sconosciuta a tanti. E’ stato un tornante importante per almeno una generazione perchè in quel periodo è entrata in sofferenza
la democrazia antifascista dell’Italia.
Nel 1960 si sono presentati pericoli che si stanno ripresentando, sia pure in forma diversa, e l’atteggiamento verso la Costituzione ne rappresenta la cartina di tornasole democratica ed antifascista.
Ad esempio: l’antifascismo è un optional o invece è effettivamente – come dovrebbe essere secondo la Costituzione – una pregiudiziale per potere governare ?
Dopo la 2° guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo fu eletta nel 1946 l’assemblea Costituente – per la prima volta in Italia votarono anche le donne – che ebbe il compito di elaborare una Costituzione per la Repubblica italiana, liberata dalla dittatura fascista. Inoltre il voto del 1946 scelse la Repubblica e bocciò la monarchia, compromessa con il fascismo.
La Costituzione aveva il compito di guidare la nuova Repubblica verso una società democratica dopo gli orrori e i disastri della guerra. I padri e le madri costituenti furono all’altezza del compito e scrissero una Costituzione antifascista, profondamente democratica, fondata sulla centralità del parlamento e sulla divisione dei poteri, in modo da evitare in radice il ripresentarsi il rischio di una dittatura e in particolare la dipendenza da un capo che tutto decide.
I diversi poteri dello Stato hanno garantita la loro autonomia e hanno le condizioni per impedire straripamenti degli altri poteri. Questa è la svolta rispetto alla dittatura fascista.

La Costituzione nel mirino
Anche a sinistra sulla Costituzione ci sono state troppe incertezze e tentazioni di cambiamento discutibili. Le modifiche approvate a volte hanno fatto danni come la riforma del titolo V del 2001, che ha dato vita ad un contenzioso mai visto tra Stato e Regioni e ha fornito alibi a Calderoli per l’autonomia differenziata. In sostanza ci si è fatti prendere dalla sindrome di attribuire alla Costituzione responsabilità che in realtà erano difetti ed errori della politica, cioè compiti dei governi e delle maggioranze.
Basta pensare alle promesse elettorali impossibili da mantenere per il loro impianto reazionario inadeguato a rispondere ai problemi. Per questo la Costituzione torna prepotentemente nel mirino e le vengono attribuite responsabilità e inadeguatezze che non le appartengono.
La Costituzione prevede il voto libero delle elettrici e degli elettori per il parlamento, per scegliere da chi farsi rappresentare, e lo fa salvaguardando l’equilibrio tra i poteri, ad esempio l’autonomia della magistratura, ed impedendo l’accentramento di tutto il potere nelle mani di una sola persona, chiarendo che non tutto può essere cambiato. Ad esempio la forma repubblicana non è disponibile, nemmeno se votasse diversamente la maggioranza degli elettori.
Il voto è fondamentale e deve essere libero ma non può legittimare qualunque scelta portando al deragliamento dai valori della Costituzione, come sembrava ritenere Berlusconi, che attribuiva al voto il ruolo di un salvacondotto totale.
La Costituzione italiana è un insieme di principi fondamentali come il diritto uguale per tutti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla tutela della vita sul lavoro, ecc. e, afferma, che la Repubblica è impegnata a rimuovere gli ostacoli che impediscono a tutti di esigere il rispetto di questi ed altri diritti fondamentali.

Chi vuol sostenere le élite economiche e finanziarie?
Settori economici e finanziari, internazionali e nazionali, da tempo premono per cambiare precetti costituzionali considerati ostacoli al libero movimento dei capitali nel pianeta e alla pretesa di plasmarlo a loro piacimento. Da questo pulpito è venuta una pressione per affermare il potere e i dettami delle èlites economiche e finanziarie, per condizionare la vita delle persone, al punto da considerare privatizzabili e di mercato diritti che dovrebbero essere
invece non disponibili per la speculazione privata. Basta pensare alla salute, all’istruzione, ecc.
Le destre nella loro ansia di andare oltre la Costituzione antifascista sembrano non rendersi conto che finiscono con l’essere subalterne alle ideologie che puntano a mutuare le regole di governo accentrato ed autoritario delle imprese, rasentando il ridicolo quando affermano di
muoversi contro i poteri forti. Abbiamo visto cosa è accaduto con la vantata tassazione degli extraprofitti delle banche: ritirata totale con perdite.
La Costituzione del 1948 è stata contrastata dall’inizio da un’area politica e sociale sostanzialmente nostalgica del ventennio fascista. Il tentativo di Fini
a Fiuggi di superare definitivamente queste posizioni è purtroppo sostanzialmente fallito. Non a caso resistono a destra posizioni contro la Costituzione, le cui libertà sono viste perfino come un’occasione da usare per sovvertirne i fondamenti.
La democrazia è certamente in crisi di credibilità e forza, ma vanno distinti i tentativi di affossarla da interventi necessari per ridarle qualità e slancio e
guarda caso gli obiettivi di fondo ancora da realizzare sono proprio quelli scritti nella nostra Costituzione.

Le destre vogliono una Terza repubblica al di là della Costituzione
Le destre al governo, trainate da Fratelli d’Italia, puntano ad arrivare a qualcosa di nuovo e diverso, definito come la terza repubblica italiana, evocando un modello decisionale accentrato ed autoritario, con l’obiettivo di uscire dall’alveo della Costituzione del 1948 per trovare altre fonti di legittimazione. In questo caso un voto popolare che tutto decide, senza neppure vincoli e controlli, ed elegge un capo a cui delega tutto, senza contrappesi e contropoteri.
In sostanza l’obiettivo è costruire una vera e propria capocrazia.
La fonte di legittimazione è individuata nel voto diretto per il Presidente del Consiglio (un succedaneo del Presidenzialismo) proposta a cui la destra è stata spinta dalla grande popolarità di Mattarella che rende difficile scontrarsi con un’opinione pubblica largamente favorevole al ruolo del Presidente della Repubblica, diventato centrale nel risolvere crisi difficili. Ma se andasse in porto il premierato voluto da Giorgia Meloni la conseguenza sarebbe che il
potere concentrato nel Presidente del Consiglio renderebbe marginale il ruolo del Presidente della Repubblica.
La differenza balza agli occhi, il Presidente della Repubblica oggi punta ad evitare che la crisi di un governo, di una coalizione diventino la crisi politica della legislatura. Nel premierato di Giorgia Meloni se il capo viene sconfessato si torna a votare, il parlamento è eletto con lui e dovrebbe cadere con lui.

Una deriva che va contrastata in tutti i modi
Non è fascismo inteso come mero ritorno al passato, ma un forte accentramento autoritario sì, perché porta al superamento della divisione dei poteri e in particolare riduce il parlamento ad un ruolo subalterno e servente del governo, da cui sarebbe del tutto dipendente.
Contro queste scelte occorre usare tutte le possibilità offerte dallo stato democratico e dalla Costituzione, compreso il referendum, per contrastare una deriva che porterebbe nel tempo ad una cesura.
La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

La ribellione di Genova, e non solo
Nel 1960 il governo Tambroni si reggeva sull’astensione del MSI che cercava una legittimazione malgrado fosse un partito che si richiamava apertamente al ventennio fascista e cercava di uscire allo scoperto con manifestazioni pubbliche e un congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, che si ribellò. Ci furono scontri e tensioni fortissime. A Bologna a fine maggio 1960 fu sciolta con la forza una manifestazione in piazza Malpighi. La parte più drammatica fu il 7 luglio con i 5 uccisi a Reggio Emilia nel corso di una manifestazione repressa con violenza dalla polizia. Episodio
figlio del clima di rivalsa della destra, dell’atteggiamento repressivo della polizia che all’epoca aveva non pochi inquinamenti del passato, di un pericoloso sbandamento della Democrazia Cristiana che pure era stata tra i fondatori della nuova Italia democratica.
Quella maggioranza e quel governo erano una rottura con la Resistenza e l’antifascismo che era la base comune delle forze che avevano dato vita alla
Costituzione e alla Repubblica.
Come altri giovani della mia generazione decisi in quei giorni di impegnarmi politicamente, di manifestare lo sdegno per quanto accaduto, contro l’antiautoritarismo e la repressione. I morti a Reggio Emilia per molti giovani furono il momento della scelta, in tanti capimmo che dovevamo impegnarci, che era in corso un duro scontro sulla democrazia che ci riguardava e che andava riconquistato il discrimine antifascista.

Torniamo ancora alla Costituzione
Il governo Tambroni dopo i morti di Reggio Emilia restò in carica poche settimane.
L’eccidio di Reggio Emilia fu uno spartiacque nella vita di tanti, portò ad un impegno politico, una scelta di vita, di partecipazione, in continuità con la convinzione che il compito di ciascuno di noi è agire come cittadini protagonisti della democrazia in Italia.
Questo ci è stato consegnato dalla democrazia conquistata a caro prezzo dalla Resistenza e questo impegno deve continuare nel tempo perché nasce da quelli che Berlinguer definiva gli ideali della sua gioventù.
Anche ora occorre tornare ai fondamenti della Repubblica, della democrazia, della Costituzione, questa è la posta in gioco, certo in forme e condizioni diverse dal 1960.
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mattarella-3Come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.
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Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.

Democrazia.

Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.

Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.

Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.

Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.

Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.

Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.

Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.

Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.

O questa si traduce soltanto in un metodo?

Cosa la ispira?

Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?

È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.

Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.

Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.

Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.

L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.

La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.

Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.

È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.

Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?

Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.

Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.

La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.

Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?

Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?

Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?

Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.

Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.

Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.

I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.

Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.

Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.

Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.

Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.

Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.

Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.

Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.

Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.

Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.

La democrazia non è mai conquistata per sempre.

Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.

Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.

Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.

È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.

Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.

Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.

La stessa esperienza italiana degli ultimi trent’anni ne è un esempio.

Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.

La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.

La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.

È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.

A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.

Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.

Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.

Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.

Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.

Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.

La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.

Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.

Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.

Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.

La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.

Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.

Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.

Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.

La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.

Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.

Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.

Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.

Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.

L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.

Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.

Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.

Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.

Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.

Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.

Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.

Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.

Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.

Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.

La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.

La democrazia è antidoto alla guerra.

Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.

Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.

Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.

La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.

Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.

Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.

Attraversiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.

Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.

È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.

All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.

Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.

Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.

È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.

Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.

Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.

Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.

Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?

Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.

Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.

Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.

L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.

Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.

Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.

Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.

Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.

Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.

Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.

La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.

Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.

Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.

Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.

Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
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Papa Francesco: “Spera e agisci con il creato”

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img_7794“Spera e agisci con il creato”: è il tema della Giornata di preghiera per la cura del creato, il prossimo 1° settembre. È riferito alla Lettera di San Paolo ai Romani 8,19-25: l’Apostolo sta chiarendo cosa significhi vivere secondo lo Spirito e si concentra sulla speranza certa della salvezza per mezzo della fede, che è vita nuova in Cristo.

1. Partiamo allora da una domanda semplice, ma che potrebbe non avere una risposta ovvia: quando siamo davvero credenti, com’è che abbiamo fede? Non è tanto perché “noi crediamo” in qualcosa di trascendente che la nostra ragione non riesce a capire, il mistero irraggiungibile di un Dio distante e lontano, invisibile e innominabile. Piuttosto, direbbe San Paolo, è perché in noi abita lo Spirito Santo. Sì, siamo credenti perché l’Amore stesso di Dio è stato «riversato nei nostri cuori» ( Rm 5,5). Perciò lo Spirito è ora, realmente, «la caparra della nostra eredità» ( Ef 1,14), come pro-vocazione a vivere sempre protesi verso i beni eterni, secondo la pienezza dell’umanità bella e buona di Gesù. Lo Spirito rende i credenti creativi, pro-attivi nella carità. Li immette in un grande cammino di libertà spirituale, non esente tuttavia dalla lotta tra la logica del mondo e la logica dello Spirito, che hanno frutti tra loro contrapposti ( Gal 5,16-17). Lo sappiamo, il primo frutto dello Spirito, compendio di tutti gli altri , è l’amore. Condotti, dunque, dallo Spirito Santo, i credenti sono figli di Dio e possono rivolgersi a Lui chiamandolo «Abbà, Padre» ( Rm 8,15), proprio come Gesù, nella libertà di chi non ricade più nella paura della morte, perché Gesù è risorto dai morti. Ecco la grande speranza: l’amore di Dio ha vinto, vince sempre e ancora vincerà. Il destino di gloria è già sicuro, nonostante la prospettiva della morte fisica, per l’uomo nuovo che vive nello Spirito. Questa speranza non delude, come ricorda anche la Bolla di indizione del prossimo Giubileo. [1]

2. L’esistenza del cristiano è vita di fede, operosa nella carità e traboccante di speranza, nell’attesa del ritorno del Signore nella sua gloria. Non fa problema il “ritardo” della parusia, della sua seconda venuta. La questione è un’altra: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Sì, la fede è dono, frutto della presenza dello Spirito in noi, ma è anche compito, da eseguire in libertà, nell’obbedienza al comandamento dell’amore di Gesù. Ecco la beata speranza da testimoniare: dove? quando? come? Dentro i drammi della carne umana sofferente. Se pur si sogna, ora si deve sognare a occhi aperti, animati da visioni di amore, di fratellanza, di amicizia e di giustizia per tutti. La salvezza cristiana entra nello spessore del dolore del mondo, che non coglie solo gli umani, ma l’intero universo, la stessa natura, oikos dell’uomo, suo ambiente vitale; coglie la creazione come “paradiso terrestre”, la madre terra, che dovrebbe essere luogo di gioia e promessa di felicità per tutti. L’ottimismo cristiano si fonda su una speranza viva: sa che tutto tende alla gloria di Dio, alla consumazione finale nella sua pace, alla risurrezione corporea nella giustizia, “di gloria in gloria”. Nel tempo che passa, però, condividiamo dolore e sofferenza: la creazione intera geme (cfr Rm 8,19-22), i cristiani gemono (cfr vv. 23-25) e geme lo Spirito stesso (cfr vv. 26-27). Il gemere manifesta inquietudine e sofferenza, insieme ad anelito e desiderio. Il gemito esprime fiducia in Dio e affidamento alla sua compagnia affettuosa ed esigente, in vista della realizzazione del suo disegno, che è gioia, amore e pace nello Spirito Santo.

3. Tutta la creazione è coinvolta in questo processo di una nuova nascita e, gemendo, attende la liberazione: si tratta di una crescita nascosta che matura, quasi “granello di senape che diventa albero grande” o “lievito nella pasta” (cfr Mt 13,31-33). Gli inizi sono minuscoli, ma i risultati attesi possono essere di una bellezza infinita. In quanto attesa di una nascita – la rivelazione dei figli di Dio – la speranza è la possibilità di rimanere saldi in mezzo alle avversità, di non scoraggiarsi nel tempo delle tribolazioni o davanti alla barbarie umana. La speranza cristiana non delude, ma anche non illude: se il gemito della creazione, dei cristiani e dello Spirito è anticipazione e attesa della salvezza già in azione, ora siamo immersi in tante sofferenze che San Paolo descrive come “tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada” (cfr Rm 8,35). Allora la speranza è una lettura alternativa della storia e delle vicende umane: non illusoria, ma realista, del realismo della fede che vede l’invisibile. Questa speranza è l’attesa paziente, come il non-vedere di Abramo. Mi piace ricordare quel grande visionario credente che fu Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese “di spirito profetico dotato”, secondo Dante Alighieri [2]: in un tempo di lotte sanguinose, di conflitti tra Papato e Impero, di Crociate, di eresie e di mondanizzazione della Chiesa, seppe indicare l’ideale di un nuovo spirito di convivenza tra gli uomini, improntata alla fraternità universale e alla pace cristiana, frutto di Vangelo vissuto. Questo spirito di amicizia sociale e di fratellanza universale ho proposto in Fratelli tutti. E questa armonia tra umani deve estendersi anche al creato, in un “antropocentrismo situato” (cfr Laudate Deum, 67), nella responsabilità per un’ecologia umana e integrale, via di salvezza della nostra casa comune e di noi che vi abitiamo.

4. Perché tanto male nel mondo? Perché tanta ingiustizia, tante guerre fratricide che fanno morire i bambini, distruggono le città, inquinano l’ambiente vitale dell’uomo, la madre terra, violentata e devastata? Riferendosi implicitamente al peccato di Adamo, San Paolo afferma: «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rm 8,22). La lotta morale dei cristiani è connessa al “gemito” della creazione, perché essa «è stata sottoposta alla caducità» (v. 20). Tutto il cosmo ed ogni creatura gemono e anelano “impazientemente”, perché possa essere superata la condizione presente e ristabilita quella originaria: infatti la liberazione dell’uomo comporta anche quella di tutte le altre creature che, solidali con la condizione umana, sono state poste sotto il giogo della schiavitù. Come l’umanità, il creato – senza sua colpa – è schiavo, e si ritrova incapace di fare ciò per cui è progettato, cioè di avere un significato e uno scopo duraturi; è soggetto alla dissoluzione e alla morte, aggravate dagli abusi umani sulla natura. Ma, in senso contrario, la salvezza dell’uomo in Cristo è sicura speranza anche per il creato: infatti «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Sicché, nella redenzione di Cristo è possibile contemplare in speranza il legame di solidarietà tra gli esseri uomini e tutte le altre creature.

5. Nell’attesa speranzosa e perseverante del ritorno glorioso di Gesù, lo Spirito Santo tiene vigile la comunità credente e la istruisce continuamente, la chiama a conversione negli stili di vita, per resistere al degrado umano dell’ambiente e manifestare quella critica sociale che è anzitutto testimonianza della possibilità di cambiare. Questa conversione consiste nel passare dall’arroganza di chi vuole dominare sugli altri e sulla natura – ridotta a oggetto da manipolare –, all’umiltà di chi si prende cura degli altri e del creato. «Un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso» (Laudate Deum, 73), perché il peccato di Adamo ha distrutto le relazioni fondamentali di cui l’uomo vive: quella con Dio, con sé stesso e gli altri esseri umani e quella con il cosmo. Tutte queste relazioni devono essere, sinergicamente, ristabilite, salvate, “rese giuste”. Nessuna può mancare. Se ne manca una, tutto fallisce.

6. Sperare e agire con il creato significa anzitutto unire le forze e, camminando insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, contribuire a «ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti.Il nostro potere, infatti, è aumentato freneticamente in pochi decenni. Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza» (Laudate Deum, 28). Un potere incontrollato genera mostri e si ritorce contro noi stessi. Perciò oggi è urgente porre limiti etici allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, che con la sua capacità di calcolo e di simulazione potrebbe essere utilizzata per il dominio sull’uomo e sulla natura, piuttosto che messa servizio della pace e dello sviluppo integrale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2024).

7. «Lo Spirito Santo ci accompagna nella vita»: l’hanno capito bene i bambini e le bambine riuniti in Piazza San Pietro per la loro prima Giornata Mondiale, che ha coinciso con la domenica della Santissima Trinità. Dio non è un’idea astratta di infinito, ma è Padre amorevole, Figlio amico e redentore di ogni uomo e Spirito Santo che guida i nostri passi sulla via della carità. L’obbedienza allo Spirito d’amore cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo: da “predatore” a “coltivatore” del giardino. La terra è affidata all’uomo, ma resta di Dio (cfr Lv 25,23). Questo è l’antropocentrismo teologale della tradizione ebraico-cristiana. Pertanto, pretendere di possedere e dominare la natura, manipolandola a proprio piacimento, è una forma di idolatria. È l’uomo prometeico, ubriaco del proprio potere tecnocratico che con arroganza mette la terra in una condizione “dis-graziata”, cioè priva della grazia di Dio. Ora, se la grazia di Dio è Gesù, morto e risorto, è vero quanto ha affermato Benedetto XVI: «Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore» (Lett. enc. Spe salvi, 26), l’amore di Dio in Cristo, da cui niente e nessuno potrà mai separarci (cfr Rm 8,38-39).Continuamente attratta dal suo futuro, la creazione non è statica o chiusa in sé stessa. Oggi, anche grazie alle scoperte della fisica contemporanea, il legame tra materia e spirito si presenta in maniera sempre più affascinante alla nostra conoscenza.

8. La salvaguardia del creato è dunque una questione, oltre che etica, eminentemente teologica: riguarda, infatti, l’intreccio tra il mistero dell’uomo e quello di Dio. Questo intreccio si può dire “generativo”, in quanto risale all’atto d’amore con cui Dio crea l’essere umano in Cristo. Questo atto creatore di Dio dona e fonda l’agire libero dell’uomo e tutta la sua eticità: libero proprio nel suo essere creato nell’immagine di Dio che è Gesù Cristo, e per questo “rappresentante” della creazione in Cristo stesso. C’è una motivazione trascendente (teologico-etica) che impegna il cristiano a promuovere la giustizia e la pace nel mondo, anche attraversola destinazione universale dei beni: si tratta della rivelazione dei figli di Dio che il creato attende, gemendo come nelle doglie di un parto. In gioco non c’è solo la vita terrena dell’uomo in questa storia, c’è soprattutto il suo destino nell’eternità, l’eschaton della nostra beatitudine, il Paradiso della nostra pace, in Cristo Signore del cosmo, il Crocifisso-Risorto per amore.

9.Sperare e agire con il creato significa allora vivere una fede incarnata, che sa entrare nella carne sofferente e speranzosa della gente, condividendo l’attesa della risurrezione corporea a cui i credenti sono predestinati in Cristo Signore. In Gesù, il Figlio eterno nella carne umana, siamo realmente figli del Padre. Mediante la fede e il battesimo inizia per il credente la vita secondo lo Spirito (cfr Rm 8,2), una vita santa, un’esistenza da figli del Padre, come Gesù (cfr Rm 8,14-17), poiché, per la potenza dello Spirito Santo, Cristo vive in noi (cfr Gal 2,20). Una vita che diventa canto d’amore per Dio, per l’umanità, con e per il creato, e che trova la sua pienezza nella santità. [3]

Roma, San Giovanni in Laterano, 27 giugno 2024

FRANCESCO

[1] Spes non confundit, Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024).
[2] Divina Commedia, Paradiso, XII, 141.

[3] Lo ha espresso poeticamente il sacerdote rosminiano Clemente Rebora: «Mentre il creato ascende in Cristo al Padre, / nell’arcana sorte / tutto è doglia del parto: / quanto morir perché la vita nasca! / pur da una Madre sola, che è divina, / alla luce si vien felicemente: / vita che l’amore produce in pianto, / e, se anela, quaggiù è poesia; / ma santità soltanto compie il canto» ( Curriculum vitae, “Poesia e santità”: Poesie, prose e traduzioni, Milano 2015, p. 297).

Ricordando padre Agostino Pirri, frate francescano OFM

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Per Agostino
di Franco Meloni

Ci saranno anche due commendatori al merito della Repubblica italiana, padre Salvatore Morittu e don Ettore Cannavera, a omaggiare padre Agostino Pirri, frate francescano minore, sacerdote – morto un anno fa a 93 anni – in un “evento laico”, venerdì 28 giugno alle 17,30, alla Fondazione di Sardegna, organizzato dagli Amici di padre Agostino in collaborazione con la Comunità La Collina. Se lo merita, eccome Agostino! Nonostante non amasse troppo le cerimonie, perché solo l’umiltà si addice ai frati e lui di maestosità riconosceva solo img_7742quella delle montagne, ovunque situate e la magnificenza delle città d’arte; in entrambi i luoghi, a costo di sacrifici personali, trascinava i suoi giovani e perfino i suoi confratelli.
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img_7745 Però, prima di tutto e tutti lui amava i suoi allievi, sempre giovani a prescindere dall’età. Sì perché Agostino, come don Milani, li amava, forse più di quanto amasse Dio (e Francesco d’Assisi). Ma Dio, come sosteneva don Lorenzo, non tiene questa contabilità perché sta scritto “tutto quello che avete fatto al vostro prossimo lo avete fatto a me”. E frate Agostino di bene ai fratelli e sorelle che ha incontrato nella sua lunga vita terrena ne ha sparso a piene mani. Tanto è che tutti lo ricordano con gratitudine e affetto, e un gruppo di suoi allievi del Movimento Studenti, del tempo a cavallo degli 60-70, lo ha fedelmente seguito, sempre, seppure con diversa gradazione di intensità:
– massima in quegli anni d’oro della giovinezza, quando la bellezza del crescere insieme si unisce alla solidarietà per i più poveri;
- ridotta, più tardi, quando i legami si allentano e gli anni con i suoi giovani diventati adulti, diventano soprattutto un bel ricordo, con sporadici incontri, magari per celebrare qualche matrimonio o, purtroppo, funerali;
- forte, bella e carica d’affetto, negli anni della sua anzianità e poi vecchiaia.
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Ed è proprio quest’ultimo tempo, non breve (oltre vent’anni ) che vogliamo qui ricordare: lo cercammo e ritrovammo nei Conventi francescani del nord Sardegna (Sassari, Bonorva, Fonni) e finalmente riallacciamo forti rapporti quando ci fu riportato a Cagliari nel img_7735Convento di Santa Rosalia-Santuario di San Salvatore da Horta. Da allora i pomeriggi di quasi ogni mercoledì quando si leggeva insieme un brano del Vangelo che lui commentava con poche sagge parole e poi: “raccontatemi di voi, della vostra vita, delle vostre famiglie, di cose tristi o divertenti… e, vi raccomando, state più vicini al Signore. Ora facciamo una preghiera, vi do la benedizione e andate via… perché ho altri impegni, o… perché voglio vedermi in santa pace una partita di calcio in Tv”. Con nostalgia ricordiamo i festeggiamenti per i compleanni, nei conventi di Santa Rosalia o, img_7739negli ultimi anni, di Sant’Antonio a Quartu. E, ancora, le “andate ad Assisi”:
nel 2014, img_7736 con la storica messa alla Porziuncola, in Santa Maria degli Angeli, dove è nato l’Ordine francescano; nel 2015, con la visita a La Verna, in cui img_7737Francesco ricevette le stimmate e Agostino benché con difficoltà di deambulazione, incurante del pericolo scese, in solitaria, allo img_7741Spicco, luogo assai impervio, per pregare laddove lo faceva Francesco, lui sfuggendo alle attenzioni dei confratelli e Agostino alle nostre. E’ evidente img_7740 come fosse sorretto dallo Spirito! Quanti altri ricordi, in tutti i luoghi dove visse San Francesco: img_7755 San Damiano, Santa Chiara, l’eremo delle carceri… fino img_7738all’ultima trasferta senza spostarci dalla terra sarda, a San Pietro di Sorres.
E così per altro tempo benedetto, fino agli ultimi anni della sua vita, allorché le gambe non lo reggevano più e tuttavia continuava a riceverci in quel di Quartu, in sedia a rotelle.
img_7748Come stai Agostino? Era la prima domanda che ti facevamo. E tu: “Bbene!”. Si, marcando quella B iniziale. “Ah, se non fosse per queste gambe che non mi reggono…”.
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Il 14 maggio dello scorso anno i confratelli ci avvisarono che era stato ricoverato all’ospedale Binaghi per Covid, ma che non era questo male a preoccupare i medici, quanto il fatto che il Covid aveva scatenato tutte le vecchie patologie fino ad allora in progressivo ma lento decorso. Alcuni di noi amici andammo a trovarlo: il Covid era stato domato ma non il resto e aveva inesorabilmente perso conoscenza. Dopo pochi giorni veniva riportato in Convento, come aveva chiesto quand’era lucido, e li serenamente morire il 21 giugno 2023.
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Caro Agostino,
nostro padre Agostino, ti credevamo eterno, anche per la tua missione spirituale così sempre vicina a Nostro Signore. Ma le nostre preghiere e, più sinceramente, il nostro egoismo non sono serviti a trattenerti ancora tra noi, dopo 93 anni di vita in parte preponderante come frate dell’ordine francescano dei minori, in missione permanente. Sei andato in pace con un sorriso, quello che ci accoglieva sempre, anche in questi ultimi anni nel Convento di Sant’Antonio, a Quartu Sant’Elena. Agostino sei stato sempre nel nostro cuore e scusaci se continuando sempre ad amarti, non abbiamo seguito tutti i tuoi consigli. Per colpa nostra, ti dicevo scherzando, non ti hanno fatto Vescovo. Si, perché la Santa Sede che fa i Vescovi aveva così ragionato: “Ma questo Agostino, frate benedetto, quanti seguaci “buoni cristiani” ha formato e quanti infedeli ha convertito? Molti, forse moltissimi, ma pochi, pochissimi, rispetto alle aspettative”. Ma ha formato tanti buon cittadini, rispettosi del bene comune! “Non basta. E poi ha allevato perfino qualche comunista e non tutti i suoi giovani sono rimasti credenti: resti frate minore, semplicemente padre!”. Sospettiamo che il Vaticano abbia indagato anche sulle nostre storie, campeggi e messe comunitarie… E così niente promozioni! Agostino ridiamo insieme, come sempre hai fatto, del resto delle cariche e dell’esteriorità non ti importava un fico secco! E così, severo con te stesso e, seppure non docile di carattere, ma sempre disponibile e immancabilmente sorridente ti pensiamo, ti vediamo, ancora, dacché che sei nella casa del Padre. Piangiamo di nascosto. Ciao Agostino. Sei e sarai una presenza importante tra tutte e tutti noi!

(Franco Meloni)
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Spes contra Spem

Spes contra Spem
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Ringraziamo il nostro amico direttore di Rocca Mariano Borgognoni per l’autorizzazione a pubblicare il suo Editoriale, che condividiamo in toto, sul quindicinale del primo luglio.
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Morti e feriti sul lavoro e di lavoro: non è cambiato niente

PRESIDIO DAVANTI AL COMUNE PER LE VITTIME DELL'ESPLOSIONE ALLA EURECOUna lettera di Gianni Loy, già ordinario di Diritto del lavoro dell’Università di Cagliari.

Carissimi,
non ho il tempo per riscrivere un altro articolo sulle morti sul lavoro. Anche a cambiare il nome del morto, le considerazioni sarebbero le stesse. Non ho il tempo – anche se lo potrei recuperare – ma soprattutto non ne ho la voglia e, ahimè, la forza.
Quest’articolo, l’avevo inviato ad un quotidiano il mese scorso, dopo la morte, tragica, dei 5 di Palermo. Non è stato pubblicato, né ho ricevuto una risposta di cortesia. E’ per la delusione che non ve l’ho neppure inviato.
Il rituale è sempre lo stesso: ogni tanto riempiono le prime pagine per la morte brutale di una vittima dello sfruttamento, poi, nei giorni successivi, si giustificano le “piccole evasioni” che, se punite, metterebbero in ginocchio l’imprenditore inadempiente e metterebbero a rischio posti di lavoro!
Vi invio il vecchio articolo, senza modificare il nome dell’ucciso di stavolta. Cambierebbe poco. Ma se volete saperlo, anche quest’ultima storia era già stata scritta, sin quasi ai dettagli, in un cortometraggio di Peter Marcias. Era intitolato – è intitolato – : “Benvenuto Khalid”. L’unica differenza rispetto alla storia di oggi, è che il cadavere del lavoratore in nero, morto nel lavoro, era stata gettato sotto il ponte del Scaffa, anziché dinanzi alla casa. Il cortometraggio è di 15 anni fa. È cambiata qualcosa?
Buona giornata.

Le leggi ci sono
di Gianni Loy

Piangiamo altri morti sul lavoro, altri 5, a Palermo. Ci fermiamo a riflettere, come è giusto che sia, di fronte al dramma, senza rimedio, della morte.
Un dramma, quello della vita spezzata di altri lavoratori, che riporta alla luce una ben conosciuta tragedia quotidiana, quello dello sfruttamento, della disperazione, spesso del lavoro nero. Per poco, perché dopo il cordoglio delle autorità, una volta spenti i riflettori, sfogati la rabbia ed il dolore, la macina riprenderà a girare come se niente fosse accaduto. Come tante altre volte, dopo i tanti altri funerali che hanno accompagnato al camposanto i corpi di lavoratori e lavoratrici schiacciati dalla violazione delle leggi del lavoro, dal mancato rispetto delle misure di protezione contro i rischi. Piangiamo, anche se siamo tutti complici, in un certo senso, perché con i nostri comportamenti contribuiamo, o non ci opponiamo, alle quotidiane evasioni, o elusioni – ma che differenza fa? – di queste norme.
Probabilmente, come spesso avviene in simili occasioni, si leverà, ancora una volta, il coro di chi invoca l’inasprimento delle pene.
Ma Raffaele Guariniello, un ex magistrato, simbolo storico dell’impegno per il rispetto delle leggi sulla sicurezza nel lavoro, ha subito messo in chiaro che “le leggi ci sono”. Semplicemente in pochi si curano di farle applicare. Lo ha ricordato ieri, ma lo predicava anche 30 anni fa. Non di rado, gli ispettori del lavoro – in numero gravemente insufficiente al bisogno – sono persino umiliati, ed esposti al pubblico ludibrio, perché nello svolgere il loro compito sarebbero colpevoli di ostacolare il “regolare” funzionamento di un’economia che pretende di camminare a briglia sciolta, con il solo obiettivo di onorare il suo solo Dio: il profitto.
Anche per questo milioni di giovani e meno giovani, donne, immigrati, dovranno continuare a guadagnarsi un tozzo di pane, a pochi euri l’ora, mettendo in conto di dover esporre a repentaglio la propria sicurezza.
Storia vecchia, quasi antica. Prima ancora che ce lo ripetesse Guariniello, lo aveva urlato a gran voce un prete, don Milani, oltre mezzo secolo fa, dopo aver assistito ai funerali di altri ragazzi, Maria, Matilde, Giovanna, Antonella, Tina, che più non ricordiamo chi fossero, erano ragazzi.
“Si, le leggi ci sono. – denunciava il priore di Barbiana – La società ci ha pensato. Eppure queste quattro leggi (sulla protezione della salute nei luoghi di lavoro) e molte altre sono violate ogni giorno, in 1200 stanzoni e 4500 telai, sotto gli occhi dei tutori dell’ordine. E non c’è neanche da dire che il telaio sia una macchina che si possa nascondere. Si sente di lontano. Pare impossibile che i tutori dell’ordine non sentano quel canto disperato delle macchine che chiamano, che urlano, che accusano”.
A oltre mezzo secolo da quella verità scomoda, pare davvero impossibile che quel fenomeno non sia stato neppure scalfito, che tutto si sia modificato senza che niente, o quasi, sia cambiato.
Oggi piangiamo. Da domani, si continuerà a parlare dell’eccessiva rigidità della norme, a chiedere tolleranza.
Chi continuerà a parlare del valore del lavoro rimarrà voce clamante, forse emarginato dai luoghi sacri del sapere, perché il Diritto del lavoro, se si continua di questo passo, finirà per ritornare ad essere una dottrina sovversiva. Proprio come già accaduto – anche questo tanti anni fa – ad un altro curato di campagna, Georges Bernanos, che per aver osato proclamare dal pulpito la semplice idea, “secondo la quale il lavoro non è una merce, sottomessa alla legge della domanda e dell’offerta, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini, come sul grano lo zucchero o il caffè – come lui stesso racconta – mi hanno fatto passare per un socialista e i benpensanti mi hanno fatto cadere in disgrazia a Montreuil”.
Amen e così sia!
Gianni Loy
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img_7678Su Avvenire

Il bracciante Satnam è morto di disumanità
Poteva essere salvato, Satnam Singh? Se fosse stato portato subito all’ospedale e non invece caricato su un furgone e abbandonato davanti alla sua baracca, forse oggi potrebbe essere ancora accanto a sua moglie. Mutilato, senza un braccio, ma vivo.
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Su Avvenire
Caporalato. Nei campi dell’Agro Pontino c’è un esercito di lavoratori fantasma
Antonio Maria Mira giovedì 20 giugno 2024
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Tutto questo lo dovranno accertare le indagini, ma resta un fatto: il modo in cui è morto il bracciante indiano impiegato in nero nell’Agro Pontino è davvero quanto di più disumano si possa immaginare. La politica si indigna e si interroga, la Chiesa chiede dignità per gli immigrati, i sindacati proclamano uno sciopero… Ma secondo un esperto interpellato dal nostro Antonio Maria Mira, nella provincia di Latina, dove vivono circa 30mila immigrati asiatici, i morti di lavoro sono almeno 15 ogni anno. Anche noi consumatori qualche domanda ce la dobbiamo porre: quando acquistiamo pomodori o bottiglie di conserva a prezzi bassissimi, ci chiediamo quale sofferenza e sfruttamento potrebbero nascondersi dietro quella “convenienza”? Su Avvenire del 22/6/2024 la riflessione di Pietro Saccò
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Rocca 13/2024 e’ online
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Intelligenza artificiale

img_7616Papa Francesco al G7, il testo integrale del discorso
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[Da Vatican News] Pubblichiamo integralmente l’intervento del Pontefice oggi, 14 giugno 2024, alla sessione comune del vertice che si svolge a Borgo Egnazia, in Puglia, sul tema della intelligenza artificiale

Uno strumento affascinante e tremendo

Gentili Signore, illustri Signori!
Mi rivolgo oggi a Voi, Leader del Forum Intergovernativo del G7, con una riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità.
«La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro” (Es 35,31)» [1]. La scienza e la tecnologia sono dunque prodotti straordinari del potenziale creativo di noi esseri umani [2].
Ebbene, è proprio dall’utilizzo di questo potenziale creativo che Dio ci ha donato che viene alla luce l’intelligenza artificiale.
Quest’ultima, come è noto, è uno strumento estremamente potente, impiegato in tantissime aree dell’agire umano: dalla medicina al mondo del lavoro, dalla cultura all’ambito della comunicazione, dall’educazione alla politica. Ed è ora lecito ipotizzare che il suo uso influenzerà sempre di più il nostro modo di vivere, le nostre relazioni sociali e nel futuro persino la maniera in cui concepiamo la nostra identità di esseri umani [3].
Il tema dell’intelligenza artificiale è, tuttavia, spesso percepito come ambivalente: da un lato, entusiasma per le possibilità che offre, dall’altro genera timore per le conseguenze che lascia presagire. A questo proposito si può dire che tutti noi siamo, anche se in misura diversa, attraversati da due emozioni: siamo entusiasti, quando immaginiamo i progressi che dall’intelligenza artificiale possono derivare, ma, al tempo stesso, siamo impauriti quando constatiamo i pericoli inerenti al suo uso [4].
Non possiamo, del resto, dubitare che l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenti una vera e propria rivoluzione cognitivo-industriale, che contribuirà alla creazione di un nuovo sistema sociale caratterizzato da complesse trasformazioni epocali. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe permettere una democratizzazione dell’accesso al sapere, il progresso esponenziale della ricerca scientifica, la possibilità di delegare alle macchine i lavori usuranti; ma, al tempo stesso, essa potrebbe portare con sé una più grande ingiustizia fra nazioni avanzate e nazioni in via di sviluppo, fra ceti sociali dominanti e ceti sociali oppressi, mettendo così in pericolo la possibilità di una “cultura dell’incontro” a vantaggio di una “cultura dello scarto”.
La portata di queste complesse trasformazioni è ovviamente legata al rapido sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale stessa.
Proprio questo vigoroso avanzamento tecnologico rende l’intelligenza artificiale uno strumento affascinante e tremendo al tempo stesso ed impone una riflessione all’altezza della situazione.
In tale direzione forse si potrebbe partire dalla costatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego.
Questo è sicuramente vero, poiché così è stato per ogni utensile costruito dall’essere umano sin dalla notte dei tempi.
Questa nostra capacità di costruire utensili, in una quantità e complessità che non ha pari tra i viventi, fa parlare di una condizione tecno-umana: l’essere umano ha da sempre mantenuto una relazione con l’ambiente mediata dagli strumenti che via via produceva. Non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti. Qualcuno ha voluto leggere in tutto ciò una sorta di mancanza, un deficit, dell’essere umano, come se, a causa di tale carenza, fosse costretto a dare vita alla tecnologia [5]. Uno sguardo attento e oggettivo in realtà ci mostra l’opposto. Viviamo una condizione di ulteriorità rispetto al nostro essere biologico; siamo esseri sbilanciati verso il fuori-di-noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. Da qui prende origine la nostra apertura agli altri e a Dio; da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità.
Tuttavia, l’uso dei nostri utensili non sempre è univocamente rivolto al bene. Anche se l’essere umano sente dentro di sé una vocazione all’oltre e alla conoscenza vissuta come strumento di bene al servizio dei fratelli e delle sorelle e della casa comune (cfr Gaudium et spes, 16), non sempre questo accade. Anzi, non di rado, proprio grazie alla sua radicale libertà, l’umanità ha pervertito i fini del suo essere trasformandosi in nemica di sé stessa e del pianeta [6]. Stessa sorte possono avere gli strumenti tecnologici. Solo se sarà garantita la loro vocazione al servizio dell’umano, gli strumenti tecnologici riveleranno non solo la grandezza e la dignità unica dell’essere umano, ma anche il mandato che quest’ultimo ha ricevuto di “coltivare e custodire” (cfr Gen 2,15) il pianeta e tutti i suoi abitanti. Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica.
Quando i nostri antenati, infatti, affilarono delle pietre di selce per costruire dei coltelli, li usarono sia per tagliare il pellame per i vestiti sia per uccidersi gli uni gli altri. Lo stesso si potrebbe dire di altre tecnologie molto più avanzate, quali l’energia prodotta dalla fusione degli atomi come avviene sul Sole, che potrebbe essere utilizzata certamente per produrre energia pulita e rinnovabile ma anche per ridurre il nostro pianeta in un cumulo di cenere.
L’intelligenza artificiale, però, è uno strumento ancora più complesso. Direi quasi che si tratta di uno strumento sui generis. Così, mentre l’uso di un utensile semplice (come il coltello) è sotto il controllo dell’essere umano che lo utilizza e solo da quest’ultimo dipende un suo buon uso, l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con questa modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato [7].
Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche. L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica. A volte, spesso nel difficile compito del governare, siamo chiamati a decidere con conseguenze anche su molte persone. Da sempre la riflessione umana parla a tale proposito di saggezza, la phronesis della filosofia greca e almeno in parte la sapienza della Sacra Scrittura. Di fronte ai prodigi delle macchine, che sembrano saper scegliere in maniera indipendente, dobbiamo aver ben chiaro che all’essere umano deve sempre rimanere la decisione, anche con i toni drammatici e urgenti con cui a volte questa si presenta nella nostra vita. Condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza, se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine. Abbiamo bisogno di garantire e tutelare uno spazio di controllo significativo dell’essere umano sul processo di scelta dei programmi di intelligenza artificiale: ne va della stessa dignità umana.
Proprio su questo tema permettetemi di insistere: in un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano. Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano.
C’è da aggiungere, inoltre, che il buon uso, almeno delle forme avanzate di intelligenza artificiale, non sarà pienamente sotto il controllo né degli utilizzatori né dei programmatori che ne hanno definito gli scopi originari al momento dell’ideazione. E questo è tanto più vero quanto è altamente probabile che, in un futuro non lontano, i programmi di intelligenze artificiali potranno comunicare direttamente gli uni con gli altri, per migliorare le loro performance. E, se in passato, gli esseri umani che hanno modellato utensili semplici hanno visto la loro esistenza modellata da questi ultimi – il coltello ha permesso loro di sopravvivere al freddo ma anche di sviluppare l’arte della guerra – adesso che gli esseri umani hanno modellato uno strumento complesso vedranno quest’ultimo modellare ancora di più la loro esistenza [8].
Il meccanismo basilare dell’intelligenza artificiale
Vorrei ora soffermarmi brevemente sulla complessità dell’intelligenza artificiale. Nella sua essenza l’intelligenza artificiale è un utensile disegnato per la risoluzione di un problema e funziona per mezzo di un concatenamento logico di operazioni algebriche, effettuato su categorie di dati, che sono raffrontati per scoprire delle correlazioni, migliorandone il valore statistico, grazie a un processo di auto-apprendimento, basato sulla ricerca di ulteriori dati e sull’auto-modifica delle sue procedure di calcolo.
L’intelligenza artificiale è così disegnata per risolvere dei problemi specifici, ma per coloro che la utilizzano è spesso irresistibile la tentazione di trarre, a partire dalle soluzioni puntuali che essa propone, delle deduzioni generali, persino di ordine antropologico.
Un buon esempio è l’uso dei programmi disegnati per aiutare i magistrati nelle decisioni relative alla concessione dei domiciliari a detenuti che stanno scontando una pena in un istituto carcerario. In questo caso, si chiede all’intelligenza artificiale di prevedere la probabilità di recidiva del crimine commesso da parte di un condannato a partire da categorie prefissate (tipo di reato, comportamento in prigione, valutazione psicologiche ed altro), permettendo all’intelligenza artificiale di avere accesso a categorie di dati inerenti alla vita privata del detenuto (origine etnica, livello educativo, linea di credito ed altro). L’uso di una tale metodologia – che rischia a volte di delegare de facto a una macchina l’ultima parola sul destino di una persona – può portare con sé implicitamente il riferimento ai pregiudizi insiti alle categorie di dati utilizzati dall’intelligenza artificiale.
L’essere classificato in un certo gruppo etnico o, più prosaicamente, l’aver commesso anni prima un’infrazione minore (il non avere pagato, per esempio, una multa per una sosta vietata), influenzerà, infatti, la decisione circa la concessione dei domiciliari. Al contrario, l’essere umano è sempre in evoluzione ed è capace di sorprendere con le sue azioni, cosa di cui la macchina non può tenere conto.
C’è da far presente poi che applicazioni simili a questa appena citata subiranno un’accelerazione grazie al fatto che i programmi di intelligenza artificiale saranno sempre più dotati della capacità di interagire direttamente con gli esseri umani (chatbots), sostenendo conversazioni con loro e stabilendo rapporti di vicinanza con loro, spesso molto piacevoli e rassicuranti, in quanto tali programmi di intelligenza artificiale saranno disegnati per imparare a rispondere, in forma personalizzata, ai bisogni fisici e psicologici degli esseri umani.
Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali, è spesso un grave errore che trae origine o dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia o da un loro presupposto subcosciente, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia.
Questo presupposto, tuttavia, è azzardato, come dimostra l’esame dei limiti intrinseci del calcolo stesso. L’intelligenza artificiale usa delle operazioni algebriche da effettuarsi secondo una sequenza logica (per esempio, se il valore di X è superiore a quello di Y, moltiplica X per Y; altrimenti dividi X per Y). Questo metodo di calcolo – il cosiddetto “algoritmo” – non è dotato né di oggettività né di neutralità [9]. Essendo infatti basato sull’algebra, può esaminare solo realtà formalizzate in termini numerici [10].
Non va dimenticato, inoltre, che gli algoritmi disegnati per risolvere problemi molto complessi sono così sofisticati da rendere arduo agli stessi programmatori la comprensione esatta del come essi riescano a raggiungere i loro risultati. Questa tendenza alla sofisticazione rischia di accelerarsi notevolmente con l’introduzione di computer quantistici che non opereranno con circuiti binari (semiconduttori o microchip), ma secondo le leggi, alquanto articolate, della fisica quantistica. D’altronde, la continua introduzione di microchip sempre più performanti è diventata già una delle cause del predominio dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte delle poche nazioni che ne sono dotate.
Sofisticate o meno che siano, la qualità delle risposte che i programmi di intelligenza artificiale forniscono dipendono in ultima istanza dai dati che essi usano e come da questi ultimi vengono strutturati.
Mi permetto di segnalare, infine, un ultimo ambito in cui emerge chiaramente la complessità del meccanismo della cosiddetta intelligenza artificiale generativa (Generative Artificial Intelligence). Nessuno dubita che oggi sono a disposizione magnifici strumenti di accesso alla conoscenza che permettono persino il self-learning e il self-tutoring in una miriade di campi. Molti di noi sono rimasti colpiti dalle applicazioni facilmente disponibili on-line per comporre un testo o produrre un’immagine su qualsiasi tema o soggetto. Particolarmente attratti da questa prospettiva sono gli studenti che, quando devono preparare degli elaborati, ne fanno un uso sproporzionato.
Questi alunni, che spesso sono molto più preparati e abituati all’uso dell’intelligenza artificiale dei loro professori, dimenticano, tuttavia, che la cosiddetta intelligenza artificiale generativa, in senso stretto, non è propriamente “generativa”. Quest’ultima, in verità, cerca nei big data delle informazioni e le confeziona nello stile che le è stato richiesto. Non sviluppa concetti o analisi nuove. Ripete quelle che trova, dando loro una forma accattivante. E più trova ripetuta una nozione o una ipotesi, più la considera legittima e valida. Più che “generativa”, essa è quindi “rafforzativa”, nel senso che riordina i contenuti esistenti, contribuendo a consolidarli, spesso senza controllare se contengano errori o preconcetti.
In questo modo, non solo si corre il rischio di legittimare delle fake news e di irrobustire il vantaggio di una cultura dominante, ma di minare altresì il processo educativo in nuce. L’educazione che dovrebbe fornire agli studenti la possibilità di una riflessione autentica rischia di ridursi a una ripetizione di nozioni, che verranno sempre di più valutate come inoppugnabili, semplicemente in ragione della loro continua riproposizione [11].
Rimettere al centro la dignità della persona in vista di una proposta etica condivisa
A quanto già detto va ora aggiunta un’osservazione più generale. La stagione di innovazione tecnologica che stiamo attraversando, infatti, si accompagna a una particolare e inedita congiuntura sociale: sui grandi temi del vivere sociale si riesce con sempre minore facilità a trovare intese. Anche in comunità caratterizzate da una certa continuità culturale, si creano spesso accesi dibattiti e confronti che rendono difficile produrre riflessioni e soluzioni politiche condivise, volte a cercare ciò che è bene e giusto. Oltre la complessità di legittime visioni che caratterizzano la famiglia umana, emerge un fattore che sembra accomunare queste diverse istanze. Si registra come uno smarrimento o quantomeno un’eclissi del senso dell’umano e un’apparente insignificanza del concetto di dignità umana [12]. Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi. Non dobbiamo dimenticare infatti che nessuna innovazione è neutrale. La tecnologia nasce per uno scopo e, nel suo impatto con la società umana, rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre. Questa costitutiva dimensione di potere della tecnologia include sempre, in una maniera più o meno esplicita, la visione del mondo di chi l’ha realizzata e sviluppata.
Questo vale anche per i programmi di intelligenza artificiale. Affinché questi ultimi siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.
La decisione etica, infatti, è quella che tiene conto non solo degli esiti di un’azione, ma anche dei valori in gioco e dei doveri che da questi valori derivano. Per questo ho salutato con favore la firma a Roma, nel 2020, della Rome Call for AI Ethics [13] e il suo sostegno a quella forma di moderazione etica degli algoritmi e dei programmi di intelligenza artificiale che ho chiamato “algoretica” [14]. In un contesto plurale e globale, in cui si mostrano anche sensibilità diverse e gerarchie plurali nelle scale dei valori, sembrerebbe difficile trovare un’unica gerarchia di valori. Ma nell’analisi etica possiamo ricorrere anche ad altri tipi di strumenti: se facciamo fatica a definire un solo insieme di valori globali, possiamo però trovare dei principi condivisi con cui affrontare e sciogliere eventuali dilemmi o conflitti del vivere.
Per questa ragione è nata la Rome Call: nel termine “algoretica” si condensano una serie di principi che si dimostrano essere una piattaforma globale e plurale in grado di trovare il supporto di culture, religioni, organizzazioni internazionali e grandi aziende protagoniste di questo sviluppo.
La politica di cui c’è bisogno
Non possiamo, quindi, nascondere il rischio concreto, poiché insito nel suo meccanismo fondamentale, che l’intelligenza artificiale limiti la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate, estromettendo l’apporto di altre forme di verità e imponendo modelli antropologici, socio-economici e culturali uniformi. Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di “paradigma tecnocratico” [15]. Non possiamo permettere a uno strumento così potente e così indispensabile come l’intelligenza artificiale di rinforzare un tale paradigma, ma anzi, dobbiamo fare dell’intelligenza artificiale un baluardo proprio contro la sua espansione.
Ed è proprio qui che è urgente l’azione politica, come ricorda l’Enciclica Fratelli tutti. Certamente «per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» [16].
La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che «davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato […] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura» [17].
Gentili Signore, illustri Signori!
Questa mia riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità ci conduce così alla considerazione dell’importanza della “sana politica” per guardare con speranza e fiducia al nostro avvenire. Come ho già detto altrove, «la società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo” (Laudato si’, 191)» [18].
Questo è proprio il caso dell’intelligenza artificiale. Spetta ad ognuno farne buon uso e spetta alla politica creare le condizioni perché un tale buon uso sia possibile e fruttuoso.
Grazie.

NOTE
[1] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 1.
[2] Cfr ibid.
[3] Cfr ivi, 2.
[4] Questa ambivalenza fu già scorta da Papa San Paolo VI nel suo Discorso al personale del “Centro Automazione Analisi Linguistica” dell’Aloysianum, del 19 giugno 1964.
[5] Cfr A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, 43.
[6] Lett. enc Laudato si’ (24 maggio 2015), 102-114.
[7] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 3.
[8] Le intuizioni di Marshall McLuhan e di John M. Culkin sono particolarmente pertinenti alle conseguenze dell’uso dell’intelligenza artificiale.
[9] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[10] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 4.
[11] Cfr ivi, 3 e 7.
[12] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana (2 aprile 2024).
[13] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Convegno “Promoting Digital Child Dignity – From Concet to Action”, 14 novembre 2019; Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[15] Per una più ampia esposizione, rimando alla mia Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015.
[16] Lettera enc. Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), 176.
[17] Ivi, 178.
[18] Ivi, 179.

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Europa, Europa

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E’ ARRIVATA L’ONDATA DI DESTRA, MA REGGONO I FRANGIFLUTTI
di GIANCARLO INFANTE su PoliticaInsieme.
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Jun 10, 2024 – 07:26:33 – CEST – PoliticaInsieme

Così è arrivata l’ondata di destra, ma, al di là di alcuni risultati eclatanti come in Francia e in Germania, non riesce a superare i frangiflutti europeisti.

Il risultato finale dovrebbe far trovare alle destre un po’ più di 130 seggi nel Parlamento di Strasburgo che, però, ne ha 720 [dato relativo alla legislatura 2024-2029]. I conservatori della Meloni crescono di un solo seggio. 9 in più per quelli della Le Pen e Salvini. Troppo poco per scalfire l’attuale maggioranza.

Si è trattato di un’ondata controversa e dipendente dalle situazioni nazionali. I conservatori della Meloni non avanzano dappertutto e lo stesso è accaduto all’altra destra della Le Pen e Salvini. Per non parlare dello schiaffone ricevuto a casa sua da Orban. Cui, poveretto, si è aggiunta la beffa di vedere eletta a Strasburgo quella Ilaria Salis detenuta in Ungheria in maniera davvero barbara.

Bisognerà attendere i numeri finali della distribuzione dei seggi per capire esattamente quali le conseguenze concrete sulla spiaggia. In più, c’è da considerare l’incertezza determinata dal fatto che un consistente numero degli eletti sarà formato da quelli che non indossano alcune casacca di una delle grandi famiglie politiche europee. In ogni caso, dopo l’abbuffata elettorale, in tanti dovranno tornare con i piedi per terra e a ragionare sulle cose realmente imposte dai numeri, più che dai titoli dei giornali o dalle speculazioni espresse nel corso dei nostri dibattiti televisivi.

L’onda della destra viene comunque da lontano. Sin da quando molto centro e molta sinistra si sono messi a seguire e compiacere le politiche della finanziarizzazione a scapito dell’economia reale. Così, oggi, si pagano le abdicazioni a condurre politiche sociale e a riprendere quel percorso europeo caratterizzato soprattutto dallo spirito della solidarietà, della coesione e dell’inclusione.

Certo, molto hanno influito la stagione del Covid e l’invitabile conseguente distruzione dell’economia mondiale e la vera e propria esplosione dell’inflazione. Poi, la guerra d’Ucraina. Nel futuro, gli studiosi di sociologia e gli storici dell’antropologia ci diranno quanto questi fattori hanno contribuito, e contribuiranno ancora, a determinare un clima simile a quello che ci fu tra le due guerre mondiali del secolo scorso, caratterizzato da un’analoga ondata di destra.

E il problema dell’emigrazione, mal gestito, ha avuto pure la sua parte. Sia pure soprattutto, per la gran parte, in una dimensione psicologica e molto strumentalizzata dalla destra più estrema e xenofoba.

Oggi, tutto questo ha presentato il conto. Soprattutto a Macron e ai socialdemocratici tedeschi. Il primo, addirittura, ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale ed andare ad elezioni anticipate perché convinto che la Francia non sia ancora pronta per dare un piena maggioranza interna alla Le Pen.

Comunque, la sinistra , più che mai e un po’ dappertutto, dovrà davvero decidere cosa fare nel futuro. E riflettere sui tanti perché di una sconfitta che non ammette repliche.

Il risultato di questa settimana di voto chiamerà ad una grande responsabilità soprattutto il Partito popolare europeo confermato come la principale formazione nel Parlamento di Strasburgo.

Il dato elettorale ci dice che i suoi più diretti competitori non sono solamente i socialisti, ma anche l’estrema destra. Nei prossimi giorni, allora, il Ppe dovrà esprimere il meglio della propria tradizione democratica, di equilibrio e di lungimiranza. Ben ha fatto Ursula von der Leyen ad assicurare l’intenzione di voler contrastare tutti gli estremisti, di destra e di sinistra. Dalle sue prime dichiarazioni si è avuta la conferma che vuole andare avanti con la stessa coalizione che cinque anni fa prese il suo nome: “Ursula”. Ha parlato di una coalizione la più ampia possibile e, dunque, le si porrà il problema del veto che socialisti e verdi hanno chiaramente espresso verso ogni forma di coinvolgimento delle destre, conservatori della Giorgia Meloni compresi.

Resta, in conclusione, la valutazione del voto italiano. Non è cambiato nulla riguardo un tema che non interessa a nessuno, ma che, invece, vale la pena sempre di sottolineare: l’elettorato è andato al mare. E non solo per il bel tempo. Si è tenuto lontano dalle urne, con ben il 52% di astenuti. Soprattutto per il voto europeo, visto che qualcuno in più si è presentato ai seggi per partecipare al concomitante rinnovo regionale in Piemonte e di numerosi comuni. Si rinnova, insomma, il forte, diffuso e generalizzato giudizio negativo per l’intera nostra classe politica, in generale, ma anche per chi è al governo, in particolare. Sappiamo che nessuno ne farà tesoro perché l’importante è festeggiare una vittoria che, stando ai dati sull’affluenza, con buona ragione possiamo definire “dimezzata”.

La mancata partecipazione ha confermato, dunque, una generale disaffezione per il “bipolarismo” e di tutto ciò che esso comporta, e cioè una politica rissosa e non costruttiva. Al tempo stesso, ha continuato paradossalmente a premiare quelli che di bipolarismo vivono e ne traggono i principali vantaggi, a scapito degli “assenti”. Così, i Fratelli d’Italia consolidano i risultati delle ultime politiche, ma il Pd cresce e diventa addirittura uno dei più consistenti nella sinistra di Strasburgo. Il defunto Terzo polo è più che mai tale e quelli che furono i suoi esponenti si confermano del tutto ininfluenti.

Come abbiamo già scritto numerose volte, resta il fatto che Giorgia Meloni deve fare i conti con ciò che conta davvero in Europa e soprattutto considerare che se, in Italia tiene, a Bruxelles non conterà perché leader di Fratelli d’Italia, bensì solo perché è alla guida del nostro Governo nazionale. Giacché l’ondata da lei promessa per tutto il Vecchio continente è stata fermata dai frangiflutti…

Giancarlo Infante
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ape-innovativaMentanamente
di Aladin 10/6/2024
Ieri notte Mentana a La7 ha fatto il “terrorista”. Sembrava che l’Europa fosse stata vinta al Totoelezioni dai nazi-fascisti. E mostrava una malcelata soddisfazione! E’ una sorta di raptus irrefrenabile che prende i giornalisti quando credono di essere arrivati per primi nel comunicare un evento, bello o brutto che sia. In realtà è vero che la destra avanza in tutta Europa, ma nonostante la situazione della Francia e della Germania (Macron e Scholz son stati puniti perché guerrafondai), l’Unione Europea e il suo Parlamento restano sotto il controllo delle forze democratiche di centro, liberali, verdi e di sinistra.
Non v’è dubbio, infatti, che il prossimo Parlamento Europeo potrà godere di una maggioranza solida, la medesima che ha governato l’Europa negli ultimi 5 anni. Infatti insieme i Popolari, i Liberali e i Socialisti europei possono contare su più di 400 seggi su un totale di 720. Ovviamente speriamo che l’Unione Europea possa abbandonare la politica guerrafondaia che purtroppo l’ha caratterizzata negli ultimi anni, per avere un ruolo decisivo nell’avviare processi di pace con riferimento alle guerre Ucraina-Russia e Israele-Palestina.
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L’Europa di Altiero Spinelli ha un futuro? Federare i paesi europei, eliminando l’assoluta sovranità degli Stati e i nazionalismi…
10 Giugno 2024 ripubblicato su Democraziaoggi.

di Maria Paola Patuelli – Ravennanotizie

L’Europa di Altiero Spinelli avrà un futuro? Non è un interrogativo retorico. È un interrogativo che mi pongo, quando l’esito delle elezioni europee ci dirà quale sarà il futuro dell’Europa. Una Europa che vede, fra i paesi aderenti, governi che sono in Europa con un disegno politico opposto a quello disegnato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, nel Manifesto scritto a Ventotene, dove si trovavano confinati, perché antifascisti militanti.
Anche in paesi, come il nostro, che all’Europa, per quanto ancora incompiuta, hanno dato fiducia, sono in crescita forze ostili all’unità europea. Credo che un ritorno fra di noi di Spinelli lo vedrebbe incredulo, smarrito. Cosa vogliono? L’Ungheria, per esempio, perché fa parte dell’Unione europea? Mi unirei a lui in questo interrogativo, e chissà, con la sua lucida intelligenza, forse potremmo venirne a capo. Perché io, da sola, ho grandi difficoltà a trovare una riposta che mi soddisfi. Che soddisfi il mio europeismo. Mi sento profondamente europea. Non solo perché è un dato di fatto, geografico. Ma perché sono convinta – e per questo sono europeista, significato distinto da europea – che quella di Spinelli non sia stata una infondata profezia, ma un programma politico di valore non inferiore alla nostra Costituzione.
L’Europa di oggi è sotto i nostri occhi. Le opinioni sullo stato dell’Europa sono inevitabilmente plurali. Ma è necessario che dell’Europa si abbia presente anche il percorso storico, di assai lunga durata. Un percorso raramente presente nel discorso pubblico. E questo è un guaio. Perché l’Europa non è nata ieri, né, tantomeno, con l’euro. Tempo fa, in occasione di alcuni incontri, ho ricostruito un po’di questa storia. … Per avvicinarci al nodo, da dove viene l’Europa? Quale la sua storia? […]

Elezioni, elezioni

elezioniRiflessioni sulle scadenze elettorali e sul ruolo delle autonomie territoriali e della “capitale” della Sardegna.

di Franco Meloni

Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai. Abbiamo votato il 25 febbraio per il rinnovo del Consiglio regionale e eletto Alessandra Todde prima presidente donna della storia dell’Autonomia Sarda, mentre nella scadenza unificata dell’8 e 9 giugno siamo chiamati alle urne per il rinnovo dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo, nonché in 27 Comuni sardi per le elezioni amministrative (374.412 elettori). Le elezioni europee sono cruciali per il futuro dell’Unione Europea, che vorremo sempre più entità politica dei popoli e delle persone, non solo comunità economica. Le elezioni amministrative sono importanti per il rinnovo gestionale di tutti i paesi interessati, ma è evidente come l’attenzione dei media e del mondo politico sia puntata soprattutto su Cagliari e Sassari, le due principali città sarde (Cagliari con 133.499 elettori, Sassari con 107.073 elettori), che potrebbero andare ciascuna al ballottaggio tra i due candidati più votati, il 23 e 24 giugno. Così come per le città più piccole con più di 15000 abitanti: Alghero, Monserrato e Sinnai. Il grosso degli elettori si concentra dunque nelle Città metropolitane di Cagliari e di Sassari, che hanno soppiantato sostanzialmente le due vecchie Province, affiancandosi alle restanti sei, con la ridefinizione dei relativi confini. Gli statuti di queste entità intermedie tra Regione e Comuni non prevedono attualmente l’elezione diretta degli organi di governo da parte dei cittadini, nonostante le leggi istitutive lo consentano, limitandosi alla nomina dei rappresentanti da parte dei Comuni: un sistema francamente anti democratico da superare quanto prima.
Una riflessione sembra opportuna sulla recente istituzione della Città metropolitana di Sassari, dopo quella di Cagliari: questo nuovo assetto territoriale contribuisce a togliere ogni ragione di rivalità tra le due più grandi città sarde, frutto di antiche vicende che appartengono al passato, piuttosto che problema reale dei rispettivi abitanti. Certo è che per Cagliari le elezioni ripropongono il dibattito sul suo ruolo rispetto alla Sardegna. Noi sardi nell’intimo serbiamo un sentimento nazionalitario e a prescindere dalle appartenenze politiche, ci sentiamo sardi prima che Italiani ed Europei. Consideriamo la nostra regione quasi uno stato indipendente, non per niente godiamo di un’Autonomia Speciale nell’ambito dello Stato Italiano. Ecco perché nonostante l’attribuzione amministrativa di Cagliari sia “capoluogo” regionale, preferiamo definirla come “capitale” della Sardegna. img_6679E’ un titolo prestigioso, che merita nella misura in cui realizza una missione di servizio nei confronti della Sardegna intera,img_6656 che ritroviamo declinata nelle iscrizioni sulle facciate laterali del Palazzo municipale di Cagliari: “Fortitudo totius insulae” (Coraggio di tutta l’isola), “Insulae decor” (Bellezza dell’isola), “Insulae clavis et robur” (Chiave e forza dell’isola). Ne deriva un impegno programmatico di ampio respiro per il Sindaco metropolitano e gli amministratori comunali di Cagliari, nonché per gli altri Sindaci e amministratori sardi, tra i quali quelli espressi dalle prossime elezioni amministrative.
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Elezioni

di Giorgio Gaber
Generalmente mi ricordo
una domenica di sole
una mattina molto bella
un’aria già primaverile
in cui ti senti più pulito

Anche la strada è più pulita
senza schiamazzi e senza suoni
chissà perché non piove mai
quando ci sono le elezioni

Una curiosa sensazione
che rassomiglia un po’ a un esame
di cui non senti la paura
ma una dolcissima emozione

E poi la gente per la strada
li vedo tutti più educati
sembrano anche un po’ più buoni
ed è più bella anche la scuola
quando ci sono le elezioni

Persino nei carabinieri
c’è un’aria più rassicurante
ma mi ci vuole un certo sforzo
per presentarmi con coraggio

C’è un gran silenzio nel mio seggio
un senso d’ordine e di pulizia
democrazia

Mi danno in mano un paio di schede
e una bellissima matita
lunga sottile marroncina
perfettamente temperata

E vado verso la cabina
volutamente disinvolto
per non tradire le emozioni

E faccio un segno
sul mio segno
come son giuste le elezioni

E’ proprio vero che fa bene
un po’ di partecipazione
con cura piego le due schede

e guardo ancora la matita
così perfetta e temperata
io quasi quasi me la porto via
democrazia.
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Verso le elezioni europee e amministrative

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Aladinpensiero ospiterà gratuitamente materiali elettorali dei candidati alle elezioni europee e amministrative (soprattutto) appartenenti alla sinistra, al campo largo e ad altre formazioni che si ispirano alla Costituzione democratica ed antifascista.
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Ecco le dieci liste che sostengono Massimo Zedda sindaco di Cagliari alle elezioni dell’8 e 9 giugno (dalle 15 alle 23 e domenica 9 giugno, dalle 7 alle 23). L’eventuale turno di ballottaggio è previsto domenica 23 e lunedì 24 giugno. Di seguito le liste con tutti i nomi dei candidati.

Partito democratico: Alessandra Burgio, Marco Benucci, Elena Fontanarossa, Emanuele Boi, Paoletta Garau, Alessandro Cao, Ombretta Ladu, Davide Carta, Marta Mereu, Franco Carucci, Rita Piludu, Sergio Cassanello, Rita Polo, Stefano Deidda, Elsa Girolama Ranno, Carlo Floris, Barba Serra (nota Bibi), Andrea Locci, Laura Soma, Giuseppe Macciotta, Federica Trudu, Massimo Alberto (noto Massimo) Mattana, Desdemona (nota Daisy) Vargiu, Davide Medda, Carlo Augusto Melis Costa, Daniele Melis, Filippo Petrucci, Fabio Pireddu, Mauro Pistis, Marcello Sollai, Vincenzo (noto Enzo) Strazzera, Riccardo Vacca, Sergio Vacca.

Sinistra Futura: Lucia Baiocchi, Michele Boero, Valter Alberto (noto Valter) Campana, Antonello Carai, Emanuele Cioglia, Massimo Delrio, Milena Falqui, Maria Grazia Frailis, Stefano Incani, Roberta Laconi, Sebastiana (nota Tania) Lai, Marianna Ligas, Cesira Loi, Francesca Loriga, Pierpaolo Marras, Donatella Masala, Consolata (nota Consuelo) Melis, Valtere (noto Valter) Merella, Roberto Mirasola, Patrizia Mocci, Asim Vaveed, Francesco Nonnis, Federico (noto Kikko) Orrù, Maria Germana Antonia (nota Germana) Orrù, Giovanni Giulio (noto Giangi) Pala, Maria Silvia Petricci, Maurizio Piludu, Antonella Pinna, Laura Pinna, Simone Piredda, Francesco Pisano, Carlo Serra, Laura Stochino, Silvia Usai.

Progressisti: Matteo Massa, Anna Puddu, Alessio Alias, Alessandra Bertocchi, Fabio Accalai, Lucia Casu, Jacopo Arrais, Chiara Cocco, Ciro Auriemma, Maria Francesca Chiappe, Mauro Cadoni, Antonella De Montis, Alessandro Cao, Federica Diana, Pierluigi Locci, Martina Dotta, Enrico Mele, Susanna Fortunata Fornera, Valerio Piga, Daniela Latti, Michele Pipia (noto Pippia), Federica Laura Maggio, Dietrich Steinmetz, Rosario Mayores Magmanlac, Mariano Strazzeri, Maria Francesca Marrocu, Roberto Tramaloni, Valentina Mereu, Carlo Usai, Flora Missoni, Donatella Mulas, Paola Mura, Anna Rughinis, Anna Rosa Zedda.

Orizzonte Comune: Marzia Cilloccu, Gianluca Aresu, Giada Atzei, Angelica Baldus, Martina Benoni, Donatella Carboni, Isabella Carta, Carla Cuccu, Bruno Demuru, Carla Deplano, Maurizio Fuccaro, Elena Garau, Antonio Gaudino, Marco Ghiani, Sonia Lai, Giovanna Liccardi, Luigi Loi, Raimondo Mandis, Paolo Masala, Simone (noto Canepa) Mereu, Marco Milia, Fabio (noto Mulliri) Mulleri, Monica Mureddu, Alessandro Olisterno, Alberto Perla, Kety Piras, Emiliano Pisano, Marcello Polastri, Alberto Tosini.

Cagliari che vorrei: Adolfo Costa noto Ciccio, Andrea Cardia, Vasco Cogotti noto Vasco, Roberto Zorcolo, Mauro Toffolon, Valentina Pischedda, Antonio Gregorini noto Antonello, Fabio Peara, Maria Grazia Loddo, Roberto Lilliu, Alessia Ibba, Stefania Donaera, Antonio Camboli, Alessandro Pedroni noto Pedro, Stefania Mercurio, Katia Coccoi, Maria Cristina Guarino, Stefania Sanna, Carla Cardia, Francesca Lai, Ilaria Licheri, Giovanni Piano, Cristina Maria Soriga, Silvia Tinti, Rosa Casella nota Rossella, Valter Gerina.

Cagliari Europea (Psi-Pri-Fortza Paris): Gianfranco Accocci, Giuseppe Aquila noto Pino, Federica Avagnano, Roberto Bertone, Raffaele Bistrussu noto Lino, Carla Caffarena, Luciano Caboni, Manuela Chia, Pierpaolo Congiu noto Paoletto, Gianfranco Damiani, Gianluca Deidda, Francesco Delussu, Sara Dessì, Ottavio Di Grezia, Daniele Figus, Giovanni Fois, Pierpaolo Frau, Enrico Edoardo Gavassino, Michela Ibba, Francesco Loi, Elisabetta Macis, Roberto Marras, Valentina Orgiana, Rosa Putzu, Elisabeth Rijo, Giuseppe Serpionano noto Serpi, Antonio Serra noto Nuccio.

Alleanza Verdi Sinistra: Giulia Andreozzi, Mania Brundu, Dario Cabboi, Valter Canavese, Marco Cocco Norfo, Roberta Colizzi, Luisa Colomo, Anna Luisa De Giorgio nota Lula, Sara Didaci, Michela Garofalo, Alessandra Geddo Lehmann nota Sandra, Rita Guglielmo, Leonello Lai noto Lello, Giampaolo Graziano Ledda, Maurizio Loi, Rossano Mameli, Silvana Meloni, Andrea Moi, Francesca Mulas, Alessandro Murgia, Giacomo Angelo Pala, Helena Pes, Enrico Piano, Amalia Picinelli, Giambattista Piga, Marianna Piras, Carlo Quesada, Andrea Scano, Marta Scanu, Pietro Scanu, Corrado Sorrentino, Guido Spano, Lucia Testagrossa, Emanuela Vigo.

Movimento 5 stelle: Peppino Calledda noto Pino, Luisa Giua Marassi, Luciano Congiu, Juliana Vivian Carone nota Giuliana, Cristian Verderame, Giuseppa Alessandra Piras, Michele Bardino, Serena Racis, Walter Zedda, Emanuele Addari, Gabriele Caredda, Laura Bruni, Carlo Poerio, Pierpaola Collu, Mario Spina noto Gemello, Stefano Spina, Simone Barrago, Graziella Pisu, Patrizia Serra, Michelangelo Serra, Margherita Falqui, Francesca Dettori, Amelia Monni, Michele Ortu, Elisabetta Manella, Giovanni Vargiu noto Gianni, Antonio Sandro Friargiu noto Sandro, Monica Masala, Luca Vadilonga, Andrea Murgia, Antonio Farina.

Cagliari Avanti: Carlo Acquas , Patrizio Anedda, Luca Atzori noto Bebeto, Maurizio Battelli, Giampiero Buttafuoco, Paolo Casu, Simonetta Concas, Elio Curreli, Alessandro Di Martino, Simona Fontanarosa, Mohammed Hosfer, Barbara Masala, Francesca Melis, Debora Monteverde, Roberto Mucelli, Claudia Nossardi, Silvia Orefice, Francesca Orrù, Giuseppe Ortu, Oscar Palmas, Fabio Carlo Pinna, Emanuela Piredda, Gianfrancesco Piscitelli noto Gianfranco, Emanuele Piseddu, Giovanni Porrà, Giuseppe Raffone, Claudia Rizzo, Matteo Rocca, Gianluigi Santoni, Elisabetta Serra, Sandeep Singh, Francesco Spanu, CarlaVacca.

A Innantis: Simone Anedda, Stefano Arca, Maurizio Bonetti, Massimo Calabrese, Federico Cincotti, Orietta Corrias, Franco Cuccu, Luisa Demelas, Ornella Demuru, Alessandro Desogus, Moreno Floris, Francesco Ledda, Luca Salvatore Loddo, Paola Manca, Massimo Marini, Maria Carmen Masala, Andrea Mereu, Alessio Mura, Marco Murgia, Dante Olianas, Rossana Sassu, Cristiana Velluti, Martina Melas, Marco Vargiu, Francesco Sedda noto Franciscu.

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Verso l’election day: europee e amministrative

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Aladinpensiero ospiterà gratuitamente materiali elettorali dei candidati alle elezioni europee e amministrative (soprattutto) appartenenti alla sinistra, al campo largo e ad altre formazioni che si ispirano alla Costituzione democratica ed antifascista.
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