Internazionale

La saggezza di Francesco

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Cari amici,
In attesa che qualcuno la colga, alta sul mondo sventola la gloriosa bandiera bianca di Papa Francesco.
Se il Papa, rispondendo alla Televisione svizzera, avesse parlato solo del negoziato, come fa incessantemente da quando è scoppiata la guerra, presentandolo come un dovere morale, oltre che politico, nessuno lo sarebbe stato a sentire, perché ormai le parole di buon senso non si possono più nemmeno pronunciare in questo mondo (occidentale) a una sola dimensione (la guerra). Invece ha preso in carico la metafora offertagli dall’intervistatore, e ha parlato di bandiera bianca, e tutti si sono indignati, soprattutto quelli, come Biden e i nostri giornali, che alla guerra ci mandano gli altri.
Ma al bianco era dedicata tutta l’intervista, come simbolo della purezza, della mitezza e della bontà, ed è venuta fuori perfino la ragione, a tutti ignota, per la quale il Papa è vestito di bianco, che non è quella di mostrarlo senza peccato (perché io pecco come gli altri, ha spiegato Francesco, uomo e non vicario di Dio, che di Vicari non ne ha sulla terra, o meglio ne ha otto miliardi, quanti siamo nel mondo) ma è semplicemente quella che Pio V era un domenicano, e perciò aveva l’abito bianco, e da allora è invalsa la tradizione di vestire di bianco anche i suoi successori (lo fa per la prima volta il cerimoniere, prima di annunziare che “habemus papam”).
Così, grazie alla simbologia del bianco, che non vuol dire affatto la resa, ma anzi il coraggio di restare umani quando si associa alla bandiera, tutti hanno dovuto raccogliere l’unica voce nel mondo, che mentre i più inneggiano all’impossibile e immancabile vittoria delle armate di Kiev, sempre più zeppe di armi e sempre più deprivate di uomini (e donne), dice che il re è nudo, quando il re (e ahimè, quale re!) è nudo davvero. E perfino il Nunzio è stato convocato a Kiev, come l’ultimo degli ambasciatori, per fargli sapere che l’unica bandiera dell’Ucraina è giallo-blu, anche se purtroppo, oggi e chissà per quanto tempo voluto dai suoi “governanti”, è a mezz’asta.
La cosa singolare è poi che mentre Biden si è permesso di dire a Netanyahu che sta facendo la rovina del suo popolo (e anzi di tutti gli Ebrei sparsi nel mondo), e nessuno gli ha dato sulla voce, anche perché è sacrosantemente vero, tutti se la sono presa con papa Francesco che laicamente ha fatto anche un discorso di sapienza e convenienza politica.
Messo tutto insieme, quello che ne viene fuori è che nella demenza pandemica, che sembra essere la vera seconda epidemia di questo inizio secolo, i poteri che ci governano stanno tornando al 1939, quando la Germania, cominciando dalla Polonia, voleva arrivare a Mosca, e diede avvio alla guerra mondiale, che allora era la seconda. Come la Germania di allora, la NATO si spinge verso Est e il ministro degli Esteri polacco ha rivelato che “il personale militante della Nato è già presente in Ucraina” (europei compresi) e, siccome il mondo si è allargato, mentre si ammassano fascine per la guerra contro la Russia, il progetto è, dopo la Russia, di eliminare la Cina. Ma oggi in più c’è l’atomica, i missili, i droni, e anche la carne da cannone è aumentata, dato che sulla Terra siamo, appunto, in otto miliardi. Allora gli Stati Uniti non volevano intervenire, c’è voluta Pearl Harbour, mentre ora sono già qui, e un po’ di fascismo viene avanti anche da loro, e da noi c’è una cultura fascista al potere.
C’è chi esplicitamente si richiama al ’39, e rimpiange come a Roma ci sia papa Francesco, non uno come Pio XII (pensato come cappellano dell’Occidente): ma dalle carte segrete della Santa Sede pubblicate dopo la guerra risulta che Tardini, Sostituto segretario di Stato, voleva e scriveva che la guerra doveva finire non solo con la sconfitta della Germania nazista, ma anche con la liquidazione dell’Unione Sovietica e del suo comunismo.
In questa situazione chiedere di avere il coraggio di negoziare, “per non portare il Paese al suicidio” (e questo vale anche per Hamas con i palestinesi), non è una bestemmia, è un invito alla salvezza, un barlume di verità.
Nel sito pubblichiamo l’intervista del Papa e due testimonianze sulla tragedia in corso a Gaza: “Non c’è più verde a Gaza” e “Se questo non è un genocidio”.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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La tragedia di Gaza
SE QUESTO NON È UN GENOCIDIO

13 MARZO 2024 / EDITORE / DICONO I FATTI / 0 COMMENT
Più di 10 bambini al giorno hanno perso un arto e a più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate le gambe, ma Israele non fa entrare le protesi. I nuovi nati vengono al mondo affetti da malattie genetiche. I progetti di assistenza sanitaria

Della cooperante Giuditta di “Fonti di Pace” pubblichiamo una testimonianza su Gaza al ritorno da una missione al Cairo:

“Torno da una missione al Cairo, dal 3 all’8 marzo, per fare acquisti di materiali da portare e distribuire nella striscia di Gaza. Tutto legato al cessate il fuoco che sembrava oramai prossimo; purtroppo così non è stato.

Tuttavia la missione è stata utile per approfondire i tempi e le modalità sia per gli acquisti dei materiali che per il progetto finanziato con l’8X1000 della Chiesa Valdese.

Ho incontrato il dr. Aed Yaghi, direttore del Palestinian Medical Relief Society a Gaza, e insieme abbiamo discusso delle modalità per portare sollievo alla popolazione. Purtroppo, la richiesta iniziale di acquistare carrozzine e stampelle per i tanti che hanno perso le gambe causa i bombardamenti – un rapporto di Save the Children del 8 gennaio scorso dichiarava che “in media, più di 10 bambini al giorno hanno perso un arto. In 3 mesi a più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate una o entrambe le gambe, senza neanche l’anestesia.” – non è risultata percorribile. I controlli a cui Israele sottopone i convogli destinati alla popolazione di Gaza vietano l’ingresso di alcuni materiali in particolare di “metallo”.

Il direttore del Palestinian Medical Relief Society ha fatto presente le necessità di tanti neonati che presentano malattie di origine genetica, che hanno bisogno di particolari alimenti.

Si tratta di neonati affetti da fenilchetonuria (una patologia del metabolismo degli aminoacidi che compare nei bambini nati senza la capacità di degradare la fenilalanina che, tossica per il cervello, si accumula nel sangue). Per loro è stata richiesta la fornitura di latte in polvere arricchito con ferro, perché questo tipo di alimento aiuta a compensare la carenza di enzimi che causano nel neonato la disfunzione nel controllo del movimento, nella capacità di memorizzare e su altre funzioni cognitive. Anche per i bambini affetti da stessa malattia metabolica è stato richiesto l’acquisto di specifici alimenti.

A Gaza questi casi erano seguiti dal World Food Program, servizio oggi in parte interrotto. Si tratta di neonati e bambini già vulnerabili che corrono il maggior rischio di complicanze sanitarie e di morte se non ricevono adeguate cure.

A causa dell’aggressione israeliana, la malnutrizione acuta nella Striscia di Gaza sta raggiungendo livelli importanti: c’è bisogno di un accesso continuo a cibi sani, acqua pulita e servizi sanitari.

La mancanza di acqua potabile, così come l’insufficienza di acqua per cucinare e per l’igiene, aggravano la condizione di vita, lavarsi e cucinare. In media, le famiglie hanno accesso a meno di un litro di acqua sicura per persona al giorno. Secondo gli standard umanitari, la quantità minima di acqua sicura necessaria in caso di emergenza è di tre litri per persona al giorno, mentre lo standard generale è di 15 litri per persona, che comprende quantità sufficienti per bere lavarsi e cucinare.

Oggi a Gaza siamo in presenza di civili affamati, assetati e deboli. La fame e le malattie sono una combinazione letale che, uniti ad una situazione igienico sanitaria insostenibile, vede l’espandersi di infezioni intestinali e respiratorie, malattie contagiose, vaiolo, meningiti, epatite. “C’è il rischio che muoiano più persone a causa di malattie che a causa dei bombardamenti a Gaza se il sistema sanitario del territorio non viene rimesso in piedi rapidamente” ha dichiarato Margaret Harris portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’Associazione Fonti di Pace in sintonia con il partner P.M.R.S. cercherà di arrivare a Gaza per portare gli aiuti richiesti.

Durante gli incontri con il direttore del P.M.R.S. si è discusso anche del progetto approvato lo scorso mese di settembre e finanziato con l’8X1000 della Chiesa Valdese.

Il progetto entrava nel suo terzo anno di attività: offrivamo servizi di riabilitazione a bambini ed adulti con disabilità che vivono nel governatorato di Khan Yunis; purtroppo, a causa dell’aggressione israeliana in corso non ci sono le condizioni per sviluppare ulteriormente il progetto che avrebbe avuto la durata di 9 mesi.

Ci sono difficoltà a trovare le famiglie inserite nel progetto – oltre 1.700.000 sono gli sfollati nella striscia di Gaza e di questi 1 milione si sono trasferiti tra Khan Yunis e Rafah – e il Centro di Riabilitazione del P.M.R.S. a Khan Yunis si trova in un’area fortemente sottoposta a bombardamenti e all’ occupazione dell’esercito israeliano. Il centro è irraggiungibile e non sappiamo se ha subito danni. Anche gli spostamenti delle persone sono altamente a rischio causa la presenza di cecchini israeliani e posti di blocco.

Rivedere il progetto è stato quindi necessario. Molti i bisogni rappresentati, ma soprattutto abbiamo discusso della fattibilità di creare e gestire un progetto.

Si è convenuto che la priorità resta quella di offrire servizi sanitari di base alle persone sfollate e che hanno trovato sistemazione nelle scuole Unrwa o nelle tendopoli. Abbiamo quindi preso in considerazione la necessità di arrivare alle persone ferite che dopo un intervento non possono restare negli ospedali, i quali sono sottoposti a bombardamenti, occupazione da parte dell’esercito e spesso evacuati forzatamente. Nella striscia di Gaza di 36 ospedali attualmente solo 6 sono parzialmente operativi. Dei feriti tanti sono i bambini – al 5 marzo scorso i dati del Ministero della salute di Gaza riportano che 9.179 sono bambini feriti. Queste persone ferite vengono dimesse quando ancora avrebbero bisogno di cure.

Si è pertanto definito di rimodulare il progetto per portare servizi di assistenza sanitaria-infermieristica ai civili feriti con particolare attenzione ai bambini.

Un team composto da un medico generico, un’ infermiera, un fisioterapista e uno psicologo visiterà i feriti che vivono nelle tendopoli e nelle scuole Unrwa. Sul posto il team medico porterà farmaci e materiali sanitari per le cure necessarie. Lo psicologo affronterà gli eventi traumatici che hanno colpito le persone e che hanno determinato in tanti casi un cambiamento radicale nella loro vita. Lavorerà in sinergia con il fisioterapista-riabilitatore in quanto questa condivisione di servizi si è già dimostrata efficace per il buon esito del programma terapeutico complessivo. Il team del P.M.R.S. sarà in contatto con il personale sanitario degli ospedali ancora operativi e presenti nei governatorati di Khan Yunis e Rafah, i quali forniranno le informazioni utili a raggiungere i feriti dimessi.

I servizi di assistenza primaria sanitaria saranno svolti nelle “aree mediche” identificate nelle scuole dell’Unrwa e nelle tende già allestite dal P.M.R.S. nei centri degli sfollati. Il personale sanitario si sposterà sul territorio con un mezzo che verrà preso a noleggio, stante che nel corso dei bombardamenti il P.M.R.S. ha perso diversi mezzi. Le attività del progetto inizieranno il prossimo mese di maggio, avranno la durata di 5 mesi e almeno 3.500 feriti beneficeranno dei servizi…

A Gaza, intanto, gli attacchi sono incessanti. La popolazione continua a spostarsi senza un posto sicuro dove andare. I bambini continuano a sperimentare orrori indicibili. La Gaza Resistente ci chiede aiuto, ci chiede di sostenere i loro diritti: Terra, Libertà ma soprattutto Giustizia. Senza Giustizia l’impunità di Israele continua.
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Pace

img_6419 Su L’Unione Sarda.

Papa Francesco ha detto ciò che pensa la stragrande maggioranza della gente che segue attraverso i media la guerra Russa-Ucraina (di tutti i paesi del mondo). Bisogna negoziare per evitare ulteriori morti e devastazioni! Non c’è altra via. Occorre arrivare a un cessate il fuoco e a un accordo di pace in cui non ci siano vincitori e vinti. E’ una soluzione ragionevole, lo capiscono tutti, ad eccezione dei governanti e dei mercanti di armi che fanno affari strabilianti sulla pelle della gente, soprattutto delle popolazioni civili martoriate. Migliaia di persone di tutte le età, soprattutto giovani, muoiono. Basta, basta, basta!
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Il Papa sulla guerra in Ucraina: non abbiate vergogna di negoziare

[Vatican News] Pubblichiamo il testo dell’intervista rilasciata da Francesco a Lorenzo Buccella, giornalista della Radio Televisione Svizzera (RSI), anticipata oggi da alcune agenzie e che l’emittente elvetica trasmetterà il prossimo 20 marzo

Per la Palestina * Manifestazione a Cagliari

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Chiesadituttichiesadeipoveri News

img_5187Newsletter n.332 del 2 marzo 2024

LA PEDAGOGIA DELLA VIOLENZA

Cari amici,

se c’era una cosa che nella spietata guerra di Gaza Israele doveva evitare. era di fornire un simbolo che per la sua forza evocativa fosse pari all’orrore suscitato dalla strage compiuta il 7 ottobre da Hamas al confine settentrionale della Striscia.

Questa colpì gli inermi civili e i giovani che partecipavano a un festival musicale nel kibbutz di Re’im, mentre l’ultimo attacco israeliano contro la folla nel Nord della Striscia ha colpito civili e giovani innocenti che mossi dalla disperazione cercavano di strappare qualche frammento degli aiuti umanitari per lenire la fame, ciò che ha provocato oltre 100 morti e 700 feriti.

A Gaza la guerra ha cambiato natura divenendo un genocidio

img_6273INTERVENTO ALLA BIBLIOTECA DEL SENATO
6 febbraio 2024

Raniero La Valle

Giusta è la vostra proposta che ci ha qui riunito, e tutte vere le cose che sono state dette fin qui, però io credo che noi dobbiamo alzare il livello di coscienza riguardo alla tragedia in atto. Che cosa aspettiamo a prendere atto della catastrofe di cui siamo nello stesso tempo responsabili e autori? Noi non stiamo parlando infatti della guerra di Gaza, come meritoriamente ci avete invitato a fare. La guerra di Gaza è di fatto una radiografia della situazione mondiale, una radiografia fatta con mezzo di contrasto e ad alta definizione. È una confessione sullo stato del mondo. Non è un pezzo di una guerra mondiale a pezzi, come ormai da tempo la chiama papa Francesco, ma è l’anticipazione di una guerra globale ripristinata e sponsorizzata come sostenibile anche “in questa età che si gloria della potenza atomica” (Pacem in terris), un’età dunque nella quale la guerra è stata pienamente recuperata e posta come fonte e culmine della politica
La valutazione che ci avete chiamato a fare della tragedia in corso a Gaza consta di due fattori. Il primo è l’interpretazione di ciò che sta avvenendo, il secondo è l’indicazione delle soluzioni possibili. La soluzione che qui viene proposta è quella di affidare a un mandato dell’ONU la gestione della cosiddetta Striscia di Gaza dopo la fine della guerra, sottraendo questo territorio e la sua popolazione al controllo di Israele. È una soluzione di per sé plausibile, ma è di fatto oggi impossibile per l’avversione che Israele ha concepito verso l’Onu accusata di aver mancato di solidarietà con Israele dopo gli attentati del 7 ottobre, e perché Netanyahu vuole il risultato opposto, il controllo di Gaza per portare a termine l’impresa e farla finita con la questione palestinese.
Più in generale si può dire che questa soluzione è oggi impossibile perché si basa su un errore nella comprensione degli eventi. La questione principale è come debba interpretarsi e definirsi lo scontro militare senza esclusione di colpi che è in corso a Gaza. Questa interpretazione e tanto più necessaria perché come abbiamo detto gli eventi di Gaza non si presentano come una delle tante crisi oggi aperte nel mondo ma rappresentano il punto di caduta, l’evento rivelatore e il codice interpretativo del sistema di guerra in cui si compendia oggi l’intera situazione internazionale.
L’evento di Gaza non è una guerra – la guerra stessa si offenderebbe se quella di Gaza fosse chiamata così – ma è un genocidio. A Gaza la guerra ha cambiato natura divenendo un genocidio. Ancora più esatto è dire che oggi ogni guerra è un genocidio. Come tale la guerra non è più un evento regolato da uno ius in bello in cui si possono commettere dei crimini di guerra, ma è essa stessa un crimine di diritto pubblico, un crimen organizzato compiuto con armi pubbliche invece che con armi private. È come se avessimo perduto la lezione non solo della Shoà, ma di tutta la seconda guerra mondiale con i suoi 60 o 70 milioni di morti. Se a Gaza su una popolazione di 2 milioni e duecentomila abitanti siamo arrivati a decine di migliaia di morti e feriti e un’intera compagine etnica estirpata e distrutta, che cosa sarà mai quando si giungerà a colpire l’obiettivo finale, come il Corriere della Sera chiama il nemico ucciso, rappresentato da un miliardo e 400 milioni di cinesi?
Questo mutato scenario dipende dalla nuova concezione della guerra che è stata adottata a partire dalle scelte strategiche sulla sicurezza compiute degli Stati Uniti dopo gli attentati alle Torri gemelle dell’undici settembre 2001. Quello fu un errore che. come ha detto lo stesso Biden, mai più si dovrà ripetere, e invece oggi ci siamo. Il documento della Casa Bianca sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti del settembre 2002 impostava tutta la concezione della vita internazionale e la tutela della sicurezza degli Stati Uniti sulla lotta al terrorismo che avrebbe dovuto procurare al mondo la realizzazione di una società pacifica a guida americana improntata alla democrazia alla libera impresa e al libero scambio. In questo passaggio veniva teorizzata la nuova concezione della guerra secondo la quale non era più sufficiente la dissuasione dall’aggressione affidata alla potenza militare pronta all’uso e fornita di armi di distruzione di massa: no, non bastava più questo perché questo, anche se ci aveva salvato con l’equilibrio del terrore per tutto il Novecento, non poteva salvarci più, una tale strategia veniva considerata ormai insufficiente a garantire la sicurezza. Essa poteva andare bene durante la guerra fredda quando “la deterrenza era una difesa effettiva” mentre oggi, si affermava, una “deterrenza basata solo sull’ attesa di una risposta non funzionerebbe”. Pertanto veniva adottata la dottrina della prevenzione basata sul fatto che “la migliore difesa e l’offesa”, che “non si poteva permettere agli avversari di sparare per primi” e che tale difesa preventiva per quanto esercitata con prudenza non poteva essere condizionata da limiti di luoghi e di circostanze. Sappiamo dalla storia, diceva la Casa Bianca, che i deterrenti possono fallire e sappiamo dall’esperienza che contro certi nemici non esistono deterrenti. Gli Stati Uniti possono e vogliono mantenere la capacità di sconfiggere ogni tentativo fatto da un nemico, sia uno Stato che un non Stato, di imporre la propria volontà agli Stati Uniti, ai nostri alleati, o ai nostri amici. “Le nostre forze saranno abbastanza forti da dissuadere gli avversari potenziali dal perseguire una campagna militare nella speranza di superare o eguagliare il potere degli Stati Uniti. Quanto maggiore è la minaccia tanto maggiore è il rischio di mancanza di capacità di reazione e più impellente la necessità di intraprendere un’azione anticipatoria in difesa di noi stessi, persino nell’incertezza del luogo e dell’ora dell’attacco da parte dei nemici”.
Così nel settembre 2002. Dopo qualche anno la dottrina totalizzante della lotta al terrorismo veniva considerata superata e veniva sostituita dalla visione del rapporto internazionale come di una competizione strategica la cui posta in gioco è il predominio di una grande Potenza su tutti gli altri. La competizione consisteva appunto nella lotta per vedere chi dovesse essere questo unico soggetto, questo sovrano universale che dovesse imporsi su tutti. “La competizione strategica fra Stati, non il terrorismo, è ora la prima preoccupazione per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, diceva il documento sulla sicurezza nazionale firmato dal segretario alla difesa di Trump, Jim Mattis, nel 2018. Andate a vedere su Internet, c’è scritto tutto, l’Intelligenza artificiale lo sa benissimo, siamo noi che non lo sappiamo. Tale documento varato nel corso del 2018 dalla Presidenza Trump presentava la Cina come l’antagonista finale degli Stati Uniti avendo essa come obiettivo di medio termine quello di diventare la potenza egemone dello scacchiere Indo Pacifico e nel lungo termine scalzare gli Stati Uniti dal ruolo di prima potenza mondiale. Questa impostazione è ribadita nei documenti del 12 ottobre 2022 firmati da Biden e Loyd Austin, che ne prevedono la realizzazione entro il decennio o al massimo entro i due prossimi decenni.
Ebbene, la strage in corso a Gaza dimostra che con tale impostazione ogni guerra diventa un genocidio. Se infatti nella discrezionale percezione della minaccia l’imperativo nazionale della sicurezza nazionale è quello della prevenzione, la certezza del raggiungimento dell’obiettivo sta solo nella distruzione o comunque nella riduzione all’impotenza, nella riduzione a niente dell’avversario. Nella guerra della Russia contro l’Ucraina, intentata come azione preventiva per fronteggiare la minaccia della NATO, questo esito non si era ancora reso evidente grazie all’uso controllato della forza da parte della Russia, non dimentica dell’ecatombe della seconda guerra mondiale, mentre si è pienamente manifestato a Gaza dove la estirpazione della popolazione palestinese è stata esplicitamente assunta come obiettivo della guerra, e la prevenzione è giunta fino alle operazioni contro gli ospedali e all’uccisione dei bambini nelle incubatrici e nel ventre delle madri. Se la migliore difesa sta nell’abolizione violenta del nemico, il suo adempimento è inevitabilmente il genocidio. Perciò le guerre di cui una volta si pensava che dovessero essere concluse con una vittoria, non possono più essere concluse se non col genocidio di uno dei due contendenti, o di tutti e due. Questo vuol dire che i mezzi tradizionali per porre termine alle guerre e per evitarne di nuove non funzionano più e che anche le tregue o le garanzie giuridiche offerte da terzi non bastano.
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ORMAI C’È UNA SOLA USCITA dal sistema di guerra, è la riconciliazione. Questa è la vera risposta all’erompere della crisi di Gaza: la riconciliazione tra ebrei e palestinesi, non solo tra palestinesi ed israeliani ma anche di palestinesi ed arabi con i fratelli semiti del popolo ebreo della diaspora. Come si fa? Non lo so. Non con le armi, ma ormai nemmeno solo col diritto. C’è una grandezza e miseria del diritto, come diceva la tesi di laurea di Giuseppe Dossetti, grandezza e miseria che in questa occasione sono più che mai manifeste. Ci vuole la pace, ma non una pace assoluta come sono accusati di volere i pacifisti, ci vuole una pace anche imperfetta, relativa, non una giusta pace, ma ci vuole una ingiusta pace. Perché è chiaro che oggi una pace fatta in queste condizioni sarebbe una pace ingiusta per i palestinesi, ma anche per i coloni, che ce l’hanno messa tutta per fare i loro kibbutz e i loro insediamenti, sarebbe una pace ingiusta perché ancora non in condizioni di costituire i due Stati per i due popoli, sarebbe ingiusta perché ancora non in condizione di garantire contro ogni rischio possibile la sicurezza dello Stato di Israele, perché non sarebbe in grado di garantire contro il dr. Stranamore di turno l’astensione dall’uso dell’atomica, la pace nel mondo. Eppure questa pace ingiusta è l’unica che oggi può salvarci, come ci ha salvato durante la guerra fredda, che ora è diventata calda. Una riconciliazione tra palestinesi e israeliani che renda possibile la loro convivenza in un’unica terra non è oggi una iperbole umanitaria nè una opzione del buon cuore ma è una soluzione politica, l’unica soluzione politica che finalmente dopo una notte durata più di settant’anni possa porre termine alla tragedia palestinese e anche nostra.
Perché questa soluzione politica possa prodursi bisogna fare appello non solo al diritto, alla politica, ma anche all’etica, alle religioni, alle fedi. Gli incontri tra ebraismo islam e cristianesimo possono offrire una prospettiva di conversione dalle teologie di guerra alle tradizioni di misericordia e di pace. Perché non PENSARE A UN INCONTRO DELLE TRE RELIGIONI SULLA COLLINA di Sion, uno spazio extra territoriale incluso nello Stato israelo-palestinese con capitale Gerusalemme?

“Non c’è nulla che vada oltre le nostre capacità. Possiamo farcela, per il nostro futuro e per il mondo”, hanno scritto, nero su bianco, gli americani a conclusione della loro ultima strategia, 12 ottobre 2022, firmato Joe Biden. Se ce la possono fare loro, ce la possiamo fare tutti.
Ditelo al papa, ditelo a Netanyahu, ditelo a Putin, ditelo alle persone serie, fosse anche il folle di Nietzsche che va gridando Dio è morto.
E non so quale documento consegnarvi alla fine, a quali parole, del presente o del passato, si possa fare appello. Mi è venuto in mente il primo canto della letteratura italiana, il suo autore è Francesco d’Assisi che l’ha composto nel 1226. … “Laudato sii, o mio Signore, per tutte le creature… “ con la preghiera che lo ha accompagnato : “fa di me uno strumento della tua pace: dove è odio, fa ch’io porti amore, dove è offesa, ch’io porti il perdono, dove è la disperazione, ch’io porti la speranza… “
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Newsletter n.329 del 16 febbraio 2024

IL GENOCIDIO E I SUOI CONTI

Cari Amici,
mercoledì 14 febbraio nella nuova sede della Federazione della Stampa in via delle Botteghe Oscure a Roma, Raniero La Valle e Michele Santoro hanno presentato in una conferenza stampa il nuovo soggetto politico “Pace Terra Dignità” e detto del suo disperato grido all’Europa in vista delle prossime elezioni europee, alle quali esso intende partecipare. Questo soggetto politico, nato da un appello firmato da La Valle e Santoro nel settembre scorso per “dare una rappresentanza a tre soggetti ideali che ancora non l’hanno o l’hanno perduta, a tre beni comuni: la PACE, la TERRA e la DIGNITÀ”, vede ufficialmente la luce nel momento in cui nell’ecatombe di Gaza la guerra, quale è stata finora pensata e istituzionalizzata a cominciare dall’Occidente, è giunta al punto di caduta finale oltre il quale c’è solo o il rovesciamento delle politiche in atto o la catastrofe. Il link alla registrazione della conferenza stampa e all’esposizione di Michele Santoro è questo: mentre il testo della introduzione ai giornalisti di Raniero La Valle è pubblicato in questo sito.
Una parola chiarificatrice si deve dire sull’uso del termine genocidio che è diventato motivo di scandalo nella politica italiana e nelle prese di posizione di Israele, quando la vera questione non è quella di regolare l’uso di questa parola, ma di porre termine al crimine che essa significa, come ha chiesto avanzandone la massima urgenza la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Le migliaia di morti, i milioni di persone braccate, in fuga e ammassate nell’ultimo lembo della striscia di Gaza e gli stessi ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas sono indifferenti al modo in cui viene chiamato il loro olocausto, ne sono vittime e basta. Tanto più che nella insensata diatriba sul nome da dare alla carneficina di Gaza e allo scempio del 7 ottobre che l’ha provocata, dopo “56 anni di soffocante occupazione”, come aveva ricordato il segretario generale dell’ONU Guterres, si è giunti a sostenere che il criterio in base al quale decidere se si deve parlare di genocidio o no sarebbe la “proporzione” tra l’entità dell’offesa e l’entità della rappresaglia o vendetta. Da un certo momento in poi perfino Biden, Macron e Tajani hanno cominciato a dire che non c’è proporzione tra il terrorismo del 7 ottobre e il terrore delle 19 settimane che vi hanno fatto seguito fin qui, anche se non è stato precisato a quale punto di questa singolare contabilità di costi e ricavi si doveva fissare l’asticella: giusta la proporzione tra le 1400 vittime tra uccisi ed ostaggi del 7 ottobre e i due milioni e duecentomila persone dell’intera popolazione di Gaza perseguita come colpevole, 1500 per uno? Giusto il prezzo di 28.000 morti palestinesi in cambio dei 105 ostaggi rilasciati grazie al primo negoziato, 267 palestinesi morti per ogni israeliano vivo? Appropriato radere al suolo un gran pezzo di Rafah e almeno 70 morti accertati in cambio della liberazione di due ostaggi? E ha ragione Netaniahu quando dice che non si fermerà finché non avrà finito il lavoro e liberato i 103 ostaggi residui, uno per uno, contro il milione di persone che ha fatto concentrate e fatto bersaglio a Rafah, rendendole per ciò stesso ultimi “scudi umani” di Hamas? Anche il cardinale Parolin ha definito “certamente non proporzionato, con 30 mila morti, il diritto alla difesa invocato da Israele per giustificare questa operazione”, e l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede ha bollato come “deplorevole” questa dichiarazione; ma lui stesso ne ha fatto una questione di proporzione, rivendicando come giusta la percentuale delle vittime di Gaza, che sarebbe di “tre civili per ogni militante di Hamas ucciso”, quando “nelle guerre e nelle operazioni passate delle forze Nato o delle forze occidentali in Siria, Iraq o Afghanistan, la proporzione era di 9 o 10 civili per ogni terrorista”, perciò di tre volte superiore “alla percentuale dell’esercito di Israele”.
Quando si arriva a questa contabilità, vuol dire che l’anima del mondo è perduta, e se ingrandiamo il campo della crisi, fino a comprendervi e a vedervi le altre guerre e l’intera crisi mondiale, scopriamo che l’intera realtà umana e fisica del mondo, e la sua stessa dignità è oggi al punto da poter essere perduta. E giustamente l’”Osservatore Romano” ha replicato che “nessuno può definire quanto sta accadendo nella Striscia un ‘danno collaterale’ della lotta al terrorismo. Il diritto alla difesa, il diritto di Israele di assicurare alla giustizia i responsabili del massacro di ottobre, non può giustificare questa carneficina”.
Si può tornare così all’uso della parola “genocidio”. È una parola nuova che non esisteva anche se popoli interi erano stati sterminati, dagli Indiani d’America agli Armeni in Turchia. Essa è stata coniata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, prima ancora che venisse a definire l’olocausto del popolo ebreo, ciò per cui fu adottata nella Convenzione dell’ONU per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, perché questo non avesse a ripetersi mai più nella forma di “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale”. Genocidio è perciò una parola comune, mentre Shoà è la parola di specie che definisce quello perpetrato contro gli Ebrei. Esso è stato tale da essere considerato non paragonabile con qualunque altro, e per gli Ebrei stessi è diventata una parola sacra che non può riferirsi ad altro che al loro olocausto. Questa è la ragione per cui si può capire la ferita profonda che questa parola apre nella coscienza del mondo, e il rischio che sia confusa con l’antisemitismo, anche se purtroppo essa è atta a nominare altre realtà. Ma è anche la ragione per cui, per amore degli Ebrei e della fraterna amicizia che si desidera mantenere con loro, si può benissimo fare a meno di usarla, non per questo chiudendo gli occhi su altre tragedie. Ma per la stessa avvedutezza occorrerebbe che lo Stato di Israele non fornisse un’autorappresentazione di sé, avanzata come espressione autentica dell’intero Israele, che facesse apparire un popolo vittima di un genocidio come legittimato a infliggerlo ad altri.
Nel sito pubblichiamo un articolo di “Avvenire” che riferisce della controversia tra la Santa Sede e l’ambasciatore israeliano e un articolo tratto dal sito “Gariwo” su Lemkin e il neologismo “genocidio”.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri

Cosa vuole il Popolo. Cosa vogliono i sardi. Ascoltateci!

img_6050[Una bella e condivisa proposta di Pierluigi Marotto]. Allora la dico cosi, visto che il tempo del cazzeggio è dell’uso dei muscoli È SCADUTO!
@Renato Soru, concorra a definire e far eleggere la prima donna sarda alla Presidenza della Giunta Regionale
@Alessandra Todde ,concorra a definire e far eleggere R.SORU alla Presidenza del Consiglio Regionale quale garante dell’attività legislativa e istituzionale per portare la Sardegna in Europa e
accompagnare il processo di
Autodeterminazione del Popolo
sardo.
Le future generazioni avranno a
ricordare il 2024 come l’anno della
svolta e della emancipazione
civile, politica e sociale della nostra
Terra Madre.
Abbiate il coraggio entrambi di
liberarvi di certi nani e quaraquaqua e
puntate a mandare la destra
all’opposizione senza se e senza ma.
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Il Governo di Israele alla sbarra degli imputati

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Guerra in Israele e Palestina. Un’inutile strage

img_4715Un futuro meno tetro è possibile?
News>VP Vita e Pensiero, Plus+01.01.1970: https://rivista.vitaepensiero.it//news-vp-plus-un-futuro-meno-tetro-e-possibile-6357.html
di Riccardo Redaelli
I corpi dei bambini uccisi non hanno bandiera. Sono una sconfitta per tutti, quale sia la loro nazionalità o appartenenza religiosa. E sarebbe osceno fare differenze. Ma le migliaia di piccoli uccisi – molti nel brutale, inumano attacco voluto da Hamas il 7 ottobre scorso, moltissimi nella terribile risposta di Israele, qualcuno infine, come il piccolo Kfir, l’ostaggio più piccolo rapito dai terroristi palestinesi, ucciso sembra dalle bombe del suo stesso Paese – testimoniano come le leadership di entrambi gli schieramenti abbiano sempre scelto la violenza e la prova di forza rispetto alla via delle trattative e del tentare una convivenza fra i due popoli. […]

Cop28 Dubai. Inizia oggi e termina il 12 dicembre 2023

img_5448img_5449 E’ iniziata oggi 30 novembre 2023 a Dubai la COP28.
La 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è aperta oggi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. È considerata come l’ultima occasione per trovare un accordo globale veramente incisivo.

La Pace è solo un’utopia?

img_4715LA VIA STRETTA
di Anna Foa
Una strada di Betlemme
C’è ancora la possibilità di percorrere la via sempre più stretta che passa tra i sostenitori di Netanyahu e quelli di Hamas, di battersi ancora per la creazione accanto allo Stato di Israele di quello palestinese, per una civile convivenza tra israeliani e palestinesi, contro ogni razzismo e suprematismo, ma anche contro ogni terrorismo fondamentalista come quello di Hamas? Oppure il tempo è scaduto, scaduto nel bagno di sangue e di orrore del 7 ottobre, ma forse anche prima, nel lungo governo Netanyahu e poi nella sua alleanza con fascisti e razzisti, nel suo progetto di rosicchiare poco a poco i territori dell’Autorità palestinese e di sbarazzarsi, alla fine, degli stessi palestinesi in Israele, quelli che sono cittadini israeliani e che avrebbero dovuto esserlo, anche se così non è, a tutti gli effetti? Nel supporto senza limiti ai coloni e alle loro continue violenze senza che l’esercito o la polizia vi si opponessero? Nella pretesa, che rende i coloni ebrei tanto simili ai terroristi di Hamas, di agire in nome di Dio?

Costituente Terra – Chiesa di tutti Chiesa dei Poveri

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 137 del 2 novembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.318 del 2 novembre 2023
QUANTI NAUFRAGI
Cari amici,
non c’è una gerarchia delle tragedie. Ma nemmeno per mettercene sul cuore una, possiamo dimenticare o tacere le altre. Perciò, mentre assistiamo attoniti alla strage di Gaza, e nel vederne svelate le finalità nel progetto dello Stato di Israele di “dislocare l’intera popolazione palestinese nel deserto del Sinai” (nonostante la memoria storica della deportazione degli ebrei a Babilonia) dedichiamo questa newsletter alle ultime notizie sui naufragi nel Mediterraneo che ci trasmette dalla ONG “Mediterranea” Mattia Ferrari: da un naufragio all’altro!

Guterres dice solo la verità

img_4915CONFLITTO ISRAELE – HAMAS
25 OTTOBRE 2023 su http://www.fanpage.it – https://www.fanpage.it/esteri/cosa-ha-detto-davvero-il-segretario-generale-dellonu-guterres-su-hamas-e-israele/

Cosa ha detto davvero il segretario generale dell’ONU Guterres su Hamas e Israele
Il discorso integrale pronunciato ieri dal Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres: “Ho condannato inequivocabilmente gli atti di terrore terrificanti e senza precedenti compiuti da Hamas in Israele il 7 ottobre”. Tuttavia “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”.

A cura di Davide Falcioni

Oggi mercoledì 25 ottobre 2023

img_2726Cessare il fuoco è un atto di saggezza e di forza
25 Ottobre 2023. A.P. Su Democraziaoggi.
In tutto il mondo, anche in Italia si moltiplicano le manifestazioni pro Palestina. Anche a Cagliari se ne è svolta una, sabato, molto partecipata, indetta dall’Ass. Sardegna-Palestina. Perché non possiamo non essere dalla parte dei palestinesi? Perché i palestinesi sono un popolo senza stato, senza libertà, oppresso dallo stato di Israele.
Perché non possiamo essere […]
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Israele-Palestina

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di Gianni Lixi su lazuccablog.
Un politico italiano insignificante (Toti ex ministro con Berlusconi e presidente reg Liguria) l’altro giorno da Floris rispondeva provocatoriamente a chi parlava di catastrofe umanitaria a Gaza dicendo che il problema è politico e non bisogna guardarlo da un punto di vista della morale facendo il conto dei morti. Lui naturalmente intendeva il fallimento politico dell’attentato di Hamas.

Bene allora lasciamo perdere il lacerante conteggio dei morti da una parte e dall’altra e analizziamo l’episodio da un punto di vista politico:

Il Mondo che verrà. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo

img_1666Il Mondo che verrà
15 Ottobre 2023

Adesso che un nuovo tremendo conflitto insanguina il Medio Oriente, mentre non accenna a placarsi la guerra in Ucraina, è più che mai necessario pensare alla pace. E’ questo il momento di pensare ad un altro mondo se non vogliamo finire tutti all’altro mondo.

di Domenico Gallo

La guerra continua da oltre un anno e mezzo senza neanche un giorno di tregua. La controffensiva che avrebbe dovuto portare l’Ucraina alla vittoria è iniziata da più di tre mesi, senza produrre nessuno spostamento significativo del fronte. È in corso una orribile guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti. «La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea – ha scritto il generale Antonio Li Gobbi su Analisi difesa – che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura». I numeri di questa carneficina, fatti trapelare dal colonnello Douglas Macgregor (cfr Mini, il Fatto quotidiano, 13/9/2023), già consigliere del Pentagono, sono impressionanti. «Valutiamo che gli ucraini abbiano avuto 400 mila morti in combattimento. Nell’ultimo mese di questa presunta controffensiva che avrebbe dovuto spazzare il campo di battaglia, hanno avuto almeno 40.000 morti. Non sappiamo quanti siano i feriti, ma sappiamo che probabilmente tra i 40 e i 50.000 soldati hanno subito amputazioni, che gli ospedali sono pieni».

Gli esperti militari avevano avvertito i responsabili politici che la “vittoria” sul campo dell’Ucraina era un obiettivo impossibile. In particolare, il Capo di Stato maggiore dell’esercito americano, gen. Mark Milley, aveva avvisato: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale». Le scelte degli Usa e della Nato, invece, puntano ad istigare Zelensky alla guerra ad oltranza. Da ultimo il segretario di Stato Antony Blinken si è recato a Kiev, il 6/7 settembre, portando aiuti per un miliardo di dollari. Gli aiuti statunitensi – ha detto Blinken – consentiranno alla controffensiva ucraina di “acquisire slancio”. L’orientamento degli architetti della politica internazionale dell’Occidente di proseguire la guerra ad oltranza (promettendo a Zelensky una vittoria impossibile) comporta il prolungamento di un massacro senza senso e senza nessuno sbocco, come fu la guerra di Corea, che si concluse con un armistizio lasciando inalterata la linea del fronte, dopo aver provocato quasi tre milioni di morti. L’armistizio, firmato il 27 luglio del 1953, pose fine ai combattimenti ma non allo stato di guerra poiché dopo settant’anni non è stato ancora stipulato un Trattato di pace.

Mentre continua il coro, intonato da politici e mass media sulle note di Biden e Stoltenberg, che invoca la vittoria e promette la continuazione del massacro, nessuna Cancelleria, nessuna forza politica è capace di aprire una finestra sul futuro. Nessuno è in grado di azzardare un progetto per il futuro, anche perché gli eventi che hanno provocato la guerra e che determinano la sua continuazione ad oltranza, annunziano un futuro oscuro del quale è meglio non parlare. È stato uno dei principali interpreti della prima guerra fredda, Henry Kissinger (in un intervista al Corriere della Sera del 28 giugno 2022) ad avvertirci che bisogna guardare come porre fine al conflitto: «Stiamo arrivando a un momento – afferma – in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari: non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo».

Per Kissinger l’unico obiettivo realistico che può garantire la pace è di reintegrare la Russia nell’Europa, non certo spingerla ad est nelle braccia della Cina. Perché questo è il punto centrale del suo ragionamento: va sconfitta l’invasione dell’Ucraina, «non la Russia come Stato e come entità storica». E dunque, quando le armi alla fine taceranno, «la questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente». Il presupposto, sottolinea Kissinger, è che la Russia è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e «in alcuni dei grandi trionfi della storia europea»: e pertanto «dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante».

Senonchè l’obiettivo di reintegrare la Russia nel sistema europeo è diametralmente opposto agli obiettivi perseguiti da una politica che, attraverso l’allargamento ad est della Nato e la svolta russofoba dell’Ucraina dopo il golpe di Maidan, ha identificato la Russia come nuovo nemico da sostituire alla dissolta Unione Sovietica, scavando un solco per dividere per sempre la Russia dal resto dell’Europa. Questo solco adesso si è trasformato in una cortina di ferro fondata sul sangue e sull’odio. Una cortina invalicabile perché alimentata dall’odio generato da 500.000 morti, milioni di profughi e distruzioni incommensurabili.
Il conflitto in corso rischia di essere una guerra costituente su cui si decideranno gli equilibri geopolitici internazionali, la posta in gioco è il futuro del mondo. Un mondo nel quale, alla collaborazione fra le principali potenze posta a base del progetto di pace delle Nazioni Unite, si sostituirebbe la logica della contrapposizione inevitabile e del confronto politico-militare fra l’Occidente collettivo a guida Usa e la Cina, in un crescendo di tensioni e di corsa al riarmo. Questo vale soprattutto per Europa dove – qualora si dovesse giungere ad una tregua di tipo coreano – la guerra proseguirebbe con altri mezzi. Resterebbero in piedi le sanzioni, la separazione economica e l’apartheid nei confronti della società e della cultura russa. Resterebbe in piedi l’accumulo delle minacce militari e la corsa al riarmo, a danno delle spese sociali. Una cappa di terrore e di odio, graverebbe sul continente avvelenando la vita delle nazioni.

Non bisogna rassegnarsi al futuro orribile che il conflitto in corso lascia intravedere. Se è indifferibile un’azione politica per fermare la prosecuzione della guerra, a cominciare dal blocco della fornitura di armi, è altrettanto urgente pensare a come uscire dalla guerra e dalle cause che l’hanno generata.
In realtà è proprio durante la guerra che è più forte l’esigenza di pensare la pace, di delineare un progetto che consenta di superare le cause che hanno provocato la guerra per ristabilire la convivenza pacifica fra le nazioni. Come fecero quei visionari che nel 1941 misero mano al Manifesto di Ventotene. Come ci ha ricordato Pasqualina Napoletano (CRS: Pensare la pace sotto le bombe): «quel gruppo di visionari, riuscì a concepire un progetto capace di andare oltre l’odio, con l’intento di riappacificare popoli e nazioni, responsabili di due Guerre Mondiali. Un progetto coraggioso, che non si fondasse sull’umiliazione e sulla vendetta ma sulla integrazione economica e politica: gli Stati Uniti d’Europa». Quale progetto per la riappacificazione e la convivenza pacifica, o quanto meno per la sicurezza collettiva in Europa abbiamo articolato? Quale progetto abbiamo in mente per prosciugare l’oceano di odio che la guerra ha creato fra due popoli fratelli e ripudiare il conflitto tribale fomentato dai nazionalismi, l’un contro l’altro armati? Se si oscurano le cause che hanno portato alla scoppio del conflitto, ivi compreso il fatto che per oltre 25 anni gli Usa hanno praticato una nuova guerra fredda per umiliare ed isolare la Russia, come si fa a rimediare agli errori commessi per impostare un nuovo criterio di convivenza pacifica?

La visione del futuro può nascere solo da una revisione critica del passato, dal ripudio di una politica orientata a costruire l’ostilità nei rapporti fra le nazioni, a perseguire la “sicurezza” di una parte (la nostra) a danno dell’altra parte, incrementando le minacce militari e l’assedio geopolitico al “nemico”. Bisogna costruire un percorso a ritroso, riprendendo la strada che portò alla Conferenza sulla Sicurezza e cooperazione in Europa, conclusasi nel 1975 con l’Atto finale di Helsinki. I principi della Conferenza, condensati nell’Atto finale sono serviti a favorire la distensione fra i contrapposti blocchi militari in un’epoca in cui erano ancora presenti tutte le insidie della guerra fredda, ed hanno configurato la sicurezza in Europa come sicurezza collettiva fondata sul disarmo. Questi principi sono stati calpestati da una politica che ha privilegiato la contrapposizione al posto della cooperazione, l’emarginazione al posto del dialogo, il riarmo unilaterale al posto del disarmo negoziato, la costruzione dell’ostilità al posto dell’amicizia fra i popoli.

Per prima cosa occorre ripudiare la pretesa di costruire la pace attraverso la “vittoria”, cioè l’umiliazione della Russia e la negazione dei suoi interessi. Questa pretesa esclude ogni possibilità di negoziato, la mediazione non contempla vittorie, ma è, per antonomasia, la conciliazione di interessi geopolitici contrapposti, a cui si deve dare identica legittimità .
Bisogna pensare ad un futuro “disarmato”, in cui la sicurezza per i singoli Stati e per l’Europa nel suo complesso non sia fondata sul riarmo e l’estensione della minaccia militare, bensì sul disarmo negoziato e sulla riduzione della pressione militare. La Nato deve cessare di “abbaiare” ai confini della Russia e l’Ucraina non può essere la lancia della Nato nel costato della Russia. Deve essere restaurata la convivenza pacifica fra i due popoli dell’Ucraina e fra l’Ucraina e la Russia. Il baratro di dolore che la guerra ha scavato fra i due popoli può essere colmato solo col negoziato e non con le armi o la vendetta. Un negoziato sotto l’egida dell’Onu che dia la parola alle popolazioni interessate, perché se le frontiere sono inviolabili, ancora più inviolabili sono gli esseri umani, che non possono essere sacrificati dai loro governi per tracciare i confini con i coltelli.

È questo il momento di definire un progetto che superi non solo il conflitto in armi, ma quel sistema di dominio e di contrapposizione politica e militare che ha generato la guerra e sta distruggendo l’Europa. È il momento di pensare che un altro mondo è possibile e di progettarlo, come fecero quegli intellettuali cattolici che scrissero fra il 18 e il 24 luglio del 1943, prima della caduta del fascismo e nella fase più drammatica della guerra, il “codice dei Camaldoli”, prefigurando un nuovo ordinamento che trovò inveramento, grazie al contributo fecondo di altre culture, nella Costituzione della Repubblica italiana.
Bisogna pensare a come reintegrare la Russia nell’Europa, ad un negoziato che punti a ristabilire il dialogo, il confronto, la fiducia, gli scambi culturali con il popolo russo, in modo che la Russia non sia più avvertita come una minaccia per l’Europa e l’Europa non sia più avvertita come una minaccia per la Russia. Bisogna ripensare all’Europa recuperando l’impostazione originaria dei padri fondatori che hanno messo la costruzione della pace a fondamento del progetto europeo.
Il mondo che verrà sarà orribile se non saremo capaci di ripudiare le scelte che hanno aperto la strada al ritorno della guerra in Europa e nel resto del mondo. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo.
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NON VOGLIO VENDETTA DA NESSUNO
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / SI SALVANO INSIEME /
La vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Netaniahu: ” un uomo dai molti slogan. Promette che Israele prenderà una potente vendetta e che il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”

Orly Noy* (The Guardian)

Siamo sotto shock mentre digeriamo gli attacchi di Hamas e i fallimenti del governo di Netanyahu. La preoccupazione ora è ciò che verrà dopo

È ancora impossibile digerire questi giorni più bui del buio, iniziati con le sirene che ci hanno svegliato di soprassalto sabato mattina, un giorno che sembra infinito e probabilmente non finirà per molti giorni a venire. Il pensiero dei rapiti nella Striscia di Gaza mi opprime dal dolore. Ogni pensiero su di loro lascia uno strato di terrore sulla pelle. Le immagini e le testimonianze di corpi sparsi in ogni angolo, di famiglie tenute in ostaggio per ore come scudi umani nelle proprie case dai militanti di Hamas, tormentano ancora la mente, congelando il cuore.

Lo shock assoluto causato dall’attacco di Hamas alle città del sud ha assunto varie forme con il passare delle ore: paura, impotenza, rabbia e, soprattutto, un profondo senso di caos. I colossali fallimenti del governo di Benjamin Netanyahu e dell’apparato di sicurezza stanno convergendo in un senso di collasso totale. Il sistema di intelligence, che sorveglia ogni aspetto della vita dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, non era a conoscenza dell’attacco; i civili sono rimasti indifesi per molte ore contro i militanti di Hamas, che li hanno intrappolati nelle loro case e massacrati senza l’intervento militare – gli stessi militari incaricati di proteggere ogni colono in Cisgiordania in ogni momento.

Siamo scioccati dalla mancanza di informazioni affidabili durante le lunghe ore in cui le persone cercavano disperatamente familiari e amici scomparsi, inondando i social network con le foto dei propri cari scomparsi. E ora assistiamo all’assenza di rifornimenti e cibo sufficienti per le forze di riserva arruolate frettolosamente e inviate in prima linea contro Hamas, lasciando il compito di organizzare gli articoli di cui hanno bisogno ai civili in ogni città e paese.

Domenica Netanyahu ha dichiarato formalmente guerra e ora, in questo momento, tutto Israele è in stato di guerra. I missili che sono caduti nel cuore di Tel Aviv e il bombardamento delle città del nord hanno trasformato l’intero paese in un campo di battaglia, almeno nella percezione pubblica.

Qui a Gerusalemme si cerca di mantenere la speranza che Hamas non lanci missili verso la città a causa della sua vicinanza alla moschea di al-Aqsa, ma l’ansia generale persiste. Le scuole sono state chiuse, così come tutte le attività commerciali, e pochissime persone sono in strada. Chi non deve farlo, non esce di casa. Sabato sera, dopo ore trascorse con ansia a guardare la televisione e i social media, mia figlia è stata presa dal panico per il timore che i militanti di Hamas, armati e ancora all’interno del territorio israeliano, potessero raggiungere Gerusalemme e attaccarci nella nostra casa. Solo dopo un giro approfondito tra i rifugi pubblici del quartiere si è calmata un po’ ed è riuscita ad addormentarsi.

In mezzo a questo caos assoluto, Netanyahu si è rivolto ai cittadini sabato sera: una dichiarazione vuota con slogan come “vinceremo”, “li colpiremo”, “annienteremo il terrorismo”. È un uomo dai molti slogan. Promette che Israele “prenderà una potente vendetta” e che “il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”, subendo “un fuoco di risposta di una portata che il nemico non ha conosciuto”.

Quel linguaggio è intenzionale. Infatti, mentre l’opinione pubblica israeliana traumatizzata non è ancora pronta a cercare la profonda resa dei conti politica e morale che questa catastrofe richiede, la rabbia già diretta verso Netanyahu è palpabile. Un primo ministro coinvolto in procedimenti legali ha nominato, per soddisfare le sue esigenze politiche, persone che non solo erano estremamente aggressive ma anche altamente poco professionali – e le ha incaricate della nostra sicurezza. Giustamente ora è considerato personalmente responsabile. Cerca di salvare la propria pelle politica, ancora una volta, esortando la Knesset a istituire un governo di emergenza nazionale, molto simile a quello formato tre anni fa con il leader del partito di Unità Nazionale, Benny Gantz, con il pretesto del coronavirus. risposta. Ma anche senza la formazione di un governo di emergenza nazionale, l’opposizione ebraica alla Knesset sostiene pienamente l’attacco mortale del governo a Gaza. E non sono soli: molti israeliani vogliono vedere l’intera Striscia di Gaza pagare un prezzo senza precedenti.

Il desiderio pubblico di vendetta è comprensibile e terrificante, ma la cancellazione di qualsiasi linea rossa morale è sempre una cosa spaventosa.

È importante non minimizzare o condonare gli atroci crimini commessi da Hamas. Ma è anche importante ricordare a noi stessi che tutto ciò che ci sta infliggendo adesso, lo stiamo infliggendo ai palestinesi da anni. Spari indiscriminati, anche contro bambini e anziani; intrusione nelle loro case; bruciando le loro case; prendere ostaggi – non solo combattenti ma civili, bambini e anziani. Continuo a ricordare a me stesso che ignorare questo contesto significa rinunciare a un pezzo della mia stessa umanità. Perché la violenza priva di contesto porta a un solo possibile risposta: vendetta. E non voglio vendetta da nessuno. Perché la vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Non è altro che altra violenza.

Ritengo che ci siano crimini di abbondanza e che ci siano crimini di fame, e non solo abbiamo portato Gaza sull’orlo della fame, ma l’abbiamo portata ad uno stato di collasso. Sempre in nome della sicurezza. Quanta sicurezza abbiamo ottenuto? Dove ci porterà un altro giro di vendetta?

Sabato sono stati commessi crimini terribili contro gli israeliani, crimini che la mente non può comprendere – e in questo momento di oscuro dolore, mi aggrappo all’unica cosa a cui mi è rimasta aggrappata: la mia umanità. La convinzione assoluta che questo inferno non sia predestinato. Né per noi né per loro.
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*Orly Noy è giornalista ed editore della rivista di notizie in lingua ebraica Local Call
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CI STIAMO TRASFORMANDO TUTTI IN VITTIME E CARNEFICI
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita

di Ali Rashid

Corre il tempo, e cambiano i contenuti essenziali, le idee, i concetti e sensi. E’ compiuto il processo di trasvalutazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.

Vivo è in me il racconto di mio nonno, che andava a Safad in Galilea per comprare il fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita alla inquisizione in Portogallo, e che impararono la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.

Il ricordo di Khaiem, socio del mio nonno nella cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica ma continuava a mandare la sua parte del guadagno della impresa finché non morì.

Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma io ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello in America, un mio stimatissimo zio una settimana fa a New York mentre la salma del mio nonno giace in un cimitero affollato ad Amman.

Nelle case di pietra fatte a mano del mio bellissimo villaggio Lifta confinante con Gerusalemme, stanno per costruire un villaggio per i ricchi turisti , mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che fuggivano dal fascismo e dal nazismo che discriminava e annientava gli ebrei nella inenarrabile tragedia dell’ Olocausto.

Dio è morto con tutti i valori che ci rendono uguali. Trionfante è l’affermazione della volontà di potenza che affida alla tecnica i propri fini e diventa l’intima essenza dell’essere in un mondo disincantato. Eppure una volta eravamo tutti fratelli.

Stiamo scivolando tutti nel Nulla, nella mancanza di senso.

E la ragione? La pietà? La misericordia per i vivi e per i morti? La convivenza? Il rispetto? Il diritto?

Ma chi non ha un aereo di guerra sofisticato e moderno o un carro armato deve solo piangere in eterno il suo destino? Deve morire in silenzio?

Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita.

Ma questa catena di morte è inarrestabile?

Eppure una volta eravamo fratelli e abbiamo provato la ricchezza e i vantaggi della convivenza e del rispetto reciproco.

Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia del finto stato nazionale con confini discriminatori sempre più stretti e selettivi e in nome di fasulle razze e convenienze, di banali appartenenze e schieramenti.

La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano a dire no alla guerra! Non siamo condannati a farci a pezzi rassicurando tutti per un proprio futuro!

Non dobbiamo discriminare i vivi e i morti.

Alì Rashid

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