Verso il 25 aprile. L’Italia è una repubblica democratica antifascista

img_6801Ecco il testo integrale del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile che lo scrittore avrebbe dovuto portare a “Che sarà” e censurato dalla Rai.

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Da leggere, rileggere, studiare e, soprattutto, condividere in ogni modo e con ogni mezzo, fare arrivare lontano, alla faccia di questa destra miserabile e neofascista che crede di poter cancellare la Storia.
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“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.

Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia img_6803
Europa, Europa: dove vai?
Alfonso Gianni
La costruzione di un sistema di guerra nella Ue

Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.
Erasmo da Rotterdam

Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio. Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei. Fra questi non poteva mancare Giorgia Meloni che ha voluto fare sfoggio di cultura, pronunciandola nel febbraio del 2022, pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, davanti ad una platea di conservatori riuniti in Florida per l’annuale Conservative Political Action Conference (Cpac), per poi ripeterla in altre più recenti occasioni nella veste di Presidente del Consiglio. La stessa frase, per quanto abusata, è stata utilizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrel, nel commentare il documento conclusivo emerso dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. E non si può certo dire che si sia trattato di un uso improprio.
Per quanto trita e ritrita la vecchia sentenza è in grado di fare da sintesi di quanto si è detto e deciso in quella riunione, che può ben dirsi essere propria di un Consiglio di guerra. Una riunione, cui seguirà quella di metà aprile dedicata ai temi dell’economia, che è solo un passaggio dentro una escalation di decisioni e comportamenti che conducono l’Europa in un’unica direzione: la guerra. Il passaggio da una “guerra grande” – come l’ha denominata Limes -, da una guerra “allargata” – come l’ha definita Alberto Negri guardando al teatro mediorientale – dalla più volte citata guerra mondiale a pezzetti secondo la celebre definizione di papa Francesco, ad una guerra globale vera e propria, tale da non escludere l’uso di armi nucleari, non è più solo una distopia.

Le conclusioni del Consiglio europeo
Quanto deciso nel recente Consiglio europeo non basta. Lo ha detto con chiarezza il premier polacco Donald Tusk, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso ottobre, che in una intervista rilasciata a diversi quotidiani europei, fra cui un quotidiano italiano, avverte che la guerra è “alle porte”, che per la prima volta dal 1945 non è più un concetto del passato ma è un fatto “reale”, che dunque “dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. L’era prebellica.” Rispetto alla quale però la Ue non è ancora pronta e quindi bisognerebbe fare di più, anche rispetto alle decisioni del Consiglio europeo di marzo.
Eppure quelle decisioni non sono lievi. Basta scorrere il documento conclusivo per accorgersene, al di là di qualche espressione retorica o fumosa, che appare proprio per questo inquietante per quello che può nascondere e per quello che ci aspetta. Per quanto riguarda il fronte russo-ucraino il testo non fa il pur minimo accenno alla possibilità di cessare il fuoco, di aprire una trattativa, di muoversi in una direzione di pace. Quest’ultimo termine non compare mai, se non con un significato completamente stravolto, si potrebbe dire, con ironico cinismo. Infatti il Consiglio europeo chiede di lavorare all’ottavo pacchetto di sostegno per l’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace. Invita a prendere in considerazione la possibilità di “destinare a beneficio dell’Ucraina, compresa la possibilità di finanziare il sostegno militare, le entrate straordinarie derivanti dai beni russi bloccati”, quindi superando i dubbi sollevati anche da commentatori mainstream sul rischio che un simile atto porti un indesiderato scompiglio nelle “regole” che tutelano il mercato e il movimento dei capitali. Spinge per un rafforzamento ed una piena attuazione delle sanzioni alla Russia, anche colpendo paesi terzi che ne facilitano l’elusione. Pur nella impossibilità di impedirlo totalmente – rendendosi conto della complessità e dell’intreccio degli interessi economici in gioco – il documento raccomanda di limitare “al massimo” l’accesso della Russia “a prodotti e tecnologie sensibili che hanno rilevanza nel campo di battaglia”. Ribadisce la richiesta agli Stati membri di aumentare la spesa militare. Prospetta apertamente l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti per fornire risorse e strumentazione finanziaria al fine di supportare l’ingente aumento delle spese belliche.
Come si vede le previsioni e gli strumenti di intervento economico si concentrano sulle spese militari. Con un facile, quanto terribile, scambio di consonanti, i famosi Eurobond, di cui si era tanto parlato, si tramutano di colpo in Eurobomb. E’ l’intero sistema delle imprese europee che deve rispondere alle nuove esigenze belliche. Lo chiariscono in particolare tre punti importanti sottolineati dal documento conclusivo. Il primo riguarda l’incentivazione della “ulteriore integrazione del mercato europeo della difesa in tutta l’Unione, agevolando l’accesso alle catene di approvvigionamento della difesa, in particolare per le Pmi e le società a media capitalizzazione, riducendo la burocrazia”. Il secondo punto riguarda la necessità di “garantire che la regolamentazione dell’Ue non costituisca un ostacolo allo sviluppo dell’industria della difesa”. Il terzo invita a “investire nella manodopera qualificata per fare fronte alle prevalenti carenze di manodopera e di competenze nell’industria della difesa”. Quindi via tutti i rimanenti lacci e lacciuoli ed ogni regolamentazione d’impaccio al fare presto se non subito. Il tutto – si preoccupano di precisare gli estensori del documento – deve risultare “complementare alla Nato, che rimane il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”

Come era considerata nel mondo la Ue
La puntualizzazione è tutt’altro che rituale, anche perché la costruzione di un simile sistema di guerra europeo mal si acconcia con la definizione un po’ riduttiva di Wolfgang Streeck per cui l’Ue sarebbe semplicemente “un ausiliario economico della Nato”. Appare più convincente dal punto di vista dell’analisi dinamica delle forze in campo la conclusione cui perviene Lucio Caracciolo e cioè che il ruolo della Nato e quello della Ue tendono negli ultimi anni a sovrapporsi, come risulta ancora più evidente in relazione al conflitto russo-ucraino. L’una prepara il terreno per l’avanzata dell’altra e viceversa. Anche se lascia un po’ straniti l’idea che Caracciolo ha recentemente avanzato, quella di “un’intesa bilaterale speciale fra Italia e Stati Uniti” al fine di tenere il nostro paese “sopra la linea di galleggiamento durante la Guerra Grande e prefigurare equilibri meno instabili nell’immediato dopoguerra”. Una idea che lo stesso autorevole direttore di Limes definisce “controintuitiva” e rispetto alla quale sollecita egli stesso “critiche e controproposte”. Ma prima è forse opportuno fare qualche passo indietro.
Certamente la guerra russo-ucraina non ha solo risuscitato la Nato da una condizione che aveva autorizzato Macron a stilare un affrettato certificato di morte cerebrale, ma ha messo in moto un’accelerazione dell’armamento europeo ad ogni livello. Tuttavia sarebbe sbagliato cogliere solo la tempistica di quest’ultima vigorosa corsa alle armi e non vederne i passaggi precedenti, pur se più lenti nel loro svolgersi, nel corso dei quali l’Ue è riuscita persino ad abbattere l’immagine che si era fatta nel mondo. Anche se si trattava di un’immagine più dettata da un forte wishful thinking che da una rigorosa analisi del processo di costruzione dell’Unione europea.
Per un non breve periodo in America latina molti vedevano nell’Europa la proiezione dei propri desideri di costruire l’utopia bolivariana, dove contrasti e confini sarebbero stati superati da intese politiche ed economiche nel nome del Sud del mondo. Se ne ha prova leggendo, in un recente libro, le parole dell’ex presidente uruguayano José “Pepe” Mujica, che manifesta il suo stupore e il suo spavento per l’impotenza dell’Europa di fronte al conflitto russo-ucraino: “Quello che più mi spaventa è l’impotenza dell’Europa, che è diventata un polo senza alcun potere decisionale autonomo. È incredibile. Ovviamente, la pace in Europa avrebbe dovuto includere la Russia e non segregarla, e invece quello che hanno fatto è stato spingerla dall’altra parte, la stanno regalando alla Cina. Da un punto di vista geopolitico, sono dei salami [ride], dei salami… Sì. Sono sbalordito dal declino politico dell’Europa, al punto da guardare con «nostalgia», tra virgolette, ai vecchi conservatori europei, che almeno vedevano un po’ più lungo e avevano un po’ più di dignità. Proprio come De Gaulle, il quale pensava che l’Europa dovesse arrivare fino agli Urali e intuì che un processo di pace doveva inevitabilmente includere anche la Russia all’interno dell’Europa. La stupida rottura da parte della Nato del Patto di Varsavia fu un passo privo della benché minima lungimiranza politica. Penso anche che, dietro tutto questo, vi sia una sorta di duello in cui gli Stati Uniti temono di perdere la supremazia a favore della Cina.”

Le radici del processo di militarizzazione europeo
E’ bene quindi non dimenticare che l’attuale fase di intensa militarizzazione della Ue che stiamo attraversando in questo sciagurato presente, affonda le sue radici in alcune tappe fondamentali che hanno determinato la costituzione materiale dell’unità europea. Una buona e non trascurabile parte del prolisso Trattato di Maastricht del 1992 è costituita dalla cosiddetta nuova Politica estera di sicurezza comune (Pesc). Una manciata di anni dopo, il Trattato di Amsterdam istituì il ruolo di Alto rappresentante per la Pesc. Il primo a ricoprire tale carica fu Javier Solana, che la condusse per dieci anni fino al 2009, dopo essere stato Segretario generale della Nato tra il 1995 e il 1999, incarnando così la fluidità delle cariche apicali fra Ue e Nato.
Il vero banco di prova delle effettive capacità della Ue di intervenire sullo scenario internazionale per mettere in atto quei principi e quei valori di pace, libertà, giustizia e democrazia così enfaticamente richiamati nei suoi atti costitutivi e ancor più nelle dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, furono senz’altro le tragiche vicende dei Balcani a cavallo del secolo. E fu un disastro. Le parole di Perry Anderson esprimono un giudizio tanto severo quanto giusto e inequivocabile: “Beneficiaria della Pax americana piuttosto che progenitrice della stessa, l’Unione ha affrontato la sua prima prova come vero e proprio custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Fallì miseramente, non impedendo ma alimentando la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiò la secessione slovena dalla Jugoslavia, il colpo che innescò i successivi conflitti omicidi che la Ue, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si dimostrò incapace di moderare o di far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere finalmente il destino della regione. Anche l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, la sua grande conquista storica, ha seguito le orme degli Stati Uniti, la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nella Ue”

I bombardamenti sulla Serbia
Infatti l’intervento aereo contro la Serbia costituì una rottura delle già fragili regole che in qualche modo caratterizzavano l’ordine mondiale di allora. A tal punto che un fine giurista come Luigi Ferrajoli poteva mettere in fila tutte le violazioni che venivano commesse nei confronti di Costituzioni, Trattati, Carte costitutive, Convenzioni, fino a profilare una sorta di colpo di stato internazionale: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive ‘mezzi pacifici’ volti ‘a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali, a cominciare dal negoziato ad oltranza … In terzo luogo la violazione del trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla carta dell’Onu … In quarto luogo [la violazione] dello statuto della Corte penale internazionale … Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili”.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, non sarebbe potuto avvenire senza la direzione diretta, non solo supervisione, da parte degli Usa. Come ha giustamente sottolineato Domenico Gallo “Il retroterra dell’attacco dell’Alleanza atlantica alla Serbia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la Nato dopo la fine della Guerra fredda”.
Per quanto riguarda il nostro paese il via libera all’utilizzo delle basi italiane per il decollo dei bombardieri, venne offerto dal governo D’Alema. L’insieme dell’operazione venne guidata da Francesco Cossiga che riteneva che la sinistra, quella rappresentata allora dai Ds, avrebbe fatto cose che neppure la destra avrebbe potuto compiere senza provocare e attirarsi contro, se non una sollevazione popolare, certamente una lunga e forte contrapposizione nelle istituzioni e soprattutto nelle piazze. Lo dice esplicitamente Carlo Scognamiglio, allora ministro della Difesa, in una dichiarazione a un quotidiano, in polemica con James Rubin, ex portavoce di Madeleine Albright : “A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano … Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” e l’accordo in sintesi si articolava in due parti: “la prima era il rispetto dell’impegno per l’euro […] la seconda era il vincolo di lealtà alla Nato: l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la Nato avrebbe deciso di fare”. E così fu.
La guerra dei Balcani convinse le elite europee che era necessario imprimere una nuova svolta nel campo della difesa comune, naturalmente senza uscire dal quadro della sudditanza nei confronti della Nato e degli Usa. Così nel 2004 nasce L’Agenzia europea per la difesa (Aed), attualmente presieduta da Josep Borrel con sede a Bruxelles, il cui compito è quello di permettere ai 27 Stati membri dell’Ue di sviluppare le loro risorse militari, di stabilire accordi anche con paesi extra Ue (come è avvenuto per Norvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina), avendo concluso un accordo amministrativo con il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che prevede una maggiore cooperazione transatlantica nel campo della difesa in settori specifici, compreso lo scambio di informazioni. [segue]

La bussola strategica della Ue
Una serie di documenti, come quello del 2016 quando era Alto rappresentante per la sicurezza Federica Mogherini, hanno via via precisato sempre meglio la “strategia globale” della Ue, leggendo la sua posizione geopolitica in una prospettiva sempre più disponibile ad accompagnare l’espansione a est della Nato. L’accelerazione nel processo di militarizzazione della Ue ha subito ulteriori accentuazioni dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione europea, dal momento che a quest’ultima veniva a mancare una potenza nucleare nonché membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si potrebbe dire uno degli effetti collaterali della Brexit.
A un mese dall’invasione russa dell’Ucraina, il Consiglio europeo adotta un “ambizioso piano d’azione per rafforzare la politica di sicurezza e di difesa della Ue entro il 2030”. Si tratta di un articolato documento, denominato “Bussola strategica” (Strategic Compass) che contiene nuovi impegnativi passi in avanti nel processo di militarizzazione. In base a questi la Ue, al fine di agire “in modo rapido ed energico quando scoppia una crisi”, si prepara a sviluppare una capacità dell’Ue che ci consentirà di dispiegare rapidamente fino a 5 000 militari in ambienti non permissivi, per diversi tipi di crisi; rafforzare le nostre strutture di comando e controllo, in particolare la capacità militare di pianificazione e condotta, e aumentare la nostra prontezza e cooperazione attraverso il miglioramento della mobilità militare ed esercitazioni reali periodiche, in particolare per la capacità di dispiegamento rapido.”
Non siamo ancora alla decisione della costituzione di un esercito europeo, di cui peraltro si parla da anni, magari supportato da una coscrizione obbligatoria, ma ci si sta avvicinando, dal momento che viene precisata la forza da impiegare – al di là del giudizio che si può dare sulla congruità della quantificazione – e si prevedono, per la prima volta, esercitazioni reali e regolari, sia terrestri che in mare. A supporto di tutto ciò viene assunto l’impegno ad “aumentare e migliorare la spesa nel settore della difesa e migliorare lo sviluppo e la pianificazione delle capacità allo scopo di affrontare più efficacemente realtà operative e nuove minacce e sfide”, a “cercare soluzioni comuni per sviluppare i necessari abilitanti strategici per le nostre missioni e operazioni nonché capacità di prossima generazione in tutti i settori operativi, tra cui piattaforme navali di alta gamma, sistemi di combattimento aereo del futuro, capacità basate sulla tecnologia spaziale e carri armati da combattimento”, nonché a “sfruttare appieno la cooperazione strutturata permanente e il Fondo europeo per la difesa per sviluppare congiuntamente capacità militari all’avanguardia e investire nell’innovazione tecnologica per la difesa nonché creare un nuovo polo di innovazione nel settore della difesa in seno all’Agenzia europea per la difesa.” Il documento ribadisce che verrà sfruttato appieno il cosiddetto strumento europeo per la pace (European Peace Facility), istituito nel marzo del 2021. Si tratta di un fondo del valore di oltre 17 miliardi di euro, finanziato – si badi bene – al di fuori del bilancio dell’Ue e senza alcun controllo parlamentare, per un periodo di sette anni (2021-2027).

Il posizionamento della Ue nello scenario mondiale
La “Bussola strategica” provvede poi a delineare i partners utili alla Ue per il raggiungimento di simili scopi e quindi si esplicita che bisogna “rafforzare i partenariati strategici con la Nato e le Nazioni Unite […] intensificare la cooperazione con i partner regionali, tra cui l’Osce, l’Ua e l’Asean […] rafforzare la cooperazione con i partner bilaterali che condividono gli stessi valori e interessi, quali gli Stati Uniti, la Norvegia, il Canada, il Regno Unito e il Giappone.”
La Ue si pone quindi come una potenza mondiale, esplicitando però una visione geopolitica completamente all’interno di quella delineata dagli Usa e dalla Nato. Da questo punto di vista sono ancora più interessanti le pagine introduttive di taglio analitico del documento fin qui esaminato. Bastano alcuni esempi per dimostrarlo. L’interesse posto sul continente africano, in particolare per quanto riguarda il Golfo di Guinea, il Corno d’Africa, il Canale del Mozambico viene motivato “anche perché si tratta di rotte commerciali chiave”, ove l’anche è dettato più dal pudore che da una scala di valori decrescente. Oppure il riferimento alla regione indo-pacifica “dove le tensioni geopolitiche mettono in pericolo l’ordine basato su regole ed esercitano pressioni sulle catene di approvvigionamento globali”. La Ue, e la bussola strategica lo ripete più volte, si posiziona con nettezza in uno scontro tra Occidente e Oriente, ove il Sud del mondo è considerato possibile e contendibile ancella dell’uno o dell’altro, sia dal punto di vista geopolitico che geoeconomico.

Gli accordi bilaterali di alleanza militare
Nel contempo la Ue non intende affatto limitare gli accordi bilaterali di tipo militare che i suoi singoli membri possono stabilire con paesi esterni all’Unione.
A partire dal 12 gennaio di quest’anno, tali accordi bilaterali, che più propriamente e realisticamente dovremmo chiamare di alleanza militare, sono stati firmati dalla Gran Bretagna, Francia, Germania, Danimarca e da ultimo Italia e Canada. Il tratto comune di questi accordi, che rivela apertamente la loro finalità, consiste nel riferimento a una collaborazione immediata e rafforzata tra le due parti, con un sistema di risposta di emergenza in 24 ore da attivarsi su richiesta di uno dei due contraenti il patto in caso di un futuro attacco armato da parte della Russia. Infatti all’articolo 11, primo comma, dell’accordo fra Italia e Ucraina si legge: “In caso di futuro attacco armato russo contro l’Ucraina, su richiesta di uno dei partecipanti, questi ultimi si consultano entro 24 ore per determinare le misure successive necessarie per contrastare o scoraggiare l’aggressione”.
Per comprendere di quali misure si sta parlando, si può continuare a leggere il testo dell’accordo che impegna il nostro paese: “L’Italia afferma che in tali circostanze […] fornirà all’Ucraina, a seconda dei casi, un sostegno rapido e sostenuto nel campo della sicurezza e della difesa, dello sviluppo delle capacità militari e dell’assistenza economica, cercherà di raggiungere un accordo in seno alla Ue per imporre costi economici e di altro tipo alla Russia o a qualsiasi altro aggressore e si consulterà con l’Ucraina in merito alle sue esigenze nell’esercizio del diritto di autodifesa sancito dall’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite”. Quindi sostegno all’economia, armi, tecnologia militare, incrudimento delle sanzioni economiche nei confronti del paese aggressore nonché tutto ciò che potrebbe derivare da una interpretazione espansiva del diritto di autodifesa. Alcuni accordi prevedono la misura esatta dello stanziamento economico, come ad esempio quello firmato dal premier canadese Trudeau che promette per l’anno in corso 2,25 miliardi di dollari. L’Italia è stata più evanescente riguardo alle cifre da stanziare. L’articolo 17 dell’accordo esclude qualsiasi “costo aggiuntivo per il bilancio dello Stato della Repubblica italiana e dell’Ucraina”, ma il contributo finanziario fornito in passato dal nostro paese è stato, come sappiamo, già molto consistente.
Complessivamente calcoli ufficiali stimano che gli accordi firmati dai sei paesi citati superano già la cifra di 20 miliardi di dollari. Ma gli accordi non si limitano a ribadire il già fatto e il già dato. Siamo di fronte ad un salto di qualità ma in negativo. Cioè alla strutturazione di un sistema di guerra che va al di là dell’eventuale cessazione del fuoco e della conclusione di una conseguente trattativa fra Russia e Ucraina, di cui peraltro ora non si vedono le premesse, pur essendo la guerra su quel fronte in uno stato di stallo. Non contenta di quanto finora ottenuto, l’Ucraina è in “negoziazioni attive” con il Giappone, mentre ha aperto negoziati con altri paesi, quali la Romania, i Paesi Bassi, la Svezia e forse la Polonia, stando a quanto ha dichiarato Ihor Zhovkva, consigliere per la politica estera del presidente ucraino, a una giornalista di Euractiv.com.

Le diverse facce degli accordi
Questi accordi hanno durata decennale. E presentano diversi aspetti, come i lati di un prisma, che non si elidono tra loro ma coesistono, presentandosi con maggiore evidenza e incidenza a seconda della situazione creatasi. Essi si moltiplicano per rispondere alla attuale impossibilità di accettare l’Ucraina nella Nato in base all’articolo 10 del suo statuto che prevede la possibilità di invitare nuovi paesi europei ad aderire al Trattato purché condizionata alla possibilità di questi “di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. Il che non potrebbe avvenire per un paese in stato di belligeranza. Nello stesso tempo, favoriti appunto dalla loro durata decennale, gli accordi vogliono costituire un precedente per rendere ancora più semplice l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, appena le condizioni lo potranno permettere. Su questo l’Accordo firmato della Meloni è esplicito, poiché l’articolo 14 recita: “I Partecipanti [ovvero i firmatari dell’Accordo] collaboreranno per aiutare l’Ucraina a realizzare le forme necessarie nel suo percorso verso la futura adesione alla Nato”. Infine, ed è il terzo aspetto, questi accordi intendono tranquillizzare l’Ucraina in caso di un disimpegno statunitense nell’ipotesi, tutt’altro che impossibile, di una vittoria di Trump nella competizione elettorale del prossimo 5 novembre.
Insomma questi accordi di alleanza militare sono insieme sostitutivi, nell’immediato, quanto propedeutici, in un non lontano futuro, all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Nello stesso tempo il loro fine e il loro effetto più prossimi sono prolungare la guerra, ostacolando il cessate il fuoco e l’apertura di trattative di pace. Lo dimostra anche la mossa del solito Macron che ha immediatamente parlato della possibilità dell’invio di truppe europee nello scacchiere ucraino, visto anche il fallimento della controffensiva nei confronti degli aggressori russi, su cui Zelensky aveva fondato la sua propaganda nei suoi giri europei, e vista la difficoltà di impiegare forze fresche al fronte da parte di Kiev. La boutade del premier francese ha suscitato immediate reazioni negative e smentite, anche da parte italiana, ma è evidente che non si tratta di una distrazione o di una battuta di spirito, quanto di una ulteriore spinta verso l’appesantimento di quel clima di guerra in cui da tempo l’Europa è immersa.
Lo stato di stallo nel quale attualmente verte il conflitto russo-ucraino non è certo una sorpresa. L’ex capo di stato maggiore americano, Mark Miley, lo aveva previsto da tempo e ne aveva tratto la convinzione che nella primavera di quest’anno sarebbero iniziate, quasi per forza di cose, trattative per concludere in qualche modo una guerra impossibile ad essere vinta per entrambi i contendenti. Una previsione legata all’andamento dello scontro sui campi di battaglia e alla valutazione della potenza delle armi e della quantità di munizioni in mano all’Ucraina, che, a differenza della Russia che le produce a ritmi sostenuti, è costretta a chiederle in giro per il mondo.
Ma vi è di più. L’obiettivo è creare e appesantire un clima di guerra, costruire un vero e proprio sistema di guerra, dal piano culturale a quello economico, da quello della produzione di armi a quello di una tecnologia piegata a impieghi bellici, quindi una finalità che va al di là dei conflitti in corso. Riguarda direttamente la possibilità – che molti analisti americani considerano inevitabile – di un conflitto dalle proporzioni ben più catastrofiche fra Usa e Cina. Secondo le regole plurisecolari della “trappola di Tucidide” che si verifica nel caso – a partire dallo scontro fra Sparta e Atene di ben oltre duemila anni fa – in cui una potenza emergente mette in discussione il primato su un certo territorio, in questo caso l’intero mondo, di quella dominante, nella quale compaiono evidenti i segni di un declino. Ed è questa la situazione e la relazione nella quale si trovano attualmente Usa e Cina. Non so se può bastare un incidente per fare deflagrare il conflitto fra due potenze nucleari. Quello che è certo è la necessità di creare un nuovo stato psicologico nelle popolazioni adatto ad una simile prospettiva di guerra mondiale, dopo tanti decenni di pace apparente. L’abitudine allo stato di guerra ne favorisce l’estensione e l’aggravamento da tutti i punti di vista.
Il delinearsi di un’economia di guerra
Una guerra non può reggere se non è sostenuta da un’economia esplicitamente indirizzata a questo scopo. E infatti è quanto si sta delineando con sempre maggiore intensità e rapidità negli ultimi anni. Basta guardare all’indicatore più semplice: la produzione bellica. La Ue occupa il secondo posto, dopo gli Usa, in questa criminale classifica, l’Italia si trova al sesto. Il Senato ha recentemente approvato norme che peggiorano gli argini che erano stati posti dalla legge 185/90 sul commercio delle armi. Il testo ora è alla Camera. Intanto la Relazione annuale del Governo al Parlamento ha evidenziato che le vendite all’estero, in ben 83 paesi, di sistemi di armi prodotte nel nostro paese hanno raggiunto nel 2023 la cifra di 16 miliardi e 312 milioni di euro, un miliardo e 23 milioni in più rispetto al 2022 (+19,3%). Ma già le vendite del 2022 avevano abbondantemente superato quelle effettuate nell’anno precedente. Naturalmente la parte del leone l’ha fatta l’Ucraina, ove il nostro export autorizzato dal governo ha raggiunto un valore di 417,3 milioni, un balzo enorme rispetto ai 3,8 milioni del 2022.
E’ facile prevedere, poiché se ne vedono tutte le premesse già abbondantemente in atto, che la spesa per armamenti aumenterà, del resto spinta dagli stessi documenti europei di cui abbiamo prima parlato. Ma non funzionerà come un volano per l’economia, come una sorta di keynesismo di guerra, se non altro perché oltre un certo livello non si può fare andare il debito a briglie sciolte. Il ritorno del Patto di stabilità e crescita europeo, pur con qualche modificazione rispetto a quello sospeso durante la pandemia, non lo prevede, anche se in particolare il governo italiano ha chiesto che le spese per gli armamenti non vengano considerate nel calcolo del disavanzo. Quindi le risorse per le spese militari verranno ricavate da ulteriori tagli allo stato sociale e alle condizioni di vita della popolazione. Del resto in questa direzione va esattamente lo stesso progetto di autonomia differenziata voluto dal governo e in particolare dalla Lega.
Ma anche il peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni non può essere spinto oltre un certo limite, pena la perdita di consensi in un anno elettorale per eccellenza, con circa 50 paesi coinvolti e quasi 2 miliardi di persone direttamente interessate. Da qui, seppure non solo, deriva una certa incertezza anche da parte delle classi dirigenti. Ad esempio tutti hanno notato che il Def recentemente presentato dal ministro Giorgetti è privo di un quadro programmatico, limitandosi a quello tendenziale, cioè a legislazione immutata. Pare con il beneplacito europeo. Se ne comprendono appunto le ragioni: come prevedere le conseguenze e i bisogni economici in un quadro che può essere di punto in bianco sconvolto a livello mondiale dall’andamento dei due principali conflitti in corso, quello russo ucraino e quello mediorientale, ove intanto nell’allargamento della guerra si consuma lo sterminio della popolazione palestinese? In queste contraddizioni si trova la destra, non solo in Italia, e su questo lato non sarebbe facilmente difficile porla sotto schiaffo, se esistesse una sinistra capace di farlo.

Quale prospettiva?
In questo quadro, delineato per sommi capi, non vedo una via d’uscita nella intesa bilaterale dell’Italia con gli Stati Uniti, come è nella proposta “controintuitiva” di Lucio Caracciolo, sia che a vincere le elezioni del 5 novembre sia Biden o Trump. Nel primo caso avremmo lo scenario che già sostanzialmente conosciamo, anche se destinato a peggiorare in assenza di un intervento che blocchi lo sviluppo della guerra. Nel secondo, forse, muterebbero aspetti nella politica estera degli Usa – mettendo un attimo da parte “il bagno di sangue” interno minacciato dal tycoon americano -, ma nella direzione di spostare l’aggressività statunitense ancora più ad est, verso la Cina, il vero contendente per il primato mondiale. In entrambi i casi l’Italia e la Ue sono già dentro questa logica, sia negli atti approvati che nei fatti compiuti. E purtroppo lo saranno ancora di più. L’esito probabile delle elezioni del prossimo giugno porterà a un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico europeo, sia che si componga una maggioranza “Ursula”, anche senza Ursula von der Leyen, sia che Draghi torni in pista a ricoprire alti incarichi, promettendo cambiamenti a sua detta radicali. Sondaggi ed elezioni nazionali già intervenute lo prefigurano ampiamente.
La transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est è probabilmente un processo storico inarrestabile. Ma non sta scritto che debba avvenire, come nelle precedenti transizioni, come l’esito di una guerra, che in questo caso lascerebbe poche speranze per la sopravvivenza delle specie viventi su questo nostro pianeta. Servirebbe dunque un’Europa, una Unione europea che, anche in virtù della sua massa critica, agisse politicamente per evitare questo esito.

L’unica strada percorribile, per quanto sproporzionate siano le forze in campo, è quella di puntare ad un’Europa che si sottragga con decisione allo scontro tra Occidente e Oriente, tra una democrazia occidentale in dissoluzione e le autocrazie orientali, che si ponga negli equilibri mondiali come una forza dotata di autonomia, capace di rapportarsi in senso positivo con il Sud del mondo, facendo della pace il cardine principale della propria iniziativa. Con tutto quello che ne consegue sul piano politico, culturale, diplomatico, economico e sociale.
Il vero problema è che si affrontano sfide politiche ed elettorali senza che esista una sinistra. Quella che c’era nel nostro continente e che, seppure in modo confuso, strategicamente indeterminato, aspirava ad un’alternativa di sistema e di società, ha subito in questi anni paurosi arretramenti e disastrose sconfitte, salvo rarissime eccezioni in qualche angolo di territorio. Anziché rialzare la testa cercando almeno un’unità, un ambito comune nel quale analizzare le ragioni della sconfitta e dal quale lanciare un messaggio non solo di resistenza ma di speranza, è declinata su se stessa, ha accentuato le proprie divisioni, sulla base di un arretramento prima ancora culturale – si pensi al ritorno del mito della nazione – che politico. Le tante divisioni, le segmentazioni, le implosioni ne sono state la purtroppo logica e prevedibile conseguenza. E’ già successo in altre epoche, ma come sappiamo la storia è un maestro senza discepoli.
Le elezioni, d’altro canto, non sono affatto il terreno privilegiato su cui portare avanti progetti di ricostruzione profonda di un profilo ideale e politico e di un’organizzazione inclusiva ma coerente con un progetto definito. Anche questo dovremmo averlo imparato. Infatti partecipare alle elezioni non è obbligatorio. Ma se si sceglie di competere elettoralmente bisogna almeno attrezzarsi per evitare una sicura debacle, che nel caso della sinistra d’alternativa nel nostro paese significa almeno costruire una lista in grado di superare il maledetto quorum. Altrimenti si regalano ad altri i voti di una sinistra diffusa che tenacemente continua ad essere presente nelle lotte, negli scioperi, nei movimenti, nelle associazioni culturali. Nel caso italiano non ci voleva molto a costruire una lista, con un programma essenziale partendo dal tema dominante della pace, che potesse ragionevolmente contare di superare l’asticella e conquistare una rappresentanza nel parlamento europeo. Tanto più che non si tratta qui di ambire a governare le istituzioni europee ma di fare vivere una sinistra combattiva, coerente, capace di rifiutare una sorta di aventinismo in salsa europea, come di predisporsi ad aiutare operazioni politiche che mirano a garantire, magari in forma più addolcita, l’ordine delle cose presente.

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Rocca
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