Noi sardi abbiamo il diritto di usare la nostra lingua nella Messa. Lettera di Gianni Loy al Vescovo Arrigo Miglio, presidente della Conferenza Episcopale Sarda

Gianni-Loy-1papa Francesco e vescovo CALETTERA APERTA
A MONS. ARRIGO MIGLIO,
ARCIVESCOVO DI CAGLIARI e PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE SARDA

Caro Arrigo

Don Mario Ledda ha appena impartito la benedizione. Dopo aver varcato la soglia della chiesetta di San Lorenzo, ci siamo ritrovati nella sommità del colle del Buon Camino, all’ombra della vecchia struttura carceraria. Ite missa est. La messa è finita, andate in pace. O piuttosto: la messa incomincia, andate a viverla. Fine o inizio che sia, è stata una cerimonia strana e triste. A tratti surreale. Si è trattato di una celebrazione che ha profondamente umiliato me ed altri.

Può la celebrazione dell’Eucarestia umiliare?
Può!

E possibile, certamene, se al giorno d’oggi ancora sei costretto a ricordare il sacrificio della Croce alternando, con bizantino equilibrio, tre diverse espressioni linguistiche, il sardo, il latino e l’italiano. E’ stata una pena!

Mentre Don Mario, scrupoloso nell’obbedienza, pronunciava la formula: Hoc est enim corpus meum, piuttosto che pensare al sacrifico mi chiedevo: se il celebrante, tenendo il pane tra le mani e mostrandolo all’assemblea, avesse invece pronunciato la formula: “custu est su corpus meus”, forse che il mistero non si sarebbe ripetuto?

E quando due sacerdoti si sono alternati nella lettura dello stesso vangelo di Matteo, leggendolo prima in italiano e, subito dopo, in sardo, mi sono chiesto: ma tutto questo ha un senso?

Il senso di quella sofisticata mescolanza di idiomi era, ed è, soltanto quello di impedire che espressioni della mia lingua materna, a differenza di quanto accade per le altre lingue del mondo, possano evocare il mistero dell’ultima cena.

Non riuscivo, non riesco, a capire in nome di quale comandamento del Signore, la lingua che è stata dei miei padri, la lingua e che ho trasmesso ai figli miei, non possa essere utilizzata per il canone.

La risposta che mi attendo, se avrai la bontà di aiutarmi a dissipare i miei dubbi, non è di carattere liturgico, burocratico, ma di carattere teologico.

Per poter comprendere a fondo la mia sofferenza, devi sapere che a mio padre, secondo una cultura che affonda le sue radici nell’epoca dell’antico testamento, è stato dato il nome di Arremundiccu, che è nome, nostro, di santo, e così l’hanno sempre chiamato i suoi genitori. Per poter ottenere il sacramento del battesimo i genitori hanno dovuto accettare che il suo nome diventasse Raimondo.

Mio nonno, a sua volta, si chiamava “Afineddu” ma per battezzarsi ha dovuto prendere il nome di Serafino. Il padre di lui si chiama “Pissenti” ma per poter trovar posto nei Quinque libris ha dovuto prendere il nome di Vincenzo. E così via di generazione in generazione.

Credo che comprenderai la sofferenza di chi vede aggredita la linfa vitale rappresentata, per larga parte, dalla lingua materna. Maria di Nazareth, del resto, crebbe Gesù con la propria lingua materna e non con quella degli occupanti.

Se avrai la pazienza di interrogare alcuni dei vescovi che, assieme a te, compongono la conferenza episcopale sarda, qualcuno di essi potrà riferirti delle severe punizioni che, in altri tempi, venivano inflitte ai seminaristi scoperti ad utilizzare la lingua materna! E’ follia, incultura, lo so. Non è rimpiangendo il passato, recriminando, che si fa la storia, neppure quella della salvezza. La conoscenza, però, aiuta a guardare il futuro. Non ho rancori. Perdono gli autori di atti finalizzati a sradicare da questa mia terra la lingua e la cultura che sono state, per secoli, di mio padre e di mia madre (in su celu sianta), e dei loro padri e delle loro madri prima di loro per i secoli dei secoli.

Forte della mia coscienza, consapevole del dovere di lasciare in eredità ai miei figli la natura così come l’ho ricevuta, comprensiva sia delle sue componenti materiali che di quelle culturali, come la lingua, ho libertà di espressione nella lingua che è stata dei miei padri ed oggi è la mia.

Essa, la lingua sarda, è l’unica con la quale comunico con i miei figli. Mi è consentito scrivere, pubblicare, leggere, Svolgo, in lingua sarda, una parte del mio lavoro di insegnante. Chi lo ritiene può elaborare, in lingua sarda, la propria tesi di laurea.

Posso persino pregare, in lingua sarda.

L’unica cosa che mi è impedita in questa lingua, cioè che tu, in quanto vescovo, mi impedisci, è di partecipare con la lingua dei miei padri, al mistero eucaristico.
Lo trovo, arcaico, inconcepibile, paradossale. Se don Mario recitasse il canone in una lingua sconosciuta, in ucraino, in olandese, in friulano, senza che né lui né l’assemblea comprenda una sola parola, magari con una pronuncia che neppure riflette correttamene il testo, il vescovo non avrebbe niente da ridire, l’ortodossia sarebbe rispettata?

L’unica cosa che sembra importare alla Chiesa sarda è che non si pronunci, in lingua sarda, la sacra formula: “pigai e buffaindi tottus, custu est su calixi de su sanguni miu, po s’alliantza noa e eterna …”.

E’ possibile che la chiesa sarda non abbia altro più importante di cui preoccuparsi?

Caro Arrigo, il vescovo è il “pastore” del gregge o è il “supervisore”, il “sorvegliante”, secondo l’etimologia del termine επίσκοπος (episcopos)?
Secondo la tradizione della mia terra, il “pastore” conosce le proprie pecore ad una ad una, parla con loro nella loro lingua. Condivide la loro condizione.
Il “sorvegliante”, invece, ha il solo compito di garantire il rispetto di regole esterne alla comunità, dettate in nome di una ortodossia il cui significato, francamente, mi sfugge.

Non ho né il diritto né la competenza per addentrarmi nei particolari di questo “diritto”.

Eppure, pensando proprio al Codice di diritto canonico, che ti riconosce quale successore degli Apostoli, e pensando al Papa che, liberamente, ti ha nominato per santificare, insegnare e governare, mi chiedo se davvero la proibizione di recitare il canone in lingua sarda, possa essere in qualche modo ispirata o riferibile all’insegnamento degli Apostoli.

Mi chiedo anche se Papa Francesco, succeduto al Papa che ti ha nominato, sia al corrente del fatto che ai sardi è oggi impedito di celebrare la Santa messa nella propria lingua materna. Mi chiedo se pensi che Papa Francesco, se ne fosse informato, potrebbe condividere una decisione del genere.

So che la questione non riguarda una sola diocesi, bensì la Chiesa sarda nel suo complesso, la sua conferenza episcopale. Ho persino il sospetto che, come purtroppo la storia insegna, i maggiori responsabili della emarginazione della nostra lingua e della nostra cultura, in ambito religioso, non siano coloro che, come te, arrivano dal continente, ma proprio i vescovi nostri conterranei, o almeno una parte di essi, quelli che dovrebbero essere più sensibili al dovere di onorare il padre e la madre.

Non riesco ad immaginare alcun particolare motivo di diffidenza, da parte tua, da parte del Vescovo di Cagliari, nei confronti dell’utilizzazione della lingua sarda nella celebrazione del sacrificio di Cristo.

Ma sei tu il vescovo, vescovo che preferisco nelle vesti di pastore piuttosto che in quelle di episcopo, pertanto è a te che devo porgere due semplici domande che richiedono un’altrettanto semplice risposta: “si o no?”.

1. Esiste alcuna ragione, di carattere teologico, che possa giustificare il divieto di celebrare il sacrificio della messa in lingua sarda?

2. Il vescovo, il pastore, della diocesi di Cagliari, davvero proibisce che possa celebrarsi la Santa Messa in lingua sarda?

Cagliari 6 gennaio 2016

Un abbraccio

Gianni Loy


Missa_Epifania_locandina_A4_11

One Response to Noi sardi abbiamo il diritto di usare la nostra lingua nella Messa. Lettera di Gianni Loy al Vescovo Arrigo Miglio, presidente della Conferenza Episcopale Sarda

  1. […] Caro Gianni, grazie della simpatica provocazione pubblicata su questo giornale l’11 u.s. [*] e che correttamente mi avevi anticipato. Provo a dare qualche elemento di risposta, parziale, con l’auspicio che il dialogo possa continuare e approfondirsi con tutti coloro che condividono la medesima sensibilità. Premesso che autorizzare la traduzione dei libri liturgici (messale e lezionario) è cosa riservata alla S. Sede, va subito detto che la meta non è irraggiungibile: occorre compiere un itinerario, come ad es. hanno fatto da anni i Friulani. Devo però anche subito scusarmi per le imprecisioni, inevitabili per uno come me che viene da fuori, da una regione dove questo stesso problema esiste ma è sentito da una cerchia ristretta di persone, vuoi per la molteplicità delle parlate piemontesi vuoi per la composizione variegata della popolazione. Sono però molto interessato al problema da te affrontato perché ho avuto modo tante volte di vedere e sentire come la lingua sarda sappia esprimere bene la religiosità e la pietà popolare dei sardi. Ma sono interessato anche perché mi affascina il mistero della Parola, che uscita dal seno del Padre si è incarnata e inculturata in Israele e nella lingua ebraica, ma è destinata a raggiungere tutti i popoli e le loro culture fino ai confini della terra. E ogni volta che una parola passa da una lingua all’altra, ciascuna traduzione svela qualche aspetto nuovo del termine tradotto, arricchendone il messaggio. Pensiamo ad es. al termine stesso Parola – in latino Verbum – in greco Logos – in ebraico Davar – in aramaico Memra. O al termine Misericordia – in greco Eléos – in ebraico Hésèd – Rahamîm. Ed è altrettanto vero che alcune parole sono rimaste non tradotte: Amen – Alleluia – Hosanna per l’ebraico – Christòs per il greco ecc. Tornando a noi, un passo importante è quello di avere tutta la Bibbia in sardo, perché la gran parte dei testi liturgici è presa dalla Bibbia. A dire il vero è stato già fatto un grande lavoro nel passato e avviata la traduzione della Bibbia nelle due varietà di Campidanese e Logudorese, da cui prendere i testi liturgici. Sono pronte in bozza le traduzioni di 21 libri della Bibbia per la varietà campidanese e di 10 per quella logudorese. Il lavoro si è interrotto intorno all’anno 2000, in seguito alla Legge Regionale sulla Lingua comune che sembrava considerare superata l’impostazione data al lavoro. Il materiale prodotto è conservato dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, che era stata incaricata dalla CES di curare l’intero lavoro. Altro passo importante mi pare quello di ampliare l’uso di testi sardi nella liturgia e nella pietà popolare: c’è il Rosario con il Padre nostro e l’Ave Maria (il Gloria è rimasto in latino), i canti natalizi e della Settimana Santa, i Goccius e altri. Vari cori parrocchiali possono testimoniare la mia insistenza perché siano più usati i canti sardi. Per i testi del Messale e del Lezionario la prudenza della S. Sede va capita. Lex orandi è lex credendi, e siccome il proverbio dice che traduttore può essere anche traditore, ecco la cautela nel curare i testi che esprimono la fede ricevuta. Inoltre, la liturgia è patrimonio di tutta la Chiesa e non è di una sola comunità. Ma, ripeto, è un percorso che si può compiere e che assolutamente io riterrei utile dal punto di vista pastorale e culturale. Su quest’ultimo aspetto conta molto di più il parere dei vescovi nati e cresciuti in Sardegna. Questo incoraggiamento, tuttavia, non può essere interpretato come un avallo a passi che non compete ai vescovi autorizzare. Ma gli ambiti dove poter lavorare non sono pochi, e proprio partendo da questi sarà possibile compiere i passi successivi. Con viva cordialità, + Arrigo Miglio —————————————- [*] Vedasi Aladinews del 7 gennaio 2016. […]

Rispondi a Il Vescovo Arrigo Miglio risponde a Gianni Loy sull’uso della lingua sarda nella liturgia: Adelante con juicio. Ma si attivino innanzitutto i vescovi nati e cresciuti in Sardegna | Aladin Pensiero Annulla risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>