Al May Mask

may Mask dueIl May Mask inaugura con La maschera che porto
Il nuovo spazio culturale polivalente (ri)apre a Villanova con una collettiva ed una performance d’effetto
di Carla Deplano

Il 22 maggio la neonata Associazione culturale May Mask di Massimiliano Murru, Ignazio Loi e Daniela Porcu ha inaugurato l’omonimo spazio polivalente di via Giardini 149a con la mostra collettiva “La Maschera che porto”.
La prima performance del progetto “12 mt sul livello del mare” ha visto come protagonisti Massimiliano Murru (percussioni etniche e rumori), Francesca Romana Motzo, (clarinetto improvvisato), Laura Fortuna (voce recitante) e Boucar Wade (poeta narrante). – segue -
All’interno delle installazioni con maschere africane e candidi bozzoli, l’azione performativa ha coinvolto il pubblico attraverso il linguaggio della poe-sia ed il sottofondo di suoni e ritmi ancestrali. In un mutuo rimando di suggestioni sulle contraddizioni che ci porta l’esistente, i bozzoli racchiudono un’anima ed un corpo rimandando ad una naturale metamorfosi, mentre d’altra parte l’analogia con zanzariere coloniali evoca il letto, simbolo di vita e di morte che unisce tutti con un filo rosso nell’eterno connubio eros-thanatos.
La percezione sinestesica di immagini, suoni, versi ed installazioni travalica il confine soggettivo, individuale, per esplorare un significato universale multiforme ed in perenne divenire, alla ricerca di radici antropologiche che si perdono nel tempo e nello spazio, dentro e fuori di noi.
La poetica di Boucar Wade, legandosi alla politica e alla critica sociale, porta la riflessione sull’insensatezza di ogni velleità di imbrigliare il reale all’interno di un sistema rigidamente dominato dalla logica, laddove reale è ciò che si vede ma anche ciò che si sottrae ad una percezione diretta e immediata.
La mostra collettiva di Pastorello, Josephine Sassu, Giuliano Sale, Adriano Annino, Silvia Argiolas, Dario Molinari, Francesca Randi, Narcisa Monni, Pao-lo Pibi e Silvia Mei offre un linguaggio multiforme e variegato, che spazia da un primitivismo che strizza l’occhio alle maschere delle installazioni, con incursioni punk, neofolk, art brut e art negre.
Gli artisti mettono in scena le ambiguità della doppia identità della società complessa e del nostro essere più intimo e profondo, di un Io lacerato e scisso, in un confronto dialettico tra microcosmo e macrocosmo, punto di vista emico ed etico.
Le opere in dialogo con le installazioni e la performance evocano un rela-tivismo in cui emerge la dimensione dell’istintività ed il ruolo della coscienza soggettiva nella percezione del mondo esterno.
Ci si ritrova immersi in un luogo-filtro archetipico in cui viene a mancare una prospettiva ordinata in cui inserire l’essere umano: non ci sono spazio, tempo e materia definiti. Non avendo più un’identità precisa, all’uomo non resta che fingere di essere qualcosa di diverso: deve apparire irriconoscibile e di-venta uno nessuno e centomila, tante maschere diverse. Dall’Hulk di Pastorello alle donne-bambole gonfiabili di Silvia Argiolas.
Mentre i ritratti dissonanti di Silvia Mei si fanno carico di restituire la realtà profonda dell’essere in cui il brutto, lungi dall’essere l’opposto dialettico della bellezza, sembra emergere come un elemento metamorfico che la intensifica e la potenzia.
Il tutto acquista un valore catartico che, facendo leva su determinate di-namiche psichiche e sociali patologiche, indica al contempo utopisticamente come il mondo potrebbe e dovrebbe essere, svelando la presenza del dolore e delle lacerazioni all’interno della società e ritrovando in questo rimosso il senso più autentico del bello.
Nei momenti di crisi la proiezione di parti di sé, tipica dei fenomeni transizionali, ricrea nella relazione con gli oggetti uno spazio di rifugio consolatorio che distoglie temporaneamente dalle difficoltà del reale attraverso il senso ras-sicurante, quanto aleatorio, procurato dall’idea del controllo esercitato su di sé e sull’ambiente.
Emerge dal profondo il volto-maschera, il mostro. Ed il relativo bisogno di protezione, ma anche di trasformazione legato ai riti di passaggio: e’ il non-essere che vorrebbe farsi essere. La maschera serve per nascondere un vuoto con l’intento di colmarlo con un pieno diverso e altro.
Il tema dei mostri nella natura viene affrontato da Klee e Mirò ma è il Minotauro di Picasso, bestia nella testa invece che nel corpo, a rivela una verità più inquietante: le reali mostruosità provengono dalla mente dell’uomo, non dalla natura. Al riguardo, l’antropologo Clifford paragona un surrealismo nell’arte con un surrealismo etnografico, individuando un’estetica ibrida e meticcia che sconfina nelle dimensioni dell’erotico, dell’esotico e dell’inconscio.
La bruttezza equivale al perturbante di Shelling e Freud: qualcosa che sarebbe dovuta rimanere nascosta ed è inevitabilmente riaffiorata come per ef-fetto di un’amara madeleine proustiana. E’ il ritorno del rimosso che genera angoscia, dell’inconsueto che riappare dopo la cancellazione di qualcosa che ha turbato tanto la nostra infanzia individuale quanto l’infanzia dell’umanità.
Il potere dell’arte potrebbe auspicabilmente levare la barriera che ci separa dal mondo e dalla realtà alienata, per fare rifluire il mondo in noi rimettendolo in contatto con la nostra soggettività: solo così l’arte non sarà soltanto dispiacere, ma anche e soprattutto fonte di piacere.

MAY MASK osserverà i seguenti orari:
lunedi/sabato 10:00/13:00 – 17:00/ 21:00 – domenica chiusi.
Disponibili anche su appuntamento.

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Silvia Mei: Un unico filo, olio, acrilico e tecnica mista su carta (particolare), 66,5×83,5cm, 2015

2 Responses to Al May Mask

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