Non sparate sul(l’) pian(econom)ista!

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I torti degli economisti

di Gianfranco Sabattini

Dopo la crisi del 2007/2008, gli economisti sono diventati il bersaglio prediletto delle critiche dell’opinione pubblica, perché nonostante il loro accreditamento sociale come privilegiati “consiglieri del principe”, non hanno saputo prevedere che il nemico era giunto sotto le “mura di casa”; anzi, secondo molti, le idee che negli ultimi decenni essi avevano contribuito ad affermare e a diffondere erano all’origine della Grande Depressione, per uscire dalla quale hanno spesso suggerito, e concorso a fare accettare dalle forze politiche, l’adozione di provvedimenti di politica economica che sono valsi a produrre effetti peggiori di quelli della crisi.
Dani Rodrik, autorevole economista, professore di Economia politica internazionale alla John F. Kennedy School of Government, presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti, ha scritto un libro in difesa della professione di economista, nel quale però, nello stesso tempo, ha anche formulato una severa critica contro il modo d’essere di coloro che la praticano. Il libro, “Ragioni e torti dell’economia”, costituisce infatti una celebrazione e una critica della professione di economista; Rodrik difende il “nucleo centrale” della disciplina, che individua nel ruolo svolto dai modelli economici nella “creazione di conoscenza”, ma critica “la maniera in cui spesso gli economisti praticano la loro tecnica e (ab)usano dei loro modelli”. Merita attenzione il modo in cui Rodrik ha maturato gli stimoli che lo hanno condotto a scrivere il libro.
L’esperienza di docente di Economia politica che Rodrik ha vissuto ad Harvard lo ha spinto a riflettere, egli afferma, “sui punti di forza e di debolezza delle teoria economica”, stimolato dal fatto che alcuni suoi colleghi sostenessero che l’economia come scienza “fosse diventata sterile e stantia [...], perché la teoria economica aveva abbandonato la grande teorizzazione sociale nello stile di Adam Smith e Karl Marx”. Questa valutazione dell’economia era l’opposta di quella maturata da Rodrik, secondo il quale la “forza delle teoria economica” risiedeva nella “teorizzazione su piccola scala, nel tipo di pensiero contestuale che chiarisce cause ed effetto e getta luce – anche se parzialmente – sulla realtà sociale”. Una scienza modesta, praticata con umiltà, era la sua tesi, “è probabilmente più utile della ricerca di teorie universali sul funzionamento dei sistemi capitalistici o su ciò che determina la ricchezza e la povertà nel mondo”.
Le convinzioni di Rodrik sono state messe a “dura prova”, allorché egli è stato ospite per due anni, a partire dal 2013, presso l’Institute for Advanced Study di Princeton, dove la School of Social Science dello stesso Istituto era affollata da scienziati sociali i cui studi erano fondati su approcci umanistici e interpretativi che “in netto contrasto con il positivismo empirista della teoria economica”. Durante la frequentazione del nuovo ambiente, Rodrik afferma d’essere stato colpito dal “forte sottofondo di sospetto” che gli studiosi di antropologia, sociologia, storia, filosofia e scienze politiche, nutrivano nei confronti degli economisti. Per gli studiosi di queste discipline, gli economisti “o affermavano l’ovvio o si spingevano decisamente oltre il segno, applicando schemi semplici a fenomeni sociali complessi”.
Rodrik afferma d’avere talvolta avuto l’impressione che i pochi economisti che frequentavano l’Istituto di Princeton fossero trattati da “idioti sapienti”, bravi con la matematica o con la statistica, ma di poca utilità. Ciò che maggiormente lo ha colpito è stato che il tipo di atteggiamento degli studiosi di scienze sociali nei confronti degli economisti era simile a quello che egli aveva avuto modo di rinvenire, nelle Università nelle quali aveva insegnato, da parte degli economisti nei confronti di sociologi e di antropologi, considerati “poco rigorosi, indisciplinati, verbosi, non abbastanza empirici, o (alternativamente) poco preparati alle insidie dell’analisi empirica”. Tuttavia, una delle conseguenze del soggiorno a Princeton è stata, per Rodrik, quella di aver concorso a farlo “sentire meglio come economista”, perché gli ha consentito di appurare che molte delle critiche portate contro gli economisti “non colpivano il bersaglio”.
L’esperienza vissuta a Princeton è valsa infatti a convincere Rodrik che gli approcci ai problemi sociali operati dalle scienze dell’uomo potevano essere migliorati, se avessero adottato il tipo di argomentazione analitica e il ricorso all’evidenza empirica propri dell’economica; quindi, gli economisti devono biasimare solo se stessi per il giudizio negativo che scontano presso gli studiosi delle altre scienze sociali. Secondo Rodrik, il problema degli economisti “non è solo il loro senso di autogratificazione e il loro attaccamento spesso dottrinario a un modo peculiare di guardare il mondo”; è bensì il fatto che essi fanno un “pessimo lavoro”, allorché, presentando i risultati delle loro analisi e ricerche, inducono i non economisti a percepire che con tali risultati si vogliano “enunciare leggi economiche universali valide ovunque, indipendentemente dal contesto”.
Con la maggiore consapevolezza sul ruolo della professione di economista maturata durante il soggiorno a Princeton, Rodrik ha scritto il libro “Ragioni e torti dell’economia”, per formulare un doppio messaggio rivolto, da un lato, agli economisti, perché “raccontino meglio il tipo di scienza che praticano”, e dall’altro, ai non economisti, perché, pur criticando l’economia come scienza, si convincano che di essa “c’è molto da apprezzare (ed emulare)”.
Per Rodrik, la scienza economica non è che un insieme di modelli, consistenti in costrutti astratte su basi matematiche; i modelli coi quali gli economisti cercano di dare senso al mondo dei fenomeni economici, oltre ad essere ciò che fa della disciplina economica una scienza, sono però – sempre secondo Rodrik – sia il “punto di forza sia il tallone di Achille dell’economia”. La scienza economica, “piuttosto che in un singolo modello, consiste in una molteplicità di modelli; la disciplina – egli afferma – avanza espandendo la sua library di modelli e migliorando l’aderenza dei modelli al mondo reale”. La loro diversità e molteplicità “non è che il necessario contraltare della flessibilità del mondo sociale”, che dà luogo ad una pluralità di situazioni, la cui interpretazione e spiegazione richiedono la costruzione di modelli differenti, rendendo del tutto improbabile che gli economisti possano costruire “modelli universali di carattere generale”.
Molte diffidenze nei confronti dell’economia dipendono dal modo in cui chi la studia e la pratica fa in genere “un cattivo uso” del proprio lavoro; gli economisti, secondo Rodrik, devono superare questo limite sul piano della comunicazione, evitando la loro tendenza a “scambiare un modello con il modello” applicabile a tutte le situazioni e convincendosi che, quando queste cambiano, si deve scegliere tra i modelli disponibili quello che meglio si adatta all’interpretazione ed alla spiegazione dei fenomeni propri della situazione oggetto di studio. Nella misura in cui gli economisti non terranno nel debito conto la diversità delle situazioni sociali, saranno inevitabili le critiche, molte delle quali continueranno a riproporre un clichè ben noto: l’economia è semplicistica e riduttiva, perché ignora il ruolo della cultura, della storia ed è colma di giudizi di valore.
Queste critiche, a parere di Rodrik, derivano dall’incapacità di riconoscere che “l’economia è, in realtà, una collezione di diversi modelli”, che colgono, senza alcuna inclinazione ideologica, solo un aspetto della complessità dei fenomeni sociali, per cui essi non si prestano ad offrire un’unica interpretazione dei fenomeni considerati. Perciò, preso singolarmente, un modello non è “che una mappa parziale che illumina un frammento di territorio”, mentre, nel loro insieme, i “modelli degli economisti sono la nostra migliore guida cognitiva alla distesa senza fine di colline e di valli che costituiscono l’esperienza sociale”.
I modelli economici, infatti, sono delle semplificazioni, volte ad accertare l’esistenza di relazioni specifiche tra i fenomeni che connotano una data realtà sociale; essi, sulla base delle semplificazioni introdotte, consentono di cogliere il modo in cui si svolgono quelle relazioni, isolandole da altri aspetti della stessa realtà sociale che possono fare velo sulla comprensione di quelle relazioni. Gli economisti, perciò, col loro lavoro creano un “mondo artificiale che rivela un certo tipo di connessioni tra le parti del tutto: connessioni che potrebbero essere difficili da discernere se si osservasse il mondo reale in tutta la sua complessità”. Una delle ragioni della diffidenza nutrita dai non economisti nei confronti dei modelli economici è il fatto che essi, per chiarezza e coerenza, siano espressi nel linguaggio della matematica; una diffidenza in realtà giustificata, se si dimentica che la matematica ha un valore solo strumentale nella costruzione dei modelli.
Gli economisti spesso perdono di vista il fatto che i modelli, in linea di principio, non richiedono l’uso della matematica; non è quest’ultima “a rendere i modelli utili e scientifici”, come dimostra il fatto che grandi economisti, quali Karl Marx, Joseph Schumpeter e John Maynard Keynes, abbiano costruito i loro modelli in forma verbale. Cionondimeno, sottolinea Rodrik, non si può trascurare che lo strumento matematico, oltre a consentire una maggior precisione nella formulazione delle ipotesi e delle assunzioni poste alla base dei singoli modelli, assicura anche la loro coerenza interna, ovvero che le conclusioni sulla realtà oggetto di studio possano essere tratte, in termini di deduzione stretta, dalle premesse.
In conclusione, a parere di Rodrik, i modelli “sono ciò che fa dell’economia una scienza”, precisando che per sottolineare la natura scientifica dell’economia sia meglio usare il termine “modello” piuttosto che quello di ”teoria”; termine, quest’ultimo, che avrebbe in sé un “suono ambizioso”. Per comprendere la convenienza di questa distinzione, occorre porsi tre ordini di domande: quelle del tipo “che cosa?”, per spiegare, ad esempio, quale sia l’effetto dell’afflusso esterno dei capitali sul tasso di crescita di un Paese; quelle del tipo “perché?”, per spiegare il manifestarsi di un insieme di fatti e lo svolgersi di un insieme di processi, quali sono stati, ad esempio, quelli che si sono verificati con l’inizio della Rivoluzione industriale e l’affermarsi del modo capitalistico di produrre; infine, quelle che sollecitano risposte riguardanti le “grandi questioni dell’economia e delle scienze sociali”. Le risposte a queste grandi questioni costituiscono il dominio della grandi teorie.
La scienza economica contemporanea è spesso criticata perché non offre teorie sulle grandi questioni, del tipo di quelle offerte, ai loro tempi, da Adam Smith o da Karl Marx, o perché, ad esempio, non formula un’univoca teoria della distribuzione del prodotto sociale. Su quest’ultima grande questione esiste una pluralità di teorie, ma nel complesso esse danno “meno di quanto promettono”. Perché? Rodrik considera le teorie economiche generali come “un’impalcatura per contingenze empiriche. Sono un modo per organizzare i nostri pensieri, piuttosto che congegni esplicativi dotati di esistenza propria. In sé, esse hanno scarsa presa reale sul mondo. Prima di diventare utili, devono essere combinate con una valida analisi contestuale”, possibile solo attraverso la costruzione di specifici modelli.
Tuttavia, a giudicare dalla frequenza con cui in economia ricorre il termine teoria, sembrerebbe che la scienza economica sia costituita solo da un insieme di teorie (teoria dei giochi, teoria dei contratti, teoria della crescita, ecc.); in realtà, a parere di Rodrik, si tratta sempre di “particolari collezioni di modelli”, da applicare con la dovuta attenzione al contesto sociale al quale vengono riferiti. Essi (i modelli) vanno considerati come la “cassetta degli arnesi” della quale si dispone per interpretare le specifiche situazioni sociali, e non come la spiegazione dei fenomeni di tutte le possibili situazioni sociali studiate.
Perciò, la propensione a formulare teorie universali, in luogo di modelli contestualizzati, deve essere considerata inutile e sbagliata, ai fini della comprensione della contingenza e delle possibilità offerte dal mondo reale. Lo studio di quanto accade nel mondo dell’economia richiede approcci più modesti di quelli riconducibili alla formulazione di grandi teorie; quando l’”ambizione, eclissa questo intento”, non solo può essere che la realtà sociale sia fraintesa, ma può anche accadere che i provvedimenti presi sulla base di teorizzazioni generali producano effetti peggiori del male che si intende contrastare.
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