Risultato della ricerca: comunicazione della scienza
Chiesa e Cultura. Documentazione dell’incontro del 24 ottobre
Chiesa e Cultura. Documentazione incontro presso la Facoltà Teologica della Sardegna, giovedì 24 ottobre 2004
Intervento di Franco Meloni.
ISAIA 21, 11-12
11 Oracolo contro Duma.
Mi si grida da Seir:
«Sentinella, a che punto è la notte?
Sentinella, a che punto è la notte?»
12 La sentinella risponde:
«Viene la mattina, e viene anche la notte.
Se volete interrogare, interrogate pure;
tornate un’altra volta».
Verso l’incontro Treeology Theology – Documentazione pertinente
Da DOPPIOZERO
Si cita spesso, fra le riflessioni fondative dell’etica ambientale, un saggio apparso su “Science” nel 1967, The Historical Roots of Our Ecological Crisis [Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica], opera dello storico delle tecniche Lynn White jr. (1907-1987); il saggio venne tradotto da Silvia Laila in italiano nel numero di marzo/aprile (credo sia ormai introvabile) del 1973 della rivista “il Mulino”. L’idea centrale era che “le radici storiche della nostra crisi ecologica” andavano cercate nella tradizione ebraico-cristiana. La sacralizzazione esclusiva dell’uomo, immagine di quel Dio che affida ad Adamo il compito di dare un nome a vegetali e animali per divenirne padrone, prepara il terreno su cui può sorgere l’ideale della modernità: il sapere-potere della scienza, baconiana e cartesiana, invita al dominio umano di una natura ridotta a puro meccanismo, privato d’anima. Lynn White jr. terminava il saggio con le parole: “Forse dovremmo meditare sulla più grande figura del cristianesimo dopo quella di Cristo: san Francesco d’Assisi […]. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio”. Ma il tentativo di Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale dell’Occidente, è fallito. “Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti”.
Forse dovremmo ripartire dalle tesi di Lynn White per apprezzare la novità costituita dall’enciclica Laudato si’ di un altro Francesco. Certo, novità all’interno del mondo cattolico, che può apparirci in ritardo rispetto a quanto il dibattito ecologico ha promosso in questi decenni, ma che non deve lasciarci indifferenti. La Bibbia, sostiene papa Francesco, non dà adito ad un antropocentrismo dispotico; il mandato divino, dopo la cacciata dall’Eden, chiedeva di coltivare e custodire la Terra, ed i doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte integrante della fede cristiana. L’Enciclica muove dal Cantico del poverello d’Assisi, auspicio di una riconciliazione universale con tutte le creature, per invitarci ad ascoltare il grido di protesta che si leva dalla nostra “casa comune”, da “sora nostra matre Terra”. L’abuso irresponsabile dei beni che Dio ha posto in lei non corrisponde al dettato biblico, al dono che Dio ha fatto all’uomo perché ne prendesse cura. I viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio, l’uomo è chiamato a rispettare la bontà di ogni creatura, ed anche i ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore. Del resto, anche Hans Jonas ricordava che la sostanza etico-religiosa della tradizione ebraico-cristiana è data dal motivo della creazione, con l’implicito postulato del rispetto per l’integrità della vita; l’appellativo liturgico di Dio, “colui che vuole la vita”, ha come corrispettivo la libertà e responsabilità della creatura verso la dignità della vita.
Se è vero che il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura, non attribuendole più carattere sacro (ma il grande Pan era morto e gli dei avevano abbandonato la terra ancor prima della diffusione del cristianesimo), non per questo diviene legittimo il dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature. Tutta la natura è rivelazione del divino, luogo della sua presenza, linguaggio dell’amore di Dio: “suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio”, ricorda papa Francesco. E Dio si prende cura di tutti: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt. 6,26). Anzi, riprendendo Teilhard de Chardin, papa Francesco afferma che il traguardo del cammino dell’universo è la pienezza di Dio: tutte le creature avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso questa meta comune.
La novità rilevante dell’Enciclica mi appare l’adozione di una prospettiva ecologica in senso forte: nella “casa comune” tutto è intimamente connesso, le cose sono in dipendenza le une dalle altre e si completano vicendevolmente, gli organismi sono sistemi aperti in costante comunicazione. Il che porta a ridiscutere la visione di una natura retta da una gerarchia, visto che anche la più piccola creatura ha valore per sé ed insieme contribuisce all’equilibrio del sistema cui appartiene. Questo non significa intaccare il privilegio di specie (lo specismo o sciovinismo umano, per dirla con Bryan Norton) che ci vorrebbe unici degni di considerazione morale. E nemmeno accogliere una prospettiva ecocentrica, come quella di Aldo Leopold, il fondatore dell’Etica della Terra: l’appartenenza a una comunità più ampia di quella sociale, a un oikos i cui abitanti includono il suolo, le acque, le piante e gli animali, la terra intera, impone un criterio morale più ampio, per cui giusto è “ciò che tende a mantenere l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica”.
La prospettiva di Francesco è, e non può che essere, quella di un umanesimo cristiano. Non può esserci sentimento di intima unione con gli altri viventi, se non c’è al tempo stesso compassione per gli esseri umani; certo, ogni maltrattamento nei confronti degli animali è contrario alla dignità umana, ma, come ha spiegato Callicot, il pensiero ecologico non chiede di per sé di farsi vegani, di abolire la caccia, di aderire al principio dei diritti degli animali di Tom Regan o di accogliere una morale sensiocentrica, che pone gli umani allo stesso livello delle specie che provano dolore. I facili sentimentalismi di quanti sacrificano la ricerca sanitaria sull’altare della dignità verso le cavie non sempre si coniugano con l’assistenza ai derelitti e disperati della Terra.
Nell’Enciclica, sull’esempio di san Francesco, restano inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri e la pace interiore. L’asse portante dell’Enciclica è l’intima relazione tra la miseria degli umani e la fragilità del pianeta; un vero approccio ecologico diventa sempre anche un approccio sociale, dobbiamo imparare ad “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Solo entrando in comunicazione con tutto il creato, potranno scaturire la sobrietà e la cura verso quel che è debole; e oggi lo è la natura stessa, anch’essa entrata nel regno della finitudine, che credevamo attributo esclusivo dell’umano. Accenti analoghi si trovano in Michel Serres, teorico del “contratto naturale” di simbiosi e reciprocità fra la terra e l’uomo. L’enciclica ribadisce quel che il filosofo francese ha scritto in Tempo di crisi: non esistono due crisi, una sociale ed una ambientale, ambiente naturale ed umano si degradano insieme. Esiste una sola crisi e per affrontarla si richiede un’ecologia integrale che combatta la povertà, restituisca dignità agli esclusi e si prenda cura della natura. La terra ci precede e ci è stata data; i testi biblici non assecondano lo sfruttamento selvaggio della natura, ci invitano a coltivare il giardino, in una relazione di reciprocità responsabile fra uomo e natura. Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv). La natura ci è stata data in eredità comune, dobbiamo dunque fare in modo di lasciarla come l’abbiamo trovata, anzi meglio, ai nostri figli e nipoti.
Mario Porro
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Non di rado una conversazione con Aldous Huxley si trasformava in un indimenticabile monologo. Circa un anno prima della sua morte, Huxley stava parlando di un argomento che aveva molto a cuore, il fatto cioè che l’uomo trattava la natura in modo per così dire “innaturale”. Per chiarire il proprio punto di vista raccontò che l’estate precedente era tornato in una piccola valle dell’Inghilterra dove aveva passato lunghi periodi felici durante l’infanzia. La valle, un tempo ricca di declivi erbosi, era invasa da una squallida boscaglia perché i conigli selvatici che ne controllavano la crescita erano stati decimati dalla mixomatosi, malattia che gli agricoltori avevano intenzionalmente diffuso per evitare che i roditori danneggiassero raccolti. Con una punta di saccenteria lo interruppi, non riuscendo a tacere nemmeno di fronte a un’eloquenza di così alto livello, e gli ricordai che anche i conigli erano stati introdotti in Inghilterra come animali domestici nel 1176, probabilmente allo scopo di integrare la dieta proteica dei contadini.
Tutte le forme di vita modificano l’ambiente in cui si sviluppano. L’esempio più spettacolare in positivo è quello del polipo corallino che, perseguendo il proprio interesse, ha creato un habitat sottomarino favorevole a migliaia di altre specie animali e vegetali. Con il suo intervento l’uomo, almeno dai tempi in cui è diventato una specie numerosa, ha sempre alterato l’ambiente in cui vive. Alcuni esempi. È un’ipotesi plausibile, anche se non provata, che il metodo di caccia per mezzo del fuoco abbia dato origine alle grandi praterie e abbia contribuito allo sterminio dei giganteschi mammiferi del pleistocene. Da almeno sei millenni i terreni lungo le sponde del basso Nilo sono opera dell’uomo e non della natura, che avrebbe piuttosto dato luogo alla giungla umida africana. La diga di Assuan, che ha sommerso 8000 chilometri quadrati di territorio, non è che l’ultimo stadio di un lungo processo. In molte regioni la coltivazione a terrazze, l’irrigazione, i pascoli intensivi, i disboscamenti operati dai romani per costruire navi durante le guerre contro i cartaginesi o dai crociati per risolvere i problemi logistici durante le spedizioni in Medio Oriente, hanno apportato profonde modificazioni in numerosi ecosistemi. L’osservazione che il paesaggio francese è caratterizzato a nord da distese erbose e a sud e a occidente dal bocage, convinse Marc Bloch ad approfondire lo studio dei metodi medievali di coltivazione. Le variazioni nelle abitudini di vita dell’uomo hanno avuto effetti certamente non previsti anche su altre specie viventi. Si è osservato, per esempio, che l’avvento dell’automobile ha determinato la scomparsa degli stormi di passeri che si cibavano degli escrementi di cavallo un tempo disseminati su tutte le strade.
Lo studio della storia delle variazioni ambientali è ancora ai primi passi e poco sappiamo di ciò che è realmente accaduto e quali sono state le conseguenze. A quanto sembra, l’estinzione dell’uro europeo, avvenuta nel 1627, fu semplicemente la conseguenza dell’accanimento dei cacciatori, ma in molti casi è impossibile avere notizie sicure in relazione a questioni più complesse. Per circa mille anni frisoni e olandesi hanno perseverato nel tentativo di ricacciare indietro il mare del Nord e, ai nostri giorni, i loro sforzi sono culminati nel recupero dello Zuiderzee. È possibile ipotizzare che alcune specie di animali, uccelli, pesci e altre forme di vita siano nel frattempo scomparse? E che nella loro epica lotta contro Nettuno, gli abitanti dei Paesi Bassi abbiano trascurato di valutare alcuni aspetti ambientali a scapito della qualità della loro vita? Per quanto è a mia conoscenza, nessuno ha mai posto queste domande e tantomeno ha dato risposte. La specie umana ha spesso rappresentato un elemento dinamico nell’ecosistema che lo ospitava, ma le conoscenze storiche fin qui acquisite non ci permettono di conoscere esattamente quando, dove e con quali effetti sono avvenute le modificazioni apportate dall’uomo anche se, in questo scorcio del ventesimo secolo, il problema di quali possano essere le ripercussioni ambientali è diventato sempre più sentito e pressante. Le scienze naturali, concepite come il tentativo di comprendere la natura delle cose, si sono sviluppate nel corso dei secoli in varie parti del mondo e contemporaneamente si è sviluppato, in modo più o meno rapido, il progresso tecnologico. Ma è solo da circa quattro generazioni che, nell’Europa occidentale e nel Nord America, si è stabilito il collegamento fra scienza e tecnica, vale a dire fra l’approccio teorico all’ambiente naturale e l’approccio empirico. La dottrina baconiana, che al sapere scientifico corrisponde il potere tecnologico sulla natura, si è affermata nella pratica solo intorno alla metà del XIX secolo, con l’eccezione dell’industria chimica che si era diffusa già nel XVIII. Nella storia dell’umanità, e non solo dell’umanità, l’accettazione di questo principio nella pratica comune rappresenta l’evento più importante dopo l’invenzione dell’agricoltura. Il nuovo stato di cose ha portato con sé l’affermazione del concetto di ecologia, termine che nella lingua inglese è apparso per la prima volta nel 1873. Oggi, a quasi un secolo di distanza, l’impatto esercitato dalla specie umana sull’ambiente si è intensificato al punto da cambiare nella sostanza. All’inizio del XIV secolo, epoca in cui entrarono nell’uso i primi cannoni, l’impatto ambientale era rappresentato dagli uomini che, alla ricerca di potassio, zolfo, minerali di ferro e carbone, invadevano foreste e montagne provocandone, in un caso la scomparsa, nell’altro l’erosione. Con le bombe all’idrogeno siamo in un ordine completamente diverso poiché, in caso di guerra, il loro uso provocherebbe alterazioni genetiche in tutte le forme di vita del nostro pianeta. Se, già nel 1285, Londra aveva il problema dello smog causato dall’impiego di carbone bituminoso, ai giorni nostri l’uso di combustibili fossili minaccia di modificare la composizione dell’atmosfera con conseguenze che solo ora cominciamo a intravedere. Con l’esplosione demografica, l’urbanizzazione selvaggia, i depositi ormai geologici di rifiuti e scoli fognari, l’uomo è riuscito in breve tempo a insozzare il suo nido come nessun’altra creatura ha mai fatto. Numerose sono le grida di allarme, ma le proposte, seppure in sé meritevoli, appaiono troppo parziali, semplici palliativi, quindi in realtà negative: per esempio, mettere al bando le bombe, eliminare i cartelloni stradali, distribuire contraccettivi agli indiani e convincerli a mangiare le vacche sacre. La soluzione più semplice per evitare qualunque modificazione ambientale è, ovviamente, quella di porvi fine oppure, meglio ancora, di tornare a un passato mitizzato: trasformare quelle orrende stazioni di servizio in altrettanti cottage di Anne Hathaway oppure, nel Far West, in saloon dei pionieri. Questa mentalità, ispirata al concetto di ‘natura incontaminata’, pretende invariabilmente che un ecosistema (non importa se San Gimignano o la Grande Sierra) sia per così dire ‘surgelato’ nelle condizioni in cui si trovava quando fu gettato in terra il primo kleenex. Ma né la regressione al buon tempo antico, né l’abbellimento fine a se stesso possono risolvere la crisi ecologica dei nostri tempi.
Che cosa possiamo fare? Nessuno è ancora in grado di dirlo. Se non affrontiamo il problema alla radice, corriamo il rischio che provvedimenti circoscritti abbiano ripercussioni più gravi di quello a cui dovrebbero porre rimedio.
Come prima cosa dovremmo tentare di chiarire le nostre idee esaminando da un punto di vista storico quali sono i fondamenti alla base della tecnologia e della scienza moderna. La scienza è sempre stata tradizionalmente aristocratica, speculativa e intellettuale; la tecnologia, popolare, empirica in pratica. La loro fusione, avvenuta intorno alla metà del XIX secolo, è sicuramente da collegarsi alle rivoluzioni democratiche di poco precedenti e contemporanee che, rendendo meno rigide le barriere sociali, tendevano ad affermare l’unità funzionale del lavoro intellettuale e di quello manuale. La crisi ecologica attuale è la conseguenza di una cultura democratica emergente e completamente nuova. La questione è se un mondo democraticizzato sia in grado di sopravvivere alle proprie implicazioni. Probabilmente no, a meno che non si proceda alla revisione dei principi alla base della nostra cultura.
Tecnologia e scienza nella tradizione occidentale
Un fatto è certo e può apparire superfluo ribadirlo in questa sede: sia la moderna tecnologia, sia la scienza moderna sono peculiarmente occidentali. Anche se la nostra tecnologia ha assorbito elementi da tutte le parti del mondo, in particolare dalla Cina, attualmente, non importa se in Giappone o in Nigeria, a trionfare è la tecnologia occidentale. La nostra scienza è l’erede di tutte le scienze del passato e deve molto specialmente alle opere di grandi scienziati islamici che spesso superavano gli antichi greci in capacità e dottrina: per esempio, Abu Bakr al-Razi nel campo della medicina, Ibn-al-Haythan in quello dell’ottica, o Omar Khayyam nella matematica. Gran parte delle loro opere di genio non esistono più nella lingua originale, ma sopravvivo nelle traduzioni in latino medievale che contribuirono a gettare le basi della ricerca scientifica nel mondo occidentale. Ai nostri giorni, in tutto il globo, tutta la scienza di un certo livello è occidentale nel metodo e nello stile, qualunque sia la pigmentazione della pelle o la lingua madre degli scienziati.
Esistono poi altri aspetti meno conosciuti in quanto acquisizioni di studi storici recenti. La posizione guida dell’Occidente nel campo della tecnica e della scienza è molto più antica della cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ del XVII secolo e della cosiddetta rivoluzione industriale del XVIII, espressioni superate che mettono in ombra la vera natura di ciò che intendono esprimere, vale a dire due fasi significative di due diversi processi evolutivi di lunga durata. Almeno fin dall’XI secolo d.C., e in qualche caso anche dal IX, in Occidente, l’acqua era utilizzata per produrre energia a uso industriale, non solo per macinare granaglie, e negli ultimi anni del XII secolo si iniziò a sfruttare anche l’energia del vento. Da questi primi tentativi i progressi sono stati costanti e hanno portato alla realizzazione dei congegni meccanici, degli utensili per risparmiare lavoro e all’automazione. Gli scettici dovrebbero ricordare l’opera più grandiosa di tutta la storia dell’automazione, quella dell’orologio meccanico a pesi, realizzata in due versioni nei primi anni del XIV secolo. Nel tardo Medioevo l’Occidente latino superò di gran lunga le raffinate ed esteticamente mirabili culture sorelle di Bisanzio e dell’Islam, non in abilità manuale ma in maestria tecnica. Nel 1444, durante un viaggio in Italia, un ecclesiastico greco, Bessarione, scrisse una lettera a un principe della sua terra in cui si diceva stupefatto della superiorità delle navi, delle armi, dei tessuti e dei vetri occidentali. Ma più di tutto, così affermava, lo aveva sbalordito lo spettacolo di ruote azionate ad acqua che segavano tronchi d’albero e mettevano in funzione i mantici delle fornaci. Evidentemente, Bessarione non aveva mai visto niente del genere nel Medio Oriente.
Alla fine del XV secolo la superiorità tecnologica occidentale era tale che le nazioni europee, piccole e sempre in lotta fra loro, furono in grado di invadere il resto del mondo per conquistare, saccheggiare e colonizzare nuove terre. Simbolo di questa superiorità tecnologica è il Portogallo, una delle nazioni occidentali più deboli, che riuscì a diventare, e rimanere per un secolo, padrone incontrastato delle Indie orientali. Dobbiamo anche ricordare che la tecnologia di Vasco de Gama e di Alfonso de Albuquerque era assolutamente di tipo empirico e non si basava su cognizioni scientifiche.
È opinione diffusa che la scienza moderna nasca nel 1543, anno in cui Copernico e Vesalio pubblicarono i loro scritti. Senza voler in alcun modo sminuire il loro lavoro, è bene ricordare che opere come Fabrica e De rivolutionibus non nascono certo in una notte. La tradizione scientifica occidentale aveva avuto inizio alla fine dell’XI secolo come conseguenza del massiccio lavoro di traduzione in lingua latina di opere scientifiche arabe e greche. Solo pochi libri importanti, per esempio Teofrasto, sfuggirono alla vorace fame scientifica dell’Occidente, ma non erano trascorsi duecento anni che l’intero corpus della scienza greca e islamica era disponibile in latino, avidamente letto e chiosato in tutte le università europee. Lo studio di queste opere dette vita a nuove osservazioni e a nuove ricerche che ebbero come conseguenza una crescente sfiducia negli antichi maestri. Alla fine del XIII secolo l’Europa si era ormai impadronita di tutto il sapere scientifico strappandolo dalle ormai deboli mani dell’Islam. Sarebbe assurdo negare l’originalità del pensiero di Newton, Galileo o Copernico, come lo sarebbe negare quella degli scienziati scolastici del XIV secolo, per esempio Buridano o Oresme, sulle cui opere i primi basarono i loro studi. Si può dire che, prima dell’XI secolo e perfino al tempo dei romani, l’Occidente latino ignorava la scienza, che dall’XI secolo in poi, si è sviluppata in un crescendo inarrestabile.
Poiché in Occidente il progresso tecnologico e quello scientifico ebbero inizio, si caratterizzarono e divennero predominanti durante il Medioevo, è evidente che non possiamo comprenderne l’impatto ambientale se non prendiamo in considerazione quali erano i concetti alla base della cultura del tempo.
La concezione medievale dell’uomo e della natura
Fino a tempi recenti, l’agricoltura è stato il settore produttivo di maggiore importanza anche in società cosiddette “avanzate”, quindi qualsiasi mutamento avvenuto nei metodi di coltivazione assume grande rilevanza. I primi aratri trainati da una coppia di buoi non dissodavano il terreno, ma semplicemente lo smuovevano in superficie, era perciò necessario praticare arature incrociate che determinavano la formazione di campi squadrati. Nei terreni piuttosto leggeri e nei climi semi aridi del Medioriente e del Mediterraneo, il metodo funzionava egregiamente, ma risultava inadeguato nel clima umido e nei territori pesanti dell’Europa settentrionale. Già alla fine del settimo secolo d.C., non sappiamo esattamente quando, alcuni contadini del Nord usavano un nuovo tipo di aratro dotato di una lama verticale che praticava il solco, di un vomero orizzontale che tagliava la zolla e di un versoio che la rovesciava. L’attrito sul terreno era tale che l’aratro doveva essere trainato non da due ma otto buoi e il terreno era aggredito così a fondo che l’aratura incrociata non era necessaria, tanto che i campi presero una forma allungata.
Al tempo in cui era praticata l’aratura superficiale, i campi avevano in genere dimensioni unitarie tali da poter provvedere al sostentamento di una sola famiglia, si trattava cioè di un’agricoltura di sopravvivenza. Ma nessuno possedeva otto buoi, quindi, per usare il nuovo tipo di aratro, i contadini erano costretti a mettere insieme i loro buoi e ciascuno di loro aveva probabilmente diritto a strisce di terreno arato in proporzione al contributo dato. In tal modo, la distribuzione della terra non era più determinata dalle necessità della famiglia, ma piuttosto dalla capacità della macchina. Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la terra si modificò radicalmente: se in precedenza l’uomo faceva parte della natura, ora la sfruttava. In nessun’altra parte del mondo gli agricoltori hanno realizzato un attrezzo di lavoro analogo, è dunque solo una coincidenza che la tecnologia moderna, con la sua spietata indifferenza verso la natura, sia in larga misura opera di discendenti di quei contadini dell’Europa del nord?
Verso l’830 d.C., questo atteggiamento fa la sua comparsa anche nelle illustrazioni dei calendari occidentali. Nei vecchi calendari i mesi erano raffigurati come personificazioni inattive, mentre nei nuovi calendari franchi, che ispirarono l’iconografia medievale, l’uomo si impone sulla natura: ara, miete, abbatte alberi, macella maiali. Uomo e natura sono due cose diverse e l’uomo è il padrone. Queste novità appaiono in armonia con l’atteggiamento culturale dell’epoca. Quello che l’uomo fa al proprio ambiente dipende da quello che pensa di se stesso in rapporto a ciò che lo circonda. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle convinzioni che l’uomo ha della propria natura e del proprio destino, in altre parole dalla religione. A occhi occidentali questo è evidente per quel che riguarda l’India o Ceylon, ma è ugualmente vero nel caso nostro e dei nostri antenati.
La vittoria del cristianesimo sul paganesimo rappresenta la più grande rivoluzione psicologica nella storia della nostra cultura. Attualmente è di moda affermare che, nel bene e nel male, viviamo nell’“era postcristiana”. Se è indubbio che, nella forma, pensiero e linguaggio hanno cessato di essere cristiani, è mia convinzione che la sostanza non sia mai cambiata. Il nostro modo di agire quotidiano, per esempio, è dominato dalla fede implicita nel progresso perenne, concetto sconosciuto sia al mondo greco-romano sia al mondo orientale, ma che ha le sue radici nella teleologia giudaico-cristiana ed è insostenibile al di fuori di quel contesto. Il fatto che i comunisti condividano questo concetto non fa che confermare quanto si può anche altrimenti dimostrare: il marxismo, come l’Islam, è una eresia giudaico-cristiana. Oggi continuiamo a vivere come abbiamo vissuto per circa 1700 anni, in un contesto in larga misura improntato ad assiomi cristiani.
Che cosa insegnava il cristianesimo alla gente sul rapporto dell’uomo con l’ambiente?
La maggior parte delle mitologie hanno storie sulla creazione, ma la mitologia greco-romana ne è singolarmente priva. Come Aristotele, gli intellettuali dell’Occidente antico negavano che il mondo visibile avesse avuto un principio. In realtà, l’idea di principio era inconcepibile nel quadro della loro concezione ciclica del tempo. In netto contrasto, il cristianesimo ereditò dall’ebraismo non solo il concetto di tempo non ripetitivo e lineare, ma anche una stupefacente storia della creazione. In varie fasi un Dio amorevole e onnipotente aveva creato la luce e il buio, i corpi celesti, la terra, le piante, gli animali, gli uccelli e i pesci. Infine Dio aveva creato Adamo e, quindi, Eva, perché Adamo non fosse solo. L’uomo dette un nome a tutte le cose, stabilendo così il proprio predominio su di loro e Dio dispose che tutto fosse a suo esclusivo beneficio: il creato non aveva altro scopo che quello di essere al suo servizio. Inoltre, seppur il suo corpo fosse d’argilla, l’uomo fu fatto a immagine di Dio.
Il cristianesimo, in particolare quello occidentale, è la religione antropocentrica per eccellenza. Nel II secolo d.C. Tertulliano e Sant’Ireneo di Lione affermarono che, nel plasmare Adamo, Dio aveva prefigurato l’immagine del Cristo incarnato, il secondo Adamo. A somiglianza di Dio, l’uomo trascende la natura. Il cristianesimo, in contrasto con l’antico paganesimo e le religioni orientali (fatta forse eccezione del zoroastrismo) non solo stabilì il dualismo uomo-natura, ma affermò essere volontà di Dio che l’uomo sfrutti la natura a proprio beneficio.
Nella pratica tutto questo non fu senza conseguenze. Nell’antichità ogni albero, ogni sorgente, ogni corso d’acqua, ogni collina avevano il proprio genius loci, lo spirito custode. L’uomo poteva entrare in contatto con questi spiriti che erano, tuttavia, diversi da lui nell’aspetto; centauri, fauni e sirene sono l’esempio di tale ambivalenza. Prima di tagliare un albero, scavare una montagna o sbarrare un ruscello, era necessario placare lo spirito custode di quel luogo e fare sì che restasse pacifico. La distruzione dell’animismo pagano, operata dal cristianesimo, rese possibile lo sfruttamento della natura senza tenere conto dei sentimenti degli elementi naturali.
È stato detto che la Chiesa sostituì l’animismo con il culto dei santi. Questo è vero, ma il culto dei santi è funzionalmente diverso dall’animismo. Il santo non risiede negli elementi naturali, può avere propri santuari particolari, ma la sua sede è nei cieli. Un santo, inoltre, è un uomo e a lui ci si può rivolgere secondo modalità umane. Oltre ai santi, il cristianesimo aveva angeli e demoni ereditati dall’ebraismo e forse, in parte, dallo zoroastrismo, ma angeli e demoni avevano le stesse caratteristiche dei santi. Gli spiriti che vivevano negli elementi naturali e che avevano protetto la natura dell’uomo, scomparvero. Si confermò in tal modo il monopolio dell’uomo sul mondo e le antiche proibizioni sullo sfruttamento della natura si sgretolarono.
Quando, come in questa sede, si parla in termini generali, è opportuno fare alcune precisazioni. Il cristianesimo è una fede religiosa complessa che ha conseguenze diverse in contesti diversi. Quanto ho detto si riferisce all’Occidente medievale dove la tecnologia fece passi da gigante; nell’Oriente greco, di grande civiltà e profondamente cristiano, dopo la fine del VII secolo, epoca in cui fu inventato il ‘fuoco greco’, non si è più verificato alcun progresso tecnologico. La chiave per comprendere le ragioni di tale contrasto va ricercata nel diverso tipo di devozione e di pensiero delle Chiese greche e latine, come è riscontrato negli studi di teologia comparata. I greci credevano che il peccato era un male morale e la salvezza era assicurata dalla buona condotta. La teologia orientale era di tipo razionale, la teologia occidentale volontaristica. Il santo greco è un contemplativo, il santo occidentale un uomo d’azione. È indubbio, quindi, che l’Occidente fosse terreno fertile per un cristianesimo che implicava la conquista della natura.
C’è un altro aspetto del dogma della creazione, fondamento della fede cristiana, che aiuta a comprendere la crisi ecologia attuale. Secondo la rivelazione, Dio fece dono all’uomo della Bibbia, il Libro delle Scritture. Ma poiché Dio ha creato la natura, anche la natura rivela il pensiero di Dio. Gli studi religiosi sulla natura per una migliore conoscenza di Dio vanno sotto il nome di teologia naturale. Nella Chiesa primitiva orientale, la natura era concepita essenzialmente come un sistema simbolico attraverso il quale Dio parlava agli uomini: la formica era un sermone diretto agli oziosi, le fiamme ardenti simboleggiavano l’aspirazione dell’anima. La visione della natura era di tipo artistico più che scientifico e, nonostante che a Bisanzio fossero conservati e copiati numerosi antichi testi scientifici greci, l’ambiente non era idoneo allo sviluppo scientifico come noi lo concepiamo.
Nell’Occidente latino, nei primi anni del XIII secolo, la teologia naturale prese una diversa strada. Cessò di rappresentare la spiegazione dei simboli fisici della parola di Dio per trasformarsi nel tentativo di comprendere la Sua mente scoprendo il modo in cui la Sua creazione opera: l’arcobaleno non era più semplice il simbolo di speranza inviato a Noé dopo il diluvio. Ruggero Grossatesta, Ruggero Bacone e Teodorico di Freiberg produssero raffinati studi ottici sull’arcobaleno, ma sempre con intendimenti di tipo religioso. Dal XIII secolo in poi, fino a comprendere Leibniz e Newton, tutti i maggiori scienziati spiegarono le ragioni dei propri studi in termini religiosi. E se Galileo non fosse stato così esperto in questioni teologiche sarebbe sicuramente andato incontro a guai minori, perché nel suo caso i teologi professionisti si risentirono per la sua ingerenza nel loro campo. Sembra che Newton si considerasse più un teologo che uno scienziato e solo alla fine del XVIII secolo fu possibile agli scienziati approfondire i loro studi prescindendo dall’ipotesi dell’esistenza di Dio.
Quando gli uomini spiegano perché stanno facendo ciò che intendono fare, lo storico ha spesso difficoltà a giudicare se le ragioni da loro date siano reali oppure siano ragioni considerate culturalmente accettabili. Tuttavia, il fatto che durante i secoli in cui si andò affermando la scienza occidentale, tutti gli scienziati affermarono che loro compito e premio era “pensare i pensieri di Dio in conseguenza di Lui” ci induce a credere che queste fossero le motivazioni reali. Se così è, allora la moderna scienza occidentale è nata dalla matrice teologica cristiana e ha ricevuto impulso dalla devozione religiosa, modellata dal dogma giudaico-cristiano della creazione.
Una diversa visione cristiana
A quanto sembra ci stiamo avviando verso conclusioni sgradite a molti cristiani. Poiché scienza e tecnologia sono parole del nostro vocabolario molto apprezzate, è probabile che siano in molti a rallegrarsi nel sapere che, primo, dal punto di vista storico la scienza moderna è un’estrapolazione della teologia naturale e, secondo, che la moderna tecnologia può essere spiegata, almeno in parte, come la realizzazione occidentale e volontaristica del dogma cristiano della trascendenza dell’uomo sulla natura e del suo diritto a dominarla. Ma, come abbiamo detto, circa un secolo fa scienza e tecnica, fino ad allora separate, si sono unite per offrire all’umanità un potere che, a giudicare dalle conseguenze, è ormai fuori controllo. Se le cose stanno così, il cristianesimo deve assumersi il peso di questa responsabilità.
Personalmente dubito che le ripercussioni ambientali possano essere evitate semplicemente ricorrendo in maggiore misura a scienza e tecnica. La scienza e la tecnologia si sono sviluppate sulla base della concezione cristiana del rapporto uomo-natura, concezione condivisa non solo dai cristiani e dai neocristiani, ma anche da coloro che si considerano post cristiani. Nonostante Copernico, tutto il cosmo ruota ancora intorno al nostro minuscolo globo e, nonostante Darwin, gli uomini non si sentono parte della natura. Siamo superiori, la disprezziamo e vogliamo usarla a nostra discrezione. Il nuovo governatore della California, come me uomo credente ma meno turbato di quanto io sia, si è espresso secondo la tradizione religiosa affermando, a quanto si dice, che “se uno ha visto una sequoia, le ha viste tutte”. Per un cristiano un albero non è che un accidente fisico, il concetto di bosco sacro è estraneo al cristianesimo e all’etica occidentale. Per quasi due millenni i missionari cristiani hanno distrutto i boschi sacri considerati pagani perché presuppongono uno spirito della natura.
Il modo in cui ci comportiamo nei confronti dell’ambiente è conseguente alla nostra concezione del rapporto uomo-natura. Un ricorso maggiore alla scienza e alla tecnologia non ci salverà dell’attuale crisi ecologica se non troviamo una nuova religione o non ripensiamo l’antica. I beatniks, i rivoluzionari dei nostri gironi, dimostrano di aver compreso il problema quando si dicono vicini al buddismo zen che concepisce il rapporto uomo-natura in modo opposto al cristianesimo. La religione zen, tuttavia, è profondamente condizionata dalla storia orientale, come il cristianesimo lo è da quella occidentale, e io dubito che possa rappresentare una strada per noi percorribile.
Forse dovremmo meditare sulla più grande figura radicale del cristianesimo dopo quella di Cristo: San Francesco d’Assisi. Il miracolo più straordinario di san Francesco è di non essere finito sul rogo, come accadde a tanti dopo di lui. Francesco era un eretico e lo era al punto che un ministro generale dell’ordine francescano, san Bonaventura, eminente cristiano di grande perspicacia, tentò di occultare le prime testimonianze del movimento francescano. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio. Con lui la formica non rappresenta più un’omelia per l’ozioso, e il fuoco non è più un simbolo dell’anima che aspira all’unione con Dio. Con Francesco essi sono sorella formica e fratello fuoco che, a loro modo, lodano il Signore, come nel suo lo loda fratello uomo.
È stato detto che Francesco predicava agli uccelli per biasimare gli uomini che non gli prestavano ascolto. Ma le testimonianze non dicono questo: egli esortava gli uccelli a lodare Dio e quelli presi da un’estasi spirituale battevano le ali e cinguettavano.
Spesso le leggende dei santi, in particolare santi irlandesi, parlano della loro dimestichezza con animali ma sempre, mi sembra, per dimostrare il loro dominio su quelle creature. Nel caso di Francesco non è così. La terra intorno a Gubbio era devastata da un lupo feroce e, come racconta la leggenda, san Francesco parlò al lupo e lo dissuase. Il lupo si pentì, morì in odore di santità e fu sepolto in terra consacrata. Quella che Steven Runciman chiama “la dottrina francescana dell’anima animale” venne in breve tempo cancellata. È possibile che la dottrina si ispirasse, consciamente o meno, alla teoria della reincarnazione, originaria dell’India e sostenuta dai catari, all’epoca molto numerosi in Italia e nel sud della Francia. È significativo che proprio in quel periodo, 1200 circa, accenni alla metempsicosi si ritrovino anche nell’ebraismo occidentale, in particolare nella Cabbala provenzale. Ma Francesco non credeva nella trasmigrazione delle anime o nel panteismo, la sua visione della natura e dell’uomo si basava su una sorta di panpsichismo di tutte le cose animate e inanimate, concepite a gloria del loro Creatore trascendente il quale, con un gesto di assoluta umiltà cosmica, si fece carne, giacque in una mangiatoia e morì sul patibolo.
Non è certo mia intenzione suggerire ai tanti americani preoccupati dell’attuale crisi ecologica di provare ad ammonire i lupi o a esortare gli uccelli. Intendo affermare che l’attuale e progressivo sfacelo ambientale è il prodotto di una tecnologia e di una scienza dinamiche che hanno avuto origine nell’Occidente medievale, contro le quali san Francesco si ribellò nel suo personalissimo modo. Da un punto di vista storico non possiamo comprendere quale sia stato il loro sviluppo, se prescindiamo dal peculiare atteggiamento nei confronti della natura che ha le sue radici nel dogma cristiano. Non ha alcuna importanza se la maggior parte delle persone non ritiene che tale atteggiamento sia da considerarsi cristiano, la nostra società è comunque improntata ai valori del cristianesimo che mai nessun altro principio è riuscito a sostituire. Ne consegue che la crisi ecologica continuerà ad aggravarsi se non respingeremo l’assioma cristiano che la natura esiste solo in funzione dell’uomo.
San Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale nella storia dell’Occidente, suggerì una nuova visione cristiana del rapporto uomo-natura: sostituire il dominio illimitato dell’uomo con il concetto di uguaglianza di tutte le creature, uomo compreso. Il tentativo di Francesco è fallito. Ai nostri giorni scienza e tecnica sono sempre più caratterizzate dalla proterva ortodossia cristiana nei confronti della natura e non è da loro che ci possiamo attendere una soluzione alla crisi ecologica. Poiché le radici dei nostri problemi sono essenzialmente religiose, il rimedio deve essere religioso, qualunque definizione attribuiamo a tale termine. In altre parole dobbiamo giungere a un diverso modo di intendere la nostra natura e il nostro destino. Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti.
[traduzione italiana di Silvia Lalia]
Intelligenza artificiale
Papa Francesco al G7, il testo integrale del discorso
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[Da Vatican News] Pubblichiamo integralmente l’intervento del Pontefice oggi, 14 giugno 2024, alla sessione comune del vertice che si svolge a Borgo Egnazia, in Puglia, sul tema della intelligenza artificiale
Uno strumento affascinante e tremendo
Gentili Signore, illustri Signori!
Mi rivolgo oggi a Voi, Leader del Forum Intergovernativo del G7, con una riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità.
«La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro” (Es 35,31)» [1]. La scienza e la tecnologia sono dunque prodotti straordinari del potenziale creativo di noi esseri umani [2].
Ebbene, è proprio dall’utilizzo di questo potenziale creativo che Dio ci ha donato che viene alla luce l’intelligenza artificiale.
Quest’ultima, come è noto, è uno strumento estremamente potente, impiegato in tantissime aree dell’agire umano: dalla medicina al mondo del lavoro, dalla cultura all’ambito della comunicazione, dall’educazione alla politica. Ed è ora lecito ipotizzare che il suo uso influenzerà sempre di più il nostro modo di vivere, le nostre relazioni sociali e nel futuro persino la maniera in cui concepiamo la nostra identità di esseri umani [3].
Il tema dell’intelligenza artificiale è, tuttavia, spesso percepito come ambivalente: da un lato, entusiasma per le possibilità che offre, dall’altro genera timore per le conseguenze che lascia presagire. A questo proposito si può dire che tutti noi siamo, anche se in misura diversa, attraversati da due emozioni: siamo entusiasti, quando immaginiamo i progressi che dall’intelligenza artificiale possono derivare, ma, al tempo stesso, siamo impauriti quando constatiamo i pericoli inerenti al suo uso [4].
Non possiamo, del resto, dubitare che l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenti una vera e propria rivoluzione cognitivo-industriale, che contribuirà alla creazione di un nuovo sistema sociale caratterizzato da complesse trasformazioni epocali. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe permettere una democratizzazione dell’accesso al sapere, il progresso esponenziale della ricerca scientifica, la possibilità di delegare alle macchine i lavori usuranti; ma, al tempo stesso, essa potrebbe portare con sé una più grande ingiustizia fra nazioni avanzate e nazioni in via di sviluppo, fra ceti sociali dominanti e ceti sociali oppressi, mettendo così in pericolo la possibilità di una “cultura dell’incontro” a vantaggio di una “cultura dello scarto”.
La portata di queste complesse trasformazioni è ovviamente legata al rapido sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale stessa.
Proprio questo vigoroso avanzamento tecnologico rende l’intelligenza artificiale uno strumento affascinante e tremendo al tempo stesso ed impone una riflessione all’altezza della situazione.
In tale direzione forse si potrebbe partire dalla costatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego.
Questo è sicuramente vero, poiché così è stato per ogni utensile costruito dall’essere umano sin dalla notte dei tempi.
Questa nostra capacità di costruire utensili, in una quantità e complessità che non ha pari tra i viventi, fa parlare di una condizione tecno-umana: l’essere umano ha da sempre mantenuto una relazione con l’ambiente mediata dagli strumenti che via via produceva. Non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti. Qualcuno ha voluto leggere in tutto ciò una sorta di mancanza, un deficit, dell’essere umano, come se, a causa di tale carenza, fosse costretto a dare vita alla tecnologia [5]. Uno sguardo attento e oggettivo in realtà ci mostra l’opposto. Viviamo una condizione di ulteriorità rispetto al nostro essere biologico; siamo esseri sbilanciati verso il fuori-di-noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. Da qui prende origine la nostra apertura agli altri e a Dio; da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità.
Tuttavia, l’uso dei nostri utensili non sempre è univocamente rivolto al bene. Anche se l’essere umano sente dentro di sé una vocazione all’oltre e alla conoscenza vissuta come strumento di bene al servizio dei fratelli e delle sorelle e della casa comune (cfr Gaudium et spes, 16), non sempre questo accade. Anzi, non di rado, proprio grazie alla sua radicale libertà, l’umanità ha pervertito i fini del suo essere trasformandosi in nemica di sé stessa e del pianeta [6]. Stessa sorte possono avere gli strumenti tecnologici. Solo se sarà garantita la loro vocazione al servizio dell’umano, gli strumenti tecnologici riveleranno non solo la grandezza e la dignità unica dell’essere umano, ma anche il mandato che quest’ultimo ha ricevuto di “coltivare e custodire” (cfr Gen 2,15) il pianeta e tutti i suoi abitanti. Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica.
Quando i nostri antenati, infatti, affilarono delle pietre di selce per costruire dei coltelli, li usarono sia per tagliare il pellame per i vestiti sia per uccidersi gli uni gli altri. Lo stesso si potrebbe dire di altre tecnologie molto più avanzate, quali l’energia prodotta dalla fusione degli atomi come avviene sul Sole, che potrebbe essere utilizzata certamente per produrre energia pulita e rinnovabile ma anche per ridurre il nostro pianeta in un cumulo di cenere.
L’intelligenza artificiale, però, è uno strumento ancora più complesso. Direi quasi che si tratta di uno strumento sui generis. Così, mentre l’uso di un utensile semplice (come il coltello) è sotto il controllo dell’essere umano che lo utilizza e solo da quest’ultimo dipende un suo buon uso, l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con questa modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato [7].
Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche. L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica. A volte, spesso nel difficile compito del governare, siamo chiamati a decidere con conseguenze anche su molte persone. Da sempre la riflessione umana parla a tale proposito di saggezza, la phronesis della filosofia greca e almeno in parte la sapienza della Sacra Scrittura. Di fronte ai prodigi delle macchine, che sembrano saper scegliere in maniera indipendente, dobbiamo aver ben chiaro che all’essere umano deve sempre rimanere la decisione, anche con i toni drammatici e urgenti con cui a volte questa si presenta nella nostra vita. Condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza, se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine. Abbiamo bisogno di garantire e tutelare uno spazio di controllo significativo dell’essere umano sul processo di scelta dei programmi di intelligenza artificiale: ne va della stessa dignità umana.
Proprio su questo tema permettetemi di insistere: in un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano. Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano.
C’è da aggiungere, inoltre, che il buon uso, almeno delle forme avanzate di intelligenza artificiale, non sarà pienamente sotto il controllo né degli utilizzatori né dei programmatori che ne hanno definito gli scopi originari al momento dell’ideazione. E questo è tanto più vero quanto è altamente probabile che, in un futuro non lontano, i programmi di intelligenze artificiali potranno comunicare direttamente gli uni con gli altri, per migliorare le loro performance. E, se in passato, gli esseri umani che hanno modellato utensili semplici hanno visto la loro esistenza modellata da questi ultimi – il coltello ha permesso loro di sopravvivere al freddo ma anche di sviluppare l’arte della guerra – adesso che gli esseri umani hanno modellato uno strumento complesso vedranno quest’ultimo modellare ancora di più la loro esistenza [8].
Il meccanismo basilare dell’intelligenza artificiale
Vorrei ora soffermarmi brevemente sulla complessità dell’intelligenza artificiale. Nella sua essenza l’intelligenza artificiale è un utensile disegnato per la risoluzione di un problema e funziona per mezzo di un concatenamento logico di operazioni algebriche, effettuato su categorie di dati, che sono raffrontati per scoprire delle correlazioni, migliorandone il valore statistico, grazie a un processo di auto-apprendimento, basato sulla ricerca di ulteriori dati e sull’auto-modifica delle sue procedure di calcolo.
L’intelligenza artificiale è così disegnata per risolvere dei problemi specifici, ma per coloro che la utilizzano è spesso irresistibile la tentazione di trarre, a partire dalle soluzioni puntuali che essa propone, delle deduzioni generali, persino di ordine antropologico.
Un buon esempio è l’uso dei programmi disegnati per aiutare i magistrati nelle decisioni relative alla concessione dei domiciliari a detenuti che stanno scontando una pena in un istituto carcerario. In questo caso, si chiede all’intelligenza artificiale di prevedere la probabilità di recidiva del crimine commesso da parte di un condannato a partire da categorie prefissate (tipo di reato, comportamento in prigione, valutazione psicologiche ed altro), permettendo all’intelligenza artificiale di avere accesso a categorie di dati inerenti alla vita privata del detenuto (origine etnica, livello educativo, linea di credito ed altro). L’uso di una tale metodologia – che rischia a volte di delegare de facto a una macchina l’ultima parola sul destino di una persona – può portare con sé implicitamente il riferimento ai pregiudizi insiti alle categorie di dati utilizzati dall’intelligenza artificiale.
L’essere classificato in un certo gruppo etnico o, più prosaicamente, l’aver commesso anni prima un’infrazione minore (il non avere pagato, per esempio, una multa per una sosta vietata), influenzerà, infatti, la decisione circa la concessione dei domiciliari. Al contrario, l’essere umano è sempre in evoluzione ed è capace di sorprendere con le sue azioni, cosa di cui la macchina non può tenere conto.
C’è da far presente poi che applicazioni simili a questa appena citata subiranno un’accelerazione grazie al fatto che i programmi di intelligenza artificiale saranno sempre più dotati della capacità di interagire direttamente con gli esseri umani (chatbots), sostenendo conversazioni con loro e stabilendo rapporti di vicinanza con loro, spesso molto piacevoli e rassicuranti, in quanto tali programmi di intelligenza artificiale saranno disegnati per imparare a rispondere, in forma personalizzata, ai bisogni fisici e psicologici degli esseri umani.
Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali, è spesso un grave errore che trae origine o dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia o da un loro presupposto subcosciente, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia.
Questo presupposto, tuttavia, è azzardato, come dimostra l’esame dei limiti intrinseci del calcolo stesso. L’intelligenza artificiale usa delle operazioni algebriche da effettuarsi secondo una sequenza logica (per esempio, se il valore di X è superiore a quello di Y, moltiplica X per Y; altrimenti dividi X per Y). Questo metodo di calcolo – il cosiddetto “algoritmo” – non è dotato né di oggettività né di neutralità [9]. Essendo infatti basato sull’algebra, può esaminare solo realtà formalizzate in termini numerici [10].
Non va dimenticato, inoltre, che gli algoritmi disegnati per risolvere problemi molto complessi sono così sofisticati da rendere arduo agli stessi programmatori la comprensione esatta del come essi riescano a raggiungere i loro risultati. Questa tendenza alla sofisticazione rischia di accelerarsi notevolmente con l’introduzione di computer quantistici che non opereranno con circuiti binari (semiconduttori o microchip), ma secondo le leggi, alquanto articolate, della fisica quantistica. D’altronde, la continua introduzione di microchip sempre più performanti è diventata già una delle cause del predominio dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte delle poche nazioni che ne sono dotate.
Sofisticate o meno che siano, la qualità delle risposte che i programmi di intelligenza artificiale forniscono dipendono in ultima istanza dai dati che essi usano e come da questi ultimi vengono strutturati.
Mi permetto di segnalare, infine, un ultimo ambito in cui emerge chiaramente la complessità del meccanismo della cosiddetta intelligenza artificiale generativa (Generative Artificial Intelligence). Nessuno dubita che oggi sono a disposizione magnifici strumenti di accesso alla conoscenza che permettono persino il self-learning e il self-tutoring in una miriade di campi. Molti di noi sono rimasti colpiti dalle applicazioni facilmente disponibili on-line per comporre un testo o produrre un’immagine su qualsiasi tema o soggetto. Particolarmente attratti da questa prospettiva sono gli studenti che, quando devono preparare degli elaborati, ne fanno un uso sproporzionato.
Questi alunni, che spesso sono molto più preparati e abituati all’uso dell’intelligenza artificiale dei loro professori, dimenticano, tuttavia, che la cosiddetta intelligenza artificiale generativa, in senso stretto, non è propriamente “generativa”. Quest’ultima, in verità, cerca nei big data delle informazioni e le confeziona nello stile che le è stato richiesto. Non sviluppa concetti o analisi nuove. Ripete quelle che trova, dando loro una forma accattivante. E più trova ripetuta una nozione o una ipotesi, più la considera legittima e valida. Più che “generativa”, essa è quindi “rafforzativa”, nel senso che riordina i contenuti esistenti, contribuendo a consolidarli, spesso senza controllare se contengano errori o preconcetti.
In questo modo, non solo si corre il rischio di legittimare delle fake news e di irrobustire il vantaggio di una cultura dominante, ma di minare altresì il processo educativo in nuce. L’educazione che dovrebbe fornire agli studenti la possibilità di una riflessione autentica rischia di ridursi a una ripetizione di nozioni, che verranno sempre di più valutate come inoppugnabili, semplicemente in ragione della loro continua riproposizione [11].
Rimettere al centro la dignità della persona in vista di una proposta etica condivisa
A quanto già detto va ora aggiunta un’osservazione più generale. La stagione di innovazione tecnologica che stiamo attraversando, infatti, si accompagna a una particolare e inedita congiuntura sociale: sui grandi temi del vivere sociale si riesce con sempre minore facilità a trovare intese. Anche in comunità caratterizzate da una certa continuità culturale, si creano spesso accesi dibattiti e confronti che rendono difficile produrre riflessioni e soluzioni politiche condivise, volte a cercare ciò che è bene e giusto. Oltre la complessità di legittime visioni che caratterizzano la famiglia umana, emerge un fattore che sembra accomunare queste diverse istanze. Si registra come uno smarrimento o quantomeno un’eclissi del senso dell’umano e un’apparente insignificanza del concetto di dignità umana [12]. Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi. Non dobbiamo dimenticare infatti che nessuna innovazione è neutrale. La tecnologia nasce per uno scopo e, nel suo impatto con la società umana, rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre. Questa costitutiva dimensione di potere della tecnologia include sempre, in una maniera più o meno esplicita, la visione del mondo di chi l’ha realizzata e sviluppata.
Questo vale anche per i programmi di intelligenza artificiale. Affinché questi ultimi siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.
La decisione etica, infatti, è quella che tiene conto non solo degli esiti di un’azione, ma anche dei valori in gioco e dei doveri che da questi valori derivano. Per questo ho salutato con favore la firma a Roma, nel 2020, della Rome Call for AI Ethics [13] e il suo sostegno a quella forma di moderazione etica degli algoritmi e dei programmi di intelligenza artificiale che ho chiamato “algoretica” [14]. In un contesto plurale e globale, in cui si mostrano anche sensibilità diverse e gerarchie plurali nelle scale dei valori, sembrerebbe difficile trovare un’unica gerarchia di valori. Ma nell’analisi etica possiamo ricorrere anche ad altri tipi di strumenti: se facciamo fatica a definire un solo insieme di valori globali, possiamo però trovare dei principi condivisi con cui affrontare e sciogliere eventuali dilemmi o conflitti del vivere.
Per questa ragione è nata la Rome Call: nel termine “algoretica” si condensano una serie di principi che si dimostrano essere una piattaforma globale e plurale in grado di trovare il supporto di culture, religioni, organizzazioni internazionali e grandi aziende protagoniste di questo sviluppo.
La politica di cui c’è bisogno
Non possiamo, quindi, nascondere il rischio concreto, poiché insito nel suo meccanismo fondamentale, che l’intelligenza artificiale limiti la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate, estromettendo l’apporto di altre forme di verità e imponendo modelli antropologici, socio-economici e culturali uniformi. Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di “paradigma tecnocratico” [15]. Non possiamo permettere a uno strumento così potente e così indispensabile come l’intelligenza artificiale di rinforzare un tale paradigma, ma anzi, dobbiamo fare dell’intelligenza artificiale un baluardo proprio contro la sua espansione.
Ed è proprio qui che è urgente l’azione politica, come ricorda l’Enciclica Fratelli tutti. Certamente «per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» [16].
La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che «davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato […] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura» [17].
Gentili Signore, illustri Signori!
Questa mia riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità ci conduce così alla considerazione dell’importanza della “sana politica” per guardare con speranza e fiducia al nostro avvenire. Come ho già detto altrove, «la società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo” (Laudato si’, 191)» [18].
Questo è proprio il caso dell’intelligenza artificiale. Spetta ad ognuno farne buon uso e spetta alla politica creare le condizioni perché un tale buon uso sia possibile e fruttuoso.
Grazie.
NOTE
[1] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 1.
[2] Cfr ibid.
[3] Cfr ivi, 2.
[4] Questa ambivalenza fu già scorta da Papa San Paolo VI nel suo Discorso al personale del “Centro Automazione Analisi Linguistica” dell’Aloysianum, del 19 giugno 1964.
[5] Cfr A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, 43.
[6] Lett. enc Laudato si’ (24 maggio 2015), 102-114.
[7] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 3.
[8] Le intuizioni di Marshall McLuhan e di John M. Culkin sono particolarmente pertinenti alle conseguenze dell’uso dell’intelligenza artificiale.
[9] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[10] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 4.
[11] Cfr ivi, 3 e 7.
[12] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana (2 aprile 2024).
[13] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Convegno “Promoting Digital Child Dignity – From Concet to Action”, 14 novembre 2019; Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[15] Per una più ampia esposizione, rimando alla mia Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015.
[16] Lettera enc. Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), 176.
[17] Ivi, 178.
[18] Ivi, 179.
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«Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico»
MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2024
Intelligenza artificiale e pace
All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al Popolo di Dio, alle nazioni, ai Capi di Stato e di Governo, ai Rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.
1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace
La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.
Nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes, il Concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita» [1]. Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinchè la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana» [2], agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.
Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo, i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune [3].
I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?
2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi
I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.
Inoltre, le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti, in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.
Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali» [4], ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.
Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, ad oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di “forme di intelligenza” può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, “frammentari”, nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come “sistemi socio-tecnici”. Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.
L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità» [5].
Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni etiche emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati [6].
L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità [7].
La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso [8].
L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.
3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole
Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.
Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.
L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano “allucinare”, cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo sempre più scollegato dalla collettività. Tutti questi fattori rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.
4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico
Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» [9]e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.
Inoltre, la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.
Le macchine “intelligenti” possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso, ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati [10].
Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il “senso del limite”. L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su sé stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece, nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica [11].
5. Temi scottanti per l’etica
In futuro, l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo ad un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.
Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.
L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne ed ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.
In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologie in ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso, c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la Comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.
6. Trasformeremo le spade in vomeri?
In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti “sistemi d’arma autonomi letali”, incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto “intelligente”, rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo, è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.
Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo, non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo, correrà il rischio di diventare sempre più “artificiale”. Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.
In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.
Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie [12]. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.
7. Sfide per l’educazione
Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia, rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.
L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.
La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali [...] che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie» [13]. Purtroppo, ancora una volta ci troviamo a dover combattere “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente” [14]e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.
8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale
La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli Stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le Organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione [15]. A tale proposito, esorto la Comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive [16].
In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace. Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.
* * *
Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.
La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2023
FRANCESCO
[1] N. 33.
[2] Ibid., 57.
[3] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 104.
[4] Cfr ibid., 114.
[5] Udienza ai partecipanti all’Incontro “Minerva Dialogues” (27 marzo 2023).
[6] Cfr ibid.
[7] Cfr Messaggio al Presidente Esecutivo del “World Economic Forum” a Davos-Klosters (12 gennaio 2018).
[8] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 194; Discorso ai partecipanti al Seminario “Il bene comune nell’era digitale” (27 settembre 2019).
[9] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 233.
[10] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 54.
[11] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (28 febbraio 2020).
[12] Cfr ibid.
[13] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 27.
[14] Cfr ibid.
[15] Cfr ibid., 170-175.
[16] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 177.
Copyright © Dicastero per la Comunicazione – Libreria Editrice Vaticana
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Gli intellettuali sardi chiedono un aiuto per la Sardegna ad Adriano Olivetti
Adriano Olivetti e la Sardegna
Nei giorni venerdì 27 (mattina e sera) e sabato 28 ottobre (solo mattina) si terrà nell’Aula Motzo della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari un Convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, Università degli Studi di Cagliari: Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali – Gruppo di ricerca Comunità e lavoro del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari – Dipartimento di Giurisprudenza, dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti.
Adriano Olivetti (1901-1960) “è tra le figure più influenti e singolari del Novecento. Imprenditore straordinario, eminente uomo di cultura, politico, innovatore delle scienze sociali e precursore dell’urbanistica e dell’architettura, tra il 1930 e il 1960 ha condotto la fabbrica di macchine per scrivere del padre e dei primi computer, ai vertici del successo mondiale e dell’innovazione tecnologica. Il suo progetto di riforma sociale in senso comunitario è oggi riconosciuto come una tra le realizzazioni più attuali e avanzate di sostenibilità”.
Dopo i saluti istituzionali, introdurrà i lavori Francesca Crasta, proponendo una prospettiva filosofica alla base del pensiero olivettiano, mentre Beniamino de’Liguori Carino, Segretario generale della Fondazione Olivetti parlerà dell’eredità culturale di Adriano Olivetti. Con il coordinamento di Salvatore Cubeddu, la prima sessione sarà dedicata all’esperienza di Adriano Olivetti in Sardegna, quando stipulò un accordo elettorale con il Psd’az. Le relazioni saranno tenute da Luca Lecis (Aspetti del dibattito sulla Rinascita), Stella Barbarossa (L’attività politica di Adriano Olivetti in Sardegna), Nicolò Migheli (L’esperienza comunitaria a Santu Lussurgiu), Duilio Caocci (Antonio Cossu: uno scrittore olivettiano in Sardegna), Franciscu Sedda (La simbologia comunicativa di Adriano Olivetti).
Nella II Sessione, pomeridiana, coordinata da Gianni Loy, sarà trattato il tema del lavoro e relazioni industriali nella fabbrica di Adriano Olivetti. Le relazioni saranno tenute da Enrico Mastinu (Le relazioni industriali nella “fabbrica” di Adriano Olivetti), Piera Loi (La responsabilità sociale dell’impresa), Sonia Fernandez Sanchez (Il welfare aziendale). La III Sessione, ultima della sera, coordinata da Duilio Caocci, tratterà la teoria della comunità. Le relazioni saranno tenute dal Card. Arrigo Miglio (Cattolici politica DC e Comunità-partito di Olivetti), Remo Siza (La Comunità in una società individualizzata), Simona Campus (Sinisgalli, Nivola, Pintori e l’umanismo pubblicitario di Olivetti), Mauro Pala (Ancestors: le radici britanniche del pensiero di Adriano Olivetti).
La III sessione riprenderà sabato mattina 28 ottobre 2023 con le relazioni di Antonella Camarda (Olivetti va in America. Italianità e internazionalismo negli show-room d’oltreoceano), Aldo Lino (Gli architetti di Adriano), Stefania Lucamante (Il ritratto di Adriano Olivetti nel “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg). Dopo uno spazio dedicato agli interventi del pubblico, le conclusioni saranno svolte a cura di Giuseppe Riggio s.j. e del Comitato scientifico composto da Duilio Caocci; Salvatore Cubeddu; Gianni Loy e Franco Meloni; Cardinale Arrigo Miglio; Giulio Parnofiello s.j. La conclusione dei lavori è prevista alle ore 13.30. I media partner sono Aladinpensiero News e il manifesto sardo.
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Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Cagliari, 27 e 28 ottobre 2023
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Comitato scientifico e Relatori
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Comitato Scientifico
Duilio Caocci
Duilio Caocci insegna Letteratura italiana e Letteratura sarda presso la Facoltà di Studi Umanistici di Cagliari. Tra il 2009 e il 2011 è stato componente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Dessì e dal 2016 è segretario della Commissione Nazionale per l’opera omnia di Grazia Deledda istituita presso il Ministero per i beni e le attività culturali. È inoltre condirettore del Seminario internazionale sull’opera di Andrea Camilleri e redattore dei Quaderni camilleriani.
Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura italiana medievale e sulla letteratura sarda tra Cinque e Novecento.
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Salvatore Cubeddu
Salvatore Cubeddu. Sociologo, già dirigente sindacale e politico. Giornalista pubblicista. Autore di saggi sulla politica e sulla società sarda contemporanea. Già Sindaco di Seneghe. Direttore della Fondazione Sardinia.
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Gianni Loy
Gianni Loy. Scrittore e poeta. Già professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Cagliari.
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Franco Meloni
Franco Meloni, laureato in Economia e commercio, già dirigente dell’Università degli Studi di Cagliari, esperto di formazione degli adulti in ambito organizzativo. Giornalista pubblicista, direttore della news online Aladinpensiero.
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Card. Arrigo Miglio
Il card. Arrigo Miglio è Arcivescovo emerito di Cagliari. Presbitero dal 1967, Vescovo di Iglesias 1992, Vescovo di Ivrea 1999, Arcivescovo di Cagliari 2012, Cardinale dal 2022.
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Giulio Parnofiello sj
Giulio Parnofiello, dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è entrato nella Compagnia di Gesù e ha completato la sua formazione con la licenza e il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana. È stato docente a Roma, Cagliari e Napoli, dove attualmente insegna presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sez. S. Luigi.
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Relatori e Coordinatori
Francesca Crasta
Beniamino de’ Liguori Carino
Salvatore Cubeddu
Luca Lecis
Stella Barbarossa
Nicolò Migheli
Duilio Caocci
Franciscu Sedda
Gianni Loy
Enrico Mastinu
Piera Loi
Sonia Fernandez Sanchez
Card. Arrigo Miglio
Antonella Camarda
Remo Siza
Simona Campus
Mauro Pala
Stefania Lucamante
Aldo Lino
Giuseppe Riggio sj
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Francesca Crasta
Francesca Maria Crasta è Professoressa ordinaria di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Cagliari. Nell’ambito dei suoi studi si è occupata di metafisica e di cosmologia in età medievale e moderna; della filosofia della natura; della diffusione del razionalismo cartesiano; dei rapporti fra erudizione, filosofia e scienza; della tradizione neoplatonica in età moderna. Tra le sue pubblicazioni figurano: La filosofia della natura di Emanuel Swedenborg, L’eloquenza dei fatti. Filosofia, erudizione e scienze della natura nel Settecento veneto. Geografia celeste e Mundus imaginalis da Swedenborg a Strindberg.
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Beniamino de’ Liguori Carino
Beniamino de’ Liguori Carino è Segretario Generale della Fondazione Adriano Olivetti e Vicepresidente dell’Associazione Archivio Storico Olivetti. La Fondazione nasce nel 1962, due anni dopo la sua morte, e nel primo articolo del suo statuto ha il mandato di “promuovere l’opera culturale e sociale suscitata da Adriano Olivetti”. Questo è l’obiettivo che la Fondazione cerca tuttora di perseguire, in risposta all’interesse che la storia imprenditoriale e intellettuale di Olivetti continua a suscitare.
Luca Lecis
Luca Lecis è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali, dove svolge anche la sua attività di ricerca.
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Stella Barbarossa
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Stella Barbarossa. 2 Novembre 2022 – in corso – Ammissione presso Scuola di Archivistica, Paleografia e
Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Cagliari.
18 Febbraio 2022 Conseguimento Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totale dell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa.
Settembre 2018 – Febbraio 2022 Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totaledell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa”.
20 Aprile 1018 – Conseguimento della Laurea magistrale in Storia e società presso l’Università degli Studi di Cagliari, con votazione 110/110 e lode e dignità di stampa; tesi in Storia e Società sulla nascita e lo sviluppo della Facoltà di Filosofia e Lettere presso l’Università di Cagliari dal 1764 al 1900. [titolo: Il Collegio e la Facoltà di Filosofia e Arti presso la Regia Università di Cagliari (1764- 1900). (Relatore: Professoressa Cecilia Tasca]
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Nicolò Migheli
Sociologo, si occupa di sviluppo rurale e di comportamento organizzativo. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di carattere scientifico, molte delle quali dedicate alla cultura, alla storia, alla tradizione di vari territori e comunità sarde. È anche autore di numerosi interventi e articoli su agricoltura, pastorizia, cibo e altre tematiche collegate alla conservazione e gestione dei saperi e peculiarità dell’isola. Esordisce nella narrativa nel 2011 con il fortunato romanzo Hidalgos (Arkadia Editore), con il quale è finalista al Premio Alziator 2012, al Premio Chambery 2013 e al Premio Cuneo, pubblicato anche in Bulgaria. Sempre per Arkadia Editore, nel 2013, partecipa all’antologia La cella di Gaudì e pubblica il romanzo La storia vera di Diego Henares de Astorga. Ultimo libro, 2023: Il cavaliere senza onore (Arkadia Editore).
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Franciscu Sedda
Franciscu Sedda è professore associato presso l’Università degli Studi di Cagliari, dove insegna Semiotica delle lingue e dei linguaggi, Semiotica della comunicazione contemporanea, Semiotica Culturale. È stato visiting professor presso la Harvard University e la Pontificia Universidade di São Paulo.
Enrico Mastinu
Enrico Maria Mastinu è professore associato di diritto del lavoro nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari in seno ai cui corsi di studio insegna Diritto del lavoro e Diritto della previdenza sociale.
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Piera Loi
Piera Loi è professoressa ordinaria di Diritto del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari. È componente di gruppi di ricerca sia a livello internazionale che nazionale; oltre ai temi del diritto comparato del lavoro e del diritto del lavoro dell’Unione Europea, in questi ultimi anni si è dedicata allo studio dei cambiamenti del diritto del lavoro causati dall’uso delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale.
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Sonia Fernandez Sanchez
Sonia Fernandez Sanchez è professoressa Associata in Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Cagliari.
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Remo Siza
Remo Siza. Collabora con riviste di politiche sociali in Italia e nel Regno Unito. È componente dell’Editorial Board del Journal of International and Comparative Social Policy (Cambridge University Press) e consulente scientifico dell’Osservatorio nazionale e delle politiche sociali. Docente di Politiche sociali e progettazione dei servizi presso l’Università di Sassari.
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Antonella Camarda
Antonella Camarda è ricercatrice RTDB in Museologia, Storia della Critica d’Arte e del Restauro presso l’Università di Sassari. Dal 2015 al 2022 è stata direttrice del Museo Nivola di Orani, con cui continua a collaborare come curatrice aggiunta. I suoi interessi di ricerca includono la scultura, la storia transculturale del Modernismo e il rapporto tra arte, artigianato, design e architettura.
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Simona Campus
Simona Campus. È curatrice del MUACC Museo universitario delle arti e delle culture contemporanee, recentemente fondato in seno all’Università di Cagliari, e referente responsabile per il Sistema museale d’Ateneo. Il suo lavoro curatoriale muove dall’idea di mostra come luogo di ricerca, rivolgendosi alle istanze dell’epoca contemporanea.
All’Università di Cagliari ha, inoltre, l’incarico per gli insegnamenti di Museologia e Storia delle esposizioni e delle pratiche curatoriali. I suoi interessi si rivolgono, in particolare, alla pluralità e interazione tra differenti codici espressivi, alla restituzione e alla rilettura dell’opera delle artiste tra XX e XXI secolo, all’arte come possibilità di impegno, partecipazione, inclusione.
Mauro Pala
Mauro Pala è Professore Ordinario di Letterature Comparate presso il Dipartimento di Lingue, Lettere e Beni Culturali dell’Università di Cagliari; dal 2018 coordina il Dottorato Internazionale in Studi Filologici- Letterari e Storico-Culturali. I suoi interessi di ricerca comprendono la teoria critica, la letteratura postcoloniale, i Cultural Studies. Ha insegnato e tenuto conferenze presso università americane, statunitensi ed europee, tra le sue pubblicazioni recenti figurano saggi su John Steinbeck, Edward Said, Siegfried Kracauer, James Joyce, Stendhal, il concetto di intertestualità. Nel semestre in corso tiene un corso di Laurea Magistrale su letteratura e lavoro.
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Stefania Lucamante
Stefania Lucamante. Ha insegnato per circa trent’anni negli Stati Uniti e da quattro ha preso servizio all’Università di Cagliari dove insegna letteratura italiana contemporanea.
Ha pubblicato sulla scrittrice Elsa Morante, Primo Levi, Carlo Levi, Natalia Ginzburg e altri autori. In particolare si occupa della narrativa di donne e della narrazione della Shoah.
Aldo Lino
Aldo Lino, architetto per esclusione (di matematica, lettere e filosofia), professore per combinazione (architettonica e urbana), ai tempi giovane promessa nel paesaggio locale (degli architetti (eh…), insulari e peninsulari).
Il suo lavoro è stato pubblicato su diverse riviste e settimanali (Panorama, L’Europeo, Ottagono, Domus, L’industria delle Costruzioni, Vita Nostra, Archivi di Architettura, Quaderni oristanesi, D’Architettura, Quaderni del Corso di Progettazione della Facoltà di Ingegneria di Cagliari… ) e diversi libri (Muratore, Italia gli ultimi trent’anni; Masala, Architettura del Novecento in Sardegna; Lucchini, L’identità molteplice; Scaglione, Oltre i maestri; Atzeni, Sardinian young Architecture, …). Tra le varie attività di progetto e costruzione si possono citare le case popolari a Solarussa e Oristano, il Centro sociale a Palmas Arborea, le torri campanarie a Nurachi e Villasimius, il Municipio di Ollastra, la palestra a Solarussa, il Parco termale a Sardara, il restauro di numerose chiese tra cui la Basilica di Santa Giusta, la Chiesa cattedrale di Bosa, il Duomo di Oristano e diversi oggetti di arredo domestico (una culla, un seggiolino, un appendiabiti, una sedia, una panchina, un tavolo, una cassetta per le lettere, un lume, …).
Dopo aver infruttuosamente portato borse nelle università di Cagliari e di Sassari e aver cercato di essere all’altezza dell’Istituto Europeo del Design di Cagliari, luogo scomodo dove bisognava pensare in grande, attualmente insegna Progettazione architettonica, urbana e varie altre amenità al Dipartimento di Architettura di Alghero, raccontando degli altri ma non di se’.
Di scrittura avaro (Attorno alla storia, alla geografia, all’architettura; Le città di fondazione in Sardegna; La città ricostruita; Praga memories 1977), di parola scorrevole (numerose conferenze in diverse sedi universitarie sugli anni Cinquanta e i suoi protagonisti), instancabile animatore (Circolo di architettura, Aperitivi di architettura, Attività culturali del Dipartimento di Alghero, …), armatore fallito, marinaio disponibile, pittore e fotografo a tempo perso per guadagnare tempo e qualche sorriso. Coltiva l’ambizione di imparare a suonare la tromba.
Giuseppe Riggio sj
Giuseppe Riggio SJ è direttore di Aggiornamenti Sociali dal 2022. È autore di una monografia teologica sul gesuita francese Michel de Certeau (storico, antropologo e studioso dei mistici del Seicento) ed è coautore di Il nome giusto delle cose, pubblicato nel 2018, un volume sul discernimento ignaziano rivolto ai giovani e a quanti li accompagnano. Nel novembre 2021 è stato nominato Consulente ecclesiastico nazionale dell’UCSI, l’associazione dei giornalisti cattolici.
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Quando finisce la notte?
Quando finisce la notte?
settimananews.it/ecumenismo-dialogo/quando-finisce-la-notte/
17 settembre 2023
di Tomas Halík
Il 14 settembre Tomas Halík ha tenuto una relazione in occasione della XIII Assemblea generale della Federazione luterana mondiale.
Sorelle e fratelli!
Il cristianesimo è alle soglie di una nuova riforma. Non sarà la prima, né la seconda, né l’ultima. La Chiesa è, secondo le parole di sant’Agostino, “semper reformanda“. Ma, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti e crisi nel nostro mondo, è compito profetico della Chiesa riconoscere e rispondere alla chiamata di Dio in relazione a questi segni dei tempi.
Da Lutero, grande maestro della paradossale saggezza della croce e discepolo dei grandi mistici tedeschi, dobbiamo imparare in questi tempi a essere sensibili a come la potenza di Dio si manifesta: “sub contrario” – nelle nostre crisi e debolezze. “La mia grazia ti basta“: queste parole di Cristo all’apostolo Paolo valgono anche per noi, ogni volta che siamo tentati di perdere la speranza nelle notti buie della storia.
La riforma, la trasformazione della forma, è necessaria quando la forma ostacola il contenuto, quando inibisce il dinamismo del nucleo vivo. Il nucleo del cristianesimo è il Cristo risorto e vivente, che vive nella fede, nella speranza e nell’amore degli uomini e delle donne nella Chiesa e oltre i suoi confini visibili. Questi confini devono essere ampliati e tutte le nostre espressioni esteriori di fede devono essere trasformate se ostacolano il nostro desiderio di ascoltare e comprendere la parola di Dio.
Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna
Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti –
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.
“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.
All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.
Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.
Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.
Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.
A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.
Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.
Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:
Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.
Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:
Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9
La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.
Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
[segue]
POLITICA e CULTURA
In continuità con lo spazio/editoriale precedente proponiamo di soffermarci sul pensiero illuminante di Mario Tronti (nella foto), morto il 7 agosto u.s. all’età di 92 anni. Lo facciamo utilizzando i materiali degli ultimi numeri della rivista Rocca, a cui ci lega un rapporto di collaborazione, ringraziando il suo direttore, l’amico Mariano Borgognoni, per questa preziosa concessione (f.m.).
Tronti e la necessaria «autonomia del politico»
di Luigi Pandolfi su Rocca.
È stata una storia intellettuale e politica controversa, quella di Mario Tronti, scomparso a novantadue anni lo scorso 7 agosto. Teorico dell’operaismo italiano (nel 1966 esce Operai e capitale, per i tipi di Einaudi), poi dell’«autonomia del politico», la sua esperienza di dirigente politico e di uomo delle istituzioni è stato un conclamato caso di incoerenza tra pensiero e azione, almeno nell’ultima stagione del suo impegno in parlamento. È sufficiente ricordare, a tal proposito, il suo voto favorevole, da senatore del PD renziano, al Jobs Act, provvedimento che ha reso ancora più precario il lavoro nel nostro Paese, e all’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Ma lui, fino alla fine, ha vissuto tutto questo con curioso spirito di separazione, come se quei voti, quella corresponsabilità in determinate scelte, fossero di un altro Mario Tronti. Solo qualche settimana prima della sua dipartita, in un’intervista a Marco Bevilacqua proprio su Rocca, diceva che «la sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica», quasi ironizzando sulle suggestioni “americane” del Partito democratico. La conclusione era che «il potere vero è ormai nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta». Nessuna autocritica, ma l’analisi, presa a sé stante, era sensata. Economia e politica, conflitto e mediazione: il cuore della sua riflessione sulla politica moderna, entrata definitivamente e irrimediabilmente in crisi dopo il fallimento del socialismo reale in Urss e nei paesi dell’est, che ha tirato giù anche i benefici del compromesso keynesiano ad ovest. Vale la pena ritornarci su questo argomento. Ciò che, dal mio punto di vista, rimane di più vivo del lungo, e composito, comunque importantissimo, lavoro dell’intellettuale Mario Tronti.
La politica e il moderno
Il Novecento è stato il secolo della politica. La politica che contende il terreno all’economia, palmo a palmo, provando, e a volte riuscendovi, a cambiare il corso della storia. Rivoluzioni e riforme, lotte sociali e politicizzazione delle masse, partecipazione dei ceti popolari alla vita pubblica, l’irruzione nella società dei partiti di massa. Sono i tratti salienti della modernità, che per Tronti finisce per coincidere con la politica stessa. Ma il Novecento si è chiuso facendo fare all’Occidente un salto all’indietro. «Un ritorno di Ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo», scrive Tronti in La politica al tramonto (Einaudi, 1998). È la fine dell’età della politica, «l’unica che poteva impensierire l’idea moderna di dominio fondata sull’economico». La crisi sarebbe iniziata all’inizio degli anni Settanta, col ’68 e le sue lotte a sugellarne l’epilogo. Da quel momento in poi, secondo Tronti, sarebbe iniziata la «storia minore del Novecento», nella quale, al conflitto, si sarebbe sostituito il basso compromesso, mentre al posto delle appartenenze si sarebbero imposte le cosiddette contaminazioni. Solo la rivoluzione femminile avrebbe «depositato pensiero» e fatto politica con la P maiuscola, cambiando con le lotte le leggi e, fin dove possibile, il senso comune. Lo stesso governo è diventato «amministrazione della casa», in assenza di conflitto tra visioni alternative del mondo e della società. C’entra molto, nella fine della politica, la caduta dell’idea di comunismo. Tronti non si è mai sottratto al confronto con la storia, grande e terribile, del tentativo di costruzione di una società alternativa a quella capitalistica. Ma, al contempo, ha sempre contrastato la vulgata secondo cui comunismo e fascismo/nazismo sarebbero stati due varianti di un medesimo fenomeno, quello del totalitarismo. Il nazismo, fino al parossismo, ha realizzato le sue idee, mentre il comunismo le ha tradite, è la sua condivisibile conclusione. Ancorché quello comunista non sia stato il governo politico della normalità, bensì dell’eccezionalità, a fronte della mancata rivoluzione in Occidente. Che fallisce nella sua impresa quando sposta sul terreno economico la competizione col mondo capitalistico. «Il socialismo, sottratto al conflitto politico e costretto alla competizione economica, lì ha perso», è la conclusione di Tronti. Non c’era partita. Un’inutile rincorsa. Ma ad ovest, lo spauracchio della dittatura del proletariato ha prodotto i suoi effetti. Si chiede Tronti, giustamente: «Ci sarebbe stato comunque il welfare state», senza lo spettro incombente di un diverso modello di società che aveva provato a farsi storia? E, infatti, proprio la fine del socialismo reale sciolse le briglie del neo-liberismo, fino a quel punto contenuto da una politica in grado di esercitare la propria autonomia, in un rapporto «agonico» con le forze dell’economia e della finanza.
Il Tronti attuale
Il nostro tempo è ancora più segnato dall’assenza di politica. La differenza tra gli schieramenti che si alternano alla guida dei governi è solo di superficie. Nessuno, da destra a sinistra, mette più in discussione le fondamenta di una società che produce «scarti», alienazione consumistica alimentata dal debito, nuove e più insidiose forme di sfruttamento del lavoro, distruzione dell’ambiente, precarietà lavorativa ed esistenziale, guerra. Quest’ultima è anche una delle leve che il capitalismo utilizza per far fronte alla propria tendenza al ristagno (molto attuale su questo la lezione dell’economista americano Paul Sweezy). Così si spiega l’esplosione delle spese militari (Nel 2022, la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 2.240 miliardi di dollari, con gli Usa che ne rappresentano il 40%). Ma, a parte alcune minoranze, politiche ed intellettuali, o il Pontefice, chi si oppone seriamente a tutto questo? «Da quando, gli schieramenti non si distinguono più per il senso diverso che dànno alla politica?», si sarebbe chiesto il nostro. Eppure, senza politica il mondo non ha che la catastrofe dinanzi a sé. In essenza di una nuova soggettività capace di «deviare il corso del fiume», l’umanità è destinata a soccombere. È di nuovo tempo di grandi visioni, di progetti alternativi di società. Per la cui elaborazione servono soggetti collettivi portatori di «una ragione o di più ragioni» di contrasto allo stato di cose presente. Non è solo un problema Italiano, dove la spoliticizzazione della democrazia ha coinciso con la totale scomparsa delle forze politiche di riferimento del movimento operaio. È una questione globale. Tanto più che la partita principale, oggi, si gioca sul terreno geopolitico. Proprio Tronti, in una recente intervista rilasciata al quotidiano Il Riformista faceva notare che «la vecchia politica di potenza di paesi-nazione si muta in geopolitica, che vede protagonisti interessi di nazioni-continente», in un quadro, più generale, dove l’asse del mondo tende a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico. Aspirazioni, legittime, di potenze emergenti che si scontrano con l’accanita resistenza di un impero decadente, quello a stelle e strisce. In mezzo, l’assenza dell’Europa, che è assenza di una politica europea. Una «unione economica con l’elmetto della Nato», che rischia la deindustrializzazione. La «grande politica» – usiamo ancora un’espressione di Mario Tronti – oggi sarebbe pertanto una politica di pace, contro l’economia di guerra, la corsa alle spese militari, per salvare il mondo dalla catastrofe atomica e indirizzare l’economia verso la produzione di «valori d’uso» sociali e ambientali. «Grande politica» contro la «piccola politica», che tende ad «annullare, comprimere, mascherare, i conflitti», ma giustifica la guerra in nome di sacri principi che non mancano mai alla bisogna. Come anche la guerra d’Ucraina sta dimostrando.
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La morte annunciata di una sinistra senza storia
di Marco Bevilacqua
8 Agosto 2023
Conversazione con Mario Tronti
Non solo in Italia, ma in generale nel mondo occidentale, oggi la sinistra sembra in crisi di identità, di rappresentanza, di credibilità. Ci si potrebbe chiedere: ha ancora senso una sinistra nel ventunesimo secolo? Ne parliamo con Mario Tronti, grande saggio del marxismo operaista, ex senatore della Repubblica e già parlamentare del Pd.
Professore, esiste ancora la sinistra?
La sua è una domanda difficile. La sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica. Tale distanza può essere più o meno marcata a seconda del Paese. Negli Stati Uniti la sinistra, senza mai definirsi come tale, si è sempre identificata nel partito democratico, e comunque ha esercitato una certa forza attrattiva nei confronti della sinistra europea. In Europa, la socialdemocrazia tedesca possiede ancora sia la solidità organizzativa, sia la capacità di esercitare una presenza reale nel sistema politico. In Francia la sinistra si è ripresentata in forme nuove, in Spagna c’è un partito socialista al governo. Esiste pure un partito socialista europeo, che a me sembra un morto che cammina. In generale, è pur vero che il panorama è un po’ desolante, ma ci sono anche delle eccezioni in controtendenza, come il partito socialista portoghese, che sta portando qualche segnale di freschezza.
E in Italia che succede?
Succede che il Pd voleva somigliare ai democratici americani, e pur nella sua breve vita ha finito con il non riuscire più a rappresentare la sinistra italiana. Poi esiste una galassia di sinistre minoritarie che non riescono a incidere nella vita reale. Una situazione molto frastagliata, poco leggibile. Il problema è che bisognerebbe ridefinire ciò che si intende per sinistra.
Qual è l’aspetto dirimente per poter definire la sinistra?
Da vecchio militante del Pci, ho sempre creduto in un progetto chiaro, definito, organico. In un partito che non aveva bisogno di definirsi: il nome parlava chiaro, senza fraintendimenti circa la sua collocazione politica. La sua stessa evoluzione in Pds, poi Ds e infine Pd, non ha mai esercitato la forza attrattiva, vorrei quasi dire evocativa, che quel nome storico possedeva. Il cammino affrettato, e per certi aspetti raffazzonato, da Pci a Pd ha molto disorientato l’elettorato, che non ha più compreso di che si trattava. Perciò vengo alla sua domanda: la sinistra per me è qualcosa che deve avere un passato, un percorso storico, un radicamento sociale. Il movimento operaio non è più riproponibile, nelle forme storiche in cui si è manifestato, perché oggi l’industria tradizionale non è più centrale nel capitalismo. Però l’errore è stato pensare che la storia del movimento operaio si fosse conclusa con la disintegrazione, dopo settant’anni, del tentativo di costruzione del socialismo cosiddetto reale. Un esperimento fallito che però non portava alla fine della storia. Il movimento operaio ha una storia molto più lunga, nata a fine Settecento con la prima rivoluzione industriale e proseguita per i due secoli successivi attraverso tante esperienze di mutualismo, associazionismo e di lotta organizzata, e non doveva essere liquidato così grossolanamente. Tanto più che il movimento operaio si è espresso e sviluppato in profondità anche nel mondo cattolico. Ecco, se la sinistra, pur mutando le forme, non si porta dietro questa lunga storia, fatta di cura e assistenza quotidiana alle persone che lavorano, di lotta antagonista, di alternativa all’ordine costituito, allora non ha più senso definirla tale. E invece, dagli anni ‘80 in poi, sembra che l’unica preoccupazione dei vertici della sinistra sia stata quella di demonizzare il passato, di emanciparsene, di aprirsi al nuovo che avanza. Ma non si sono accorti che il nuovo che avanza è sempre lo stesso: la ragione capitalistica, che oggi si chiama neoliberismo.
Quindi, l’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca…
(Ride). Sì, è andata proprio così. Si potrebbe anche dire che, nell’ansia di legittimarsi, hanno tagliato il ramo su cui erano seduti. Dimenticando per sempre la propria storia e il fatto che la grande rivoluzione del 1917 aveva ben altre premesse di quelle poi costruite dallo Stato sovietico, che le ha in buona parte deluse e contraddette. E hanno anche dimenticato che il conflitto, la critica allo stato delle cose, di cui oggi hanno paura, è sempre stato l’anima del movimento operaio.
Nell’Italia oggi governata dal centrodestra, quale realistico obiettivo possono porsi le forze di centrosinistra in campo, così diverse fra loro, per progettare un’alternativa credibile?
Porrei l’attenzione su un fatto: per la prima volta al governo dell’Italia non c’è il centrodestra, ma la destra tout court. Si è esaurito il ruolo di garanzia che ha avuto per decenni il centro, prima espresso dalla Dc e poi in parte dal berlusconismo. Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che a contrapporsi a una vera destra ci sia una sinistra altrettanto vera. Non c’è più bisogno del centrosinistra. Ecco perché falliscono tutti i tentativi di coagulare un centro, il famoso “terzo polo”, che non ha più un senso politico. La situazione si è radicalizzata (guardiamo cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nella stessa Francia) e richiede svolte radicali, non pateracchi e soluzioni nebulose. Se da sinistra non si coglie questo passaggio, non si può proporre un’alternativa strutturata e attendibile.
Si può dire che la sinistra ha rinunciato a portare avanti le sue istanze “tradizionali”, lasciando così campo libero al populismo emotivo della destra, che ha così tanta presa nelle grandi periferie?
Più che populismo, lo definirei sentimento antipolitico. È lo stesso che ha sciaguratamente cavalcato il movimento Cinque Stelle, che con il suo “uno vale uno” ha diffuso demagogia, approssimazione, incompetenza e superficialità. Tutte cose che non devono appartenere a una sinistra seria, che al contrario, per sua natura, dovrebbe perseguire una conflittualità sociale riconoscibile e affidarsi alla sua vocazione di responsabilità sociale e capacità di analisi. Non a caso Conte si guarda bene dal dichiararsi di sinistra e parla sempre d’altro, di un concetto generico di “popolo”. Il M5S si è sempre definito “né di destra né di sinistra”. Secondo me, chi si definisce così è sempre di destra… Mi ricorda tanto il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.
Ma il Pd è diventato veramente il partito delle Ztl?
Quando scrissi Il popolo perduto, uscito all’indomani del grande exploit elettorale del M5S nel 2018, sottolineai come il Pd avesse perso l’elettorato della sinistra, essendo un partito composto da persone mediamente benestanti, ma anche mediamente benpensanti, che ambiscono a una vita tranquilla e tutelata. Poco a che vedere con gli abitanti delle grandi periferie metropolitane, delle città medio-piccole e delle campagne, che infatti hanno cominciato a votare a destra. Il popolo del Pci, così come quello della Dc, era un popolo politico; con la disgregazione di questi due grandi partiti, anche il popolo si è disorientato. Dunque, non solo il Pd ha perso il suo popolo, ma il popolo stesso si è perduto: ora che è diventato “antipolitico”, è costituito da una moltitudine di individui dominati da umori e impressioni fugaci, poco interessati alla consapevolezza e all’approfondimento e caratterizzati da un’aperta ostilità verso il ceto politico, giudicato come depositario del potere. Ma in realtà il potere vero è nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta.
Sui social l’emotività ha soppiantato l’autorevolezza e la credibilità dei contenuti. I messaggi politici si riducono a dichiarazioni ad effetto, prive di sostanza eppure efficaci nel colpire il bersaglio. Il medium è il messaggio, diceva McLuhan. Perché la destra (un esempio per tutti: l’ex presidente Trump) sembra più a suo agio nel maneggiare i nuovi media?
È l’effetto della cosiddetta dittatura della comunicazione, in base alla quale non è tanto importante cosa comunico, ma come lo faccio. Il concetto di demagogia è profondamente di destra, per questo alla destra riesce molto bene produrre una grande mole di messaggi adatti ai social. Ma non è una novità, cambia solo lo scenario: anche negli anni Trenta la propaganda fascista e nazista si serviva massicciamente del medium più diffuso e innovativo dell’epoca, la radio. Un recente articolo del sociologo Giuseppe De Rita ragionava sul fatto che le persone siano sempre più orientate dall’opinione più che dalla coscienza o dal senso di appartenenza a un campo, a uno schieramento. Impera l’emotività, l’attrazione per la novità: in campo elettorale, è successo con Berlusconi, e poi con altre meteore del firmamento politico, come Grillo, Salvini, Renzi, gente che ha fatto dello spettacolo della novità la sua vera cifra politica. Gli elettori sono governati da innamoramenti sempre più fugaci, totalmente scissi dalla profondità e della credibilità del messaggio. Anche la Meloni sta godendo di questo stesso sentimento, fondato sull’equivoco del “nuovo”. E pure la Schlein, se ci pensiamo, è salita alla ribalta grazie alla fascinazione per il cambiamento. Diamole un po’ di tempo, prima di giudicarla. Sta di fatto che l’opinione pubblica oggi non è più orientata dai partiti, dalle ideologie, da sentimenti forti di analisi della realtà, ma vive di impressioni fugaci, di brevi suggestioni, di equivoci, di battibecchi sui talk show. [continua]
Che succede nel Pianeta?
Costituente Terra Newsletter n. 126 del 19 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 306 del 19 luglio 2023
QUALE SOVRANO
Cari amici,
dal vertice di Roma del novembre 1991 quando la NATO decise di volgersi ad opere di pace a quello di Washington dell’aprile 1999 in piena guerra jugoslava, e a quelli successivi, ogni riunione apicale della NATO ha segnato un cambiamento di fase. Ma il vertice di Vilnius dell’11 luglio ha segnato un cambiamento d’epoca. E che questo non sia solo programmato, ma già stabilito, e consista nell’istituzione di un sovrano universale, lo veniamo a sapere dal comunicato stampa diramato a conclusione del vertice. I comunicati stampa danno notizia non di cose che verranno ma di cose già avvenute, e di queste, a Vilnius, ben oltre la pura e semplice informazione sull’evento, ne sono state registrate molte: si tratta infatti di un “comunicato” che in inglese consta di 33 pagine e 13.289 parole. Nessuno lo conosce perché, al di là delle decisioni sull’Ucraina, non è stato pubblicato sui giornali, perciò ve lo riferiamo qui [https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-comunicato-stampa-del-vertice-di-vilnius/].
Il comunicato sostanzialmente è, con i dovuti adattamenti, la ricezione e la condivisione da parte di tutti gli Stati membri della NATO (ci siamo anche noi) delle due dichiarazioni di intenti americane sul mondo prossimo venturo, emanate dalla Casa Bianca e dal Pentagono nell’ottobre scorso, la “Strategia della sicurezza nazionale” e la “Strategia della difesa nazionale” degli Stati Uniti. E il cambiamento d’epoca consiste in questo, che si chiude il lungo periodo storico in cui la guerra, secondo il detto di Eraclito (VI sec. a. C.), è stata sovrana del mondo, “re e padre di tutte le cose”, e se ne apre un altro in cui la guerra istituisce come suo vicario un sovrano universale che mediante la guerra governa il mondo come se il suo fosse l’unico mondo, conformato a un sistema di guerra e fatto a sua immagine. Questo sovrano, ed è questa la novità di Vilnius, non sono gli Stati Uniti, come una facile polemica sosteneva fin qui, ma è, con gli Stati Uniti, “l’impareggiabile rete di alleanze e partner dell’America”, come viene chiamata, altrimenti detta “area euro-atlantica” o “Occidente allargato”. Questa area è formata anzitutto dai 33 Stati membri dell’Alleanza riunitisi a Vilnius, che con la Finlandia e ben presto la Svezia si attestano ormai molti “centimetri quadrati” più a Est dei territori originari, e non si arresta ai confini della Russia, ma abbraccia la Georgia, la Repubblica di Moldova, la Bosnia Erzegovina, Israele e si proietta nell’altro emisfero, attraendo nella sua orbita l’altro mare, l’Indo-Pacifico, fino all’Australia, alla Nuova Zelanda, al Giappone, alla Corea del Sud, i cui capi erano pure convocati e presenti a Vilnius e altri che verranno in futuro.
Gli Stati che formano il corpo di questo sovrano non hanno in comune né lingua, né costumi, né religioni, né ordinamenti; la sola cosa che li unisce è il vincolo militare, e il sistema di cui si fanno eredi e che rendono perpetuo è un sistema di dominio e di guerra. Tale sistema, che deve sussistere anche in “tempo di pace”, ha bisogno comunque che una guerra ci sia, che la guerra se ne faccia “costituente”. Il vertice di Vilnius riconosce questa funzione alla guerra d’Ucraina, per la quale viene attivato un meccanismo tale per cui essa non deve finire mai, e comunque non col negoziato, secondo il dettato di Kiev; ed il meccanismo è questo: l’Ucraina è pienamente integrata nella NATO, già è realizzata l’”interoperabilità” tra le sue Forze Armate e quelle della NATO, e questa la riempie di armi, fino alle bombe a grappolo e ai missili a lunga gittata o ad uranio impoverito, però essa non deve essere oggi nella NATO, perché questo vorrebbe dire la guerra tra l’America e almeno gli Stati europei dell’Alleanza contro la Russia, cosa che nessuno vuol fare, per non costringere Putin a usare l’atomica; si assicura però che l’ingresso anche formale dell’Ucraina nell’Alleanza avverrà appena la guerra sia finita e la democrazia del Paese comprovata, ed è per questo che la guerra non deve finire. È una finzione, di quelle così care al potere e alla ragion di Stato, ma anche la Russia deve stare al gioco.
La guerra d’Ucraina ha dunque una feroce veste militare e una funzione politica, serve ai fini di una persuasione di massa di un’opinione pubblica renitente, perciò ha una così straordinaria copertura mediatica, come l’hanno avuta solo la prima guerra del Golfo e quella del Vietnam, e in casa nostra la lunga agonia di Moro, per convincere tutti che la guerra si deve fare, col nemico non si tratta, che c’è sempre una vittima ma è per il bene di tutti, e questa è la cosa buona e giusta da fare; e la sovranità così innalzata sul trono è piena di valori, dei “nostri valori”, in continuità con la dismessa, vecchia “cristianità”.
Secondo il “comunicato stampa” tutto ciò è già storia in atto, non una nuova storia da imporre. Ma è così? Il nostro governo lo sa? Il Parlamento lo ha deliberato? Il Presidente della Repubblica lo ha promulgato? In realtà quanto a legittimazione democratica siamo ancora solo alla firma e alla ratifica parlamentare del Patto atlantico del 1949.
Non è vero che di tutto ciò ci sia solo da prendere atto. C’è un altro rovesciamento da fare, dobbiamo deporre ogni preteso sovrano universale dal trono e fare sovrana la pace. È lei la madre e “il” re di tutte le cose. È lei che deve farsi soggetto costituente, che deve essere fatta sistema. Alla politica, interna e internazionale, il compito di provvedervi.
Nel sito pubblichiamo il comunicato del vertice di Vilnius “Il nuovo sovrano universale” e un articolo molto allarmante sulla sorte dei migranti colpiti dagli accordi con la Tunisia patrocinati dall’Italia e dall’Europa, e, in morte di Mons. Luigi Bettazzi, alcune testimonianze in ricordo di lui.
Con i più cordiali saluti,
Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
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Il nuovo sovrano universale
IL “COMUNICATO STAMPA” DEL VERTICE DI VILNIUS
19 LUGLIO 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI /
Si tratta del documento rilasciato dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della NATO a seguito della riunione del Consiglio Nord Atlantico tenutasi a Vilnius l’11 luglio 2023
Quello che segue è il “comunicato stampa” diffuso al termine della riunione di vertice della NATO a Vilnius; in realtà non si tratta di una informazione, ma di un documento di indirizzo politico, apparentemente obbligante almeno per i Capi di Stato e di Governo che l’hanno rilasciato. Ne pubblichiamo una traduzione italiana, non sempre corretta: trattandosi di una nostra copia di lavoro, essa reca evidenziazioni in neretto di cui si può non tenere conto
Il Paese invitato ad aderire all’Alleanza si associa al presente comunicato.
1. Noi, Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, uniti dai nostri valori comuni di libertà individuale, diritti umani, democrazia e stato di diritto, siamo riuniti a Vilnius mentre la guerra nel continente europeo continua, al fine di riaffermare l’immutabilità del nostro legame transatlantico, della nostra unità, della nostra coesione e della nostra solidarietà in un momento critico per la nostra sicurezza e per la pace e la stabilità internazionale. La NATO è un’alleanza difensiva. È il forum transatlantico unico, essenziale e indispensabile per la consultazione, il coordinamento e l’azione su tutte le questioni relative alla nostra sicurezza individuale e collettiva. Riaffermiamo il nostro fermo impegno a difenderci reciprocamente e a difendere ogni centimetro quadrato del territorio dell’Alleanza in ogni momento, a proteggere il miliardo di persone delle nostre nazioni e a preservarvi la libertà e la democrazia, conformemente all’articolo 5 del Trattato di Washington. Continueremo a garantire la nostra difesa collettiva contro tutte le minacce, indipendentemente dalla loro origine, seguendo un approccio a 360 gradi per l’adempimento dei tre compiti fondamentali della NATO: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa. Aderiamo al diritto internazionale e agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e siamo determinati a preservare l’ordine internazionale basato sulle regole.
Lo Zar resiste
Costituente Terra Newsletter n. 123 del 28 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 303 del 28 giugno 2023
LA GUERRA COME PRODOTTO
Cari amici,
L’ammutinamento della Wagner in Russia si è concluso in negativo per il soldataccio Prigozhin e per i Servizi occidentali che, se era vera la vanteria che sapessero tutto già prima, non hanno saputo come muoversi e che fare; si è risolta invece in positivo per Putin che avrebbe potuto fermare a cannonate il convoglio mercenario sull’autostrada per Mosca, e ha invece ben calcolato i rischi preferendo la soluzione politica (con i terroristi dunque si tratta!) ed evitando la guerra civile. Contro le gioiose profezie di un collasso della Russia e di una sua débacle militare, la controffensiva ucraina non ha tratto dalla crisi alcun vantaggio e la guerra è continuata tale e quale.
Piuttosto l’avventura della Wagner ha acceso i riflettori sulla piaga degli eserciti mercenari e dei “contractors” che hanno integrato o addirittura sostituito gli eserciti di leva. Il pacifismo in Occidente ha salutato come una sua vittoria la rinunzia degli Stati alla coscrizione obbligatoria, ma in realtà è stata la vittoria dei guerrafondai che, scottati dall’esperienza del Vietnam (le cartoline precetto bruciate nei campus universitari) e dalla legittimazione dell’obiezione di coscienza, hanno realizzato che non potevano più fidarsi dell’esercito di popolo e del suo gratuito amore per la Patria e hanno optato per la prostituzione alla guerra e all’acquisto delle prestazioni militari per denaro. In tal modo sempre più alla guerra sono venuti meno gli alibi ideali (e i comportamenti sognati dalle Convenzioni di Ginevra) e sempre più essa si è resa intrinseca al denaro; come tutta la realtà assoggettata dal capitalismo, e prima ancora dal Nomos dell’Occidente, alla legge della cosa, la guerra è diventata un prodotto e gli uomini e le donne alle armi sono diventati il producibile, non solo a profitto delle industrie e del mercato delle armi, ma anche delle guerre da fare e del bottino e dei morti da scambiare tra le parti in conflitto.
Il sistema di dominio e di guerra a cui, a partire dal grande evento politico della rimozione del muro di Berlino, è stato conformato l’ordine internazionale e resa schiava la stessa condizione umana sulla Terra (ricordiamo il ministro che durante la guerra del Golfo spiegò alla Camera che ormai non si poteva più distinguere il tempo di guerra dal tempo di pace), si è così istituzionalizzato e dotato di tutte le garanzie per non essere messo in discussione e contestato in democrazia sulle singole guerre da fare.
Paradossalmente se oggi si vuole lottare per la pace e il ripudio del sistema di guerra, bisognerebbe lottare per il ripristino del servizio militare obbligatorio, tale però da essere finalizzato alla creazione di eserciti atti a difendere, in molti modi, non uno solo ma molti beni comuni di cui constano le Patrie; e potrebbero queste Forze Armate non essere sempre con le armi al piede, come fu per la missione militare italiana che alla caduta di Hoxha si recò senza armi in soccorso all’Albania e non per caso fu chiamata “Pellicano”. E con la coscrizione obbligatoria potrebbe perfino tornare l’obiezione di coscienza che in Italia, unico Paese al mondo, la legge riformata che fu elaborata in Parlamento dal Gruppo Interparlamentare (e interpartitico) per la Pace (GIP) chiama, in positivo, “obbedienza alla coscienza”.
Nel sito [ripreso anche da Aladinpensiero di seguito] pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo su come è stata impedita la pace in Ucraina e in Europa dopo i primi negoziati seguiti all’inizio della guerra.
Con i più cordiali saluti,
Chiesa Chiesadituttichiesadeipoveri- Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Ucraina: chi ha stracciato una pace possibile?
23-06-2023 – di Domenico Gallo
Nell’era della comunicazione, in cui siamo interconnessi con tutto il mondo e possiamo ricevere qualunque notizia in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie delle grandi potenze agiscono nel modo più occulto possibile e tengono rigorosamente nascoste le loro scelte di guerra che passano sulla testa dei popoli.
Credevamo che la diplomazia segreta, intessuta sulla pelle dei popoli appartenesse al passato, come avvenuto durante la Prima guerra mondiale quando, attraverso un Trattato segreto stipulato a Londra il 26 aprile 1915, un piccolo re concordò, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, l’entrata in guerra dell’Italia, ben sapendo che avrebbe determinato la morte di centinaia di migliaia di suoi sudditi. Invece adesso viene fuori che le Cancellerie dei principali paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace, che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni. In verità il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di una anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa. Però se ne potevano dedurre delle tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella NATO e accettare uno status di neutralità. Già all’epoca, gli osservatori più attenti, come Jeffrey Sachs (intervista al Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione USA aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’Amministrazione USA, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione Europea e le Cancellerie dei principali paesi europei hanno mantenuto un silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso di quasi tutta la stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.
Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Time erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Il 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leader africani, guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022, si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capodelegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Charkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”. Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra.
Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Qui il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra. Da questo fatto, non più contestabile, si deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli USA e la Gran Bretagna, in quanto principali fornitori di armi all’Ucraina. L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Johnson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto.
L’accordo non poteva essere sconosciuto agli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione Europea ne dovevano essere a conoscenza. Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati e i vertici UE dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato. Quando si fanno dei misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo.
Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica”, evidentemente, valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte. Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio evitando infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da TV, giornali ed agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.
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Convegno dell’Aimos. Riflessioni di un laico
di Franco Meloni
Non sono solito frequentare Simposi di medici, infermieri e altri operatori della sanità: uno come me si affida alla scienza medica e a chi la rappresenta nelle diverse sue professioni. Con giudizio (quello del Manzoni: Adelante Pedro, con juicio, si puedes), ovviamente. E tanto basta. Ma la telefonata di alcuni giorni fa dell’amico Paolo Castaldi, presidente dell’Aimos, di cui pure sono consigliere di competenza amministrativa, era perentoria: “Franco devi partecipare al prossimo nostro Convegno di Area critica: parliamo di politiche sanitarie, di nuovi modelli socio-sanitari, di risorse da impiegare, possibilmente bene… questioni che riguardano tutti i cittadini…”. Giocarsi un venerdì sera per un Convegno di sanitari? Se lo dice Paolo ne vale il sacrificio: obbedisco! E così è stato e ne sono contento. Di seguito alcune riflessioni. Non aspettatevi un resoconto, sarebbe troppo impegnativo e peccherebbe di approssimazioni. Meglio – per quanti vogliono approfondire gli argomenti, perchè assenti o magari perchè molto sfugge anche ai più attenti partecipanti – ripercorrere le relazioni e gli interventi ai dibattiti negli “atti” successivi, che l’Aimos metterà a disposizione nel proprio sito web o con altri mezzi di efficace comunicazione.
Quale Dio? Quale Cristianesimo? L’IDEA DEL “POST-TEISMO”
Quale Dio? Quale Cristianesimo?
L’IDEA DEL “POST-TEISMO”
11 GENNAIO 2023 / EDITORE / DICONO I DISCEPOLI /
Una intensa riflessione di Enrico Peyretti in un convegno dedicato al dibattito sulle tesi del cosiddetto “post-teismo”
di Enrico Peyretti
La proposta di riflessione chiede: è possibile oltrepassare il teismo, cioè “l’idea di un Dio assolutamente separato dal mondo che interviene dall’esterno per salvarlo”. E chiede anche di andare “oltre le religioni”
Molte religioni, una sola luce
La verità dai molti raggi
tocca ciascuno
con un raggio appena.
Io sarò fedele
a questo mio
che sia piccolo o grande.
Se invidiassi il tuo raggio
e lasciassi questo
forse cadrei nel buio.
Solamente salendo
sulla scala di luce
nella mia verità
incontrerò la tua.
Vedi quanta pace
con milioni di raggi
stende il sole sul prato
e nessun fiore offende l’altro.
Luca Sassetti (26 marzo 1992) (dal mensile il foglio, n. 190, maggio 1992)
1 – Anche Maradona!
C’è un vero bisogno di superare il teismo! È bene, è interessante, che ogni immagine di Dio sia sempre da superare, correggere, affinare. Dio non è mai un oggetto circoscrivibile da una teologia conclusa . È realtà grande.
Il teismo pensa un dio magico, onnipotente, separato dal mondo, padrone, giudice arbitrario, facile modello dei tiranni, che vuole salvarci da fuori di noi. Il Dio della legge, del premio e della pena. Nel Dies irae era detto Rex tremendae maiestatis. Un Dio Terrore, non Amore. Non ci fa felici. Ci facciamo continuamente idoli falsi: anche Maradona era detto “dios”. Se ci svegliamo, ce ne liberiamo.
Tra i tanti profili di Dio, netti o sfumati, c’è una proposta, onesta e chiara, nel cuore del vangelo arrivatoci da Gesù di Nazareth: «Dio nessuno l’ha mai visto» (2 volte nel NT, Bibbia cristiana). Il vangelo parte dall’ignoranza nostra su Dio, dalla necessità di rompere l’immagine dominante, e di rivedere continuamente la sua immagine, perché sia più vera.
2 – Il più forte post-teista
«Dio nessuno l’ha mai visto». Significa due cose, nel vangelo:
1) – Giovanni 1,8 : Gesù ha “spiegato” Dio, (έξηγήϭατο), lo ha presentato, nella propria persona; Gesù è in relazione viva, filiale, intima, con Dio, è animato in pienezza dal suo Spirito. Dio si manifesta nell’uomo Gesù, in lui si è fatto carne umana. Dio è umano in Gesù .
2) – Prima lettera di Giovanni 4,12 . Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo tra noi, è qui, lo sperimentiamo presente, è realtà vivente, ben oltre i concetti.
Gesù è persona umana, e manifesta, in sé, un Dio umano e personale. Il Dio di Gesù è solidale con noi, è persona co-vivente, amico, spirito animatore intimo di libertà, presente nelle relazioni di amore e giustizia, stimolatore e sostegno di continua ripresa nella via del bene. A me sembra chiaro: Gesù è il più forte e chiaro post-teista.
3 – In spirito e verità
Io sento questo da Gesù: Dio è umano. Qualcuno dice di no, che sarebbe troppo umano. L’abbiamo fatto troppo umano?
È giusto correggere l’immagine metafisica di Dio, ben comoda alle religioni padronali. La riportiamo all’umano vicino, come fa Gesù anche nel dialogo molto trasparente con la Samaritana.
A questa donna Gesù si rivela in modo privilegiato, e le dice che la relazione con Dio non è nel tempio sacro, ma è “in spirito e verità”, cioè 1) è relazione intima e alta, vicina ed essenziale, nello spirito, e 2) è relazione orizzontale, umana, nel quotidiano della vita giusta tra fratelli e sorelle umani.
Anche la scienza della natura e le scienze umane ci sollecitano a ripensare la vecchia immagine e il vecchio rapporto con Dio. Arrivano risposte che io accolgo col punto interrogativo: Dio è una energia? È come la forza di gravità e il risveglio della primavera? E’ un fenomeno nella natura? È la natura stessa nella sua mirabile vitalità?
Oppure: Dio è soltanto una parte di noi? La parte profonda di noi?
Credo invece che Dio è un Tu, Altro ma Intimo a noi. Va bene rifiutare l’immagine di un essere lontano, strapotente e irraggiungibile, ma Dio non può essere dissolto nella nostra psicologia: è un Tu, di fronte. Le parole più essenziali del messaggio di Gesù «sentiamo che entrano in sintonia profonda col nostro essere, ma intuiamo che vengono da altrove, e proprio per questo sono grazia, dono, da accogliere con stupore e gratitudine, e da far fiorire» (Emanuela Buccioni, Rocca, 1 marzo 2022, p. 15). L’immagine intollerabile di Dio è superata dalla rivelazione di Gesù, ma non ridotta a una parte di noi: Dio è vita grande, assolutamente nuova, altra, e nello stesso tempo presenza intima. È Altro, e Intimo. Dio grandezza buona e vicinanza intima.
Certo, l’immagine più vera non è un nostro possesso imperdibile. Se scaccio il vecchio Dio tremendo posso poi trovarmi davanti altre maschere di Dio: il sistema che mi include e mi detta i miti illusori, di una breve stagione; figure umane potenti, anche religiose, anche di noi stessi che coprono l’orizzonte ed esigono omaggio; il nostro potere sulle forze naturali, illusi di farle nostre. Gesù continua ad operare come vero post-teista anche di questi dèi.
4 – Vita-che-dà-vita
In questa ricerca stimolante incontro una difficoltà: si pensa Dio non-persona. Dio non sarebbe personale. Cosa significa? Pensarlo come persona sarebbe farlo troppo umano, su modello nostro? Ma se non è persona, come può essere relazione?
Nel vangelo di Gesù, Dio è Amore, effusione di vita, di bene, di resistenza, di crescita evolutiva. Se lo riconosciamo così, Dio è persona cosciente di sé, non è un fenomeno che accade e non riflette, che non sa nulla di sé, che non è cosciente. Pensare Dio come fenomeno, energia cosmica, è panteismo, è cosmologia, non è né religione né fede. La fede è relazione intima, di fiducia, di affidamento, di comunicazione. Ma una relazione avviene solo come scambio tra coscienze e volontà personali.
La fede cristiana è “oltre le religioni”, perché non è culto, non è debito, non è dottrina, ma comunione di vita. Dio lo conosciamo ad immagine nostra perché siamo noi immagine di lui. Lo pensiamo a nostra immagine, perché Dio ha pensato noi a immagine sua. Perciò la guerra è “sacrilegio” (dice papa Francesco), perché la violazione dell’uomo è violazione di Dio. È qui il massimo fondamento della dignità della persona umana.
Poi noi pecchiamo facendo Dio strumento nostro, l’immagine peggiore di noi: dominio delle coscienze, «fondamento dei troni» (Ernst Bloch), cappellano militare degli eserciti. Dio ci è così familiare che lo usiamo, lo offendiamo, lo perdiamo. Se fosse “tutt’altro” non riusciremmo ad offenderlo: l’Atto Puro di Aristotele non si occupa di noi e a noi non interessa: è solo scritto in un trattato di metafisica, non ha relazione con noi. Divenendo umano, Dio si mette nelle nostre mani, a rischio, ma anche è sempre altro, imprendibile. Lo inchiodiamo dentro i nostri sistemi, ma la sua vita non si fissa come vogliamo noi. È vita-che-dà-vita, e non è ingoiata e tutta contenuta nella nostra vita. Dio somiglia a noi perché noi somigliamo a lui. Gesù, mi dico di nuovo, è il più grande post-teista.
5 – Facciamo una civiltà dell’ascolto
Conosciamo Dio nella relazione, non nell’essenza. Se è da intendere alla lettera che «noi siamo soli», come ho sentito qui, Dio non c’è per noi, né in una immagine né nell’altra, tanto meno con una presenza. Non ci sarebbe nulla da cui andare “post”. Dio sarebbe un’idea regolativa, un’immagine mentale, mutevole come ci piace, appunto non una persona, non una realtà. Allora il post-teismo così inteso sarebbe una forma gentile, non aggressiva, non apodittica, di a-teismo: «siamo soli».
Proviamo ad ascoltare; facciamo una civiltà dell’ascolto. Facciamo prima il silenzio che sgombra la mente dai rumori, ma poi esercitiamo l’ascolto: ascolto reciproco, e ascolto universale. La Bibbia è una richiesta di ascolto: «shemà Israel» (Deuteronomio 4). Ogni altro suggerimento di significato è una richiesta di ascolto.
I poeti ascoltano. Capiscono e dicono ciò che ascoltano. Solo i distratti, occupatissimi da troppe cose, non ascoltano, non sono poeti. Anche chi ha già definito tutto, non ascolta. Qualcuno attento ad ascoltare, si accorge, in qualche esperienza, che altri ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Esodo 3, 7-10). Osserva, ascolta, conosce. Si rivela agli schiavi uno che sa vedere, ascoltare, conoscere. Ci accorgiamo che possiamo essere in una storia di liberazione.
Ci arrivano storie lontane nelle quali riconosciamo i nostri sentimenti. Qualcuno palpitava come me. Certo, uomini e donne come noi. Ma non solo. Trovo possibilità di vita che sono nascoste in me, che ho dimenticato, qui c’è un vento che le risveglia. Qualcuno ha i nostri sentimenti: forse li abbiamo noi appresi da lui, quando eravamo senza sentimenti?
6 – Senza confini
Questo programma di ricerca dice anche “Oltre le religioni”. Perché abbiamo bisogno di scappare? Ci fanno tanto male? A me ha fatto molto più male la politica-guerra, l’antropologia machiavellica-hobbesiana, l’uomo nemico dell’uomo, e noi destinati ad ucciderci, la scienza a servizio dei padroni: questo mi fa più male delle religioni, perché, se è vero che le religioni ci compattano troppo, l’antropologia bellica ci separa e ci oppone radicalmente, sotto il divino potere dell’uccidere, che regna e decide. Questo sì che è un legame-religione disperante e condannante, trascendente-incombente.
A me, invece, la religione di cielo e terra, di Dio e umanità, ha detto: c’è respiro. Ho ascoltato Gandhi: «vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». Perciò, dice Gandhi: «…vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza la vedo esclusivamente benevola», perché in mezzo al male persiste il bene. (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il bene è più del male: confido e vedo.
Poi ho ascoltato Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa): «Religiosus esse nefas, religentes oportet» (Noctes Atticae). Cioè, è cosa nefasta essere religioso, legato; bisogna essere di quelli che collegano. Vedo le religioni come collegamenti, reti di comunicazioni, anche con dei nodi troppo stretti, ma anche con dei flussi aperti da cui arriva e parte aria, respiro, libera comunanza. La religione può essere vissuta come libertà, come incontro amicale, e le religioni insieme come civiltà inter-culturale, mega-spiritualità. Fanno difficoltà le dottrine troppo definite, che arrancano dietro la luce, come per ingabbiarla in definizioni.
In Michele Do, in David Turoldo, in Benedetto Calati, in Adriana Zarri “religione” suonava “amicizia”, e voleva dire mistero-meraviglia del seme che cresce nella zolla oscura: lo stesso che accade in te, in me. Con questi amici la religione faceva bene, dava uno spazio totale e vicino. Lo capivano dei non-religiosi come Rossana Rossanda, come Pietro Ingrao. La religione è amicizia, rete di amicizie. Ma può essere anche mania di superstiziosi impauriti. Dipende da cosa incontri, da cosa puoi ascoltare.
Prima di questa amicizia, la religione, nel senso negativo, mi ha anche tormentato, ma io sono stato più furbo e libero: ha preso lo spirito buono, ho scosso via le catene, ho trovato fratelli a tutte le latitudini umane in questo respiro.
Una religione unica, totalitaria? No! ho trovato maestri Simone Weil, Pier Cesare Bori (quacchero e cattolico), Raimon Panikkar (cristiano e buddhista), Gandhi («Dio è anche pane e burro per chi ha fame»), ho trovato cattolici come Arturo Paoli, che dice: «opporre religione vera e religioni false è una dichiarazione di guerra!». Come non voglio la guerra che ammazza, non voglio la religione che esclude. Quella che dichiara guerra non è la mia religione. Si può bene scegliere, no?
Ho ascoltato Bibbia, Corano, Talmud, Buddha, Confucio, Seneca… Non da studioso specializzato, ma da una persona che vive. Il vangelo mi parla più di tutti. Parla la lingua che aspettavo. La poesia è religione e la religione è poesia. Siamo tutti poeti, se ci liberiamo.
La religione è libertà; oltre la necessità dell’aria e del pane, comincia la libertà: ammiro la natura, cerco la fonte di bellezza e pace, cerco alimento allo spirito, che non debba disperare, morire, e peggio uccidere per saziarsi.
Le religioni siano modeste e serene, non si vantino del loro sapere, di essere “vicari di Dio in terra”, di chiudere Dio nei loro templi e ricordino quel che disse Gesù alla Samaritana (Giovanni 4), fatta degna della più alta confidenza, assai più che a teologi e sacerdoti.
E con i dogmi, come la mettiamo? Sono momenti, chiarezze viste. Troppo irrigidite? Va bene, andiamo avanti. Tutto cammina, camminiamo. Senza rinunciare. Scriveva a Gandhi sorella Maria di Campello: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto 1928). La sua è una chiesa “senza confini”: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).
7 – Sono riconoscente
Per concludere, la mia perplessità sul post-teismo è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di conoscenza, simpatia (sentire-soffrire insieme), dialogo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C’è un ateismo serio, che dobbiamo rispettare e stimare. Un ateismo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena «un vapore» (Pascal, 347) sono più di lui, perché ho coscienza di persona: so di essere.
Ascolto la storia delle sapienze umane: parlano la nostra lingua, le sapienze ascoltano, non creano, ma raccolgono la voce delle cose perché le ascoltano. Confucio dice: «Io trasmetto, non creo». Tutto in noi è ricevuto. Io sono riconoscente.
Enrico Peyretti
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https://www.famigliacristiana.it/blogpost/domenica-21-febbraio—ii-domenica-di-quaresima-della-samaritana.aspx
XII Dossier Caritas 2022. La Caritas diocesana impegnata nel cammino sinodale.
[III] I LAVORI DEI GRUPPI SINODALI DELLA CARITAS DIOCESANA DI CAGLIARI
di Andrea Marcello – Segretario Commissione Sinodale della Caritas diocesana di Cagliari
Il presente articolo espone le riflessioni emerse nell’ambito dei gruppi sinodali promossi dall’Ufficio Pastorale per la Promozione della Carità al fine di stimolare ed acquisire ulteriore consapevolezza sulla sinodalità della Chiesa che, come scriveva San Paolo in vari passi delle sue lettere, ha realmente un corpo unico formato da membra diverse ma sinergiche. Una Chiesa capace di muoversi insieme e che si fa prossima verso il popolo di Dio in cammino. [segue]
XII Dossier Caritas 2022 sul cammino sinodale
Il cammino sinodale della Diocesi di Cagliari.
di Mario Girau
“Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Queste parole di Papa Francesco accompagnano e cominciano a entrare – a volte con comprensibile fatica – nella cultura dei laici e del clero delle nostre comunità. Il Papa ha invitato tutti i battezzati – soggetto del sensus fidelium, la voce viva del Popolo di Dio – a partecipare a questo processo sinodale iniziato a livello diocesano. Un’operazione di discernimento a vasto raggio, che richiede una diffusa capacità di ascoltare le voci di altre persone nel loro contesto locale, comprese quelle che hanno lasciato la pratica della fede, di altre tradizioni religiose, di nessun credo. Con particolare attenzione a quanti sono a rischio esclusione: disabili, rifugiati, migranti, anziani, poveri, anche attolici che praticano raramente o mai la loro fede. «Gesù insegna e manifesta il suo mistero per strada, in cammino. In tal modo – dice l’arcivescovo Giuseppe Baturi nella celebrazione d’apertura del l’iter sinodale diocesano – attiva un percorso di conversione, un cambiamento dei sentimenti e del pensiero che ciascun discepolo realizza nella profondità del proprio essere».
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